martedì 30 dicembre 2014

Un fratellino alla donna, l’altro all’uomo: separazione insopportabile. Figli riuniti e collocati dalla madre

Riveduta e corretta la decisione emessa in primo grado: confermato l’affidamento condiviso, ma i due figli minori della coppia, pronta alla separazione, non possono essere allontanati, anche per salvaguardare il loro legame. Il distacco sarebbe difficilmente sopportabile per i due fratellini, soprattutto considerando la complicata separazione dei genitori: per questo motivo, è da considerare improponibile un'equa divisione della prole fra madre e padre. Ciò conduce a optare per la collocazione dei due minori presso la madre, che potrà anche usufruire della casa coniugale, seppur di proprietà del marito. Per completare il quadro, l’uomo dovrà anche provvedere a versare un assegno mensile complessivo di 300 euro come contributo al mantenimento dei due figli: irrilevante il richiamo, fatto dall’uomo, alla disoccupazione e alla invalidità post infortunio sul lavoro (Corte d’Appello di Catania, sentenza 1404/14).

‘Pari e patta’, in sostanza, nel primo round della battaglia tra i due coniugi, oramai decisi a dividere le loro strade. Difatti, in Tribunale, nel «giudizio di separazione», si decide di affidare «i due figli minori ad entrambi i genitori, disponendo il collocamento» del figlio minore più grande «presso il padre» ed «il collocamento del figlio minore» più piccolo «presso la madre», e stabilendo anche che «la casa coniugale restasse assegnata» all’uomo che «ne era proprietario». Allo stesso tempo, poi, si mette ‘nero su bianco’ «l’obbligo di ciascun genitore di provvedere al mantenimento del figlio collocato presso di sé» e si sancisce «la ripartizione delle spese straordinarie tra i genitori nella misura del 50% ciascuno».

La soluzione adottata in primo grado viene messa in discussione dalla donna, la quale, in particolare, contesta la ‘divisione’ dei due figli minori. Ebbene, tale obiezione viene ritenuta plausibile e dotata di senso dai giudici della Corte d’Appello, i quali, confermando l’«affidamento condiviso», affermano che è erroneo, invece, il «collocamento» dei figli, ossia il fatto che il «figlio più grande» stia col padre e «quello più piccolo» colla madre, per la semplice ragione che questa divisione è «contraria all’interesse dei due minori, i quali, in tal modo, sono stati separati e privati del diritto di ciascuno di coltivare e mantenere il rapporto con il proprio fratellino», e, aggiungono i giudici, «tale pregiudizio appare ancor più grave se si tiene conto del difficile contesto attualmente vissuto dai due bambini, che è quello di una separazione dei genitori connotata da aspra conflittualità». Di conseguenza, ora viene disposto che «i due figli minori delle parti siano collocati presso la madre, alla quale va assegnata la casa familiare, e ciò al fine di consentire ai minori di preservare e continuare a vivere nel proprio habitat domestico, inteso come centro di affetti e luogo in cui si svolge la vita familiare».

Ultimo capitolo, infine, è quello relativo al «contributo per il mantenimento» dei due figli minori, e anche in questo caso la visione tracciata dalla donna viene condivisa dai giudici. Questi ultimi, difatti, sanciscono l’obbligo dell’«assegno» a carico dell’uomo, ricordando che il genitore deve «mantenere i figli» nonostante «versi in stato di disoccupazione o abbia un reddito minimo». E in questa vicenda è emerso che l’uomo ha sì «dichiarato di essere attualmente disoccupato in quanto, in seguito ad un incidente sul lavoro, è stato dichiarato invalido al 66%, senza diritto, dunque, a percepire pensione di invalidità», ma, allo stesso tempo, ha riconosciuto di «essere proprietario di alcune aree edificabili, ereditate dai propri genitori». Ciò significa, spiegano i giudici, che l’uomo non è affatto «privo di reddito o di risorse, in quanto, da un lato, l’invalidità da cui è affetto non gli impedisce in modo totale di trovare una collocazione nel mondo del lavoro, seppur in relazione certi tipi di attività compatibili con la patologia di cui soffre, dall’altro lato egli è titolare di un patrimonio immobiliare», e, pertanto, è «equo», concludono i giudici, «disporre» che l’uomo «contribuisca al mantenimento dei due figli minori mediante il pagamento di un assegno mensile di euro 300 (di cui 150 per ciascun figlio)».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Un fratellino alla donna, l’altro all’uomo: separazione insopportabile. Figli riuniti e collocati dalla madre

Comparsa di costituzione e risposta (formula)

Tribunale di [.....] (1)


  Ill.mo G.U. Dott. [.....]


  Comparsa di risposta


Per il Sig. [.....] , nato a [.....] , in data [.....] , residente in [.....] , alla Via [.....] , n. [.....] , C.F. [.....] , elettivamente domiciliato ai fini del presente giudizio in [.....] , alla via [.....] , [.....] , presso lo studio dell'avv. [.....] , cf [.....] che lo rappresenta e difende giusta mandato in calce all'atto di citazione, con dichiarazione di voler ricevere, ai sensi dell’art. 125, co. 1 c.p.c., nonché dell’art. 136, co. 3 c.p.c., ogni comunicazione al numero di fax ____., oppure tramite l’indirizzo di posta elettronica certificata ____@____,



  - convenuto -



 contro



  il sig [.....] , con l'avv. [.....]



  - attore -



 IN FATTO


Si dà per conosciuto l'atto di citazione introduttivo del presente giudizio cui per brevità si rinvia e che in questa sede si impugna e contesta in ogni sua parte perché privo di fondamento sia in fatto che in diritto.



 Non corrisponde al vero, infatti, quanto affermato dall'attore tanto è che [.....]



 Il convenuto [.....] alla luce di quanto premesso in punto di fatto contesta integralmente l'azione attrice per i seguenti motivi in:



 DIRITTO


In via pregiudiziale



 1) [.....]



 Si eccepisce altresì [.....]



 In via subordinata:



 2) [.....]



 3) [.....]



 Tanto esposto, il convenuto [.....] , ut supra selettivamente domiciliato, rappresentato e difeso, così conclude:



 "Voglia l'Ecc.mo Tribunale di [.....] , ogni contraria istanza disattesa;



 IN VIA PRINCIPALE:



 dichiarare la propria incompetenza funzionale in relazione alla competenza funzionale esclusiva del [.....] ;



 IN SUBORDINE:



respingere la domanda attrice in via gradata per difetto di legittimazione attiva dell'attore, difetto di legittimazione passiva del convenuto, totale infondatezza nel merito.



 Con vittoria di spese, diritti ed onorari, IVA e Cassa".



 Si producono i seguenti documenti:



 1) atto di citazione notificato;



 2) [.....] ;



 3) [.....] .



 Per avvisi e comunicazioni di rito inerenti al presente giudizio si indica il seguente n. di fax [.....] e/o indirizzo PEC [.....]).



 Luogo [.....] Data [.....]



                                                                                                          Avv. [.....]

 Procura alle liti



Comparsa di costituzione e risposta

Gli schiamazzi che superano i limiti di normale tollerabilità disturbando il riposo delle persone vanno puniti

Gli schiamazzi prodotti all’esterno del bar dagli avventori, che superano i limiti della normale tollerabilità e che non sono strettamente connessi all’esercizio dell’attività del bar, integrano la fattispecie di reato di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, prevista dal comma 1 dell’articolo 659 del codice penale.

Il caso

Il giudice del tribunale di Brindisi ha condannato l’imputata perchè, come legale rappresentante della società che gestiva un bar, non aveva impedito gli schiamazzi prodotti all’esterno del bar dagli avventori. Questi ultimi avevano causato rumori e utilizzato strumenti sonori fino a tarda notte, disturbando il riposo delle persone.

La Cassazione è intervenuta con la sentenza 41992/14. Innanzitutto ha ribadito che l’esercizio di un bar non costituisce un mestiere di per sé rumoroso, sicché i rumori molesti da questo provocati possono integrare la fattispecie di cui all’art. 659. Inoltre, sulla base delle testimonianze dei residenti nella zona, la Corte ha sostenuto che il giudice del merito ha correttamente ritenuto provato che le emissioni sonore in questione superavano i limiti della normale tollerabilità e non erano strettamente connesse all’esercizio dell’attività di bar. Pertanto, il ricorso è stato rigettato con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al rimborso, in favore delle parti civili, delle spese di questo grado.

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Si fuma uno “spinello” insieme a due amici: è «uso di gruppo», quindi non punibile

L’«uso di gruppo», cioè l’ipotesi in cui la droga consumata insieme appartenenga a tutti per essere stato un acquisto comune, anche se a comprarla è stato materialmente uno solo o alcuni, è considerata una particolare modalità dell’uso personale e, per tale motivo, non costituisce reato. Così si è espressa la Cassazione nella sentenza 52104/14.

Il fatto

La Corte d’appello di Trieste conferma la sentenza di condanna emessa dal Tribunale nei confronti dell’imputato per aver ceduto canapa indiana a due persone rimaste ignote. L'uomo fa ricorso in Cassazione, perchè secondo lui la condotta accertata non doveva essere punibile in quanto rientrante nel cosiddetto uso di gruppo e rilevando che la droga non eccedeva la dose giornaliera. La Suprema Corte ritiene fondati i motivi di ricorso. Infatti, l'uomo fu notato dalla polizia municipale presente sul luogo di una festa mentre consumava uno “spinello” insieme ad altre due persone.

La Corte di merito escludeva sicuramente lo spaccio di droga, ritendendo con certezza che l’ulteriore quantità di droga in disponibilità dell’imputato fosse destinata all’uso personale, ma riteneva erroneamente configurabile un fatto penalmente rilevante, senza considerare le particolari modalità di uso personale definito appunto “uso di gruppo”. Anche la norma vigente al momento della sentenza, annullata successivamente con la sentenza 14/2/2014 della Corte Costituzionale, confermava che l'uso di gruppo è una possibile modalità dell’uso personale. «La locuzione può, pertanto, essere legittimamente riferita all’uso collettivo che risulti esclusivamente personale, ossia anche alle ipotesi in cui la droga detenuta da una singola persona sia destinata ad uso “esclusivamente personale in comune” da parte di tutti i componenti del gruppo per conto e su mandato dei quali è stata acquistata.».

La Cassazione, perciò, afferma che per quanto riguarda la condizione che l’acquisto sia stato effettuato, ancorché da un solo soggetto, comunque a nome di tutti, non è necessario che vi sia la prova diretta di tale comunanza della droga acquistata, ma la comunanza può desumersi dalle circostanze del fatto. Così, annulla la sentenza impugnata senza rinvio perché il fatto non sussiste.

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mercoledì 24 dicembre 2014

Cane aggressivo, ciclista rincorso più volte: aggressione a segno, infine. Colpa della padrona

Già in passato l’uomo era stato spaventato dall’atteggiamento aggressivo del quadrupede, che, alla fine, è riuscito a raggiungerlo e a morderlo, provocandogli lesioni guaribili in tre giorni. Anche alla luce di questi precedenti, è evidente la responsabilità della padrona dell’animale, per non avere provveduto ad una adeguata sorveglianza. Responsabile materiale delle ferite riportate dall’uomo è, ovviamente, l’animale. La proprietaria del quadrupede è condannata per i reati di lesioni personali colpose e omessa custodia di animali (Cassazione, sentenza 53138/14).

Il caso

Chiarissima la contestazione mossa nei confronti della donna, ossia «avere cagionato a un uomo, omettendo di custodire adeguatamente il proprio cane, lesioni personali da morso, giudicate guaribili in tre giorni». Altrettanto chiara la dinamica dell’episodio, come ricostruita, prima nella «querela» e poi nella «deposizione», dall’uomo rimasto vittima dell’aggressione del quadrupede, e da cui emerge il fatto che l’animale «si trovava nel giardino» della donna. Tutto ciò – assieme alla certificazione del Pronto Soccorso, relativa alle ferite riportate dal ciclista – è sufficiente, secondo i giudici di merito, per condannare la donna, lasciando aperto il fronte del «risarcimento del danno, da liquidarsi in separato giudizio civile». E tale ricostruzione viene ritenuta adeguatamente dettagliata anche dai giudici della Cassazione, i quali confermano, di conseguenza, la condanna nei confronti della donna.

Decisiva la «deposizione» dell’uomo, anche alla luce del «riscontro costituito dal certificato del Pronto Soccorso»: difatti, «la persona offesa» ha visto «il cane che più volte aveva tentato di azzannarlo quando transitava in bicicletta», e ha affermato che «il cane stesso si trovava nel giardino della donna, e cioè nella sua custodia». Evidente, quindi, la «pericolosità» dell’animale, proprio tenendo presente la «deposizione» della persona offesa, che «giornalmente era spaventata dall’atteggiamento aggressivo» del cane. Altrettanto evidente, allo stesso tempo, la responsabilità della donna per non aver prestato maggiore attenzione al proprio animale.

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Matrimonio breve, ma il marito non scappa dall’assegno

La breve durata del matrimonio può incidere sulla cifra dell’assegno di mantenimento, non sul diritto a riceverlo. Lo afferma la Cassazione nell’ordinanza 21597/14.

Il caso

La Corte d’appello di Messina stabilisce che una donna ha diritto all’assegno di mantenimento a carico dell’ex-marito. L'uomo ricorre in Cassazione affermando che il periodo della convivenza matrimoniale è stato breve e che la donna ha ben poco contribuito alle spese familiari. Tuttavia, i giudici di legittimità ricordano che la breve durata del matrimonio può incidere sul quantum della somma, non sul diritto all’assegno. Infatti, l’assegno di mantenimento deve tendere al mantenimento del tenore di vita goduto dal coniuge durante la convivenza: indice di tale tenore può essere anche l’attuale disparità di posizioni economiche tra i due coniugi. Ciò è quanto accertato dai giudici di merito, che hanno verificato la perdita dell’attività lavorativa, in concomitanza con la cessazione della convivenza, con in più la necessità di trovare dei stabili punti di riferimento nella famiglia d’origine.

Inoltre, la Corte ha tenuto conto della capacità lavorativa, manifestata in passato dalla donna. Anche il profilo sullo scarso contributo alle esigenze di famiglia è giudicato irrilevante, in quanto l’uomo non ne ha provato l’esistenza. Al coniuge richiedente è, infatti, richiesto semplicemente di dimostrare la mancanza di mezzi e l’impossibilità di ovviarvi. Infine, rigettando il ricorso, la Corte di Cassazione ricorda che, nella quantificazione dell’assegno divorzile, il giudice di merito può basare la propria decisione soltanto su alcuni dei parametri stabiliti dall’articolo 5 della legge 898/1970 (legge sul divorzio).

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Autonoma organizzazione? Non per chi ha una segretaria che apre la porta e risponde al telefono

Per un medico o un avvocato, avere una segretaria che “apra la porta” o “risponda al telefono”, mentre il primo visita un paziente e il secondo riceve un cliente, fa parte del mimino indispensabile per l’esercizio dell’attività professionale. Dunque, non sono tenuti a pagare l’IRAP in virtù dell’apporto dato dalla dipendente, non sufficiente a fare del loro studio un’autonoma organizzazione.

Lo sancisce la Cassazione, nella sentenza del 19 dicembre scorso, n. 26991, con cui, con particolare chiarezza, la Corte esclude che la presenza di una segretaria possa costituire, di per sé, a prescindere da qualsiasi analisi qualitativa e quantitativa delle prestazioni, un indice “indefettibile” della sussistenza di un’autonoma organizzazione, presupposto impositivo dell’IRAP. Sebbene la fattispecie riguardasse un medico convenzionato con il SSN, la Corte, con la sentenza, ha sancito dei principi applicabili tout court ai professionisti, menzionando anche gli avvocati.

In particolare i Supremi Giudici hanno sottolineato che la natura reale e non personale dell’imposta impone che la nozione di autonoma organizzazione si definisca in termini di “contesto organizzativo esterno”, diverso ed ulteriore rispetto al “mero ausilio della attività personale” e costitutivo di un “quid pluris che secondo il comune sentire … sia in grado di fornire un apprezzabile apporto al professionista”. In questa prospettiva, afferma la Corte, la prestazione del dipendente dev’essere idonea a integrare un contesto organizzativo esterno rispetto al professionista, ovvero deve fornire un apporto ulteriore rispetto all’attività professionale e non una mera agevolazione allo svolgimento. Esplicitati tali principi, la Corte ha rigettato il ricorso con cui l’Agenzia pretendeva l’assoggettamento all’imposta del medico, per il fatto in sé, di disporre di una segretaria.

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lunedì 22 dicembre 2014

Guida a forte velocità, effettua un sorpasso in prossimità di un incrocio e investe un pedone: nessuna attenuante

Un uomo ricorre contro la sentenza della Corte d’Appello che lo ha giudicato responsabile della morte di un pedone, che l'imputato aveva investito alla guida di un autoveicolo. Col ricorso l’uomo non contestava l’affermazione di responsabilità, bensì il giudizio sulle attenuanti generiche, che sarebbe fondato su un giudizio di particolare elevatezza della colpa dell’imputato, derivante dalla pluralità delle violazioni a regole di prudenza. Per negare le attenuanti generiche, secondo la Cassazione (sentenza 41983/14) non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente il riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, purché la valutazione di tale rilevanza tenga obbligatoriamente conto, a pena di illegittimità della motivazione, delle specifiche considerazioni mosse sul punto dall’interessato. Nel caso, la Corte d’Appello ha, da un lato, evidenziato con motivazione non manifestamente illogica quali elementi a suo avviso rendono particolarmente grave la condotta e la colpa dell’imputato, tanto da rendere subvalenti le attenuanti generiche, fondate unicamente sulla circostanza che l’imputato aveva reso interrogatorio, così non sottraendosi al confronto nel corso di procedimento; dall’altro, mostrato di essere pervenuta a tali conclusioni dopo l’approfondito esame dei rilievi dell’appellante. Per questi motivi la Corte rigetta il ricorso.

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I clienti dell’albergo si lamentano del mancato riposo: la discoteca paga

Il superamento dei valori massimi di rumorosità stabiliti dalle autorità amministrative effettuato dall’esercizio dell’attività di discoteca, integra il reato di disturbo alla quiete pubblica. Così ha stabilito la Cassazione nella sentenza 52325/14.

Il fatto

Il Tribunale di Chiavari ha condannato la titolare di una discoteca alla pena di 200 euro di ammenda per il reato di cui all’art. 659 del codice penale, perché, consentendo di suonare ad alto volume fino ad ora tarda, disturbava il riposo dei clienti di un vicino albergo. La titolare della discoteca ha proposto ricorso contro la sentenza. Con un primo motivo la ricorrente ha denunciato la violazione dell’art. 659, comma 1, c.p., poiché la condotta in realtà avrebbe dovuto qualificarsi come illecito amministrativo (art. 10 della l. n. 447/1995). Secondo il Collegio tale censura è priva di fondamento dal momento che l’art. 659 c.p. sanziona proprio la condotta acustica di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone e, come già chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, non è stato implicitamente abrogato dall’art. 10 della l. n. 447/1995.

La Cassazione, sul punto, riporta alcune sue precedenti decisioni in cui veniva affermato che, proprio riguardo all’esercizio dell’attività di discoteca, il superamento dei valori soglia di rumorosità stabiliti dalle competenti autorità amministrative effettuato da tale attività integra il reato di cui all’art. 659 c.p., che tutela la quiete pubblica, e che non è confondibile con la fattispecie di cui al citato art. 10, che tutela il diverso bene della salute.

La ricorrente, lamenta, poi, l’omessa valutazione della relazione degli operatori ARPAL da parte del Tribunale. Anche tale doglianza è ritenuta priva di fondamento dal Collegio, il quale afferma che la descrizione del quadro probatorio effettuata dal Tribunale dimostra come il Giudice di merito, mediante un dettagliato scrutinio di plurime testimonianze di inequivoco contenuto che l’hanno condotto a concludere che i rumori provenienti dalla discoteca superavano la soglia della normale tollerabilità, abbia adempiuto in modo corretto al suo obbligo motivazionale. In ultimo, la ricorrente si lamenta per la quantificazione, in difetto di prova documentale, del danno riconosciuto alla parte civile, con correlato vizio motivazionale.

Per il Collegio, invece la motivazione del Giudice d’appello sussiste ed è esente da vizi motivazionali in quanto la liquidazione della provvisionale è stata connessa sia al danno patrimoniale subito dall’albergo in considerazione della sicura diminuzione delle presenze, sia al danno morale derivante dalla mancanza di riposo notturno. In conclusione, la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso per manifesta infondatezza con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio.

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sabato 20 dicembre 2014

Auguri affettuosi di serene festività

AUGURI AFFETTUOSI DI SERENE FESTIVITA'



Ubriaco alla guida: anche con una pena minima, la patente può essere fatta a brandelli

Nel caso di guida in stato d’ebbrezza, nonostante il riconoscimento delle attenuanti generiche, si può arrivare alla sospensione della patente per una durata superiore al minimo edittale. Lo stabilisce la Cassazione nella sentenza 41986/14.

Il caso

La Corte d’appello di Trieste condanna un imputato infliggendogli una pena di 4 mesi di reclusione, sostituita con la pena pecuniaria, e la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida per due anni. Secondo l’accusa, l’imputato, dopo aver tamponato un altro veicolo ed essere andato ad impattare contro un palo, si era allontanato dal luogo, nonostante la consapevolezza del coinvolgimento di altre persone nel sinistro. L’imputato ricorreva in Cassazione. Per la Suprema Corte, la durata della sospensione della patente di guida deve essere ragguagliata alla gravità del fatto ed alla pericolosità nella guida dimostrata dal condannato. In più, i giudici di legittimità ricordano che nel disporre la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente per guida in stato d’ebbrezza, assume carattere preminente la finalità retributiva connessa alla gravità della violazione. Perciò, i giudici di merito avevano giustamente applicato la sospensione della patente di guida per una durata superiore al minimo edittale, nonostante il riconoscimento delle attenuanti generiche, in quanto avevano fatto riferimento alla gravità della dinamica dell’incidente.

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giovedì 18 dicembre 2014

Stato d’ansia da stalking: per dimostrarlo non è necessaria l’esistenza di cure farmacologiche

In tema di atti persecutori, la prova del reato di aver causato alla persona offesa un grave e perdurante stato di ansia e paura, può essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata. Così si è espressa la Cassazione nella sentenza n. 52260, depositata il 16 dicembre 2014.

Il fatto

Con ordinanza il Tribunale di Bologna rigettava la richiesta di riesame proposta nell’interesse dell’indagato avverso l’ordinanza con la quale il gip del Tribunale di Ferrara aveva applicato nei suoi confronti la misura della custodia cautelare in carcere. Il Tribunale, dopo aver confermato la sussistenza di un grave quadro indiziario idoneo a ricondurre all’indagato le condotte di reiterate molestie nei confronti delle persone offese, aveva ritenuto che tali comportamenti avessero generato nei destinatari uno stato d’ansia e di depressione, confermato da referto medico. L’indagato ha proposto ricorso in Cassazione contro tale decisione. Il Collegio ritiene tale motivo di ricorso infondato: «in tema di atti persecutori, la prova dell’evento del delitto, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia e paura, può essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata.». La Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Stato d’ansia da stalking: per dimostrarlo non è necessaria l’esistenza di cure farmacologiche

mercoledì 17 dicembre 2014

Mette a disposizione la casa e annota in agenda i clienti: elementi sufficienti a configurare il reato

Il reato di favoreggiamento della prostituzione si concretizza, sotto il profilo oggettivo, in qualunque attività idonea a procurare favorevoli condizioni per l’esercizio della prostituzione, mentre sotto il profilo soggettivo, è sufficiente la consapevolezza di agevolare il commercio altrui del proprio corpo senza che abbia rilevanza il movente dell’azione. Lo ha affermato la Cassazione, con la sentenza 41685/14.

Il caso

La Corte d’Appello confermava la colpevolezza dell’imputato per favoreggiamento continuato della prostituzione, sulla base della deposizione dei Carabinieri che avevano svolto le indagini, osservando che l’imputato aveva messo a disposizione della donna “la casa” ove essa esercitava il meretricio ed inoltre custodiva un’agenda con un elenco di nomi maschili e indicazioni sulle condizioni economiche e sullo stato civile. Avverso la predetta decisione, il difensore dell’imputato ricorreva per cassazione. Secondo la giurisprudenza di legittimità, il reato di favoreggiamento della prostituzione si concretizza, sotto il profilo oggettivo, in qualunque attività idonea a procurare favorevoli condizioni per l’esercizio della prostituzione, mentre sotto il profilo soggettivo, è sufficiente la consapevolezza di agevolare il commercio altrui del proprio corpo senza che abbia rilevanza il movente dell’azione. Nel caso, la sentenza impugnata è adeguatamente motivata alla luce del su indicato principio di diritto laddove ha ricavato gli elementi del reato dalla messa a disposizione della casa per l’esercizio del meretricio (evidenziando altresì che sul citofono era apposto proprio il nome dell’imputato), dal comportamento dell’uomo e dal rinvenimento di un’agendina contenente i nominativi dei clienti, all’interno del borsello dello stesso. Per questi motivi la Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Mette a disposizione la casa e annota in agenda i clienti: elementi sufficienti a configurare il reato

Dal 2015 il saggio degli interessi legali sarà pari allo 0,5%

Il Ministro dell'Economia e delle Finanze, con il D.M. 15 dicembre 2014, ha ridotto la misura del saggio degli interessi legali, che passa dall'1% allo 0,5%.

Si ricorda che, in generale, il Ministro dell’Economia e delle Finanze ha la facoltà di modificare ogni anno questo tasso mediante decreto da emanarsi non oltre il 15 dicembre, sulla base del rendimento medio annuo lordo dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi e tenuto conto del tasso di inflazione registrato nell’anno (art. 2, co. 185, Legge n. 662/1996).

Il tasso di interesse legale, tra gli altri, si applica a:

ravvedimento operoso, di cui all'art. 13, D.Lgs. 18 dicembre 1997 n. 472, “breve” o “lungo” in caso di omessi o tardivi versamenti;

depositi cauzionali relativi agli affitti.

Fonte: www.fiscopiù.it/

La Stampa - Dal 2015 il saggio degli interessi legali sarà pari allo 0,5%

martedì 16 dicembre 2014

Pulizia con candeggina e ammoniaca: donna condannata per il disagio subito dalla vicina di casa

Casus belli i vapori e i gas frutto dell’impiego eccessivo di detergenti chimici. E' giusto prestare attenzione alla pulizia e all’igiene, ma è da evitare il ricorso abnorme a sostanze che possono provocare fastidio alle persone presenti, anche occasionalmente, nel condominio. Il rischio – per la condomina propensa all’impiego di ammoniaca e candeggina – è quello di una condanna penale (Cassazione, sentenza 41726/14).

Si tratta di episodi ripetuti nel tempo, poco graditi nel contesto del condominio: gli strali verbali sono rivolti a una donna che è abituata ad impiegare «in modo eccessivo, in spazi condominiali ad uso pubblico, ammoniaca e candeggina». E le polemiche – frutto soprattutto delle contestazioni mosse dalla vicina di casa – si trascinano addirittura nelle aule del Tribunale, dove la donna viene condannata «alla pena dell’ammenda» e «al risarcimento del danno» per avere molestato «condomini ed estranei con emissioni di gas e vapori tossici».

Nessun dubbio sulla sussistenza del reato di “getto pericoloso di cose”. Di avviso opposto, invece, la condomina finita sul banco degli imputati... A suo dire, difatti, non è stato considerato che «la vicina di casa aveva una soglia di tollerabilità delle emissioni ben inferiore rispetto a quella dell’uomo comune»: non a caso, aggiunge, alcune persone hanno «dichiarato di non essere state molestate dalle esalazioni». E poi, viene ancora precisato, non si è tenuto conto della «saltuarietà dell’uso di detergenti», fronte, questo, che avrebbe meritato un approfondimento con un «accertamento in ordine alla intollerabilità» effettiva dell’uso di ammoniaca e candeggina. Ma, nonostante tutto, le obiezioni mosse dalla condomina sotto accusa si rivelano assolutamente inutili, perché in Cassazione viene confermata la condanna fissata in Tribunale.

Decisiva la condivisione, da parte dei giudici del ‘Palazzaccio’, dell’ottica adottata in primo grado rispetto al «quadro probatorio», fondato non solo sulle dichiarazioni di diverse persone – che hanno confermato la gravità del problema, raccontando di «odori forti, lacrimazione e problemi respiratori» – ma anche sugli «accertamenti fotografici» relativi alla strana «coloritura del pavimento, dovuta all’uso di detergenti» chimici. Altrettanto rilevante, poi, la constatazione che la condomina, dedita all’impiego di candeggina e ammoniaca, ha prolungato la «condotta molesta», pur «conoscendo il disagio» lamentato dalla vicina di casa, costretta a subire «emissioni» per nulla gradevoli. Tutto ciò conduce, come detto, a ritenere evidente, e acclarata, la «molestia» nei confronti non solo dei condomini ma anche delle persone estranee presenti occasionalmente nel palazzo.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Pulizia con candeggina e ammoniaca: donna condannata per il disagio subito dalla vicina di casa

Stop all’imbarbarimento del linguaggio: condannato per la parola ‘scemo’

Scorrono veloci i decenni, cambiano i costumi – in peggio o in meglio, fate voi... – e si modifica anche il linguaggio, includendo neologismi improponibili tempo addietro e parole ‘vietate’ sino a qualche anno fa... ma tutto ciò, a volte, può essere cancellato con poche righe. Esemplare la pronunzia con cui è stata confermata la condanna di un uomo per il reato di ingiuria: fatale l’aver additato una persona – un pubblico ufficiale – come “scemo” (Cassazione, sentenza 52082/14).

Il caso

Dal vocabolario ‘Treccani’ è facile recuperare il significato della parola ‘scemo’, con cui viene identificato un soggetto “scarso d’intelligenza, stupido, sciocco”. Allo stesso tempo, dalla vita quotidiana è altrettanto semplice desumere come la parola ‘scemo’ sia probabilmente la meno offensiva tra quelle utilizzate quasi in automatico, magari in un litigio, oppure in uno ‘scontro’ verbale a un semaforo. Proprio per questo, l’uomo condannato dal Giudice di pace per il «reato di ingiuria» chiede ai giudici della Cassazione di rivedere quella decisione, tenendo presente come «il termine ‘scemo’» non possa avere «valenza ingiuriosa, ai sensi della legge penale».

Obiezione inutile, però, almeno per i giudici del ‘Palazzaccio’, i quali confermano la condanna, ricordando – forse, indirettamente, anche ai cittadini italiani... – che «le frasi volgari e offensive sono idonee a integrare gli estremi del reato (di oltraggio) anche se siano divenute di uso corrente in particolari ambienti», perché «l’abitudine al linguaggio volgare e genericamente offensivo, proprio di determinati ceti sociali, non toglie alle dette frasi la loro obiettiva capacità di ledere», in questo caso, «il prestigio del pubblico ufficiale, con danno della pubblica amministrazione da esso rappresentata».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Stop all’imbarbarimento del linguaggio: condannato per la parola ‘scemo’

sabato 13 dicembre 2014

Omesso versamento IVA: il reato passa da 50 a 150mila euro

Non ci sarà la depenalizzazione per chi omette di versare l’IVA, ma la soglia che farà scattare il reato verrà triplicata, portandola da 50 a 150 mila euro.   Il reato di dichiarazione infedele scatterà anche per i sostituti d’imposta che, nel compilare il modello 770, indicheranno ritenute e compensi inferiori per oltre 50mila euro rispetto a quelli effettive dovuti.   Sono queste le modifiche che il Governo ha approntato allo schema di Decreto legislativo sulla “certezza del diritto” con la revisione delle sanzioni penali tributarie.   Iva Sebbene inizialmente si era parlato di cancellazione totale del reato di omesso versamento dell’IVA (che oggi invece si configura se l’ammontare evaso supera 50.000 euro), l’intenzione dell’esecutivo si sarebbe invece spostata verso un aumento della soglia di punibilità che farà scattare l’illecito penale solo al raggiungimento di 150mila euro. E ciò nonostante il Mef, nel question time del 13 novembre scorso, si era formalmente “impegnato all’abrogazione”.   Le ritenute L’innalzamento della soglia riguarderà anche il reato di dichiarazione infedele, che scatterà solo se l’imposta evasa sarà superiore a 150mila euro (rispetto agli attuali 50mila).   I sostituti d’imposta però dovranno stare molto attenti. Anche per loro scatterà il reato se nel modello 770 saranno indicati compensi, interessi e altre somme inferiori a quelle effettive nel caso in cui la differenza rispetto alle ritenute non versate sarà superiore a 50mila euro.   Simile formulazione dovrebbe essere prevista anche per l’omessa dichiarazione.   Abuso del diritto Sarà finalmente codificato il cosiddetto abuso di diritto, ossia l’elusione fiscale che fino ad oggi non ha mai trovato una definizione legislativa. Il reato si configurerà solo se vi saranno tre condizioni:   – mancanza di una ragione economica delle operazioni effettuate dal contribuente; – possibilità di ottenere un vantaggio fiscale indebito; – il vantaggio dovrà essere la conseguenza principale dell’operazione «abusiva».   Le nuove regole si applicheranno anche alle situazioni pregresse a condizione, però, che l’amministrazione finanziaria non abbia ancora notificato l’atto di accertamento al contribuente interessato e quindi non verranno cancellati i contenziosi in corso.

fonte: www.laleggepertutti.it//Omesso versamento IVA: il reato passa da 50 a 150mila euro

venerdì 12 dicembre 2014

Il padre “spione” non può nascondersi dietro i doveri di genitore

Commette il reato di "cognizione, interruzione o impedimento illeciti di comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche" (articolo 617 del codice penale) l’uomo che registra le comunicazioni tra i figli minori e la moglie. Il requisito del reato è che la comunicazione o la conversazione intervenga tra persone diverse da chi lo commette: i figli, ancorché minori, sono soggetti distinti dal padre. La loro alterità, rispetto alla figura del padre, non può essere assorbita dalla potestà genitoriale e dai relativi doveri di vigilanza. E’ quanto emerge nella sentenza 41192/14 della Cassazione.

Il caso

La Corte d’appello conferma la condanna dell’imputato. Quest'ultimo ricorre in Cassazione, affermando che il fatto non è reato, perchè i figli minori non possono considerarsi «altre persone», essendo soggetti sottostanti la potestà genitoriale e i doveri genitoriali di vigilanza; inoltre, secondo la tesi del ricorrente, l’uomo non aveva ascoltato le conversazioni ma si era limitato a registrare le conversazioni e a consegnarle ai servizi sociali; la condotta, infine, non era fraudolenta, perchè aveva preavvertito la moglie delle sua intenzione di registrare le telefonate.

La Cassazione, nell’affrontare la questione, ricorda che l’art. 617 c.p. mira a tutelare la libertà e la riservatezza delle comunicazioni telefoniche o telegrafiche contro la possibilità di indiscrezioni, interruzioni o impedimenti da parte di terzi. E’ quindi requisito espresso di tipicità del fatto che la comunicazione o la conversazione intervenga tra persone diverse dall’agente. Elemento che sussiste nel caso di specie – specifica il Collegio – poiché la registrazione riguardava telefonate tra i figli minori e la madre. Infatti, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, «ancorché minori, i figli sono soggetti “altri” rispetto al padre e tanto basta per ritenere integrata la condizione di tipicità del fatto».

Gli obblighi genitoriali non possono condurre ad una immedesimazione tra padre e figlio. E’ priva di fondamento anche la tesi del ricorrente secondo la quale la condotta mancherebbe di fraudolenza in ragione della consapevolezza della madre dell’intenzione dell’imputato di registrare le sue telefonate con la prole. Difatti – come spiegato dalla Corte Suprema - «il carattere della fraudolenza qualifica il mezzo utilizzato per prendere cognizione della comunicazione (e non l’elemento soggettivo del reato come erroneamente ritenuto dal ricorrente), il quale deve essere pertanto idoneo ad eludere la possibilità di percezione del fatto illecito da parte di coloro tra i quali la stessa intercorre». E’ pacifico che la mera comunicazione dell’intenzione futura di registrare le telefonate a coloro che dovranno effettuarle non equivale a quella con cui questi ultimi vengono resi partecipi nell’attualità della conversazione dell’interferenza. Sulla base di tali argomenti, il Collegio rigetta il ricorso.

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Una frase infelice dello studente non è necessariamente una minaccia

‘Fotografia’ da una scuola italiana: uno studente è a colloquio con una docente. Scena idilliaca, almeno in apparenza... perché con pochissime parole il giovane allievo si pone in cattiva luce, e, soprattutto, rischia conseguenze a livello penale. «Povera a vuie, professore’»: questa la frase incriminata, ‘letta’ dalla docente come una minaccia. Ma, per fortuna dello studente, quelle parole vengono viste, anche alla luce del contesto, come prive di ‘peso specifico’ negativo (Cassazione, sentenza 41001/14).

Così, dai banchi della scuola alle aule di un Tribunale, il passo si rivela davvero breve! E, a sorpresa, in secondo grado, ribaltando la pronunzia emessa dal Giudice di pace, il giovane studente viene ritenuto responsabile del «reato di minaccia» ai danni della docente con cui stava dialogando nei corridoi dell’istituto. Consequenziale la condanna «alla pena di 40 euro di multa» e «al risarcimento dei danni» a favore della professoressa.

La decisione, però, viene completamente annichilita dai giudici della Cassazione, i quali, accogliendo il ricorso proposto dallo studente, ritengono davvero fragili le fondamenta su cui poggia la contestazione del «reato di minaccia». Anzi, per i giudici, alla luce della «ricostruzione del fatto» e del relativo «contesto», non vi sono le premesse per ritenere concrete, nelle parole pronunciate dallo studente, «l’esistenza e l’entità del danno ingiusto», né per identificare il «turbamento psichico» della donna e la connessa «limitazione della libertà morale».

Nessuna ipotesi di reato, quindi, può poggiare, almeno in questa vicenda, sulla frase «Povera a vuie, professore’». Di conseguenza, il giovane studente è libero di tornare, sereno e tranquillo, alla propria vita.

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Spingere qualcuno contro un muro è come picchiarlo

Il termine percuotere, secondo l'articolo 581 del codice penale, non significa soltanto battere, colpire, picchiare, ma è comprensivo di ogni "violenta manomissione dell’altrui persona fisica", perciò nella definizione rientra anche la spinta, come "energia fisica esercitata con violenza e direttamente sulla persona". Lo ha stabilito la Cassazione nella sentenza 51085/14.

Il caso

Il Tribunale di Milano conferma la sentenza del Giudice di pace che ha condannato l’imputato in relazione al delitto di cui all’art. 581 c.p. (percosse). L'imputato ricorre in Cassazione. La Suprema Corte ritiene infondato il rilievo sulla impossibilità di configurare il delitto di percosse che non consiste nell’avere l’imputato, come affermato dal ricorrente, preso per il bavero la persona offesa, ma, come emerge dalla approfondita valutazione svolta dal Giudice di merito, nell’averlo strattonato per un braccio, spingendolo contro un muro, in modo da procurargli lievi contusioni.

Infatti, ricorda la Corte, il termine percuotere non è assunto nell’art. 581 c.p. nel solo significato di battere, colpire, picchiare, ma anche in quello più lato, comprensivo di ogni violenta manomissione dell’altrui persona fisica, con la conseguenza che in tale ambito previsionale rientra anche la spinta, la quale si concreta in un’energia fisica esercitata con violenza e direttamente sulla persona.

Inammissibile, poi, il rilievo sulla legittima difesa, così come quello sull'attenuante della provocazione. Per quest'ultima è necessario che l’offeso concorra volontariamente a determinare l’evento del reato e non è, invece, sufficiente che il suo comportamento abbia costituito, come ritenuto dal ricorrente, semplicemente il movente della condotta dell’imputato. Per tutte queste ragioni la Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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Spaccio: per il piccolo “commerciante” non ci può essere una grande pena

La Corte d’appello di Catania condannava un imputato per aver illecitamente detenuto, a fini di spaccio, 9,5 g di eroina. L’uomo ricorreva in Cassazione, deducendo l’illogicità della motivazione riguardo alla destinazione della droga allo spaccio.

La Cassazione (sentenza 50842/14) rileva che, in sede di appello, l’imputato aveva contestato il mancato riconoscimento dell’attenuante prevista per fatti di lieve entità. Anche se questo motivo non era stato riproposto in sede di cassazione, i giudici di legittimità ritengono che si tratti di una questione rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo e, quindi, sottoponibile al loro giudizio.

Nel caso, la Corte d’appello aveva basato la propria decisione su elementi come la modalità di occultamento della droga all’interno della bocca ed il possesso del bilancino di precisione. Si trattava di condizioni che apparivano unicamente funzionali alla dimostrazione della destinazione della droga allo spaccio. Tuttavia, la quantità in possesso del ricorrente era minima, in quanto da essa si potevano ricavare circa quattro dosi. E la Corte sottolinea che «il parametro quantitativo che è quello maggiormente significativo per individuare la lesione dell'interesse protetto non è quindi superato dalla ricorrenza di parametri sussidiari tali da determinare un non trascurabile allarme sociale e la valutazione globale in ordine alla portata dell'offensività per la collettività del fatto contestato», e quindi «è tale da far ritenere appunto la sussistenza dell'ipotesi di minore gravità». Perciò, la Cassazione rimanda la decisione alla Corte d’appello di Catania, che dovrà anche tener conto degli effetti della sentenza della Corte Costituzionale n. 32/2014 e dei successivi interventi normativi in materia di sostanze stupefacenti.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/La Stampa - Spaccio: per il piccolo “commerciante” non ci può essere una grande pena

domenica 7 dicembre 2014

IVA, è sempre nulla la cartella indebitamente emessa in luogo dell’avviso di accertamento

Non costituisce un errore materiale la detrazione di un’eccedenza IVA maturata in un’annualità per la quale non sia stata presentata la dichiarazione IVA annuale. Ne consegue che l’Amministrazione per contestare la pretesa del contribuente di esercitare il diritto alla detrazione, non può emettere una cartella per l’omesso versamento IVA, secondo la procedura prevista per gli errori materiali, ma deve procedere con un avviso di accertamento. Questa la ragione che ha indotto la Cassazione, nella sentenza del 2 dicembre scorso, n. 25521, a convalidare l’annullamento della cartella impropriamente emessa, già disposto dai Giudici di merito.

Come sancito dagli Ermellini, se la pretesa fiscale oppugnata al contribuente non possa essere azionata mediante l’emissione di una cartella, “la cartella impugnata andrebbe annullata a prescindere dall’accertamento della fondatezza della pretesa”. Dando seguito alla propria giurisprudenza passata (ordinanza n. 5318/12), la Corte ha aggiunto che la diretta iscrizione a ruolo è ammissibile, e può evitare l’attività di verifica, quando il dovuto sia determinato mediante un controllo della dichiarazione meramente cartolare o di una mera correzione di errori materiali o di calcolo. Con tali modalità non possono però risolversi questioni , come la negazione della detrazione del caso di specie, che implica verifiche e valutazioni giuridiche. Con la diretta conseguenza che “il disconoscimento del credito e l’iscrizione della conseguente maggiore imposta deve avvenire previa emissione di motivato avviso di rettifica”.

Fonte:  www.fiscopiu.it/La Stampa - IVA, è sempre nulla la cartella indebitamente emessa in luogo dell’avviso di accertamento

Sms strettamente personali: possono essere distrutti anche prima della trascrizione

In mancanza dell’ascolto dei contenuti delle intercettazioni, nel contraddittorio tra le parti, della trascrizione dei dati intercettati e dello stralcio di quelle ritenute irrilevanti, il Gip può autorizzare, sempre nel contraddittorio delle parti, la distruzione parziale della documentazione delle intercettazioni di cui sia già noto l’esatto contenuto, già integralmente riportato nei verbali delle operazioni delle intercettazioni. Lo ha affermato la Cassazione, con la sentenza 39938/14.

Il caso

Il Giudice per le indagini preliminari rigettava la richiesta proposta dal difensore dell’imputato di ordinare la distruzione della documentazione relativa a tutti gli SMS intercorsi tra utenze cellulare sottoposte a intercettazione aventi contenuto strettamente personale e di nessuna rilevanza ai fini di indagine. Contro il provvedimento del Gip proponeva ricorso per cassazione il difensore dell’imputato. Con il provvedimento impugnato il Gip, in primo luogo, ha denegato la propria competenza funzionale all’adozione del provvedimento di distruzione della documentazione irrilevante ai fini del procedimento, sulla base della considerazione che la sua funzione si era esaurita con l’emissione del decreto che dispone il giudizio. Tuttavia, secondo costante giurisprudenza, competente funzionalmente a provvedere sulla richiesta di distruzione delle intercettazioni non necessarie ai fini del procedimento è il giudice che ha autorizzato o convalidato le intercettazioni e non quello che procede all’atto della formulazione della richiesta (Cass., Sez. VI, n. 40957/08). Di conseguenza, illegittimamente il Gip ha denegato la propria competenza a provvedere. In secondo luogo, il Gip ha osservato che il provvedimento di distruzione sollecitato dal difensore dell’imputato poteva essere adottato solo successivamente alle operazioni di trascrizione delle intercettazioni di cui all’art. 268, comma 7, c.p.p., che nella specie non erano state ancora effettuate. Eppure, se è vero che il provvedimento in questione può in linea di massima essere emesso solo dopo che si sia provveduto, nel contraddittorio tra le parti, all’ascolto dei contenuti delle intercettazioni e allo stralcio di quelle ritenute irrilevanti, a norma dell’art. 268, comma 6, c.p.p., nulla osta a che in mancanza di tale previo adempimento il Gip provveda, sempre nel contraddittorio delle parti, sulla richiesta di distruzione parziale della documentazione delle intercettazioni di cui sia già noto l’esatto contenuto, per essere lo stesso integralmente riportato nei verbali delle operazioni delle intercettazioni. Ne consegue che il provvedimento impugnato emesso de plano, senza l’osservanza della procedura di cui all’art. 127 c.p.p., cui devono partecipare tutti i soggetti interessati, deve essere annullato. Per questi motivi la Corte annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Sms strettamente personali: possono essere distrutti anche prima della trascrizione

venerdì 5 dicembre 2014

Violenza sessuale nel colloquio di lavoro: il "no" della candidata fa scattare il dolo

La Corte d’Appello assolve un uomo con la formula che "il fatto non costituisce reato". Alla base di tale decisione, il dubbio che l’imputato potesse essere inconsapevole che la persona offesa non fosse consenziente ad un atto sessuale cui l’uomo l’aveva indotta, nel corso di un colloquio di lavoro. La ricostruzione degli avvenimenti è stata effettuata dal Tribunale in base alla testimonianza della parte civile, della cui credibilità nemmeno la Corte territoriale dubita. Peraltro, la mancanza del consenso della vittima non è mai stata messa in discussione, ed anzi il dissenso era stato chiaramente manifestato sin da subito. Nondimeno, la Corte territoriale nutre il dubbio che l’imputato potesse aver percepito «il chiaro ed inequivocabile dissenso della donna».

A giudizio della Cassazione (sentenza 39851/14) è noto il principio per il quale, in materia di violenza sessuale, l’elemento oggettivo può consistere anche nel compimento di atti subdoli e repentini, che sono tali perché compiuti senza accertarsi del consenso della persona destinataria, o comunque prevedendone la manifestazione di dissenso (Cass., Sez. III, n. 27273/10; Cass., Sez. III, n. 6340/06; Cass., Sez. III, n. 6945/04). E’ errato pretendere, ai fini della sussistenza del dolo, che, in tema di violenza sessuale, il dissenso della vittima debba essere chiaro ed inequivoco. E’, invece, vero il contrario: è il consenso a dover essere sempre chiaro ed inequivoco, sia prima che durante l’atto; anche il minimo dubbio, sul punto, è sufficiente a integrare il dolo. Per questi motivi la Corte annulla con rinvio la sentenza.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Violenza sessuale nel colloquio di lavoro: il "no" della candidata fa scattare il dolo

Compravendita immobiliare: si può rifiutare il pagamento con assegno?

Il creditore può rifiutare il pagamento del prezzo mediante assegni bancari, solo per giustificato motivo. Tale giustificazione può risiedere nell’incertezza circa la provenienza dei titoli e nella difficoltà di verificarne la copertura degli stessi. Lo ha deciso la Cassazione nella sentenza 20643/14.

Il caso

Due sorelle chiedono la risoluzione del contratto preliminare di compravendita di un immobile stipulato con un uomo, chiedendo di trattenere le somme ricevute a titolo di penale, dicendo di essersi obbligate a vendere al convenuto l’immobile, stabilendo il versamento di una prima somma da corrispondersi alla sottoscrizione del preliminare e per il residuo alla stipula del rogito.

Su richiesta dell’uomo, le donne avevano concesso una proroga, previo versamento di un’ulteriore somma, da imputarsi a titolo di penale, e fissavano la data improrogabile per il rogito. Alla data, però, non si arrivava alla stipula perchè le proprietarie avevano rifiutato il pagamento della residua somma a mezzo di assegni di conto corrente, non sottoscritti dal convenuto. Il Tribunale rigettava la domanda e accoglieva la domanda dell’uomo, disponendo il trasferimento dell’immobile, previo versamento del residuo.

La Corte d’appello confermava la decisione, dal momento che né nel contratto preliminare, né nella successiva scrittura integrativa era stata prevista una precisa modalità di pagamento del prezzo. Inoltre, le due sorelle, alla firma del preliminare, avevano già accettato il pagamento tramite assegno non sottoscritto dal convenuto. Secondo i giudici di merito vi era un accordo tacito, che consentiva di derogare al principio.

Non c'erano nemmeno ragioni per dubitare dell’insolvenza del convenuto, il quale aveva anche tentato di mantenere fede agli obblighi, chiedendo un nuovo incontro dal notaio per la stipula, che però le attrici avevano rifiutato. Le donne ricorrevano, allora in Cassazione, lamentando la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 (responsabilità del debitore) e 1375 (esecuzione di buona fede) c.c.. La tesi delle ricorrenti contestava la valutazione compiuta dalla Corte d’appello in ordine al comportamento delle parti.

Nel decidere la questione in esame, la Suprema Corte ricorda che «nelle obbligazioni pecuniarie il debitore ha facoltà di pagare, a sua scelta, in moneta avente corso legale nello Stato o mediante assegno circolare, e mentre nel primo caso il creditore non può rifiutare il pagamento, può farlo nel secondo caso, ma solo per giustificato motivo» (Cass., n. 26617/2007). L’assegno, specifica la Corte, non è un mezzo di sicura copertura del pagamento del prezzo, e perciò, come nella fattispecie, deve trovare applicazione l’art. 1227 c.c. , che impone di verificare con rigore l’esistenza di un accordo tacito, desumibile dal comportamento delle parti.

La Corte d’appello aveva sbagliato nel ravvisare l'accordo tacito nella circostanza che alla firma del preliminare le promittenti venditrici avessero accettato un assegno. In conclusione, non c'era alcun accordo tacito tale da imporre alle attrici di accettare il pagamento a mezzo di assegni bancari, sicché il rifiuto delle stesse trovava giustificazione nell’incertezza circa la provenienza dei titoli e nella difficoltà di verificarne la copertura. Sulla base di tali argomenti, la Corte accoglie il ricorso e rinvia ad altra sezione della Corte d’appello.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Compravendita immobiliare: si può rifiutare il pagamento con assegno?

Violenza sessuale: costituisce ''induzione'' qualsiasi forma di sopraffazione della vittima

 L’induzione necessaria ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale non si identifica solo con la persuasione subdola ma si...