giovedì 28 marzo 2019

Legittima difesa, il Senato approva: è legge

Con 201 voti a favore, 38 contrari e 6 astensioni l'Aula del Senato ha approvato definitivamente il ddl sulla legittima difesa che è diventato così legge. A favore del provvedimento hanno votato i gruppi di Lega, M5s, Fi e Fdi. Contro il Pd. "Oggi 28 marzo 2019 è un bellissimo giorno, non per un partito, non per la Lega, non per Salvini, ma per gli italiani. Dopo anni di chiacchiere e polemiche il Parlamento ha sancito il sacrosanto diritto dei cittadini alla legittima difesa", ha commentato il ministro dell'Interno, Matteo Salvini. "Il ddl sulla legitima difesa è stato approvato a stragrande maggioranza tranne che dal Pd. Ma il Partito democratico voterebbe contro qualsiasi cosa pur di dire no a Salvini, alla Lega, al Governo. Onore al merito alla squadra che ci ha lavorato da anni, grazie agli amici del M5s, grazie anche a Forza Italia e a Fratelli d'Italia che hanno sostenuto questa battaglia di civiltà", ha aggiunto Salvini.

La legge modifica alcuni articoli del codice penale, del codice civile e del codice di procedura penale. L'articolo 1 della legge modifica l'articolo 52 del codice penale sulla "difesa legittima", precisando che nei casi di legittima difesa domiciliare si considera "sempre" sussistente il rapporto di proporzionalità tra la difesa e l'offesa. Il disegno di legge poi aggiunge un ulteriore comma all'articolo 52, per il quale si considera "sempre in stato di legittima difesa" chi, all'interno del domicilio e nei luoghi ad esso equiparati, respinge l'intrusione da parte di una o più persone "posta in essere con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica". Al domicilio è equiparato ogni altro luogo ove venga esercitata un'attività commerciale, professionale o imprenditoriale. Si esclude, poi, con una modifica al codice penale in materia di "eccesso colposo" nelle varie ipotesi di legittima difesa domiciliare, la punibilità di chi, "trovandosi in condizione di minorata difesa o in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo, commette il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità", ossia quando colui che commette il fatto agisce profittando "di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all'età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa". All'articolo 3 si stabilisce che nei casi di condanna per furto in appartamento la sospensione condizionale della pena sia subordinata al pagamento integrale dell'importo dovuto per il risarcimento del danno alla persona offesa. L'articolo 4, interviene sul reato di violazione di domicilio, inasprendo le pene. E' infatti elevata da sei mesi a un anno nel minimo e da tre a quattro anni nel massimo la pena detentiva per il reato di violazione di domicilio. Analogo inasprimento è previsto con riguardo all'ipotesi aggravata che ricorre quando la violazione di domicilio è commessa con violenza sulle cose, o alle persone, ovvero se il colpevole è palesemente armato. Il disegno di legge interviene sia sul minimo che sul massimo edittale, sanzionando tale ipotesi con la pena detentiva che aumenta sia il minimo che il massimo passando da uno a cinque anni a "da due fino a sei anni". Il disegno di legge interviene anche sulle pene per il furto in abitazione e lo scippo, elevando la pena detentiva (nel minimo dagli attuali tre anni a quattro anni e nel massimo dagli attuali sei anni a sette anni).
L'articolo 5 inoltre inasprisce anche il quadro sanzionatorio relativo alle condotte aggravate con un minimo edittale di cinque anni di reclusione (attualmente quattro anni), mentre il massimo resta quello attualmente previsto, pari a dieci anni, e la multa è rideterminata in un importo da un minimo di 1.000 euro (attualmente 927 euro) a un massimo di 2.500 euro (attualmente 2000 euro). L'articolo 6 del disegno di legge, infine, interviene sul reato di rapina. La disposizione modifica le sanzioni: la pena della reclusione è elevata da 4 a 5 anni nel minimo, mentre resta fermo il massimo fissato a 10 anni. Per le ipotesi aggravate e pluriaggravate il disegno di legge prevede un analogo inasprimento sanzionatorio. In particolare per la rapina aggravata la pena della reclusione è elevata nel minimo da 5 a 6 anni (il massimo resta fissato a 20 anni) e la pena pecuniaria è rideterminata in "da 2.000-4.000 euro" (a legislazione vigente da 1.290 a 3.098 euro). Per le ipotesi pluriaggravate la pena della reclusione è elevata nel minimo da 6 a 7 anni (il massimo resta fissato a 20 anni) e la pena pecuniaria è rideterminata in "da 2.500-4.000 euro" (a legislazione vigente da 1.538 a 3.098 euro). L'articolo 7 prevede che nei casi della legittima difesa domiciliare è esclusa in ogni caso la responsabilità di chi ha compiuto il fatto. La modifica vuole fare in modo che l'autore del fatto, se assolto in sede penale, non debba essere, in nessun caso, obbligato a risarcire il danno derivante dal medesimo fatto. Nei casi di eccesso colposo, inoltre, al danneggiato è riconosciuto il diritto ad una indennità. Tale indennità dovrà essere calcolata dal giudice con equo apprezzamento tenendo conto "della gravità, delle modalità realizzative e del contributo causale della condotta posta in essere dal danneggiato". L'articolo 8 del disegno di legge introduce delle novità al testo unico sulle spese di giustizia estendendo le norme sul gratuito patrocinio (criteri e modalità di liquidazione dei compensi e delle spese per la difesa) a favore della persona nei cui confronti sia stata disposta l'archiviazione o il proscioglimento o il non luogo a procedere per fatti commessi in condizioni di legittima difesa o di eccesso colposo. E' comunque fatto salvo il diritto dello Stato di ripetere le spese anticipate, qualora a seguito di riapertura delle indagini o revoca del proscioglimento, la persona sia poi condannata in via definitiva. All'articolo 9 della legge si interviene sul codice di procedura penale affinchè "nella formazione dei ruoli di udienza debba essere assicurata priorità anche ai processi relativi ai delitti di omicidio colposo e di lesioni personali colpose".

fonte: www.italiaoggi.it

La responsabilità medica è legata anche all'attività di prevenzione della malattia

La responsabilità medica si giudica anche in base a criteri probabilistici in base ai quali si sarebbe potuto evitare l'vento con una diagnosi preventiva.

Il nesso causale. I Supremi giudici con la sentenza n. 8461/18 hanno precisato che si configura il nesso causale tra il comportamento omissivo del medico e il pregiudizio subito dal paziente qualora attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si ritenga che l'opera del medico, se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare il danno verificatosi. Nel caso concreto a una donna non era stato diagnosticato tempestivamente un tumore, che poi ineviabilmente e, in tempi assai rapidi, l'aveva portata al decesso. E a tal proposito nella sentenza si legge che laddove il danno dedotto sia costituito anche dall'evento morte sopraggiunto in corso di causa e oggetto della domanda in quanto riconducibile al medesimo illecito, il giudice di merito, dopo aver provveduto alla esatta individuazione del petitum, dovrà applicare «la regola della preponderanza dell'evidenza» o del «più probabile che non» al nesso di causalità fra la condotta del medico e tutte le conseguenze dannose che da essa sono scaturite.
Conclusioni. I Supremi giudici hanno precisato, peraltro, che «anticipare il decesso di una persona già destinata a morire perché afflitta da una patologia, costituisce pur sempre una condotta legata da nesso di causalità rispetto all'evento morte e obbliga chi l'ha tenuta al risarcimento del danno».

martedì 26 marzo 2019

Non vede il dislivello e cade dal marciapiede, la colpa è del pedone

Se il possibile danno può essere previsto ed evitato mediante l’adozione di cautele attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, deve considerarsi incidente il comportamento imprudente del danneggiato nella realizzazione del danno.
Il caso. Il Comune di Monza viene condannato dal Tribunale di Milano a risarcire il danno derivante dalle lesioni riportate da un pedone caduto a causa di una buca sul marciapiede. La Corte d’Appello, riformando la pronuncia di primo grado rigetta la domanda risarcitoria, ritenendo interrotto il rapporto di causalità tra la cosa e le conseguenze lesive a causa della condotta negligente del pedone che non aveva prestato la consueta attenzione richiesta, che gli avrebbe impedito di cadere evitando il pericolo, ossia il dislivello presente sul marciapiede, poiché ampiamente visibile e prevedibile dalla danneggiata, consapevole dei dissesti del marciapiede. Il pedone ricorre per la Cassazione della sentenza, affidando il ricorso a due motivi.
Motivo di ricorso. In particolare, con il secondo motivo di ricorso, si ritiene che il comportamento disattento dell’utente non sarebbe idoneo ad esonerare l’ente pubblico proprietario della strada dalla responsabilità per custodia, tanto più che la luce artificiale era carente ed impediva di vedere chiaramente il pericolo.
Condotta del danneggiato. La Suprema Corte ritiene tale motivo inammissibile e ricorda che, in tema di responsabilità civile da cose in custodia, la condotta del danneggiato che interagisce con la cosa, si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull’evento dannoso, e richiede una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela.
Condotta evitabile. Dunque, se la situazione di possibile danno può essere prevista e superata mediante l’adozione di quelle cautele prevedibili in rapporto alle circostanze, deve considerarsi incidente il comportamento imprudente del danneggiato nel dinamismo causale del danno, fino a «rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisca un’evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per l’esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro».
Modesti dislivelli. La Corte dichiara che dalla documentazione fotografica prodotta era evidente una pavimentazione caratterizzata da modesti dislivelli nella superficie, ampiamente visibili e non tali da costituire ostacoli al percorso pedonale. Dal momento che tali pericoli erano facilmente evitabili prestando un’ordinaria  attenzione, la Corte ritiene attribuibile la caduta al comportamento distratto del pedone.

Fonte: www.ridare.it

lunedì 18 marzo 2019

Coppia di donne si lascia: “Sì all’assegno di divorzio”

Hanno convissuto felicemente per cinque anni, i primi tre more uxorio, perché all’epoca ancora non c’era la possibilità di ufficializzare, di fronte allo Stato, il loro amore. Qualche mese fa hanno scoperto interessi divergenti e incompatibilità di carattere. Così, due anni dopo essersi sposate in municipio a Pordenone, una coppia di donne ha deciso di “divorziare”. Il loro è il primo caso di rottura di un’unione civile tra coppie omosessuali da quando la legge Cirinnà è stata approvata.
E il Tribunale di Pordenone lo ha trattato alla stregua di un matrimonio tradizionale: il giudice Gaetano Appierto, con una sentenza storica, ha stabilito che la dirigente d’azienda quarantenne eroghi un assegno di mantenimento di 350 euro mensili alla ex compagna, una funzionaria amministrativa di qualche anno più giovane, che lavora nel mondo della scuola pubblica.
«La nuova normativa - spiega Maria Antonia Pili, presidentessa Fvg dell’Associazione italiana avvocati per la famiglia - di fatto equipara pressoché in toto l’unione civile al matrimonio, e consente addirittura di accedere direttamente al divorzio, senza passare per la fase propedeutica della separazione. Può essere immediato, senza un solo giorno di attesa. Un iter che peraltro non prevede, per gli uniti civilmente, l’obbligo di fedeltà, facendo così venir meno, sul punto, anche l’istituto dell’addebito della separazione». Esiste, infatti, una sorta di corsia preferenziale rispetto alle coppie cosiddette tradizionali, per le quali il transito per la separazione e almeno sei mesi di attesa - ma soltanto quando c’è totale identità di vedute e non esistono conflitti per la spartizione dei beni -, sono un passaggio obbligato verso il divorzio, in cui sfocia il 98% dei casi.
Nella vicenda friulana, la coniuge economicamente più forte sollecitava il divorzio giudiziale, cioè lo scioglimento dell’unione civile in quanto l’altra non intendeva aderire in via consensuale. L’ormai ex compagna, economicamente più debole, ha chiesto e ottenuto il riconoscimento di un assegno divorzile periodico, che possa colmare il peggioramento delle proprie condizioni dovuto principalmente al fatto di aver lasciato un lavoro più remunerativo e una situazione economica-abitativa comunque più agiata nella sua città di origine, in provincia di Venezia, per trasferirsi a Pordenone e stare insieme alla compagna, la quale le aveva garantito un supporto, date le sue floride condizioni finanziarie. Insieme avevano ristrutturato e arredato un immobile di proprietà che era stato destinato a residenza familiare.
«A seguito della richiesta di divorzio, la coniuge più debole, che aveva ripiegato per una più modesta e temporanea attività lavorativa a Pordenone, avrebbe rischiato di trovarsi, per il futuro, priva di quei supporti logistici ed economici che l’avevano indotta a cambiare radicalmente il proprio stile di vita e di lavoro trasferendosi in Friuli - ricorda l’avvocata Pili -. Il giudice ha dunque valorizzato la perdita di chance, attingendo espressamente al criterio cosiddetto perequativo».
«Mi fa piacere leggere che, per la prima volta, un tribunale ha applicato la legge sulle unioni civili anche in sede di scioglimento, riconoscendo un assegno alla coniuge debole - ha commentato Monica Cirinnà, senatrice del Pd e relatrice della norma sulle unioni civili -. La legge 76/2016 equipara coppie sposate e coppie unite civilmente in tutte le fasi, riconoscendo anche in questo caso che ogni famiglia ha diritto allo stesso trattamento giuridico». «Lo ricordino i nostri ministri - ha concluso la senatrice dem - che, a Verona, si riuniranno per ribadire una presunta superiorità della famiglia “naturale”: per il diritto italiano non esiste un modello superiore alle altre, ma ogni famiglia ha pari dignità di fronte alla legge».

fonte: www.lastampa.it

Atti persecutori, bastano due episodi

Il delitto di «atti persecutori» - noto anche come stalking - scatta anche per due sole condotte di «minacce, molestie o lesioni», pur se commesse in un breve arco di tempo. Ciò può essere sufficiente a costituire la "reiterazione" richiesta dalla norma incriminatrice. Non è dunque necessario che gli atti persecutori si manifestino in una prolungata sequenza temporale. Giudicando su di un caso di violenza sessuale di gruppo in una comunità, la Cassazione, sentenza 11450 di ieri, oltre a confermare la condanna dei due imputati (anch'essi minori ed ospiti della struttura) per la violenza ai danni di un minore, ha anche ribadito la correttezza della condanna per "atti persecutori" nei confronti di un altro ragazzo riuscito a sfuggire alla violenza sessuale.
Per la Suprema corte infatti il «delitto di atti persecutori, non richiede che il capo d'imputazione rechi la precisa indicazione del luogo e della data di ogni singolo episodio nel quale si è concretizzato il compimento di atti persecutori, essendo sufficiente a consentire un'adeguata difesa la descrizione in sequenza dei comportamenti tenuti, la loro collocazione temporale di massima e le conseguenze per la persona offesa». In questo senso depongono i fatti narrati dalla vittima che ha descritto «non solo la reiterazione delle avances sessuali, delle percosse (come gli scappellotti durante un viaggio in pullman verso Siracusa) e delle minacce, queste ultime poste in essere con delle forbici, ma anche la condizione di paura che ne era derivata, vivendo egli con l'incubo di essere prima o poi violentato, anche perché i ricorrenti avevano creato un clima di soggezione della comunità». Per cui, conclude la decisione, «sono stati ragionevolmente ritenuti sussistenti i presupposti costitutivi del reato di cui all'art. 612 bis cod. pen., a nulla rilevando che le condotte illecite si siano dispiegate nell'arco di poche settimane» (dal 4 giugno al 13 luglio 2016).

mercoledì 13 marzo 2019

Mancata precedenza: l'eccessiva velocità dell'altro veicolo non interrompe il nesso causale

L'eccessiva velocità, rispetto a quella consentita, di un veicolo avente diritto di precedenza, pur costituendo certamente una violazione della regola cautelare imposta a detto veicolo, non costituisce per gli altri utenti della strada, soprattutto per coloro che debbono rispettare il diritto di precedenza in corrispondenza di una intersezione, un fattore eccezionale, atipico ed imprevedibile, e non interrompe il nesso di causalità tra la condotta inosservante di chi non rispetta il diritto di precedenza e le lesioni cagionate al conducente del veicolo al quale tale diritto era spettante.
E' quanto emerge dalla sentenza della Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione del 1° febbraio 2019, n. 5029.
In tema di circolazione stradale, il principio dell'affidamento trova un temperamento nell'opposto principio secondo il quale l'utente della strada è responsabile anche del comportamento imprudente altrui purché questo rientri nel limite della prevedibilità.
Nella fattispecie, di certo il veicolo aveva varcato lo stop anche se procedendo a velocità bassa, aveva impegnato in parte la carreggiata sulla quale stava transitando l'altra vettura avente diritto di precedenza. In tali casi la giurisprudenza di legittimità è costante nell'affermare che l'eventuale condotta colposa dei guidatori dei veicoli sopraggiunti, seppure sinergica, non può ritenersi da sola sufficiente a determinare l'evento non essendo qualificabile come atipica ed eccezionale, ma potendo collocarsi nell'ambito della prevedibilità (Cass. pen., Sez. IV, 10 febbraio 2010, n. 10676).
I giudici evidenziano anche che il mancato uso, da parte della persona offesa, della cintura di sicurezza non vale di per sé ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del conducente di un'altra autovettura che, violando altre regole cautelari, abbia cagionato l'impatto con quella condotta dalla vittima, e l'evento, non potendo considerarsi abnorme né del tutto imprevedibile il mancato uso delle cinture di sicurezza (Cass. pen., Sez. IV, 2 maggio 2017, n. 25560).

fonte: www.latalex.com

Cassazione: vecchi buoni postali, lo Stato può cambiare il tasso anche retroattivamente

I risparmiatori che si recano alla Posta per cambiare vecchi titoli, anteriori al 1999, potrebbero trovare al momento della riscossione una brutta sorpresa. Infatti, prima di allora vigeva una norma del Codice postale (l’articolo 173 del 1973) in base alla quale lo Stato poteva cambiare il tasso di interesse con un semplice decreto ministeriale e senza informare il titolare di buoni. È successo questo a un uomo di Palermo, che ha perso la sua battaglia contro Poste e Cdp per vedersi riconoscere il tasso di interesse previsto nel frontespizio dei buoni che aveva sottoscritto. Le Sezioni Unite della Cassazione (sentenza n. 3963) hanno detto no alla interpretazione del suo legale, che avrebbe voluto che la modifica legislativa del 1999, che ha abrogato questa possibilità, fosse applicata anche ai vecchi buoni.
Il risparmiatore aveva sottoscritto una serie di buoni fruttiferi a partire dal 1982, con un interesse fino al 16%, ma al momento di cambiarli, nel 2004, si è sentito dire che nel 1986 era intervenuta, tramite decreto ministeriale, una modifica in pejus dei tassi di interesse. Con la conseguenza che la somma ottenuta era meno della metà di quella che si aspettava di ricevere. Sia il tribunale, che la corte d’appello, cui si era rivolto in contenzioso con Poste e Cassa depositi e Prestiti hanno respinto la sua richiesta di riscuotere gli ulteriori interessi. In particolare, la corte d’appello di Palermo ha rilevato che i titoli acquistati sono «titoli di legittimazione, e sul loro tenore letterale prevalgono le successive determinazioni ministeriali in tema di interessi», che possono essere verificate dalla gazzetta ufficiale o con apposite tabelle messe a disposizione dagli uffici postali. La norma che ha permesso questo, il codice postale del 1973, è stata poi abrogata nel 1999. Il risparmiatore chiedeva quindi che la condizione più favorevole venisse applicata anche al suo caso. Ma, hanno precisato i giudici della Cassazione, nel ’99 il legislatore ha espressamente previsto che i rapporti in essere al momento dell’abrogazione dovessero essere regolati con la vecchia normativa. La Suprema Corte precisa che «non è sostenibile che la disciplina applicabile sia quella in vigore al momento della riscossione», «la norma abrogatrice aveva infatti previsto che i rapporti già in essere alla data di entrata in vigore dei decreti volti a stabilire le nuove caratteristiche dei libretti di risparmio postale e dei buoni fruttiferi postali continuano a essere regolati dalle norme anteriori».

fonte: www.lastampa.it

La perdita di cittadinanza di Stato Ue è consentita ma non può essere automatica

La perdita della cittadinanza di uno Stato membro è consentita dal diritto Ue ma questa non può essere automatica. Se non c'è più un legame duraturo ed effettivo tra il cittadino e il Paese, è lecito che questa possa venire meno, ma ogni situazione individuale deve essere valutata caso per caso. Lo ha stabilito la Corte Ue con la sentenza 12 marzo 2019 causa C 221/17. I giudici hanno precisato che uno stato membro può prevedere la perdita della cittadinanza per interruzione del legame tra persona e territorio, purché dopo un esame del caso concreto.
I giudici di Lussemburgo hanno risposto così al Consiglio di Stato olandese, in merito al caso di alcune cittadine dell'Olanda ma con nazionalità anche di un Paese extra Ue, che si sono viste rifiutare il rinnovo del passaporto. La legislazione olandese prevede infatti la perdita della nazionalità dopo 10 anni ininterrotti vissuti fuori da Olanda e Ue e senza alcuna richiesta di documenti di identità o di cittadinanza. I minori perdono inoltre la cittadinanza se madre o padre la perdono.

Cannabis light, è spaccio vendere infiorescenze con THC oltre 0,2%

È spaccio vendere infiorescenze di «cannabis sativa» – c.d. «cannabis light» (legalizzata dalla legge 242/2016) – con THC superiore allo 0,2%, anche se entro il limite dello 0,6%. In altri termini, la «soglia di tolleranza» di THC dallo 0,2% (limite di legge) allo 0,6%, prevista per l'agricoltore, che trova fondamento nella incontrollabilità del «ciclo colturale», non si applica anche al commercio della pianta che, dunque, può essere sequestrata. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 10809 depositata ieri, accogliendo il ricorso del procuratore della Repubblica di Ancona contro il provvedimento del locale Tribunale che aveva negato la conferma del sequestro preventivo di «confezioni di cannabis light» - con Thc 0,5% - in vendita presso il negozio dell'imputato. Secondo il giudice di merito dalla previsione per cui è possibile procedere al sequestro delle piante solo in caso di coltivazione che presenti un THC superiore allo 0,6%, doveva dedursi che entro tale soglia era lecita anche la commercializzazione. Una ragionamento bocciato dalla Suprema corte. Per il commerciante di prodotti a base di canapa, infatti, a fronte della «concreta efficacia psicotropa della sostanza», può scattare il reato ex art. 73, Dpr 309/90. Per cui «quando sussista il fumus del reato ossia quando si accerti una percentuale di THC idonea a produrre un significativo effetto drogante» si può procedere al sequestro. La Corte boccia poi come «immotivata» e «destituita di qualsivoglia fondamento ermeneutico» la circolare del Ministero delle politiche agricole del 22 maggio scorso laddove include anche le infiorescenze tra i prodotti regolamentati dalla legge.
«Tale interpretazione – argomenta la Cassazione - appare la più aderente al dato normativo ed alla sua ratio, perché da una parte esonera dalla responsabilità l'agricoltore che abbia rispettato le disposizioni di legge nel caso in cui la percentuale di THC, presente nelle piante coltivate, sia idonea a produrre un effetto stupefacente e psicotropo, non essendo a lui ascrivibile in tal caso la naturale evoluzione del ciclo colturale a fronte di sementi comunque appartenenti alle varietà previste dalla legge e come tali a basso contenuto di THC». «Dall'altro, garantisce il rispetto del principio secondo cui i prodotti derivati dalla coltivazione della canapa possono essere liberamente commercializzati - nei settori di cui alla L. 242/2016 - a condizione che la quantità di THC non sia tale da provocare alcun effetto stupefacente o psicotropo, atteso che, diversamente, trova applicazione la disciplina generale prevista dall'art. 73 Dpr n. 309 del 1990».
In sintesi, conclude la decisione, «la legge 242/2016 delinea una disciplina eccezionale rispetto all'operatività dell'art. 73 del Dpr 309/90 solo limitatamente alla attività di coltivazione della canapa come ivi regolamentata ed all'utilizzo dei relativi derivati, nei limiti del parametro massimo di THC pari allo 0,2 % (con tolleranza - "soggettivamente" delimitata - sino allo 0,60%) e secondo il catalogo delle filiere e dei prodotti ivi descritti». Inoltre, «la coltivazione della canapa che presenti un valore complessivo di THC superiore a lo 0,6 per cento, rientra nella fattispecie obiettiva contemplata dall'art. 73 Dpr 309/90, tanto da potersene disporre il sequestro, pur sussistendo entro tali margini una causa di non punibilità per il coltivatore che abbia rispettato comunque le prescrizioni di legge».

lunedì 11 marzo 2019

Niente assegno all’ex moglie “scansafatiche”

Nessun assegno di mantenimento se l’ex moglie è una fannullona. Lo ha deciso il tribunale di Treviso con una sentenza pronunciata da un giudice donna, protagonista della causa civile una coppia residente nell’hinterland di Treviso. Lei è una 35 enne originaria del Sud America, lui un professionista con stipendio da cinquantamila euro l’anno e appartamento in affitto pagato dall’azienda per la quale lavora. Durante i due anni della separazione, ha ricevuto dal marito un assegno mensile di 1.100 euro. Nella causa di divorzio è andata oltre e il suo avvocato ha chiesto 1.900 euro. Il giudice ha però deciso che non avrà diritto a nulla, e dovrà mantenersi da sola. Anche perché ha tutte le carte in regola per cercarsi un lavoro,
Se un’occupazione fino a ora non l’ha trovata sarebbe solamente colpa della sua “inerzia”. L’amore tra il professionista e la sudamericana era sbocciato lontano dall’Italia, quando la donna era poco più che ventenne. Un colpo di fulmine culminato con il matrimonio nel 2007, unione entrata in crisi dopo una decina d’anni. I due si erano conosciuti durante uno dei tanti viaggi all’estero dell’uomo.
La 35enne nella causa di divorzio ha raccontato di avere sempre seguito il marito nei suoi spostamenti lavorativi e di essere stata costretta ad abbandonare il suo paese di origine pur di stargli vicino.
In Italia ha cominciato a studiare all’università, ottenendo la laurea triennale in Economia. Poi è arrivato anche il primo lavoro: segretaria in uno studio professionale. La donna ha raccontato di essersi licenziata perchè i tempi lavorati della coppia non coincidevano e non riusciva a stare vicino all’uomo che amava. In più il lavoro non la soddisfaceva: fare fotocopie e rispondere al telefono non era la sua aspirazione. Avrebbe anche cercato un lavoro, ma il suo italiano incerto non l’ha aiutata. Poi nel 2017 la crisi e la separazione con il tribunale che obbliga il professionista a versarle 1.100 euro ogni mese, quindi la causa di divorzio e il giudice che nega l’assegno.
Il tribunale ha riconosciuto il divario rilevante tra le due situazioni economiche ma ha anche messo nero su bianco che la colpa è della donna: «Non vi è stato alcun apprezzabile sacrificio della signora, durante la vita coniugale, che abbia contribuito alla formazione o all’aumento del patrimonio».
Una sentenza dove viene espresso anche un giudizio sulle scelte fatte dalla 35 enne nei dieci anni di matrimonio, secondo la quale se la decisione di seguire il marito è riconducibile a una scelta condivisa, altrettanto non si può dire per la scelta fatta dalla donna di dimettersi dal suo lavoro di segretaria. L’ex moglie “fannullona” d’ora in avanti dovrà provvedere da sola a se stessa. E secondo i giudici ha tutti i numeri per farlo, a cominciare dalla giovane età e dal titolo di studio facilmente spendibile sul mercato del lavoro. Un’altra carta a suo favore è la conoscenza di due lingue, lo spagnolo e l’italiano che nel frattempo, vivendo stabilmente in Veneto da cinque anni, dovrebbe avere imparato. Dovrà ricominciare a spedire il curriculum, ma forse in modo più convinto di quanto fatto fino ad ora se è vero, come risulta dai documenti allegati alla causa, che prima del ricorso per il divorzio ne aveva spedito uno solo, nel 2014, appena arrivata in Italia.

fonte: www.lastampa.it

Divorzi, nascondere il reddito compromette l'assegno

Non depositare le dichiarazioni dei redditi aggiornate può compromettere la richiesta di un assegno divorzile. Lo ha chiarito il Tribunale di Roma che, con la sentenza n.2906 dell'8 febbraio scorso, ha ribadito che la semplice esistenza di una differenza reddituale rispetto alla parte economicamente più forte non è più sufficiente per determinare l'attribuzione dell'assegno divorzile.
Con questa sentenza il Tribunale di Roma ha fornito un importante parametro di lettura degli oneri probatori, gravanti sulla parte che richiede l'assegno. La mera esistenza di una importante differenza reddituale, con la parte economicamente più forte non è più sufficiente, infatti, per poter contare sulla positiva attribuzione dell'assegno divorzile.
Sul punto, osserva il Tribunale, anche nel giudizio separativo – pur esistendo la medesima differenza dei redditi tra marito e moglie - non era stato previsto alcun assegno separativo. Tale dato non viene però, correttamente, ritenuto assorbente, poiché l'assegno divorzile si fonda su parametri e condizioni, del tutto autonome, da quelle poste a base del giudizio di separazione. Nel caso in esame, instaurato per la cessazione degli effetti civili del matrimonio, la richiesta del contributo a carico del coniuge economicamente più forte, traeva la sua ragion d'essere nella richiesta di un sostegno, a fronte delle “spese sanitarie necessarie per le patologie dalle quali era afflitta” la richiedente l'assegno. Formulata la richiesta non era stato poi prodotto nulla di risolutivo, in merito al reclamato “stato di bisogno” e ciò in quanto, osserva il Tribunale “deve specificarsi che le patologie della resistente, per altro alcune preesistenti alla separazione, sono comunque a carico del SSN, né alcunchè di diverso veniva provato sul punto”.
Quanto al profilo patrimoniale dei contendenti veniva dato atto della sostanziale parità tra gli ex coniugi, ognuno essendo proprietario “della casa di abitazione senza spese di mutuo”. Pertanto, nel valutare la fondatezza della richiesta dell'assegno divorzile, ricorda il Tribunale di Roma come la natura di questo, sia stata affermata, con forza risolutiva, dall'ultima sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione la nr. 18287/18, che ha individuato come primo elemento, quello della verifica di uno “squilibrio economico” determinato dal divorzio, per poi specificare come tale elemento non possa, di per se, consentire alcun riconoscimento ma, si debba procedere “all'effettiva valutazione del contributo fornito dal coniuge economicamente più debole, alla formazione del patrimonio comune ed alla formazione del profilo economico patrimoniale dell'altra parte”. Alla luce di tali principi interpretativi il giudice ha osservato come gli ex coniugi hanno sempre svolto la medesima attività lavorativa e “nessuna limitazione allo svolgimento di ulteriori impegni lavorativi veniva dedotta dalla moglie, che la stessa non riteneva di chiedere alcun assegno di mantenimento per se in sede di separazione consensuale (dove gli equilibri economici erano più o meno gli stessi) che allo stato, la medesima non ha nemmeno oneri di mantenimento della figlia, se non il 30% delle spese straordinarie, che non ha oneri abitativi” e valutato come il Servizio Sanitario Nazionale assorba le spese mediche alla medesima necessarie, il mancato deposito delle dichiarazioni dei redditi aggiornate, ordinato dal giudice, può essere valutato come ulteriore elemento a discapito della richiesta : ne consegue il rigetto della domanda di assegno divorzile.

sabato 9 marzo 2019

Fedeltà coniugale, niente risarcimento per il tradimento

Respinta la richiesta presentata da un uomo e fondata sull’infedeltà della moglie che ha intrattenuto una lunga relazione con un collega di lavoro. La violazione della fedeltà coniugale non è sufficiente, secondo i Giudici, per riconoscere il diritto risarcitorio del partner tradito.
Niente risarcimento. Scoprire di essere stato tradito dal proprio coniuge è un colpo basso difficilmente accettabile. Ciò nonostante, le famigerate “corna” non sono sufficienti per pretendere un risarcimento dal partner rivelatosi infedele (Cassazione, ordinanza n. 6598/2019).
Danno. Davvero intricata la vicenda sottoposta all’esame dei Giudici del Palazzaccio. Tutto comincia quando lei – Carla, nome di fantasia – rivela a lui – Giorgio, nome di fantasia –, pochi mesi dopo la loro separazione, di avere avuto una lunga relazione con un collega d’ufficio – Antonio, nome di fantasia –.Immaginabile la reazione dell’uomo, che innanzitutto chiede l’effettuazione di un test per certificare di essere davvero il padre del loro bambino, concepito 4 mesi dopo l’inizio del tradimento da parte della moglie. Passaggio successivo è la richiesta di risarcimento nei confronti della oramai ex moglie, del suo amante e addirittura della società loro datrice di lavoro.
In sostanza, Giorgio spiega che «la scoperta della relazione extraconiugale» della coniuge gli ha provocato «un disturbo depressivo cronico», e ritiene colpevoli non solo la donna che lo ha tradito ma anche il suo amante e il loro datore di lavoro, che, a suo dire, non ha effettuato una «provveduta vigilanza sui propri dipendenti» così da «evitare conseguenze pregiudizievoli per terze persone».
Tirando le somme, Giorgio chiede il pagamento di quasi 15mila euro, cioè 4mila e 642 euro per il «danno alla salute» e 10mila euro per il «danno morale».
Domanda respinta, rispondono i Giudici, prima in Tribunale e poi in Appello, escludendo che «la violazione del dovere di fedeltà coniugale avesse costituito la causa della separazione» e aggiungendo che il tradimento non era stato attuato «con modalità tali da poter generare effetti lesivi della dignità del coniuge» tradito, anche perché esso era stato scoperto «alcuni mesi dopo la separazione legale» della coppia e a farlo emergere era stata proprio Carla «nel contesto di una conversazione privata» con Giorgio.
Dovere. La ferita provocata dalle “corna” non è però facilmente rimarginabile, e così Giorgio sceglie di proseguire la propria battaglia – di principio e di diritto – col ricorso in Cassazione, ribadendo la richiesta di vedere compensata economicamente la lesione (fisica e morale) subita ad opera del comportamento della moglie. A suo dire, non vi sono dubbi sul diritto ad ottenere un risarcimento, a fronte di una acclarata «violazione dell’obbligo della fedeltà coniugale», violazione ancor più grave perché «attuata in maniera reiterata e attraverso una stabile relazione» con un altro uomo.
Questa visione viene però respinta dai Giudici della Cassazione, i quali ribattono che «la mera violazione dei doveri matrimoniali non integra di per sé ed automaticamente una responsabilità risarcitoria», nonostante «possa essere causa di un dispiacere per l’altro coniuge e possa provocare la disgregazione del nucleo familiare».
In sostanza, «il dovere di fedeltà non trova il suo corrispondente in un diritto alla fedeltà coniugale costituzionalmente protetto», e quindi, osservano i Magistrati, «la sua violazione è sanzionabile civilmente quando, per le modalità dei fatti, uno dei coniugi ne riporti un danno alla propria dignità personale o eventualmente un pregiudizio alla salute».
Applicando questo principio, è decisiva in questa vicenda la constatazione che «la violazione del dovere di fedeltà» non è stata causa della rottura coniugale, poiché «la moglie ha svelato al marito il suo tradimento solo mesi dopo la separazione». E sullo stesso piano si colloca anche il fatto che «il tradimento non ha potuto recare un apprezzabile pregiudizio all’onore e alla dignità del coniuge tradito, in quanto non noto neppure nell’ambiente circostante o di lavoro, e comunque non posto in essere con modalità tali da poter essere lesivo della dignità della persona».
Impossibile, poi, concludono i Giudici, chiamare in causa Antonio e l’azienda dove è nata e cresciuta la relazione extraconiugale. L’uomo ha «semplicemente esercitato il proprio diritto alla libera espressione della propria personalità, diritto che può manifestarsi anche nell’intrattenere relazioni interpersonali con persone coniugate», e avrebbe potuto dover dar conto della propria condotta solo se avesse leso «la dignità e l’onore del coniuge tradito», ad esempio «vantandosi della propria conquista nell’ambiente di lavoro». Per quanto concerne il datore di lavoro, invece, esso non può essere ritenuto colpevole per non avere «sorvegliato i dipendenti»: ciò avrebbe rappresentato una illegittima «ingerenza» nella loro vita privata.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it

mercoledì 6 marzo 2019

Consulta: prostituzione, reclutamento e favoreggiamento restano reato

Le questioni di legittimità costituzionale riguardanti il reclutamento e il favoreggiamento della prostituzione, puniti dalla legge Merlin, sono state dichiarate non fondate. In attesa del deposito della sentenza, l'Ufficio stampa della Corte fa sapere che la Corte, riunita in camera di consiglio, ha deciso negativamente sulle questioni sollevate dalla Corte d'appello di Bari e discusse nell'udienza pubblica del 5 febbraio 2019. Le questioni erano state sollevate con specifico riferimento all'attività di prostituzione liberamente e consapevolmente esercitata dalle cosiddette escort. I giudici baresi sostenevano, in particolare, che la prostituzione è un'espressione della libertà sessuale tutelata dalla Costituzione e che, pertanto, punire chi svolge un'attività di intermediazione tra prostituta e cliente o di favoreggiamento della prostituzione equivarebbe a compromettere l'esercizio tanto della libertà sessuale quanto della libertà di iniziativa economica della prostituta, colpendo condotte di terzi non lesive di alcun bene giuridico.
La Corte costituzionale ha ritenuto che non è in contrasto con la Costituzione la scelta di politica criminale operata con la legge Merlin, quella cioè di configurare la prostituzione come un'attività in sé lecita ma al tempo stesso di punire tutte le condotte di terzi che la agevolino o la sfruttino.
Inoltre, la Corte ha ritenuto che il reato di favoreggiamento della prostituzione non contrasta con il principio di determinatezza e tassatività della fattispecie penale.

fonte: www.ilsole24ore.com

La difesa è sempre legittima: sì della Camera con 373 voti

Via libera della Camera alla riforma della legittima difesa con 373 voti favorevoli, 104 contrari e 2 astenuti. Festeggiano con striscioni Lega e Forza Italia, di nuovo alleati come un tempo. Protestano Pd e sinistra, soffre il M5S che conta 54 assenti al momento del fatidico sì: 29 giustificati dalla “missione”, 25 espressamente dissidenti sono rimasti In Transatlantico per rientrare solo a voto concluso: quasi tutta la sinistra interna che fa capo a Roberto Fico. Tra gli assenti alcuni suoi fedelissimi come Luigi Gallo, Giuseppe Brescia, Sara Cunial, Rina De Lorenzo (autrice di un documento che definiva “incostituzionale” la riforma), Davide Tripiedi, Doriana Sarli. Assente ingiustificata anche Giulia Sarti, ex presidente della commissione Giustizia a rischio espulsione per la rimborsopoli M5S. “Questa è sicuramente una legge della Lega”, svicola Luigi Di Maio. “Io sono leale al contratto anche se non è che ci sia tutto questo entusiasmo nel M5S”. «Non è una questione di cosa c’è scritto nella legge, è il messaggio. Se si comincia a dire che si possono utilizzare di più le armi, questo non è il mio modello di Paese”, spiega il vicepremier. Gli fa eco il capogruppo D’Uva: “Che nessuno si metta in testa che con questa legge ci sarà il Far West. Ci sarà sempre un’indagine e spetterà sempre al giudice valutare la legittimità della difesa”. I leghisti la vedono diversamente: festeggiano in Aula con gli striscioni “La difesa è sempre legittima”, poi selfie e video nel cortile di Montecitorio. Festa anche per Forza Italia in Aula, con i cartelli “Finalmente una cosa di centrodestra”. Fico ha censurato la manifestazione ammonendo gli azzurri: “Si tratta di un inutile e increscioso gesto nei confronti dell’Aula”. I forzisti hanno risposto con il coro: “Silvio, Silvio”.
Il testo attiverà in Senato il 26 marzo, con l’obiettivo di chiudere in pochi giorni. “Ora mancano pochi passi al traguardo finale. Stop ai calvari giudiziari per chi si difende e per chi reagisce ad un’aggressione in stato di turbamento”, gioisce il ministro- avvocato Giulia Bongiorno. La legittima difesa? «Iter che sta andando avanti», il laconico commento del premier Giuseppe Conte. Netto il no del Pd: «Qui non si parla di sicurezza ma di giustizia privata, di esecuzione sul posto. È peggio degli Stati islamici che usano le frustate o il taglio delle mani», attacca Alfredo Bazoli. “Questa legge creerà una lunga e irresponsabile scia di cadaveri e il responsabile di ogni morto in più avrà un nome e un cognome: Matteo Salvini», l’accusa di Carmelo Miceli. “Non mi sembra che sia un problema all’ordine del giorno. Io invito tutti, occupiamoci del lavoro, perché le persone non hanno lavoro e stanno male”, avvisa il neosegretario dem Nicola Zingaretti.
Nel merito, la nuova legge riconosce «sempre» la sussistenza della proporzionalità tra offesa e difesa. Affinché scatti la legittima difesa non è necessario che il ladro abbia un’arma in mano, ma è sufficiente la sola minaccia di utilizzare un’arma e non è necessario che la minaccia sia espressamente rivolta alla persona. Con il nuovo testo si esclude la punibilità di chi si è difeso in «stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto». Vengono inasprite le pene per violazione di domicilio e furto in appartamento. In particolare, viene innalzata a quattro anni la pena massima di carcere per la violazione di domicilio. Quanto al furto in abitazione e scippo, si arriva fino a un massimo di sei e sette anni di carcere. Vengono inasprite anche le sanzioni con un massimo di 2.500 euro (attualmente 2000 euro). Infine, vengono aumentati anche gli anni massimi di carcere per la rapina, fino a sette. Chi si è legittimamente difeso non sarà responsabile civilmente. In sostanza, la riforma fa sì che l’autore del fatto, se assolto in sede penale, non debba essere obbligato a risarcire il danno derivante dal medesimo fatto in sede civile. L’ultimo articolo della riforma interviene sul codice di procedura penale affinché «nella formazione dei ruoli di udienza debba essere assicurata priorità anche ai processi relativi ai delitti di omicidio colposo e di lesioni personali colpose».

fonte: www.lastampa.it

Reddito di cittadinanza, da oggi le domande

A partire da oggi, 6 marzo 2019, è possibile presentare le domande del Reddito di cittadinanza presso Uffici Postali, CAF e online sul sito dedicato.
Come fare? La domanda può essere presentata:
– online, sul sito www.redditodicittadinanza.gov.it, per chi è in possesso di SPID;
– presso gli Uffici Postali;
– presso i Centri di Assistenza Fiscale convenzionati.
Prima di presentare la domanda, sarà indispensabile essere in possesso dell’ISEE, elemento fondamentale per verificare i requisiti di cittadinanza, patrimonio immobiliare e finanziario e reddito dichiarato.
Per essere ammessi al programma a partire dal mese di aprile, il periodo di presentazione delle domande è tra il 6 e il 31 marzo 2019.

Fonte: lavoropiu.info


sabato 2 marzo 2019

La nuova convivenza more uxorio "azzera" il diritto all'assegno divorzile

La Corte di cassazione con una sentenza di ieri, la n. 5974, riafferma l'orientamento più tranchant sulla perdita definitiva dell'assegno divorzile, da parte del coniuge beneficiario che instauri una convivenza more uxorio, cioè stabile. I giudici di legittimità cassano con rinvio la sentenza di merito che aveva, invece, ritenuto mancante - in particolare - la prova della modificazione "in meglio" della condizione economica del coniuge cui veniva versato l'assegno a seguito dell'intervenuto divorzio.

La sentenza - La Cassazione fonda su propri precedenti abbastanza recenti la decisione di accogliere il ricorso dell'ex marito, il quale aveva agito in giudizio per vedersi esonerato per sempre da qualsiasi onere di mantenimento verso la ex moglie, ormai convivente con un altro. Ovviamente è ormai pacifica l'equiparazione tra famiglia di fatto e quella fondata sul matrimonio. Ma la Cassazione sembra dare un rilievo in sé al fatto stesso della creazione di una nuova famiglia come elemento rescindente l'obbligo di versare l'assegno. Una sorta di automatismo. Al contrario, il giudice di merito riteneva che il coniuge onerato dall'obbligo di mantenimento dovesse fornire, non solo la prova della nuova convivenza, ma anche che tale novità avesse influito in melius sulle condizioni economiche dell'ex coniuge. E, ritenendo non raggiunta la prova sul punto, aveva negato la cessazione dell'obbligo di versare mensilmente 250 euro a titolo di assegno divorzile. Dal ricorso si evince che la Corte di appello aveva fondato la propria decisione anche all'esito di indagini tributarie, che l'ex marito nei suoi motivi ora accolti dalla Cassazione sosteneva che invece avrebbero fatto emergere l'avvenuta parificazione dei redditi della propria nuova coppia matrimoniale e quella di fatto dell'ex moglie. Ma questo è un aspetto di merito che verrà ora nuovamente vagliato dal giudice del rinvio, ma solo nel solco delle indicazioni della Cassazione. Il punto è che la sentenza non fa alcun rilievo sulla qualità e la completezza del quadro probatorio emerso nel giudizio di merito. Infatti, la Corte di legittimità afferma de plano che la formazione di una famiglia di fatto è scelta libera e consapevole, compresa l'assunzione del rischio di recidere il rapporto tra i coniugi divorziati escludendo ogni residua solidarietà post matrimoniale. Ed è circostanza - conclude la Cassazione - su cui l'ex coniuge obbligato non può che «confidare» nell'esonero definitivo da ogni obbligo. 
Ovviamente se poi la nuova convivenza si recide l'assegno divorzile non ha modo di risorgere a favore dell'ex coniuge che prima ne era beneficiario. Infatti, vale la pena riportare il virgolettato della Cassazione che citando propri precedenti che vanno dal 2015 al 2018 a un certo punto afferma che: «il diritto non entra in uno stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso». Conclude la Cassazione - con un'indicazione precisa al giudice del rinvio - affermando che essendo pacifica l'esistenza di due nuovi nuclei familiari per ognuno degli ex coniugi non si poteva escludere che la convivenza more uxorio del beneficiario di assegno determinasse il venir meno del diritto alla sua corresponsione.

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