giovedì 30 novembre 2017

Danneggiare il cancello è reato aggravato

Si applica l'aggravante della esposizione del bene alla pubblica fede nel caso di danneggiamento di un cancello di ingresso di un box.
E' quanto emerge dalla sentenza della Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione del 10 novembre 2017, n. 51438.
Il reato di danneggiamento aggravato per essere la cosa danneggiata esposta alla pubblica fede può avere ad oggetto sia le cose mobili che quelle immobili, poiché l'ambito di applicazione dell'aggravante ha riguardo alla qualità, alla destinazione e alla condizione delle cose indicate nell'art. 625, n. 7 c.p., e non anche alla natura di bene mobile o immobile (Cass. pen., Sez. II, 12 maggio 2009, n. 23550).
Gli ermellini convengono con la dottrina nel ritenere che l'esposizione di una cosa alla pubblica fede comporti che la stessa si trovi fuori della sfera di diretta vigilanza e quindi, affidata interamente all'altrui senso di onestà e di rispetto, per necessità, consuetudine o destinazione naturale: la ratio della previsione risiede, quindi, come precisato acutamente dalla letteratura, nella minorata possibilità di difesa connessa alla particolare situazione delle cose.
Conseguentemente, tale condizione non può mai ricorrere, secondo i giudici, in riferimento alla porta di ingresso ad una privata abitazione oppure ad un locale o ad un esercizio commerciale, all'interno dei quali è ragionevole presumere sia presente il proprietario.
Nella fattispecie, però, il bene danneggiato era costituito da un cancello di accesso ad un box che ben può ritenersi per sua natura esposto alla pubblica fede, non essendo ipotizzabile la costante presenza all'interno del proprietario.
Ne deriva il seguente principio di diritto: “Integra l'ipotesi di danneggiamento aggravato, ai sensi dell'art. 635, comma 2, n. 1, c.p., in relazione all'art. 625, comma 1, n. 7, c.p., la forzatura di un cancello di accesso ad un box/garage, poiché al suo interno non è presente il titolare, considerato che la ratio della maggiore tutela accordata alle cose esposte per necessità, per consuetudine o per destinazione alla pubblica fede va individuata nella minorata possibilità di difesa connessa alla particolare situazione dei beni, in quanto posti al di fuori dalla sfera di diretta vigilanza del proprietario e, quindi, affidati interamente all'altrui senso di onestà e di rispetto”.

fonte: Danneggiare il cancello è reato aggravato | Altalex

mercoledì 29 novembre 2017

Lavoro, Corte Ue: possibile cumulare ferie se impresa impedisce di usufruirne

A un lavoratore deve essere consentito di riportare e cumulare diritti alle ferie annuali retribuite non esercitati qualora il datore di lavoro gli impedisca di esercitare tali diritti. Lo ha stabilito la Corte di Giustizia Ue in relazione a una causa nel Regno Unito.
Il caso si riferisce a un lavoratore britannico che ha lavoratoro per la Sash Window Workshop (Swwl) in base a un contratto di lavoro autonomo con retribuzione basata sulle sole commissioni, dal 1999 fino alla pensione, nel 2012. La sua remunerazione dipendeva dalle commissioni. Quando usufruiva delle ferie annuali, queste non gli venivano retribuite. All’atto di cessazione del rapporto di lavoro, il lavoratore ha chiesto all’impresa il pagamento delle indennità finanziarie per le sue ferie annuali sia quelle godute e non retribuite, sia quelle non godute - corrispondenti all’intero periodo di occupazione. La Swwl ha respinto la richiesta di King, che ha quindi proposto un ricorso dinanzi al tribunale del lavoro britannico che ha stabilito come il lavoratore in questione avesse diritto alle indennità per ferie annuali retribuite.
Adita in appello, la Corte d’appello di Inghilterra e Galles ha sottoposto alla Corte di giustizia diverse questioni relative all’interpretazione della direttiva sull’orario di lavoro chiedendo in particolare se, in caso di controversia tra lavoratore e datore di lavoro sul diritto del lavoratore alle ferie annuali retribuite, il fatto che il lavoratore debba anzitutto godere delle ferie prima di poter stabilire se abbia diritto a essere retribuito per tali ferie sia compatibile con il diritto dell’Unione.
Oggi la Corte rileva che il diritto alle ferie annuali retribuite per ogni lavoratore «deve essere considerato come un principio particolarmente importante del diritto sociale dell’Unione ed espressamente sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea».
Lo scopo di tale diritto è consentire al lavoratore di riposarsi e di beneficiare di un periodo di distensione e di ricreazione. Tuttavia, un lavoratore durante il periodo di ferie annuali non può essere in grado di godere del tutto delle ferie. In questo caso «le circostanze possono dissuadere il lavoratore dal richiedere le ferie annuali». A tal proposito, la Corte osserva che ogni azione o omissione di un datore di lavoro suscettibile di avere un simile effetto dissuasivo «è incompatibile con la finalità del diritto alle ferie annuali retribuite».
La Corte ricorda anche che gli Stati membri devono assicurare il rispetto del diritto a un ricorso effettivo, garantito dall’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Nella vicenda britannica, tale diritto non sarebbe garantito se, nel caso in cui il datore di lavoro accordi solamente ferie non retribuite al lavoratore, quest’ultimo non potesse far valere davanti al giudice il diritto di usufruire delle ferie retribuite in quanto tali, ma fosse obbligato a usufruirne senza retribuzione e, in seguito, a introdurre un ricorso diretto a ottenerne il pagamento. Secondo la Corte, un tale risultato è incompatibile con il diritto a un ricorso effettivo e con la direttiva sull’orario di lavoro. Il diritto dell’Unione osta, quindi, «a che il lavoratore debba beneficiare delle ferie prima di poter stabilire se ha diritto a essere retribuito per tali ferie».
Infine, la Corte conclude che il diritto dell’Unione osta a disposizioni o a prassi nazionali secondo le quali un lavoratore non può riportare e, se del caso, cumulare, fino al momento in cui il suo rapporto di lavoro termina, i diritti alle ferie annuali retribuite non godute nell’arco di più periodi di riferimento consecutivi, a causa del rifiuto del datore di lavoro di retribuire tali ferie”. Secondo la giurisprudenza della Corte un lavoratore che non ha potuto esercitare il suo diritto alle ferie annuali retribuite prima della cessazione del rapporto di lavoro, per ragioni indipendenti dalla sua volontà, «ha diritto a un’indennità finanziaria». Nelle cause che hanno dato origine a detta giurisprudenza, i lavoratori non avevano potuto esercitare tale diritto data la loro assenza dal lavoro a causa di malattia. Per proteggere il datore di lavoro dal rischio di un cumulo troppo considerevole dei periodi di assenza del lavoratore e dalle difficoltà che tali assenze potrebbero implicare per l’organizzazione del lavoro, la Corte ha statuito che «il diritto dell’Unione non osta a norme o a prassi nazionali che limitano il cumulo del diritto alle ferie annuali retribuite a un periodo di riporto di quindici mesi allo scadere del quale il diritto si estingue».
Nel caso in questione, una protezione degli interessi del datore di lavoro «non sembra strettamente necessaria poiché la valutazione del diritto alle ferie annuali retribuite del lavoratore non è legata a una situazione nella quale il suo datore di lavoro ha dovuto affrontare dei periodi di assenza di quest’ultimo». Al contrario, l’azienda ha potuto trarre vantaggio del fatto che non interrompesse i periodi di attività professionale. Di conseguenza, , contrariamente ad una situazione nella quale il lavoratore non ha potuto beneficiare delle ferie annuali retribuite a causa di malattia, «il datore di lavoro che impedisca a un lavoratore di esercitare il diritto alle ferie annuali retribuite deve assumerne le conseguenze». Dunque, «in assenza di qualsiasi disposizione nazionale che preveda un limite al riporto delle ferie in conformità con le prescrizioni del diritto dell’Unione, ammettere un’estinzione del diritto alle ferie annuali retribuite acquisito dal lavoratore equivarrebbe a legittimare un comportamento che causa un arricchimento illegittimo del datore di lavoro a danno dell’obiettivo della direttiva di rispettare la salute del lavoratore».

fonte: Lavoro, Corte Ue: possibile cumulare ferie se impresa impedisce di usufruirne - La Stampa

Niente confisca se il reato è prescritto

Stop alla confisca se i reati, alla base della misura, sono prescritti. La Corte di cassazione, con la sentenza 53609, ribadisce il dovere del giudice di allinearsi alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'Uomo e, in particolare alla sentenza Varvara contro Italia (del 29 ottobre 2013) con la quale i giudici di Strasburgo hanno escluso la possibilità di far scattare la confisca, nel caso esaminato si trattava di una violazione urbanistica, nell'ipotesi di proscioglimento per estinzione del reato. Il giudice che non si adegua viola l'articolo 7 della Cedu sul principio di legalità. La Suprema corte accoglie così il ricorso contro il no ad un'istanza di restituzione di somme sequestrate da un conto corrente perché di provenienza illecita. Dopo il sequestro però il procedimento si era concluso con una dichiarazione di estinzione per prescrizione dei reati presupposti: ricettazione e truffa tentata e consumata. La Cassazione annulla con rinvio, ricordando alla Corte di merito che avrebbe dovuto chiarire quale peso nel caso esaminato aveva il verdetto enunciato dai giudici di Strasburgo, in base la quale la confisca di un bene che sia il prodotto o il prezzo del reato “non può applicarsi nel caso di declaratoria di prescrizione del reato stesso, anche qualora la responsabilità penale sia stata accertata in tutti i suoi elementi”.

Cassa Forense - Dat Avvocato

martedì 28 novembre 2017

Autovelox: multa recapitata a casa illegittima se l'infrazione è commessa su un rettilineo

La multa con autovelox recapitata direttamente a casa è illegittima se l'infrazione risulta commessa su un rettilineo. Lo hanno stabilito i giudici della VI sezione della Corte di cassazione con la sentenza n. 25030 del 3 ottobre 2017 secondo i quali gli agenti presenti sul luogo devono dare una motivazione del fatto che la sanzione non sia stata subito contestata all'automobilista.

Il fatto - Il giudice di pace accoglieva l'opposizione al verbale di contestazione per violazione di cui all'articolo 142 del codice della strada proposta da un automobilista che poneva a base della decisione il difetto di taratura dell'autovelox. A giudizio del Tribunale di Chieti chiamato a decidere sul ricorso d'appello il verbale non conteneva alcun riferimento alla circostanze impeditive della contestazione immediata e durante il primo giudizio nessuna istruttoria era stata neanche chiesta per contro risultavano in atti fotografie che rendevano palese come il tratto fosse un lungo rettilineo. Inoltre non si evidenziava l'apposizione di alcuna segnaletica idonea al preavviso di rilevazione della velocità, in quanto le foto contenute in atti riproducevano un cartello fisso presente lungo la strada senza che fosse possibile avere contezza della distanza intercorrente tra il detto segnale e il punto di rilevamento. Anche nei confronti di questa sentenza l'automobilista proponeva ricorso per cassazione per falsa applicazione dell'articolo 201, primo comma-bis lett, e) del codice della strada .
La decisione della Corte - Gli Ermellini rigettano il ricorso ribadendo che in materia di accertamento di violazioni delle norme sui limiti di velocità compiute a mezzo apparecchiature di controllo (autovelox), nell'ipotesi in cui esse consentono la rilevazione dell'illecito solo in tempo successivo, ovvero, dopo che il veicolo sia già a distanza dal posto di accertamento, l'indicazione a verbale dell'utilizzazione di apparecchi di tali caratteristiche esenta dalla necessità di ulteriori precisazioni circa la contestazione immediata.
Tuttavia, nel caso de quo, il tratto di percorrenza, controllato da autovelox, era un rettilineo e come si legge nell'ordinanza in via di principio, nulla impediva agli organi di Polizia stradale di posizionarsi in modo tale che potessero fermare l'autovettura di cui si era rilevato l'eccesso di velocità, per gli adempimenti inerenti alla contestazione.
Il verbale di contestazione, continua la Suprema corte, non poteva limitarsi a rilevare che l'accertamento era stato effettuato mediante autovelox: all'automobilista andava data, come visto, la possibilità di difendersi immediatamente.
Ricordiamo che, in linea generale, gli autovelox possono essere utilizzati sulle strade extraurbane secondarie in modalità automatica (e quindi senza la presenza della Polizia) solo previa autorizzazione da parte del Prefetto. Non solo: l'autorizzazione deve indicare esattamente il tratto all'interno del quale può essere posizionato l'apparecchio. Anche in questi casi, però, la multa può essere recapitata direttamente a casa solo se il verbale dà ragione del fatto che la stessa non è stata immediatamente contestata.
Non così su strade extraurbane principali e autostrade. Su questo tipo di carreggiate l'autovelox può essere posizionato senza autorizzazione scritta del Prefetto e senza il bisogno di contestazione immediata. Sarà solo necessario indicare la presenza dell'apparecchio tramite segnaletica preventiva.

fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

lunedì 27 novembre 2017

L’Inps ottiene rinforzi e assume 365 analisti e consulenti

Un’interessante opportunità per assunzioni presso l’Inps. Sulla Gazzetta Ufficiale 4a Serie Speciale – Concorsi ed Esami n.90 del 24 novembre 2017 è stato pubblicato il bando di concorso pubblico, per titoli ed esami, a 365 posti di analista di processo–consulente professionale nei ruoli del personale dell’Inps, area C, posizione economica C1. Richiesta una laurea (all’interno di una lista contenuta nel bando) e una certificazione della conoscenza della lingua inglese.
Il candidato deve produrre la domanda di partecipazione al concorso esclusivamente in via telematica, mediante l’utilizzo di PIN INPS oppure SPID (Sistema Pubblico di Identità Digitale) oppure CNS (Carta Nazionale dei Servizi), compilando l’apposito modulo ed utilizzando la specifica applicazione disponibile all’indirizzo internet www.inps.it.
L’invio on line della domanda debitamente compilata deve essere effettuato entro il termine perentorio delle ore 16.00 del 27 dicembre 2017.
Per richiedere informazioni e delucidazioni in merito al concorso, è stato attivato il seguente numero telefonico: 06 59058375; è possibile chiamare dal lunedì al venerdì, dalle ore 9 alle ore 13 e dalle ore 14.30 alle ore 17; disponibili, inoltre, i seguenti indirizzi di posta elettronica: PEC: dc.risorseumane@postacert.inps.gov.it; PE: Concorso365C1@inps.it.

Fonte: L’Inps ottiene rinforzi e assume 365 analisti e consulenti - La Stampa

sabato 25 novembre 2017

Blog non è equiparabile alla testata editoriale telematica

Al fine di distinguere tra una testata giornalistica telematica e altre forme di manifestazione del pensiero presenti in rete, quali forum, blog, newsletter, newsgroup, mailing list e social network, occorre avere riguardo ad alcuni parametri di tipo ontologico o strutturale e ad altri di tipo teleologico (ovvero attinente agli scopi della pubblicazione). In particolare il blog non è comparabile alla testata giornalistica telematica per la carenza del carattere qualificante della periodicità.
La sez. terza del TAR Lazio con la sentenza n. 9841 del 20 settembre 2017 nel giudicare in merito ad un ricorso del Codacons contro il Corecom Lazio, Agcom e Roma Capitale affronta la tematica della natura giuridica del blog, già oggetto di precedenti contenziosi dinanzi alla giurisdizione civile e penale, dove spesso si è cercato di assimilare il blog alla testata telematica editoriale. Anche il Codacons sostiene questa tesi denunziando la violazione dell’art. 3 bis del decreto legislativo n. 63 del 2012, di cui afferma l’applicabilità anche ai “blog”, con richiesta di sollevare la questione di legittimità costituzionale di tale norma alla luce degli articoli 3, 11 e 117 Cost. (primo motivo), nonché la violazione dei principi comunitari di eguaglianza e non discriminazione (secondo motivo).
Di diverso avviso è il TAR Lazio che respinge il ricorso dell’associazione negando proprio l’equiparabilità dei blog alle testate telematiche. Difatti come già più volte affermato dalla Corte di Cassazione (prevalentemente in sede penale, ai fini della sussistenza del reato di diffamazione a mezzo stampa) per distinguere tra una testata giornalistica telematica e altre forme di manifestazione del pensiero presenti in rete, quali forum, blog, newsletter, newsgroup, mailing list e social network, occorre avere riguardo ad alcuni parametri di tipo ontologico o strutturale e ad altri di tipo teleologico (ovvero attinente agli scopi della pubblicazione).
In particolare, “la struttura è "costituita dalla "testata", che è l'elemento che lo identifica, e dalla periodicità regolare delle pubblicazioni (quotidiano, settimanale, mensile), mentre "la finalità si concretizza nella raccolta, nel commento e nell'analisi critica di notizie legate all'attualità (cronaca, economia, costume, politica) e dirette al pubblico, perché ne abbia conoscenza e ne assuma consapevolezza nella libera formazione della propria opinione” (Cassazione penale, sez. V, 25/02/2016, n. 12536).
E, in questo quadro, il sito qualificabile come vera e propria testata giornalistica è soggetto ad una serie di adempimenti (quali l'obbligo di registrazione e la guida ad opera di un direttore responsabile, giornalista professionista o pubblicista) funzionali, da un lato a individuare le responsabilità (civili, penali, amministrative) collegate alle pubblicazioni, e, d’altro lato, a rendere operative le corrispondenti garanzie costituzionali ".
In particolare, tale giurisprudenza qualifica il “blog” "una sorta di agenda personale aperta e presente in rete, contenente diversi argomenti ordinati cronologicamente".
Nel caso di specie, è possibile ravvisare nel sito in questione il requisito di carattere teleologico, in quanto, dalla documentazione in atti, emerge la finalità di divulgare e scambiare informazioni e commenti delle attuali condizioni sociali e politiche in cui versa la Città di Roma. Ma non è certo possibile individuare il requisito strutturale legato alla periodicità delle pubblicazioni, ed alla loro stessa “necessarietà”; nel senso che esse bene potrebbero cessare in qualsiasi momento, anche perché non effettuate da persone professionalmente qualificate per l’attività pubblicistica né da un soggetto strutturato come testata giornalistica.
Così che al sito in questione non è attinente la tutela costituzionale assicurata dal comma terzo dell'art. 21 Cost. alla stampa. Essa, infatti, secondo l’insegnamento della S. C., si applica al giornale o al periodico pubblicato, in via esclusiva o meno, con mezzo telematico, quando possieda i medesimi tratti caratterizzanti del giornale o periodico tradizionale su supporto cartaceo e quindi sia caratterizzato da una testata, diffuso o aggiornato con regolarità, organizzato in una struttura con un direttore responsabile, una redazione e un editore registrato presso il registro degli operatori della comunicazione, finalizzata all'attività professionale di informazione diretta al pubblico, cioè di raccolta, commento e divulgazione di notizie di attualità e di informazioni da parte di soggetti professionalmente qualificati (Cassazione civile sez. un. 18 novembre 2016 n. 23469).
Di conseguenza le prospettate questioni di legittimità costituzionale sollevate dall’associazione ricorrente si presentano manifestamente infondate proprio a causa della non comparabilità della testata giornalistica strutturata come tale rispetto ad un semplice e spontaneo “blog” presente sulla rete internet, quale risulta essere quello in esame.
La detta non comparabilità deriva proprio dal carattere – qualificante - della periodicità, che risulta assente per il “blog”, e che è, invece, dato imprescindibile, anche secondo la su riportata norma regolamentare, per ottenere l’iscrizione nel Registro degli Operatori di telecomunicazioni.

Fonte: Blog non è equiparabile alla testata editoriale telematica | Altalex

Sinistri, salvo diversa indicazione la regola resta «precedenza a chi viene da destra»

I giudici della IV sezione Penale della Corte di cassazione con la sentenza n. 48294 del 19 ottobre 2017 sono ritornati sulla vexata questio sul diritto di precedenza nel caso di sinistro stradale ribadendo la regola secondo la quale, quando due veicoli stanno per impegnare una intersezione, ovvero laddove le loro traiettorie stiano comunque per intersecarsi, si ha l'obbligo di dare la precedenza a chi proviene da destra, salvo diversa segnalazione (articolo 145 comma secondo del Cds).
Il fatto - Il Giudice di Pace di Agrigento aveva assolto, ex art. 530 comma secondo c.p.p. un automobilista dall'imputazione ex art. 590 c.p., che era stata elevata in quanto lo stesso alla guida della propria autovettura, accingendosi ad attraversare un incrocio, per colpa consistita in negligenza, imprudenza e imperizia, nonché in violazione delle norme del codice della strada in materia di diritto di precedenza, era entrato in collisione con un ciclomotore proveniente da destra.
Al momento del fatto, non vi erano sul luogo altri segnali che imponessero indicazioni alternative rispetto alle regoli generali della viabilità così come previsto dalle norme vigenti in materia.
In definitiva era risultato pienamente accertato che il conducente del ciclomotore fosse favorito dal diritto di precedenza, vigendo, quindi, la regola secondo la quale, quando due veicoli stanno per impegnare una intersezione, ovvero laddove le loro traiettorie stiano comunque per intersecarsi, si ha l'obbligo di dare la precedenza a chi proviene da destra, salvo diversa segnalazione.
La circostanza che proprio l'autovettura fosse in movimento al momento dell'impatto escludeva ulteriormente la configurabilità della cosiddetta precedenza “di fatto” e comprovava la sussistenza dell'elemento obiettivo della condotta in contestazione, ossia la negligenza e l'imprudenza (colpa generica) dell'automobilista, nonché la violazione di precetti normativi (colpa specifica), operata occupando indebitamente il crocevia intanto che sopravveniva un veicolo favorito dal diritto di precedenza.
I Giudici del Tribunale di Agrigento con la sentenza impugnata, in riforma della sentenza di primo grado, hanno ritenuto l'automobilista responsabile del reato allo stesso contestato. Avverso la sentenza viene proposto ricorso per Cassazione
La decisione della Corte - Gli Ermellini ritengono il ricorso inammissibile. I Giudici, nel riformare la sentenza del Giudice di Pace, hanno ritenuto “ampiamente provata” la penale responsabilità dell'imputato sulla base della testimonianza di un terzo trasportato nell'autovettura dell'imputato, che aveva confermato la ricostruzione della vicenda offerta dagli altri testi, mentre le discrasie residue non inficiavano la univoca ricostruzione degli aspetti della vicenda.
Inoltre il Tribunale pur prendendo in considerazione l'assunto difensivo secondo il quale l'automobilista non era in concreto gravato dal succitato obbligo di precedenza di fatto, lo ha respinto, perché secondo giurisprudenza di legittimità, “in tema di circolazione stradale, la cosiddetta precedenza di fatto sussiste soltanto nei casi in cui il veicolo si presenti all'incrocio con tanto anticipo da consentirgli di effettuarne l'attraversamento senza che si verifichi la collisione e senza che il conducente, cui spetta la precedenza di diritto, sia costretto ad effettuare manovre di emergenza, o a rallentare, oltre i limiti richiesti dalla presenza del crocevia o, addirittura, a fermarsi”; o, più in generale, “il conducente che impegna un incrocio senza diritto di precedenza può invocare, come esimente di responsabilità per il sinistro causato, la precedenza cronologica, cosiddetta “di fatto ' a condizione che sussistessero le condizioni per effettuare l'attraversamento con assoluta sicurezza e senza porre in essere alcun rischio per la circolazione”.

fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

venerdì 24 novembre 2017

Rumore dei clienti fuori dal bar, è il Comune che deve vigilare

Locale rumoroso, nessuna responsabilità per il gestore, deve vigilare il Comune. Lo afferma il Tar Lombardia (sezione di Brescia) nella sentenza 1255/2017.

Il fenomeno degli esercizi pubblici, quali bar, ristoranti, pensioni o attività simili all'interno degli immobili in condominio crea malumori e disagi per quel che concerne le immissioni rumorose. Le questioni sono due, quella relativa alla eventuale responsabilità del gestore o del proprietario dell'immobile per i danni eventualmente causati a terzi, e quella relativa al dovere di vigilanza e controllo sugli avventori “rumorosi”.

La Corte di Cassazione ha da tempo stabilito come, in assenza di carenze strutturali dell'immobile locato adibito a esercizio pubblico, è da escludersi qualsiasi coinvolgimento del proprietario del locale, il quale quand'anche consapevole delle immissioni rumorose, non avrebbe fornito alcun apporto alla causazione del fatto dannoso.

Fonte: Rumore dei clienti fuori dal bar, è il Comune che deve vigilare

giovedì 23 novembre 2017

Pedone investito: l’assenza delle strisce incide sul risarcimento

In caso di incidente, il pedone ha concorso di colpa se attraversa la strada nottetempo in una zona priva di strisce pedonali. Nella quantificazione del danno da esso subito, debbono considerarsi le pregresse patologie dal medesimo sofferte. Così la Corte di Cassazione con ordinanza n. 27524/17, depositata il 20 novembre.
Il caso. Un pedone veniva investito da un autoveicolo, preso a noleggio e regolarmente assicurato, guidato da un soggetto abilitato alla guida. Il Tribunale di Cosenza accoglieva la domanda della parte lesa e condannava i convenuti – la società di noleggio proprietaria del veicolo, la società che aveva preso a noleggio il veicolo e l’impresa assicuratrice – in solido al pagamento del risarcimento dei danni.
La Corte d’Appello di Catanzaro accoglieva l’impugnazione proposta dall’impresa assicuratrice, riconoscendo un concorso di colpa del soggetto investito e una sovrastima del danno.
Il soggetto leso dall’incidente propone ricorso per cassazione lamentando, l’errata individuazione del concorso di colpa nonché la mancata dimostrazione dello stesso ed infine, la presenza del rapporto causa-effetto tra il sinistro ed i disturbi psichici sofferti dalla vittima.
Il concorso di colpa e la prova. La Suprema Corte ribadisce che la «condotta concausativa del danno» è una questione di fatto non censurabile in sede di legittimità e lo stesso vale per l’assenza di prova asserita dalla ricorrente, in quanto verrebbe ulteriormente richiesto alla Corte un riesame del fatto, precluso in sede di legittimità, fermo restando che i Giudici di merito hanno applicato correttamente le norme del codice della strada, poiché risulta dagli atti che il pedone abbia attraversato la strada, di notte, in zona sprovvista di strisce pedonali e che, ai sensi dell’art. 190, comma 5, cod. strad., non avrebbe dato precedenza al conducente che sopraggiungeva.
I disturbi psichici della vittima. Viene pienamente riconfermato quanto stabilito dal Giudice d’Appello, ovvero che nella quantificazione del danno alla salute deve considerarsi «sia la differenza tra lo stato di invalidità complessivamente presentato dal danneggiato dopo (il fatto illecito) e lo stato patologico pregresso, sia la situazione che si sarebbe determinata se non fosse intervenuto il fatto lesivo imputabile».
Corretta risulta dunque la diminuzione della quantificazione del danno effettuata dalla Corte distrettuale, posto che la ricorrente era già affetta dai disturbi invocati.
La Corte pertanto rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Pedone investito: l’assenza delle strisce incide sul risarcimento - La Stampa

mercoledì 22 novembre 2017

Giudici pace, adesioni altissime sciopero oltre 80%

Lo sciopero dei giudici di pace e dei magistrati onorari di tribunali e procure sta registrando adesioni altissime, intorno all'85%. Ciò determinerà lo slittamento di non meno di mezzo milione di processi. Lo afferma con una nota Maria Flora Di Giovanni presidente dell'Unione nazionale dei giudici di pace. «Nel frattempo, prosegue il comunicato, ieri al Csm si è tenuto un incontro dei capi degli uffici giudiziari per valutare l'impatto, sinora devastante, della riforma Orlando sull'efficienza della Giustizia». «Unanime è stato il giudizio di incomprensibilità ed inattuabilità di buona parte delle disposizioni ivi contenute, ed accorato l'appello di molti presidenti di tribunale, che hanno registrato negli ultimi mesi crolli di produttività anche sino al 50% di processi definiti».
Oggi, continua la nota, la questione della magistratura onoraria è all'esame del Parlamento Europeo, in una seduta riservata al precariato pubblico in Italia. Verrà chiesto l'immediato avvio della procedura di infrazione contro il Governo italiano dopo che l'istruttoria preliminare, cd. EU pilot, ha dato riscontri completamente negativi per l'Italia, con violazione di tutte le direttive comunitarie sul lavoro a scapito dei giudici di pace e dei magistrati onorari.E nei prossimi mesi arriveranno le decisioni della Corte di Giustizia Europea, investita di tre rinvii pregiudiziali dai giudici italiani sull'illegale precariato della magistratura onoraria. Nelle cause dinanzi alla suprema Corte Europea sono intervenuti oltre 900 giudici e pubblici ministeri onorari.

Fonte: Giudici pace, adesioni altissime sciopero oltre 80%

Cassazione: il “matrimonio rom” con le spose bambine è reato

Anche se la cultura rom ammette le spose bambine, in Italia il matrimonio con minorenni non esiste. E commette reato - atti sessuali con minore (art.609 quater) - chi convive “more uxorio” con una minore di 16 anni, anche se c’è il suo consenso. La Cassazione ha così confermato la condanna a un anno, con le attenuanti generiche, inflitta dalla Corte d’Appello di Sassari a un giovane, all’epoca ventiduenne, che aveva sposato la ragazza “con matrimonio rom”.
I fatti si sono svolti nel 2011 e il giovane era stato ritenuto colpevole sia dal Tribunale di Sassari, che dalla Corte d’Appello. Nel ricorso in Cassazione, il difensore dell’imputato aveva opposto che non ci fosse alcuna «situazione di soggezione», neanche morale, tra i «due fidanzati, già coniugi», secondo la loro cultura. In pratica, la difesa aveva provato a sostenere che la norma punisce gli atti sessuali compiuti in un rapporto non paritario, di supremazia dell’autore tale da condizionare una ragazza di meno di 16 anni. Non in un’unione stabile.
Non esiste «un rapporto di matrimonio tra il soggetto attivo del reato e quello passivo», premette la terza sezione penale della Cassazione, e non può essere portato in giudizio come causa di esclusione del reato. Nemmeno se previsto nella cultura di origine dei due giovani, che - dice la Cassazione - ammette «il matrimonio anche con minori di 14 anni, spesso avuncolato, zia/zio nipote». Poiché «i minori di età non possono contrarre matrimonio». La Corte ricorda anche come «sul matrimonio rom la giurisprudenza ha sempre ritenuto la sua non validità nell’ordinamento italiano, quindi a maggior ragione con una minorenne di anni 16». In passato la Cassazione, si era infatti pronunciata confermando l’espulsione di un immigrato irregolare, anche se sposato con “rito rom” e convivente con una donna incinta: in quell’occasione, la Corte precisò che tale unione non aveva validità neppure come unione di fatto.
Inoltre, «la convivenza more uxorio - precisa la Cassazione - anche tra fidanzati, di un maggiorenne quale l’imputato con una minore di anni 16, viene sanzionata dal legislatore a prescindere dalla realizzazione di condotte corruttive o induttive e dall’abuso di una posizione dominante o autorevole». Sarebbe stato diverso, invece, se la ragazza avesse già compiuto i 16 anni e avesse potuto dare un valido consenso agli atti sessuali con il proprio convivente.

Fonte: Cassazione: il “matrimonio rom” con le spose bambine è reato - La Stampa

venerdì 17 novembre 2017

Reati stradali: Procura di Torino fissa le tariffe per il patteggiamento

La Procura di Torino ha pubblicato on line una tabella composta da ben 72 voci, che consente la definizione con patteggiamento o decreto penale di condanna dei processi per i più comuni reati stradali tra i quali quello di guida in stato di ebbrezza, in tutte le sue forme aggravate o meno (art. 186, comma 2, lett. b) e c) cod. strad.), quello di alterazione psico-fisica derivante dall'uso di sostanze stupefacenti (art. 187 cod. strad.), quello di rifiuto di sottoporsi all'accertamento dello stato di ebbrezza o di alterazione (art. 186, comma 7, cod. strad.), inottemperanza all'obbligo di fermarsi in caso di sinistro con danno alle persone (art. 189, comma 6 cod. strad.) e inottemperanza di prestare assistenza a feriti (art. 189, comma 7 cod. strad.).
Come precisato dalla Procura lo scopo della emanazione di tale “tariffario” è quello di assicurare una omogenea trattazione dei procedimenti in oggetto, mediante una incentivazione al patteggiamento, al quale viene riservato un trattamento sanzionatorio più severo nell'ipotesi di una sua richiesta dopo la notifica della citazione a giudizio. Così, per chi desidera patteggiare, la guida in stato di ebbrezza commessa durante il giorno può costare 1.000 euro di ammenda, 7 giorni di arresto e sei mesi di sospensione della patente.
Non sono ricomprese all'interno della tabella le ipotesi di reati stradali più gravi, introdotti con la Legge n. 41/2016, ovvero l'omicidio e le lesioni stradali gravi o gravissime, probabilmente in quanto fattispecie criminose particolarmente gravi e di nuova introduzione.
Di particolare importanza la disciplina delle attenuanti generiche; queste ultime, infatti, possono essere ritenute prevalenti sulle aggravanti solo nell'ipotesi di imputati incensurati o con precedenti penali del tutto marginali ed equivalenti in caso di imputati con precedenti penali recenti, mentre non si potrà dare applicazione alle attenuanti generiche nel caso in cui i precedenti siano gravi, plurimi e ravvicinati nel tempo o riguardino reati commessi con violazione alle norme del Codice della Strada.
I pubblici ministeri, quindi, non accetteranno proposte di patteggiamento con attenuanti generiche indiscriminate ma la valutazione opererà caso per caso.
Vengono esclusi dalla tabella anche i casi di decreto penale di condanna nelle ipotesi di guida in stato di alterazione per uso di stupefacenti da parte dei conducenti aventi una età inferiore a 21 anni, se accertato durante il giorno, mentre sussiste tale previsione per i fatti commessi nelle ore notturne.

Fonte: Reati stradali: Procura di Torino fissa le tariffe per il patteggiamento | Altalex

Conflitti tra i genitori: il Tribunale nomina un coordinatore genitoriale

Il Tribunale di Mantova, rilevata una situazione di forte conflittualità tra i genitori in fase di separazione, ha nominato un coordinatore genitoriale attribuendogli specifici compiti di monitoraggio dei rapporti familiari e di affiancamento dei genitori nelle scelte formative relative ai figli.
La vicenda. Nell’ambito di un procedimento di separazione personale, il Tribunale di Mantova ha regolamentato le modalità di affidamento dei figli delle parti.
In particolare, il Giudice ritiene che, nel caso di specie, non possa disporsi l’affidamento esclusivo dei minori posto che entrambi i coniugi hanno chiesto l’affidamento condiviso e che sia il Servizio Sociale incaricato delle indagini sia il consulente tecnico hanno verificato l’idoneità dei genitori a gestire singolarmente i figli.
Serve un coordinatore. Sulla base, però, di una difficoltà nelle relazioni familiari determinata esclusivamente dalla «mai sopita» conflittualità fra gli adulti, il Giudice dispone che l’andamento dei rapporti familiari venga monitorato da una figura esterna (cd. coordinatore genitoriale) che una volta al mese osservi le relazioni genitori/figli operando una mediazione costante e svolgendo alcuni compiti determinati quali:
– fornire le opportune indicazioni, eventualmente correttive dei comportamenti disfunzionali dei genitori, intervenendo in loro sostegno;
– coadiuvare i genitori nelle scelte formative dei figli, vigilando, in particolare, sull’osservanza del calendario delle visite previsto per il padre e assumendo le opportune decisioni in caso di disaccordo;
– redigere una relazione informativa sull’attività svolta da trasmettere al Giudice Tutelare entro il termine previsto.
Per questi motivi, il Tribunale affida i minori ad entrambi i genitori, ammonendoli, però, a non porre in essere comportamenti ostativi al corretto svolgimento delle modalità di affidamento e a collaborare con il coordinatore genitoriale nominato.

Fonte: www.ilfamiliarista.it/Conflitti tra i genitori: il Tribunale nomina un coordinatore genitoriale - La Stampa

Problemi con il fornitore di energia elettrica e gas? Ci pensa il Garante

Tutte le novità. Dal 1° gennaio 2018 s’innesta nel nostro sistema un nuovo strumento di tutela, volto a garantire i consumatori da abusi e comportamenti scorretti delle società fornitrici di energia elettrica e gas. Pertanto ogni cliente o utente finale, in caso di esito negativo del reclamo e fallimento del tentativo di conciliazione, per mancata partecipazione dell’operatore, potrà presentare istanza all’AEEGSI (Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico). Si tratta di una procedura snella che permette in tempi ragionevoli di definire le controversie insorte tra consumatore e gestore, ma resta sempre salva la possibilità di poter agire in sede giurisdizionale.
Istanza via PEC. L’istanza può essere inoltrata tramite PEC (il regolamento precisa «preferibilmente») in un termine non superiore a 30 giorni dalla conclusione del tentativo di conciliazione e redatta sulla base di determinati requisiti. Deve indicare i dati delle parti coinvolte, la descrizione della fattispecie violata e le prove a sostegno della violazione, nonché la dichiarazione che attesti l’assenza del gestore al tentativo di conciliazione.
Procedura decisoria. L’Autorità può accogliere l’istanza e dare avvio alla procedura, o archiviarla se inammissibile o se la questione è risolta nelle more dal gestore. Instaurata la procedura, essa si conclude in 120 gg che decorrono dalla data di deposito dell’istanza, in tale termine le parti hanno facoltà di presentare memorie, deduzioni e depositare documenti, nonché presentare integrazioni e repliche alle produzioni avversarie. La deliberazione conclusiva del collegio fissa il termine entro il quale le parti sono tenute ad adeguarsi alla decisione, il gestore potrà altresì essere condannato al rimborso delle somme indebitamente versate, ma resta salva la possibilità di ottenere il risarcimento del maggior danno in sede giurisdizionale. Sono escluse dall’ambito della disciplina le controversie che attengono al recupero credito o profili fiscali o tributari.

Fonte: www.condominioelocazione.it/Problemi con il fornitore di energia elettrica e gas? Ci pensa il Garante - La Stampa

mercoledì 15 novembre 2017

Il whistleblowing è legge, tutelato il dipendente che segnala illeciti

Via libera definitivo, con il voto di questa mattina della Camera dei deputati (dopo le modifiche del Senato il 18 ottobre scorso), alla legge che introduce in Italia il cosiddetto whistleblowing, vale a dire la segnalazione di attività illecite nell'amministrazione pubblica o in aziende private, da parte del dipendente che ne sia venuto a conoscenza per ragioni di lavoro. La norma che si compone di tre articoli mira soprattutto alla tutela dei lavoratori.
L'articolo 1 modifica l'articolo 54-bis del T.U. pubblico impiego (Dlgs n. 165 del 2001), introdotto dalla legge Severino che aveva già accordato un prima forma di tutela per il segnalante, prevedendo un vero e proprio sistema di garanzie per il dipendente. La nuova disciplina stabilisce, anzitutto, che colui il quale - nell'interesse dell'integrità della Pa - segnali al responsabile della prevenzione della corruzione dell'ente (di norma un dirigente amministrativo; negli enti locali il segretario) o all'Autorità nazionale anticorruzione o ancora all'autorità giudiziaria ordinaria o contabile le condotte illecite o di abuso di cui sia venuto a conoscenza in ragione del suo rapporto di lavoro, non possa essere - per motivi collegati alla segnalazione - soggetto a sanzioni, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto a altre misure organizzative che abbiano un effetto negativo sulle condizioni di lavoro.
L'eventuale adozione di misure discriminatorie va comunicata dall'interessato o dai sindacati all'Anac che a sua volta ne dà comunicazione al Dipartimento della funzione pubblica e agli altri organismi di garanzia. In questi casi l'Anac può irrogare una sanzione amministrativa pecuniaria a carico del responsabile da 5.000 a 30.000 euro, fermi restando gli altri profili di responsabilità. Inoltre, l'Anac applica la sanzione amministrativa da 10.000 a 50.000 euro a carico del responsabile, nel caso di mancato svolgimento di attività di verifica e analisi delle segnalazioni ricevute. La misura della sanzione tiene conto delle dimensioni dell'amministrazione.
Spetta poi all'amministrazione l'onere di provare che le misure discriminatorie o ritorsive
adottate nei confronti del segnalante sono motivate da ragioni estranee alla segnalazione. Gli atti discriminatori o ritorsivi adottati dall'amministrazione o dall'ente sono nulli. Il segnalante licenziato ha diritto alla reintegra nel posto di lavoro e al risarcimento del danno. Le tutele invece non sono garantite nel caso in cui, anche con sentenza di primo grado, sia stata accertata la responsabilità penale del segnalante per i reati di calunnia o diffamazione o comunque reati commessi con la denuncia del medesimo segnalante ovvero la sua responsabilità civile, nei casi di dolo o colpa grave.
L'articolo 2 estende al settore privato la tutela del dipendente o collaboratore che segnali illeciti o violazioni relative al modello di organizzazione e gestione dell'ente di cui sia venuto a conoscenza per ragioni del suo ufficio. La disposizione dunque modifica l'articolo 6 del Dlgs 231 del 2001 sulla Responsabilità amministrativa degli enti, con riguardo ai modelli di organizzazione e di gestione dell'ente idonei a prevenire reati. In particolare, sono aggiunti all'articolo 6 tre nuovi commi.
Il comma 2-bis, relativo ai requisiti dei modelli di organizzazione e gestione
dell'ente prevede uno o più canali che, a tutela dell'integrità dell'ente, consentano a coloro che a qualsiasi titolo rappresentino o dirigano l'ente, segnalazioni circostanziate di condotte costituenti reati o di violazioni del modello di organizzazione e gestione dell'ente, di cui siano venuti a conoscenza in ragione delle funzioni svolte. Tali canali debbono garantire la riservatezza dell'identità del segnalante nelle attività di gestione della segnalazione, e la modalità informatica è uno strumento necessario, e non eventuale, del canale a tutela della riservatezza dell'identità del segnalante.
Inoltre si chiarisce che le segnalazioni devono fondarsi su elementi di fatto che siano precisi e concordanti.
I modelli di organizzazione devono prevedere sanzioni disciplinari nei confronti di chi violi le misure di tutela del segnalante. Mentre si è previsto l'obbligo di sanzionare chi effettua, con dolo o colpa grave, segnalazioni che si rivelino infondate.
Il comma 2-ter prevede che l'adozione di misure discriminatorie nei confronti dei soggetti segnalanti possa essere oggetto di denuncia all'ispettorato Nazionale del Lavoro.
Il comma 2-quater sancisce la nullità del licenziamento ritorsivo o discriminatorio
del segnalante. Sono altresì nulli il mutamento di mansioni o qualsiasi altra misura ritorsiva o discriminatoria adottata nei confronti del segnalante. Come nel settore pubblico è onere del datore di lavoro dimostrare che l'adozione di tali misure siano estranee alla segnalazione mossa dal dipendente.
L'articolo 3, introdotto nel corso dell'esame al Senato, con riguardo alle ipotesi di segnalazione o denuncia effettuate nel settore pubblico o privato, introduce come giusta causa di rivelazione del segreto d'ufficio, professionale (art. 622 c.p.), scientifico e industriale, nonché di
violazione dell'obbligo di fedeltà all'imprenditore il perseguimento, da parte del dipendente pubblico o privato che segnali illeciti, dell'interesse all'integrità delle amministrazioni (sia pubbliche che private) nonché alla prevenzione e alla repressione delle malversazioni. La giusta causa opera dunque come scriminante, nel presupposto che vi sia un interesse preminente (in tal caso l'interesse all'integrità delle amministrazioni) che impone o consente tale rivelazione.
Costituisce invece violazione dell'obbligo di segreto la rivelazione con modalità eccedenti rispetto alle finalità dell'eliminazione dell'illecito. In presenza di modalità eccedenti rispetto alle finalità della eliminazione dell'illecito non trova dunque più applicazione la giusta causa e sussiste la fattispecie di reato a tutela del segreto

fonte:Il whistleblowing è legge, tutelato il dipendente che segnala illeciti

La sottile linea di confine tra adesione a un’ideologia e partecipazione all’Isis

Con riferimento al terrorismo di matrice islamica, la giurisprudenza di legittimità ha da tempo espresso la necessità di guardare oltre gli ordinari paradigmi interpretativi legati alla fenomenologia della struttura e degli schemi organizzativi criminali del terrorismo “storico” operante nel nostro Paese, a prescindere dall’ideologia di riferimento, ovvero plasmati sul concreto atteggiarsi dell’associazione a delinquere “classica”, semplice o mafiosa che sia.
Ideologia o jihad? In questo senso si è da ultimo espressa anche la Cassazione, con la recente sentenza n. 50189/2017, chiamata ad affrontare la questione della configurabilità del reato di associazione con finalità di terrorismo e, in particolare, della distinzione tra mera adesione a una ideologia estremista e la concreta partecipazione a una struttura organizzativa di matrice terroristica jihadista.
Reatodi pericolo presunto. Partendo dal principio di diritto secondo cui il reato di associazione con finalità di terrorismo «è integrato da una struttura organizzata di carattere anche solo rudimentale e da una condotta di adesione meramente ideologica, purché connotata da una minima serietà di propositi criminali terroristici, senza che sia necessario, data la natura del reato di pericolo presunto, che si abbia l’inizio di materiale esecuzione del programma criminale», il Supremo Collegio ha messo subito in evidenza il rischio che l’anticipazione della soglia di punibilità finisca per criminalizzare condotte che, invero, rimangono finalizzate sul piano della mera ideazione o adesione psicologica a un’ideologia pur violenta ed estrema.
Anticipazione vs offensività. Da un lato, vi è dunque la necessità che l’anticipazione della tutela rimanga confinata nei limiti dell’offensività in concreto; dall’altro, non si può però non tener presente che «i rapporti ideologico-religiosi, sommandosi al vincolo associativo che si propone il compimento di atti di violenza con finalità terroristiche, lo rendono ancora più pericoloso, potendo esso costituire un collante più forte di molti altri vincoli tra sodali».
Progetto comune. L’organizzazione terroristica transnazionale di matrice islamica non ha le caratteristiche tipiche di una struttura statica ma si connota come una “rete” in grado di mettere in relazione soggetti assimilati da un comune progetto politico-militare e di fungere da catalizzatore della volontà di essere soci, costituendo in tal modo lo “scopo sociale” del sodalizio.
Linea sottile. Si legge infatti nelle motivazioni della sentenza che «ciò che emerge è sicuramente l’esistenza di una sottile linea di confine fenomenologica tra la libertà di manifestazione, anche collettiva, di un’ideologia, in forme legittime o eventualmente nel reato di apologia di istigazione a delinquere e la partecipazione ad un’associazione con finalità terroristica a prescindere o prima della commissione di reati-fine, in presenza di una struttura organizzativa rudimentale, flessibile e a volte del tutto spontaneistica rispetto al collegamento con esponenti dell’Isis o di altre organizzazioni terroristiche criminali». In tale secondo caso, afferma il Collegio, ci si dovrà spostare da una valutazione sulla rilevanza penale a un’analisi rigorosa della configurazione degli elementi, pur se minimi, di manifestazione della composizione organizzativa di uomini e attività prodromiche alla commissione di eventuali reati fine.
Adesione aperta. L’Isis propone, infatti, una formula di adesione alla struttura dell’organizzazione che può definirsi aperta e in progress, cioè sempre disponibile ad «accogliere le vocazioni criminali provenienti da singoli e gruppi»: le modalità di creazione della volontà di aderire alla struttura internazionale terroristica Isis è improntata su un modello spontaneista e privo di formalismi, molte volte senza che vi sia alcun contatto fisico tra gli esponenti riconosciuti dell’organizzazione e terroristica e le persone aderenti ai gruppi o cellule che compiono poi gli attentati.
Prova della partecipazione. Sul punto la Cassazione ritiene «costituire prova di partecipazione […] anche un contributo causale immanente al mero inserimento nella struttura associativa, poiché già il solo inserimento nella compagine criminale rafforza e consolida l’associazione terroristica di riferimento, sotto il profilo dell’affidamento sulla persistente disponibilità di adepti, al pari della proclamata condivisione dell’ideologia estremista e religiosa radicale».
In conclusione. Il Supremo Collegio afferma dunque che «configura il reato di associazione con finalità di terrorismo la costituzione di una “cellula” organizzativa di matrice jihadista, pur in presenza di uno schema di aggregazione minimo e avulso dal riferimento a modelli associativi ordinari, in relazione alla quale, dalla valutazione complessiva di concreti elementi investigativi, emergano non soltanto l’ideologia eversiva di ispirazione ma anche l’adozione della violenza terroristica come metodi di lotta che il sodalizio intende esercitare o si prefigura e l’effettiva possibilità di attuare anche una sola delle condotte di supporto funzionale all’attività terroristica di organizzazioni riconosciute e operanti come tali, quali la realizzazione di attentati terroristici contro obiettivi nel territorio dello Stato, la propaganda e il proselitismo, l’addestramento e l’autoaddestramento dei sodali alla guerra».

Fonte: www.ilpenalista.it/La sottile linea di confine tra adesione a un’ideologia e partecipazione all’Isis - La Stampa

Arresti domiciliari, evasione se si porta il cane a spasso nel cortile

Colui che è sottoposto alla misura degli arresti domiciliari non può allontanarsi, senza autorizzazione, dalla sua abitazione per nessun motivo. Nemmeno per portare il proprio cane nel giardino condominiale per i suoi bisogni. In tal caso scatta, infatti, il reato di evasione. Ad affermarlo è la Corte d'appello di Roma con la sentenza 4418/2017 che, tuttavia, ha riconosciuto l'applicabilità della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, data la scarsa rilevanza offensiva della condotta.
Il caso - Protagonista della vicenda è un uomo sottoposto alla misura degli arresti domiciliari presso la sua abitazione il quale, una mattina di gennaio, veniva sorpreso dalle Forze dell'ordine alle ore 07:40 del mattino nei giardini condominiali pertinenti la sua casa in calzoncini e ciabatte e con il suo cane al guinzaglio. Tratto in arresto per il reato di evasione, l'uomo si giustificava ammettendo sì di essersi allontanato dalle mura di casa, ma solo per portare fuori l'animale per i suoi bisogni, come dimostrava, tra l'altro, il suo abbigliamento non idoneo ad un allontanamento dal luogo designato per la misura restrittiva. Il Tribunale, tuttavia, riteneva integrato il reato di cui all'articolo 385 comma 3 c.p., seppur considerando il fatto non connotato da gravità, e condannava l'uomo alla pena di 6 mesi.
La vicenda proseguiva, poi, in appello dove la difesa chiedeva l'assoluzione in quanto l'allontanamento era dipeso da una causa di forza maggiore legata allo stato del cane e, ad ogni modo, non vi era l'intenzione dello stesso soggetto di violare la misura cautelare impostagli, né tantomeno il fatto contestato poteva essere considerato di grande allarme sociale.
La decisione - La Corte d'appello conferma la rigida linea interpretativa seguita dalla giurisprudenza in materia di evasione ritenendo integrato il reato previsto dall'articolo 385 comma 3 c.p., per la configurabilità del quale basta semplicemente un allontanamento non autorizzato dal luogo designato per la misura cautelare. Tuttavia, per i giudici capitolini, è possibile applicare al caso di specie la causa di non punibilità prevista dall'articolo 131-bis c.p., essendo ravvisabili tutti gli elementi della particolare tenuità del fatto. In particolare, quanto al profilo oggettivo, la condotta incriminata è sintomatica di una scarsa offensività, posto che la violazione del regime di detenzione è, infatti, avvenuto per poco tempo e nelle pertinenze dell'abitazione, «essendosi limitato l'imputato a portar fuori il cane di mattina presto, con abbigliamento pacificamente inidoneo ad allontanarsi ulteriormente». Quanto all'aspetto soggettivo, invece, il comportamento dell'uomo è sicuramente legato a contingenze momentanee, il che consente di ritenere non punibile la sua condotta.

fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

Ferrara: Tessera sanitaria rubata, assolto


Da "La Nuova Ferrara" #Tribunale #Ferrara #Ricettazione #Assoluzione #StudioLegaleMancino #AvvEmilianoMancino

Pneumatici invernali, da oggi scatta l’obbligo in Italia. Ma all’estero le regole cambiano

Oggi finisce in Italia il periodo di “tolleranza” per il montaggio delle gomme invernali: da oggi su gran parte della rete stradale è obbligatoria la dotazione invernale, che significa pneumatici marchiati M+S oppure catene (o calze) a bordo. Come sempre le ordinanze sono locali ed è compito degli automobilisti essere informati su modi e tempi dell’applicazione dei dispositivi: sul sito www.pneumaticisottocontrollo.it sono raccolte tutte le ordinanze.
Nel caso dell’equipaggiamento invernale l’Italia non è tuttavia il solo paese a non avere una normativa applicabile all’intero territorio nazionale, come ricorda il Centro Europeo Consumatori, la cui filiale italiana ha sede a Bolzano, che ha compiuto una sintetica carrellata sulla situazione in alcuni dei principali paesi dell’arco alpino.
Francia. In Francia non esiste un obbligo generale di equipaggiamento invernale. La necessità di montare le catene viene indicata mediante una specifica segnaletica stradale, cioè il classico pneumatico bianco con catene su sfondo blu. Le sole gomme invernali sono ammesse quando i cartelli riportano le scritte “pneus neige admis” oppure “pneus hiver admis”. La segnaletica può tuttavia venire modificata rapidamente.
Svizzera. In Svizzera, dove la pulizia delle strade in caso di precipitazioni non è affatto una consuetudine, non esiste un obbligo generale di equipaggiamento invernale. Vige però una norma, quasi legata al buon senso considerata la morfologia del territorio: chi rallenta il traffico perché circola senza dotazioni adeguate alla stagione può incorrere in sanzioni.
Germania. Anche la Germania sposa lo stesso principio: l’equipaggiamento deve essere adatto alle condizioni meteorologiche. L’obbligo degli pneumatici invernali (montati su ciascuna delle quattro ruote) scatta quando il fondo stradale è ghiacciato, scivoloso oppure se è coperto di poltiglia di neve. Le autorità sono intervenute per precisare il tipo di gomme utilizzabili: fino al 30 settembre 2024 è consentito montare pneumatici M+S prodotti fino alla fine dei quest’anno.
Austria. A scanso di “equivoci” il governo di Vienna ha imposto l’uso dell’equipaggiamento invernale per macchine ed autocarri fino alle 3,5 tonnellate tra il primo novembre ed il 15 aprile in caso di neve, poltiglia di neve o ghiaccio. Possono circolare esclusivamente i mezzi dotati di pneumatici invernali montati su tutte le ruote, del tipo M+S, M.S oppure M&S. Le gomme devono avere un profilo minimo di 4 millimetri in caso di struttura radiale e di almeno 5 nel caso di struttura diagonale. Le catene possono venire montate anche sulle gomme estive se la strada è ricoperta in maniera permanente o semipermanente di neve o ghiaccio.

Fonte: Pneumatici invernali, da oggi scatta l’obbligo in Italia. Ma all’estero le regole cambiano - La Stampa

lunedì 13 novembre 2017

Terzo sesso: ok dalla Corte costituzionale tedesca

Con una pronuncia senza precedenti storici, la Corte Costituzionale tedesca apre un fronte nuovo nella tutela dell'identità personale.
È stato infatti sancito il principio secondo cui i soggetti “intergender” (o “intersessuali”) vedano riconosciuto esplicitamente il proprio status, attraverso la previsione di un terzo genere che si affianchi alla classica alternativa maschile/femminile.
Si tratta delle ipotesi in cui un soggetto nasca con caratteristiche non riconducibili alle tipiche definizioni di maschile e femminile.
La Corte costituzionale tedesca, nel sancire il diritto in questione, ha dunque posto una vera e propria road map: essa ha invitato esplicitamente il Legislatore tedesco ad approvare un atto normativo che disciplini il “terzo sesso” entro la fine dell'anno 2018. Atto normativo che dovrà prendersi in carico anche la definizione in senso positivo dei soggetti in questione (e non meramente negativo, attraverso l'esclusione dalla riconduzione alle categorie maschile e femminile).
La legislazione tedesca non sarebbe comunque la prima ad occuparsi della materia: altri Paesi (fra i quali Australia, India, Nuova Zelanda) sarebbero già dotati di previsioni che sanciscono l'esistenza del “terzo sesso”. Questione, quella dell'appartenenza al “terzo sesso”, che riguarderebbe, secondo le stime delle Nazioni Unite, fra lo 0,05 e l'1,7 % della popolazione mondiale.

fonte: Terzo sesso: ok dalla Corte costituzionale tedesca | Altalex

Bonus bebè, necessario rinnovare l’ISEE entro il 31 dicembre

A partire dal 2015 l’INPS gestisce le domande di assegno di natalità e provvede al pagamento delle singole mensilità.
Sospensione dell’assegno. Da una verifica nella procedura di gestione delle domande di assegno è risultato che molti utenti non hanno ancora provveduto alla presentazione della Dichiarazione Sostitutiva Unica (DSU), utile al rilascio dell’ISEE per l’anno 2017. Ciò – informa l’Istituto – ha comportato per questi ultimi la sospensione dell’erogazione dell’assegno per l’anno in corso.
DSU entro il 31 dicembre. Affinché l’INPS possa riprendere il pagamento delle predette mensilità, è necessario presentare la Dichiarazione Sostitutiva Unica per l’anno in corso entro e non oltre il prossimo 31 dicembre 2017. La mancata presentazione della DSU entro il termine suindicato avrà come conseguenza non solo la perdita delle mensilità per l’anno 2017, ma anche la decadenza della domanda di assegno presentata nel 2016.

Fonte: www.lavoropiu.info/Bonus bebè, necessario rinnovare l’ISEE entro il 31 dicembre - La Stampa

L’assegno alla figlia ventiseienne va pagato anche se fuori corso e disoccupata

In tema di assegno di mantenimento corrisposto a figli maggiorenni, la Corte d’Appello di Trieste ricorda che, in ogni caso, deve riconoscersi la possibilità di una certa inerzia nella maturazione, che porta all’indipendenza dei giovani ragazzi.
Il caso. Il Tribunale di Pordenone confermava il contributo al mantenimento della figlia da parte del padre con lei convivente, unitamente alla spese sanitarie ed universitarie della stessa fino al 30 giugno 2019, e introduceva un assegno di 500 euro per le sue spese personalissime. Avverso tale pronuncia il genitore proponeva reclamo.
Nel caso di specie, la ragazza era iscritta al settimo anno di università fuori corso su una laurea triennale e aveva rifiutato la richiesta del padre di rientrare dalla sede universitaria prescelta e tornare a casa, ove il genitore aveva dedicato una zona dell’abitazione a suo esclusivo utilizzo.
La legittimazione. La Corte rileva innanzitutto che il giudice può riconoscere ai figli maggiorenni, ancora non indipendenti economicamente, un assegno periodico che si prevede sia versato automaticamente all’avente diritto. Ininfluente risulta, quindi, il presupposto della convivenza o meno del figlio con il genitore, condizione non prevista dal testo della norma.
Il mantenimento. Inoltre, pur in assenza di un reale impegno della giovane negli studi e nel lavoro, si deve in ogni caso riconoscere, in virtù dell’attuale momento economico, la possibilità di una certa inerzia nella maturazione che porta all’indipendenza dei giovani ragazzi, riconosciuta dai giudici anche nel caso in esame, attesa l’età della figlia (ventiseienne). I giudici ricordano che è ormai giurisprudenza consolidata l’individuazione di criteri elastici, al fine di ritenere superata la fase di obbligo di tutela economica del figlio, tanto che la giurisprudenza milanese ha fissato tale limite a 34 anni.
Per questo motivo la Corte d’Appello, anche sulla base dell’indiscussa possibilità economica del padre e nel rispetto del diritto della figlia di essere accompagnata nel suo percorso di maturazione, ritiene necessario un modesto ridimensionamento dell’assegno per le spese personali in 350 euro mensili, confermando nel resto il decreto impugnato.

Fonte: www.ilfamiliarista.it/L’assegno alla figlia ventiseienne va pagato anche se fuori corso e disoccupata - La Stampa

sabato 11 novembre 2017

Frode in commercio, punito il falso cartellino di vendita

L'offerta in vendita di pesce fresco come pescato in mare in una certa zona, ma in realtà proveniente da allevamento, costituisce condotta idonea ad integrare gli estremi del tentativo di frode in commercio, indipendentemente dalla contrattazione effettuata o meno con il cliente per l'acquisto della merce. Difatti, l'esposizione del cartellino identificativo del pesce, riportante provenienza e prezzo, equivale ad un'offerta al pubblico, rendendo così superfluo l'eventuale contrattazione. Ad affermarlo è il Tribunale di Lecce con la sentenza 1187/2017.

Il caso - La vicenda prende le mosse da un controllo igienico-sanitario effettuato dai Nas dei Carabinieri presso il reparto pescheria di un supermercato in provincia di Lecce, diretto ad «ispezionare la merce esposta in vendita e verificare la veridicità e la corrispondenza delle informazioni riportate sui cartelli di vendita in riferimento allo stato fisico, all'origine, alla provenienza e alla qualità della merce». I due ufficiali che eseguivano il controllo notavano che le indicazioni presenti sui cartelli identificativi delle specie ittiche “orate” e “spigole” esposte in vendita riportavano che il prodotto era fresco e pescato nella zona FAO 37 (Mediterraneo occidentale). Tuttavia, a seguito di più approfonditi controlli emergeva che, in realtà, il pesce proveniva da allevamenti greci. Di conseguenza, il legale rappresentante della società che gestiva la pescheria del supermercato, assente al momento dei controlli, veniva tratto a giudizio per rispondere del reato di frode in commercio tentata.
La decisione - Il Tribunale, data per certa la difformità tra i prodotti offerti e le caratteristiche dichiarate, condanna il titolare della pescheria e spiega quando si configura il reato previsto dall'articolo 515 del codice penale. Ebbene, per la configurabilità della forma tentata di tale delitto «non è necessaria la sussistenza di una contrattazione finalizzata alla vendita, essendo sufficiente l'accertamento della destinazione alla vendita di un prodotto diverso per origine, provenienza, qualità o quantità da quelle dichiarate o pattuite». In altri termini, spiega il giudice, non rileva che non ci sia stata contrattazione con la clientela, «in quanto l'esposizione del cartellino identificativo, riportante provenienza e prezzo, equivale ad un offerta al pubblico, rendendo superfluo l'assenza di contrattazione». La semplice offerta, dunque, è sufficiente ad integrare gli estremi del tentativo di frode in commercio.
Inoltre, quanto all'individuazione del titolare della pescheria quale responsabile dell'azione criminosa, per il Tribunale non rileva in alcun modo la circostanza che a sistemare la merce sugli scaffali e ad apporre i cartellini fosse stato un dipendente dell'esercizio commerciale. Infatti, sul titolare di un esercizio commerciale grava l'obbligo di impartire ai propri dipendenti precise disposizioni di leale e scrupoloso comportamento commerciale, nonché di vigilare sull'osservanza di tali disposizioni: in difetto, scatta la responsabilità penale «sia allorquando alla condotta omissiva si accompagni la consapevolezza che da essa possano scaturire gli eventi tipici del reato, sia quando si sia agito accettando il rischio che tali eventi si verifichino».

fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

giovedì 9 novembre 2017

Cyberbullismo: profili innovativi e aspetti problematici della nuova legge

E' dal 18 giugno 2017 che la Legge 29 maggio 2017, n. 71 recante "Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno del cyberbullismo", è in vigore. Legge approvata all’unanimità in via definitiva alla Camere a due anni dal primo via libera. Tale legge è diventata lo strumento normativo apri fila a livello Europeo dedicato al contrasto del fenomeno del cyberbullismo.
Il quadro di riferimento che potrebbe fornire la matrice di interpretazione del fenomeno in questione, dovrebbe essere rintracciato da un lato nel cambiamento del contesto sociale e del modello di società, dall’altro nel rapporto che i giovani intrattengono con le nuove tecnologie comunicative, strumenti fondamentali nella vita di tutti i giorni, ma indispensabili anche per porre in essere atti di violenza fisica o psicologica.
La telefonia mobile, arricchitosi di strumenti di comunicazione in rapida evoluzione permette una trasmissione in tempo reale di dati e reciproche conoscenze. Con un telefonino è infatti possibile inviare messaggi di vario tipo, allegare fotografie, gestire la posta, collegarsi ai social networks, navigare sulla rete, etc. Il cellulare ha quindi superato l’originaria funzione del telefono di parlare a distanza, ma ha aumentato in modo significativo le sue potenzialità, soprattutto mediante l’interazione con il web. Diffusosi in maniera capillare nella popolazione, il cellulare si presta però anche a essere, come detto, potenziale veicolo di comportamenti, oltre che offensivi, anche molesti, nei confronti degli interlocutori.
La configurabilità del reato di molestia in caso di invio di sms
Nell’ultimo decennio, l’utilizzo del telefonino per scopi illeciti ha impegnato dottrina e giurisprudenza nel tentativo di apprestare strumenti di tutela compatibili con gli strumenti normativi vigenti, solo in epoca recentissima il legislatore ha iniziato a muovere i primi passi.
Il legislatore ha, dunque, attribuito esplicito rilievo penale a certi abusi, soffermandosi su una fattispecie del codice penale in cui è contemplata la parola “telefono” ovvero il reato di molestia o disturbo alla persona ex art. 660 c.p.
La Suprema Corte ha affermato la configurabilità del reato ex art. 660 c.p. nel caso di sms spediti al destinatario “col mezzo telefono”, specie se reiterati, possono avere natura invasiva dell’altrui serenità.
Come affermato dal Supremo Collegio in una successiva pronuncia, anche la ricezione di un sms al pari di una qualsiasi telefonata molesta, produce un suono che incide, soprattutto se reiterato, sulla tranquillità del destinatario, provocandogli quella sgradevole percezione de visu e de auditu che costituisce l’obiettivo finale della condotta illecita.
La definizione di cyberbullismo
Utile a tale trattazione è la definizione del cyberbullismo, secondo il co. 2 dell’art. 1 della legge, con questa espressione si intende "qualunque forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto d'identità, alterazione, acquisizione illecita, manipolazione, trattamento illecito di dati personali in danno di minorenni, realizzata per via telematica, nonché la diffusione di contenuti on line aventi ad oggetto anche uno o più componenti della famiglia del minore il cui scopo intenzionale e predominante sia quello di isolare un minore o un gruppo di minori ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso, o la loro messa in ridicolo".
La differenza tra il bullismo (tradizionale) e il cyberbullismo
Il bullismo è un fenomeno che si manifesta in vari modi, ma con l’avanzamento delle nuove tecnologie il suo modo di manifestarsi si è evoluto facendosi strada attraverso i mezzi di comunicazione ed è per questo che oggi si parla di cyberbullismo. Il cyberbullismo viene considerato un’evoluzione del bullismo tradizionale ma, pur condividendo con essi alcune caratteristiche, se ne differenzia in molti aspetti.
In genere il fenomeno del bullismo si fonda sull’aggressività che si manifesta attraverso una forma di prepotenza intenzionale, esercitata dall’aggressore, che va a creare un’asimmetria di potere, eseguita nel tempo, provocando elevate sofferenze di vario tipo alla vittima.
Mentre nel fenomeno del cyberbullismo (o bullismo elettronico), l’aggressività è imposta attraverso le abilità e le competenze acquisite nelle nuove tecnologie, ossia attraverso l’uso del pc o degli smartphone e altri dispositivi di comunicazione che facilitano la diffusione di tale fenomeno, in quanto risulta facilmente possibile diffondere messaggi, informazioni, video (facendoli divenire anche virali) con l’intento di umiliare la dignità delle altre persone e con l’obiettivo principale di molestare, danneggiare, svalutare, disprezzare un individuo o gruppo di persone.
Obiettivo della legge
La legge ha la ratio di contrastare il fenomeno del cyberbullismo in tutte le sue manifestazioni, con azioni a carattere preventivo e con una strategia di attenzione, tutela  ed educazione nei confronti dei minori coinvolti, sia nella posizione di vittime sia in quella di responsabili di illeciti, assicurando l'attuazione degli interventi senza distinzione di  età  nell'ambito delle istituzioni scolastiche (art. 1 co. 1).
Le novità della legge
L’art.1 della legge stabilisce che ciascun minore ultraquattordicenne, nonché ciascun genitore o soggetto esercente la responsabilità del minore che abbia subito taluno degli atti di cui alla nozione di cyberbullismo specificata dalla presente legge, può inoltrare al titolare del trattamento o al gestore del sito internet o del social media un'istanza per l'oscuramento, la rimozione o il blocco di qualsiasi altro dato personale del minore, diffuso nella rete internet, previa conservazione dei dati originali, anche qualora le condotte della presente legge, da identificare espressamente tramite relativo URL (Uniform resource locator), non integrino le fattispecie previste dall'articolo 167 del Codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al D.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, ovvero da altre norme incriminatrici. Qualora, entro le ventiquattro ore successive al ricevimento dell'istanza, il soggetto responsabile non abbia comunicato di avere assunto l'incarico di provvedere all'oscuramento, alla rimozione o al blocco richiesto, ed entro quarantotto ore non vi abbia provveduto, o comunque nel caso in cui non sia possibile identificare il titolare del trattamento o il gestore del sito internet o del social media, l'interessato può rivolgere analoga richiesta, mediante segnalazione o reclamo, al Garante per la protezione dei dati personali, il quale interviene entro quarantotto ore dal ricevimento della richiesta.
Con la nuova legge, è istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, un tavolo tecnico per la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo, del quale fanno parte rappresentanti dei Ministeri interessati, del Garante per l'infanzia e l'adolescenza, del Comitato di applicazione del codice di autoregolamentazione media e minori, del Garante per la protezione dei dati personali, di associazioni con comprovata esperienza nella promozione dei diritti dei minori e degli adolescenti e nelle tematiche di genere, degli operatori che forniscono servizi di social networking e degli altri operatori della rete internet, una rappresentanza delle associazioni studentesche e dei genitori e una rappresentanza delle associazioni attive nel contrasto del bullismo e del cyberbullismo.
Il piano del tavolo viene integrato con un apposito codice, definito dalla legge “codice di co-regolamentazione per la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo”, a cui devono attenersi gli operatori che forniscono servizi di social networking e gli altri operatori della rete internet. Associato a tale codice è istituito un comitato di monitoraggio al quale è assegnato il compito di identificare procedure e formati standard per l'istanza di cui all'articolo 2, comma 1, nonché di aggiornare periodicamente, sulla base delle evoluzioni tecnologiche e dei dati raccolti dal tavolo tecnico, la tipologia dei soggetti ai quali è possibile inoltrare la medesima istanza secondo le modalità disciplinate.
Si tratta di una misura accessoria caratterizzata da una chiara ratio protettiva, un ulteriore strumento che l’ordinamento mette a disposizione di una categoria ristretta di soggetti ritenuti meritevoli di una protezione rafforzata, per metterli in condizione di tutelare in maniera più efficace la propria dignità ed i propri diritti, ove questi siano lesi da uno degli atti integranti la condotta rilevante ai fini della legge come “cyberbullismo”.
La legge oltre ad introdurre un sistema di richiesta oscuramento di contenuti lesivi e ad istituire tavoli tecnici sulla tematica, specifica il ruolo educativo e preventivo delle istituzioni scolastiche. Infatti in ogni istituto tra i professori sarà individuato un referente per le iniziative contro il bullismo e il cyberbullismo.
La formazione del personale scolastico prevede dunque la partecipazione di un proprio referente per ogni autonomia scolastica. Indirizzo della legge è anche la promozione di un ruolo attivo degli studenti, nonché di ex studenti che abbiano già operato all'interno dell'istituto scolastico in attività di peer education, nella prevenzione e nel contrasto del cyberbullismo nelle scuole.
La legge prevede altresì misure di sostegno e rieducazione dei minori coinvolti: un efficace sistema di governance diretto dal Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca.
Al preside spetterà informare subito le famiglie dei minori coinvolti in atti di bullismo e, se necessario, convocare tutti gli interessati per adottare misure di assistenza alla vittima e sanzioni e percorsi rieducativi per l'autore. Più in generale, il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ha il compito di predisporre linee di orientamento di prevenzione e contrasto puntando, tra l'altro, sulla formazione del personale scolastico e la promozione di un ruolo attivo degli studenti, mentre ai singoli istituti è demandata l'educazione alla legalità e all'uso consapevole di internet. Alle iniziative in ambito scolastico collaboreranno anche Polizia postale e associazioni territoriali.
Il dirigente scolastico che venga a conoscenza di atti di cyberbullismo (salvo che il fatto costituisca reato) deve informare tempestivamente i soggetti che esercitano la responsabilità genitoriale o i tutori dei minori coinvolti e attivare adeguate azioni di carattere educativo.
Ammonimento
In caso di condotte di ingiuria (art. 594 c.p.), diffamazione (art. 595 c.p.), minaccia (art. 612 c.p.) e trattamento illecito di dati personali (art. 167 del Codice della privacy) commessi mediante internet da minori ultraquattordicenni nei confronti di altro minorenne, fino a quando non è proposta querela o non è presentata denuncia è applicabile la procedura di ammonimento da parte del Questore. A tal fine il Questore convoca il minore, insieme ad almeno un genitore o ad altra persona esercente la responsabilità genitoriale; gli effetti dell'ammonimento cessano al compimento della maggiore età (art. 7).
Aspetti critici
La legge sul contrasto al cyberbullismo è stata, in linea di massima, salutata con successo dal panorama giuridico e associativo.
Ovviamente come in ogni novella, è lecito inquadrare gli aspetti critici.
In prima battuta alcune criticità riguardavano la definizione di cyberbullismo (inserita per la prima volta nel panorama italiano), la nozione pare infatti distaccarsi con rilievo da quella concepita in ambito europeo che sottolinea due elementi caratterizzanti della condotta:
uno squilibrio di potere o di forza;
la ripetizione dei comportamenti nel tempo.
si rischia dunque, con una nozione italiana così ampia, di stravolgere la condotta in sé di bullismo telematico, omnicomprendendo tutt’altro.
Prima di questa legge, come ricordato, nel nostro ordinamento non era prevista questa tipologia di tutela per i ragazzi ultraquattordicenni. Si osserva, tuttavia, come i recenti dati sul bullismo e cyberbullismo, a cura del Censis e precedentemente Istat, evidenzino la circostanza per cui il fenomeno sia esteso anche ai ragazzi minori di 14 anni (per lo più tredicenni) i quali si troverebbero, in caso di inerzia dei genitori, privi di strumenti di tutela diretta.
Da ricordare il commento di Amnesty International Italia che ha espresso soddisfazione per la legge a tutela dei minori per la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo, sottolineando, in particolare, che la legge privilegia la prevenzione, oltre all’azione di contrasto, a partire dalla scuola, e rileva in particolare il fatto che i minorenni (over 14) vittime di cyberbullismo possano agire in prima persona nella difesa dei loro diritti, in linea con l´articolo 12 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza che richiama all´ascolto del minore nelle questioni che lo riguardano.
Secondo la medesima rinomata associazione, tra i punti critici, si evidenzia come la legge non chiarisce la modalità di designazione di un referente all’interno di ogni scuola – punto chiave nell’opera di prevenzione – né è sufficientemente definito il piano di formazione di questi referenti.
Inoltre, la legge prospetta un lavoro di notevole impegno nell’ambito della prevenzione e di studio ma, proprio in questa ottica, le limitate risorse messe a disposizione potrebbero essere insufficienti a soddisfare le aspettative, pregiudicando le attività.
Conclusioni
La legge complessivamente ha sfatato la possibilità di tipo assolutamente mediatico e corrispondente alla risoluzione in fase patologica e non preventiva.
La legge se repressiva e quindi con applicazioni di aggravanti e inasprimenti di pene avrebbe soltanto determinato un peggioramento della normativa, la ratio di questo provvedimento è invece educativo.
In particolare, come confermato dalle parole del Senatore Francesco Palermo, Relatore del nuovo provvedimento approvato lo scorso 31 gennaio 2017, “un ulteriore inasprimento della normativa sanzionatoria relativa al bullismo in generale, anche quando esce dall'ambito strettamente limitato della scuola e dei minori, farebbe diventare la legge troppo ampia per essere realmente efficace. C'è già la sanzione penale per gran parte dei comportamenti di bullismo: quello che manca è un provvedimento mirato agli adolescenti in ambito scolastico”.
Lo stesso ammonimento, inserito dalla legge così come previsto nel reato di stalking, pone al centro della tutela cd. rafforzata il minore, evitando che determinate condotte sfocino direttamente nel penale, rimettendo tutto con un ammonimento orale da parte del Questore in presenza di genitori o di chi ne abbia la patria podestà.
Nel complesso, in attesa di giurisprudenza, la fiducia è da porsi pienamente nelle istituzioni scolastiche.

fonte: Cyberbullismo: profili innovativi e aspetti problematici della nuova legge | Altalex

martedì 7 novembre 2017

Locazione: recesso orale del conduttore è nullo

In primo grado, la locatrice agisce in via monitoria avverso la conduttrice al fine di ottenere la corresponsione dei canoni richiesti a cagione del recesso senza preavviso. La conduttrice si oppone, deducendo di aver preavvisato oralmente la proprietaria e di aver individuato un’altra persona che avrebbe preso il suo posto. Il tribunale accoglie l’opposizione dell’ingiunta, mentre la corte d’appello rigetta l’impugnazione della locatrice. Si giunge così in Cassazione.
La Suprema Corte accoglie il ricorso della proprietaria dell’immobile per le seguenti ragioni.
Il contratto di locazione ad uso abitativo richiede la forma scritta a pena di nullità (art. 1, c. 4, legge 431/1998). Trattasi di una nullità assoluta, rilevabile dalle parti e anche d’ufficio. Infatti, la ratio sottesa alla norma è di carattere pubblicistico, essendo volta a contrastare l’evasione fiscale che potrebbe prodursi con la conclusione di contratti orali e non registrati. In linea generale, la giurisprudenza ammette la possibilità che un contratto possa risolversi per una tacita manifestazione di volontà, tuttavia tale modalità è ammissibile solo allorché non si tratti di negozi giuridici in cui la forma scritta sia richiesta ad substantiam.
La forma per la validità del contratto costituisce un elemento essenziale di quest’ultimo (art. 1325, n. 4, c.c.), pertanto se non la si osserva, il contratto è invalido e inefficace.  Quanto esposto non collide con il principio della libertà delle forme vigente nel nostro ordinamento; il mentovato principio, infatti, ritiene che la volontà di concludere un negozio giuridico possa essere manifestata in qualunque modalità utile a comunicarla, senza necessità di ricorrere a forme particolari. Tuttavia a fianco ai contratti a forma libera esistono anche quelli a forma vincolata.
Come ricordato, il contratto di locazione abitativa rientra in quest’ultima categoria, ossia tra quei negozi per i quali la legge prescrive l’osservanza di forme peculiari.
In particolare, l’art. 3 c. 6 legge 431/1998 prevede il recesso legale, che consente al conduttore di recedere anticipatamente per gravi motivi, offrendo al locatore un preavviso di sei mesi. Preme ricordare che il recesso «è un atto negoziale unilaterale e recettizio che richiede la stessa forma prescritta per il contratto revocato». Nella prassi, si comunica tramite raccomandata con avviso di ricevimento, in difetto il conduttore è tenuto alla corresponsione del risarcimento del danno subito dal locatore per l’anticipata restituzione dell’immobile.
Il regolamento contrattuale può prevedere ulteriori ipotesi di recesso (art. 4, c. 1, Legge 392/1978), trattasi del recesso convenzionale, da comunicarsi con un preavviso di 180 giorni a mezzo raccomandata. Invero, si ritiene che la forma possa essere diversa dalla missiva a.r., purché la modalità prescelta sia idonea ad attestare l’avvenuta ricezione da parte del locatore (ad esempio, una notifica a mezzo ufficiale giudiziario). La clausola che prevede il recesso convenzionale spesso è accompagnata da una multa penitenziale (art. 1386 c.c.), ovverosia una somma che viene versata al locatore come corrispettivo del recesso. Le parti, infatti, possono prevedere che il recesso non sia gratuito, ma che abbia un “prezzo”.
Torniamo ora al tema da cui siamo partiti.
La Suprema Corte, esaminata la fattispecie oggetto di scrutinio, ha enunciato il seguente principio di diritto: «il contratto di locazione ad uso abitativo, soggetto all'obbligo di forma scritta ai sensi dell'art. 1, comma 4, della I. n. 431 del 1998, deve essere risolto con comunicazione scritta, non potendo, in questo caso, trovare applicazione il principio di libertà delle forme, che vale solamente per i contratti in forma scritta per volontà delle parti e non per quelli per i quali la forma scritta sia prescritta dalla legge ad substantiam». Pertanto, ne consegue che sia nullo l’accordo dedotto dalla conduttrice, secondo la quale ella si sarebbe accordata oralmente con la locatrice circa la rinunzia al preavviso di recesso in forma scritta previsto dal contratto.

fonte: Locazione: recesso orale del conduttore è nullo | Altalex

Rottamazione cartelle, al via il servizio online

Collegandosi al portale dell’Agenzia delle Entrate Riscossione è possibile richiedere l’elenco delle cartelle “rottamabili” e presentare la domanda senza necessità di PIN e password.
Al via i nuovi servizi web messi a punto dall’Agenzia delle Entrate-Riscossione per far fronte alla novità in materia di rottamazione delle cartelle: a partire da ieri è operativo il progetto digitale “Fai D.A. te”, dove D.A. sta per Definizione Agevolata, che permette di richiedere l’elenco delle cartelle “rottamabili” e presentare la domanda di accesso dal portale, senza necessità di pin e password.
Modalità. Collegandosi all’area libera del sito di Agenzia delle entrate-Riscossione si può, infatti, presentare online il modello DA-2017, cioè la domanda per “rottamare” i carichi affidati all’agente della riscossione dal 1° gennaio al 30 settembre 2017. A tal fine occorrerà inserire i riferimenti alle cartelle o agli avvisi che si vogliono “rottamare” e allegare i documenti di riconoscimento (documento di identità e dichiarazione sostitutiva attestante la qualifica del dichiarante). Dopo aver visionato il riepilogo dei dati, sarà possibile indicare se si intende pagare in un’unica soluzione oppure a rate.
Un’altra funzione dei nuovi servizi consente di richiedere l’elenco delle cartelle che possono essere “rottamate”. Anche per accedere a questo strumento è necessario allegare i documenti di riconoscimento (documento di identità e dichiarazione sostitutiva attestante la qualifica del dichiarante).
Tramite “Fai D.A. te”, inoltre, coloro che si sono visti respingere la domanda di adesione alla Definizione agevolata 2016, perché non erano in regola con il pagamento di tutte le rate scadute al 31 dicembre 2016 per le dilazioni in corso al 24 ottobre 2016, possono presentare una domanda di regolarizzazione che, si ricorda, può essere trasmessa sino al 31 dicembre. Il modello DA-R può essere presentato anche dall’area riservata del portale istituzionale o presso gli sportelli dell’Agenzia delle Entrate-Riscossione.
I nuovi servizi online consentono, infine, chi non ha pagato la prima (o unica) rata prevista a luglio o quella di settembre 2017 può richiedere, sempre allegando i documenti di riconoscimento, la copia della comunicazione delle somme dovute e i bollettini di pagamento per procedere al versamento (da effettuarsi entro il 30 novembre).

Fonte: www.fiscopiu.it/Rottamazione cartelle, al via il servizio online - La Stampa

Tribunale Mantova: no alle foto dei figli minorenni sul web senza consenso di entrambi i genitori

Un genitore non può pubblicare sui social network foto dei figli minorenni senza il consenso dell’altro genitore, e le foto che sono già in rete vanno immediatamente rimosse. Lo ha stabilito il Tribunale di Mantova con una sentenza del giudice Mauro Bernardi riguardante il caso di due coniugi separati in cui il padre aveva richiesto la revisione dell’accordo sull’affido dei bambini e la loro residenza con la madre.
Nel ricorso l’uomo ha sottolineato il fatto che la madre, a cui erano affidati i due figli (uno di tre anni e mezzo e un altro di un anno e mezzo) aveva deciso di pubblicare le loro foto sul web. Il padre si era opposto e, quando le ha viste ancora sui social network, è ricorso al giudice. Il quale ha ordinato alla madre di non pubblicare più in rete le foto dei suoi figli e di rimuovere tutte quelle già presenti, richiamandosi all’articolo 10 del codice civile sulla tutela dell’immagine, ad alcuni articoli del decreto legislativo 196 del 2003 sulla tutela della riservatezza dei dati personali, sulla convenzione di New York, ratificata dall’Italia nel 1991, sulla tutela dei minori e sul regolamento dell’Unione Europea del 2016 che entrerà in vigore l’anno prossimo.
«L’inserimento di foto di minori sui social network costituisce comportamento potenzialmente pregiudizievole per essi - scrive il giudice - in quanto ciò determina la diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate e avvicinarsi ai bambini» non potendo, inoltre, trascurare il pericolo che qualcuno «con procedimenti di fotomontaggio», ne tragga «materiale pedopornografico da far circolare tra gli interessati». Nonostante questo il giudice non ha ritenuto di modificare l’accordo sui figli.

fonte: Tribunale Mantova: no alle foto dei figli minorenni sul web senza consenso di entrambi i genitori - La Stampa

Scuola, non è condannabile chi non manda i figli alle scuole medie

E' vero che esiste l'obbligo scolastico, ma è altrettanto vero che non esiste alcuna norma che condanni chi non lo rispetta. E' il motivo per il quale la Corte di cassazione ha scagionato due genitori filippini che "senza giustificato motivo" non avevano iscritto il proprio figlio minorenne a scuola. La terza sezione penale della Cassazione ha annullato con rinvio la decisione del giudice di pace di Salerno che aveva dichiarato la prescrizione del reato di "inosservanza dell'obbligo di istruzione elementare dei minori", previsto dall'articolo 731 del codice penale, contestato ai due genitori. La Cassazione ha stabilito che non va incontro a una sanzione penale il genitore che non iscrive il figlio alla scuola media. Anche se l'obbligo scolastico e' stato ampliato negli anni passati, "nessuna norma penale" ne punisce "l'inosservanza" per quanto riguarda "la scuola media anche inferiore". La Suprema Corte ha accolto il ricorso della Procura generale salernitana, osservando che i termini di prescrizione non fossero ancora maturati, e, rinviando gli atti al tribunale di Salerno, ha ordinato di valutare quale fosse "l'obbligo scolastico inosservato", perché non specificato nei documenti trasmessi alla Corte. La Cassazione ricorda che bisogna tener conto che "la contravvenzione" prevista dall'articolo 731 cp "è configurabile solo in caso di inosservanza dell'obbligo di istruzione elementare". Si legge nella sentenza depositata oggi che con l'entrata in vigore del decreto legislativo del 2010 - che ha abrogato alcune disposizioni di legge statali, nell'ambito delle norme sulla semplificazione varate nel 2005 - "è venuta meno la previsione che consentiva di estendere l'ambito applicativo dell'articolo 731 del codice penale anche alla violazione dell'obbligo scolastico della scuola media inferiore". Attualmente, dunque, la riforma Moratti, in vigore dal 2003, "stabilisce l'obbligo scolastico per almeno 12 anni a partire dalla iscrizione alla prima classe della scuola primaria o, comunque - spiegano i supremi giudici - sino al conseguimento di una qualifica di durata almeno triennale entro il diciottesimo anno di età; e tuttavia, nessuna norma penale punisce l'inosservanza dell'obbligo scolastico della scuola media anche inferiore".

fonte: Scuola, non è condannabile chi non manda i figli alle scuole medie - News - Italiaoggi

lunedì 6 novembre 2017

Divorzio: mantenimento non dovuto se la ex si rifiuta di lavorare

In caso di divorzio nessun assegno di mantenimento è dovuto alla ex moglie che si rifiuta di lavorare.
Lo ha stabilito la Sesta Sezione Civile della Cassazione, nell'ordinanza 25697/2017.
Nella vicenda processuale in esame, gli ermellini hanno accolto il ricorso dell’ex coniuge contro il decreto, emesso dalla Corte di appello, circa l'attribuzione dell'assegno di mantenimento per la ex moglie e per i due figli, nati nel 1998 e nel 2000 e collocati presso la madre.
In particolare, il ricorrente, lamentava che la Corte di merito, nel confermare la statuizione del primo Giudice, aveva interamente omesso di esaminare le circostanze, pur decisive ex art. 5, comma 6, legge n. 898/1970, dell'inerzia della ex-coniuge nella ricerca di un impiego e del rifiuto dalla medesima opposto ad una concreta opportunità lavorativa presentatale.
In sede di legittimità, gli ermellini, concludono per la fondatezza di tale doglienza, alla stregua del consolidato principio secondo cui deve trovare adeguata considerazione, nella decisione del giudice del merito, l'attitudine a procurarsi un reddito da lavoro, insieme ad ogni altra situazione suscettibile di valutazione economica, da parte del coniuge che pretenda l'assegno di mantenimento a carico dell'altro.
Il principio giurisprudenziale sopra richiamato, secondo la Corte, rileva maggiormente in sede non di prima separazione, ma di definitiva cessazione della relazione coniugale in seguito al divorzio, e, come nel caso in esame, di figli ormai grandi, i quali, dunque, non necessitino della costante presenza fisica di un adulto.
Secondo i giudici del supremo Collegio, quindi, in sede di merito l’organo giudicante, al fine di stabilire la sussistenza dei presupposti dell’assegno di mantenimento e determinarne il quantum, deve tenere conto della effettiva possibilità di svolgimento di un'attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale ed ambientale, pur senza che assumano rilievo mere situazioni astratte o ipotetiche.
La sentenza impugnata, pertanto viene cassata, con rinvio, affinché il giudice di merito proceda, alla luce del richiamato principio, ad un nuovo apprezzamento della vicenda esaminata e provveda di conseguenza, a determinare la riduzione o la soppressione dell'assegno di mantenimento, tenuto conto della capacità lavorativa della ex moglie e del rifiuto, ove ritenuto provato, della medesima rispetto ad occasioni di lavoro concretamente presentatesi.

Fonte: Divorzio: mantenimento non dovuto se la ex si rifiuta di lavorare | Altalex

Giudici di pace e onorari ancora in sciopero dal 21 al 25 novembre

Prosegue la protesta dei giudici di pace e di tutta la magistratura onoraria di tribunale (giudicante e requirente) contro la riforma Orlando.
Dopo le astensioni degli scorsi mesi (le ultime ad ottobre e luglio), con un comunicato diramato oggi le associazioni di categoria hanno proclamato una nuova astensione dalle udienze civili e penali per i giorni dal 21 al 25 novembre.
Ricordiamo che con il decreto legislativo 13 luglio 2017, n. 116 è stata attuata la riforma della magistratura onoraria, la quale però ha riscosso critiche unanimi da tutte le categorie rappresentative dei giudici di pace e dei magistrati onorari di tribunale.
Alle ragioni che hanno accompagnato le precedenti proteste (assimilazione delle retribuzioni dei magistrati ai redditi da lavoro autonomo; trasformazione del giudice onorario in "magistrato privato a partita iva”; trattamento economico e previdenziale “discriminatorio”; vulnus all’indipendenza della magistratura onoraria) si aggiunge adesso anche il motivo legato ad una discriminazione ulteriore, tutta interna alla categoria, tra giudici di pace e magistrati onorati di tribunale, con questi ultimi sacrificati sul piano economico rispetto ai primi.

Fonte: Giudici di pace e onorari ancora in sciopero dal 21 al 25 novembre | Altalex

Omofobia, la legge dimenticata: è ferma in Senato da 4 anni

Fra le prime dieci del «Chi l’ha visto» delle grandi riforme italiane c’è di sicuro la legge contro l’omofobia, primo firmatario il sottosegretario Pd Ivan Scalfarotto, approvata dalla Camera il 19 settembre del 2013, trasmessa quattro giorni dopo al Senato e da quel momento sprofondata nel nulla, insabbiata da una valanga di emendamenti e dalla consapevolezza che gli equilibri di palazzo Madama non avrebbero mai permesso di approvarla.
Finita lì, quindi. E a pochi mesi ormai dalla fine della legislatura è chiaro che è finita del tutto, non esiste alcuna speranza: nemmeno i governi Prodi e Gentiloni sono riusciti a dare all’Italia una legge contro l’omofobia.
«È una delle molte leggi votate alla Camera e non al Senato - spiega Ivan Scalfarotto - Ius soli, apologia del fascismo, cognome delle madri ai figli sono solo alcuni degli esempi di altre leggi votate a Montecitorio e mai passate a Palazzo Madama. Purtroppo al Senato il Pd da solo non ha i numeri e raramente abbiamo potuto contare, per l’approvazione di leggi sui diritti, sulla collaborazione delle altre forze politiche, a partire dai Cinque Stelle che hanno dimostrato con chiarezza in questo senso di essere una forza populista di destra».
De profundis, quindi, per la legge contro l’omofobia e anche per la lotta contro una cultura che è sempre più presente nella società italiana. Marilena Grassadonia, presidente dell’Associazione Famiglie Arcobaleno ne è delusa ma non sorpresa. «Questa legislatura ha archiviato il tema dei diritti dopo il via libera alle unioni civili. È stato un grande errore. La legge contro l’omofobia è fondamentale, ogni giorno ci troviamo di fronte a casi di ragazzi e ragazze che hanno difficoltà a raccontare sé stessi. Hanno il diritto di crescere in serenità ma questo Paese non glielo permette. Anzi, gli episodi di omofobia in questi anni sono persino aumentati. Era prevedibile. La legge sulle unioni civili ha aiutato a portare alla luce le coppie omosessuali e ha costretto tutti a fare i conti con una realtà che fa parte della vita di ogni giorno. Ha però anche fatto emergere la parte più conservatrice degli schieramenti politici, delle associazioni e della società, quella che vuole bloccare questo processo di consapevolezza. Lo scontro si è fatto più aspro, i toni sono diventati molto più aggressivi. La politica deve capire che le unioni civili non bastano, che bisogna incidere nella cultura delle persone e deve assumersi la responsabilità di tutto questo con iniziative che partano innanzitutto dalle scuole. Purtroppo non ci sembra che si stia facendo molto in questo senso. Le linee guida presentate dalla ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli sono vaghe e generiche, una dichiarazione d’intenti dall’impostazione sia politica che educativa e visibilmente segnata da compromessi e omissioni che rischiano di depotenziarne e svuotarne efficacia e significato».
Che il percorso della legge non sarebbe stato semplice era emerso fin dall’inizio. Già alla Camera c’erano stati scontri e discussioni anche aspre fino a far dimettere uno dei relatori. Il provvedimento però era stato approvato anche se non a stragrande maggioranza: con 228 voti, contrari 108 e astenuti 57.
A votare a favore erano stati i deputati del Pd e di buona parte di Scelta Civica, ma aveva anche ricevuto parecchie critiche da destra e da sinistra per la questione dell’estensione anche all’omofobia e alla transfobia dell’articolo 3 della legge Mancino, la legge del 1993 che prevede un’aggravante della pena. Un problema che al Senato si è risolto alla radice. Insabbiando la legge.

fonte:Omofobia, la legge dimenticata: è ferma in Senato da 4 anni - La Stampa

Violenza sessuale: costituisce ''induzione'' qualsiasi forma di sopraffazione della vittima

 L’induzione necessaria ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale non si identifica solo con la persuasione subdola ma si...