lunedì 27 febbraio 2017

Multa presa all’estero? Nessuna scusa: bisogna pagare

Quando le multe arrivano dall’estero conta la sostanza, non la forma e pertanto, se fondate nel merito, vanno pagate per non rischiare di incorrere nella stessa procedura di riscossione che vale per le sanzioni comminate in Italia. L’ufficio di Bolzano del Centro europeo consumatori (Cec), al quale si sono rivolti numerosi automobilisti raggiunti da una o più contravvenzioni per infrazioni commesse fuori dall’Italia, fuga ogni dubbio. Il cosiddetto “principio di reciprocità” sul riconoscimento delle sanzioni pecuniarie negli stati dell’Unione Europea è ormai in vigore da quasi un anno (da marzo 2016) e non è derogabile.
Alcuni dei casi sottoposti al Cec riguardano multe ricevute da Francia, Austria, Germania, Ungheria e Croazia. Gli automobilisti (anche quelli stranieri “pizzicati” in Italia) hanno l’obbligo di pagare la contravvenzione, a meno che non siano in grado di contestarla nel merito. Solo che le procedure sono talvolta complesse e, naturalmente, i ricorsi vanno presentati entro tempi specifici e generalmente nella lingua del paese che ha inviato la multa. Infatti, anche per la notifica valgono le norme del paese dove è stata commessa l’infrazione.
Gli italiani, per esempio, sperano di evitare il pagamento di una sanzione perché la contravvenzione dall’estero è stata inviata per posta ordinaria, ma sbagliano. E sbagliano anche gli stranieri – il Cec di Bolzano si occupa di vertenze transfrontaliere e può essere contattato anche da cittadini di altre nazioni - che ritengono di non dover saldare il conto delle autostrade italiane perché la stanga si è alzata comunque.
“Ogni sanzione amministrativa giustificata va pagata, indipendentemente che si tratti di una multa italiana o straniera”, spiega Monika Nardo, la funzionaria del Cec che si occupa di questi casi. Con il recepimento della direttiva 2005/214/GAI anche l’Italia ha eliminato ogni ostacolo all’eseguibilità delle contravvenzioni estere. Chi decide di non pagare rischia di incorrere in tutta la trafila burocratico-amministrativo-giudiziaria del caso, che può arrivare fino al pignoramento dei beni. L’Italia, come gli altri paesi, riconosce la validità delle sanzioni e la riscossione avviene pertanto con le medesime modalità previste per le multe emesse sul territorio nazionale.
Dai paesi membri sono frequenti solleciti di pagamento di parcheggi o pedaggi, con casi che riguardano pure gli stranieri in Italia, che ad esempio “dimenticano” di versare il tributo per l’accesso alle zone a traffico limitato. Il suggerimento, oltre a controllare bene dove si passa e quando e per quanto tempo si lascia l’auto, è quello di conservare tutti gli scontrini e gli eventuali giustificativi per dimostrare l’avvenuto versamento alle società di recupero crediti che vengono incaricate di passare all’incasso. Spesso, ricorda il Cec, è possibile trovare un accordo stragiudiziale.

Fonte: www.lastampa.it/Multa presa all’estero? Nessuna scusa: bisogna pagare - La Stampa

Non paghi la fornitura di gas? La società deve poter staccare l’impianto

La società di fornitura del gas ha diritto ad accedere agli impianti per la disalimentazione in caso di cliente moroso: i pochi minuti necessari al personale tecnico per disalimentare materialmente il PDR (ovvero il codice identificativo dell’utenza) non possono costituire, infatti, una lesione grave del diritto alla libertà del domicilio.
Il caso. Una donna stipula con una società un contratto per la fornitura del gas, ma si rivela morosa. Detta società richiede dunque alla società di distribuzione di attivarsi per sospendere l’erogazione del servizio ma, a causa dell’opposizione della donna, i tecnici incaricati si ritrovano impossibilitati ad accedere agli impianti. La società comunica quindi alla donna, tramite raccomandata, di avvalersi della clausola risolutiva espressa prevista dalle condizioni generali di vendita, esortandola a procedere alla cessazione amministrativa per morosità relativa al PDR; contestualmente, avvia nei confronti della cliente la procedura di default. Ora la società si rivolge al Tribunale per ottenere il riconoscimento del diritto di procedere alla disalimentazione del contatore.
Vincolatività della normativa. Nel rivolgersi al Giudice, la società aveva rispettato l’obbligo impostole dalla normativa di riferimento secondo la quale «in forza della cessazione amministrativa per morosità a seguito di impossibilità di interruzione dell’alimentazione del punto di riconsegna, l’impresa di distribuzione applica la disciplina relativa alle iniziative giudiziarie di cui all’art. 13-bis», norma che prevede che «l’impresa di distribuzione è tenuta a porre in essere le iniziative giudiziarie finalizzate ad ottenere la disalimentazione fisica del PDR».
Il Giudice, nel ricordare come la l. n. 481/1995 abbia trasferito all’Autorità per l’Energia elettrica e Gas ogni funzione regolamentativa e di controllo e nell’evidenziare come le leggi di settore attribuiscano all’Autorità anche veri e propri poteri regolamentari, riconosce la vincolatività della normativa secondaria sopra riportata: l’intento di questa scelta, precisa il Giudice, coincide con quello perseguito dalla legge stessa. Trattandosi di un settore molto tecnico, è necessario infatti consentire all’Autorità di poter adeguare costantemente il contenuto delle regole all’evoluzione del sistema.
Violazione di domicilio? Il Tribunale, pur ammettendo che l’esercizio del diritto alla disalimentazione potrebbe comportare l’accesso, anche in via forzata, ad un luogo riconducibile alla nozione di domicilio, ritiene che il riconoscimento del diritto di cui è causa non sia in contrasto con il diritto all’inviolabilità del domicilio, costituzionalmente garantito dall’art. 14 Cost. Chiarisce il Giudice che l’obiettivo della normativa è di perseguire l’interesse pubblico, evitando gli aumenti dovuti al protrarsi del default che, in virtù dell’art. 31-bis TVG, sono posti quasi integralmente a carico della collettività; l’intervento della società potrebbe quindi essere letto anche come una vera e propria attività di utilità sociale.
Gravità della lesione e serietà del danno. Il Tribunale ricorda, inoltre, come la Cassazione avesse già posto, per quanto concerne la potenziale lesione di diritti inviolabili, il filtro della gravità della lesione e della serietà del danno, con l’intento di bilanciare il principio di solidarietà verso la vittima e il principio di tolleranza: il risarcimento del danno non patrimoniale deve essere quindi dovuto solo in caso di superamento del livello di tollerabilità, posta comunque la condizione di non futilità del pregiudizio. Entrambi i requisiti, chiarisce l’Ordinanza, devono essere accertati dal Giudice «secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico». Nella fattispecie concreta, i pochi minuti necessari al personale tecnico per disalimentare materialmente il PDR non possono costituire una lesione grave del diritto alla libertà del domicilio, né tantomeno potrebbero causare un eventuale danno consequenziale “serio”.
Contratto a favore di terzi. Il Tribunale ricorda, infine, come le condizioni generali di vendita, approvate dal cliente, nel regolare i rapporti giuridici tra la società di vendita del gas e l’utente finale, assumano rilievo anche nei confronti della società di distribuzione. In particolare l’art. 6 prevede che «il Cliente deve consentire in qualsiasi momento l’accesso agli impianti del Distributore Locale per la loro verifica, sostituzione e/o spostamento e per la lettura del gruppo di misura». Questo costituirebbe un vero e proprio diritto di accedere agli impianti, se interpretato in relazione all’art. 1363 c.c., rendendo dunque riconducibile la fattispecie alla figura del contratto a favore di terzi.
In conclusione, è da rilevare che in ogni caso l’accesso al domicilio, essendo preordinato alla verifica, sostituzione e spostamento dei gruppi di misura, risponde ad un concreto interesse della società venditrice di prevenire malfunzionamenti e possibili conseguenti profili di responsabilità civile.
Il giudice quindi accoglie il ricorso e dichiara, con ordinanza provvisoriamente esecutiva,  il diritto della società di procedere alla disalimentazione del PDR, ordinando alla cliente morosa di consentire agli operatori di disinstallare l’impianto.

Fonte: www.ridare.it /Non paghi la fornitura di gas? La società deve poter staccare l’impianto - La Stampa

sabato 25 febbraio 2017

Non bastano 22 sanzioni disciplinari per il licenziamento

Rimesso in discussione l’esonero deciso da un’azienda di trasporto pubblico nei confronti di un suo autista. Necessario valutare con attenzione il comportamento tenuto dal dipendente. Insufficiente il richiamo alle numerose sanzioni.
Sanzioni disciplinari a ripetizione per il lavoratore, autista per una ditta di trasporto pubblico: ben 22 in appena 3 anni. Tale dato, però, non è sufficiente per parlare di scarso rendimento. Messo così in discussione il licenziamento deciso dalla società (Cassazione, sentenza n. 3855/2017).
Scarso rendimento. Diversi i comportamenti del dipendente censurati dall’azienda. Nello specifico, si parla di «ritardi, anche di notevole entità, nel prendere servizio; mancato rispetto degli orari di partenza e di marcia dei mezzi di servizio condotti; mancata effettuazione delle fermate di servizio; inottemperanza a disposizioni aziendali; omessa giustificazione di assenze». Consequenziale, nell’ottica societaria, è l’«esonero» dell’autista per «scarso rendimento».
Il provvedimento aziendale è ritenuto corretto in Appello. Ciò perché «lo scarso rendimento che giustifica l’esonero definitivo dal servizio può essere integrato dal cumulo di infrazioni disciplinari pregresse».
Sanzioni. Per i Giudici, in sostanza, il lavoratore si è reso colpevole di una «grave inadempienza», sotto il «profilo qualitativo», ai «doveri di diligenza, puntualità e responsabilità relativi alle mansioni», mettendo in pratica comportamenti risultati «pregiudizievoli per il regolare svolgimento del servizio di trasporto pubblico».
Meno certezza, invece, esprimono i magistrati della Cassazione. A loro avviso, difatti, non si può parlare di «scarso rendimento» alla luce del «cumulo di sanzioni disciplinari subite dal dipendente».
Necessario perciò un nuovo esame della condotta tenuta dall’autista, prima di pronunciarsi sulla legittimità dell’«esonero» deciso dall’azienda.

Fonte :www.dirittoegiustizia.it/Non bastano 22 sanzioni disciplinari per il licenziamento - La Stampa

Accordi di separazione: nullo il patto sull’assegno di divorzio

La corresponsione di una rilevante somma di denaro non può essere arbitrariamente valutata dal giudice come anticipazione sia dell'assegno di separazione che di divorzio.
La disposizione di cui all’art. 5 legge 898/1970 non è applicabile al di fuori del giudizio di divorzio, e gli accordi di separazione, dovendo essere interpretati "secondo diritto", non possono implicare rinuncia all'assegno di divorzio.
L'accordo sulla corresponsione "una tantum" richiede sempre una verifica di natura giudiziale.
La Corte di Cassazione - sentenza 30 gennaio 2017, n. 2224 - ha cassato la sentenza della Corte di Appello di Milano che aveva desunto dal pagamento di un’ingente somma di denaro avvenuta in corso di separazione tra i coniugi, l’esistenza di un accordo di corresponsione di mantenimento una tantum.
Il caso
Nell’ambito del giudizio di divorzio, la Corte d’appello di Milano aveva riformato la sentenza di primo grado revocando alla moglie l’assegno di mantenimento, dichiarando cessato l’obbligo di mantenimento del figlio maggiore e riducendo il mantenimento del figlio studente.
La Corte territoriale aveva posto a fondamento della propria decisione di revoca dell’assegno divorzile, la circostanza, avvenuta in corso di separazione personale dei coniugi, dell’avvenuto versamento da parte del marito in favore della moglie, della somma di quasi due milioni di euro.
Così facendo egli avrebbe inteso corrispondere alla donna quanto le sarebbe spettato a titolo di assegno di mantenimento e di assegno divorzile, dovendosi considerare che il predetto importo, per la sua consistenza, assorbiva, per almeno vent'anni, l’originaria richiesta di un assegno divorzile di 7.000 euro mensili già avanzata.
Quanto al figlio maggiorenne studente, non ancora autosufficiente, avendo lo stesso abbandonato gli studi universitari ed essendo alla ricerca di un lavoro, il padre avrebbe dovuto contribuire al suo mantenimento nella misura di 1.500 euro mensili, somma predeterminata sulla base della retribuzione media di un laureato al primo impiego.
La sentenza della Cassazione
La Corte suprema ha accolto tutti i motivi di ricorso evidenziando la contrarietà della pronuncia della Corte Milanese a un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato.
In primo luogo non è corretto equiparare e unificare l’assegno di mantenimento nella separazione all’assegno divorzile, stante la diversità dei presupposti per il loro riconoscimento.
Ai sensi dell’art. 5 della legge sul divorzio, l'accertamento del diritto all'assegno divorzile deve essere eseguito verificando l'inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati a un tenore di vita analogo a quello avuto durante il matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto.
La liquidazione in concreto dell'assegno, se il coniuge richiedente non è in grado di mantenere con i propri mezzi il suddetto tenore di vita, va compiuta tenendo conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione e del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune, nonché del reddito di entrambi, valutando tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio (cfr. ex plurimis, Cass. Civ. 15 maggio 2013, n. 11686).
A tal fine, occorre tenere in considerazione non soltanto i redditi e le sostanze del richiedente, ma anche a quelli dell'obbligato.
La Corte territoriale ha invece valorizzato, in maniera quasi esclusiva, il fatto della corresponsione della somma di quasi due milioni di euro, avvenuta nell'anno 2006, attribuendole la valenza di anticipazione non solo dell'assegno di separazione, ma addirittura di quello di divorzio.
La valutazione, definita come arbitraria, contrasta con l'orientamento della Cassazione secondo cui gli accordi preventivi aventi ad oggetto l'assegno di divorzio sono affetti da nullità perché stipulati in violazione del principio fondamentale d’indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale, espresso dall'art. 160 c.c.
Comunque, l’accordo sulla dazione una tantum, avrebbe richiesto una verifica di natura giudiziale (Cass. Civ. 8 marzo 2012, n. 3635), che nella specie non c’è stata.
L’attribuzione di somme di denaro in favore della moglie, può rilevare ai fini dell’accertamento delle disponibilità patrimoniali della stessa, sempre che la somma sia rimasta nella sua disponibilità.
Infine, la Corte milanese avrebbe completamente omesso di valutare le condizioni economiche dell'onerato, importante imprenditore nel campo della produzione cinematografica.
Anche, per quanto attiene le decisioni circa il contributo al mantenimento dei figli maggiorenni, sono state accolte le censure della ricorrente.
Se si predetermina il contributo ancorandolo al reddito medio di un giovane laureato, si ha la totale disapplicazione del principio di proporzionalità e dei criteri stabiliti per la determinazione dell'assegno, con particolare riferimento alle esigenze attuali dei figli, al tenore di vita goduto in costanza di convivenza con i genitori, ai tempi di permanenza e alle risorse dei genitori stessi.

Fonte: www.altalex.com/Accordi di separazione: nullo il patto sull’assegno di divorzio | Altalex

Indennizzo diretto anche con più veicoli coinvolti se il responsabile è unico

Con l’ordinanza n. 3146/2017 Sez. III della Corte di Cassazione, gli ermellini hanno dato un’interpretazione estensiva dell’ambito di applicabilità del c.d. Indennizzo Diretto, previsto dall’art. 149 del Codice delle Assicurazioni.
Prima del recente arresto, infatti, era opinione pacifica che la procedura dell’Indennizzo Diretto trovasse applicazione solo in caso di sinistro tra due veicoli.
Secondo La Suprema Corte, invece, la procedura dell’indennizzo diretto “è ammissibile anche in caso di collisione che abbia riguardato più di due veicoli, con esclusione della sola ipotesi in cui oltre al veicolo dell’istante e a quello nei cui confronti questi rivolge le proprie pretese, siano coinvolti ulteriori veicoli responsabili del danno.”
Per la Cassazione, dunque, ai fini dell’applicabilità dell’indennizzo diretto non rileverebbe il numero di veicoli coinvolti bensì la ripartizione della responsabilità e, segnatamente, la circostanza che gli altri mezzi coinvolti non abbiano causato neppure in minima parte il danno. “Distingue frequenter”, direbbero gli antichi romani.
A fondamento di tale conclusione, la Corte di Cassazione argomenta con il seguente iter logico-giuridico:
a) l’art. 1 c. 1. Lettera d) del DPR 254/06 “Regolamento recante disciplina del risarcimento diretto”, definisce “sinistro” “la collisione avvenuta nel territorio della Repubblica tra due veicoli a motore (…) senza coinvolgimento di altri veicoli responsabili”, sicché è chiaro che il discrimen sia costituito dalla sussistenza di responsabilità (o meno) di altri veicoli coinvolti;
b) una simile ricostruzione si pone in coerenza con la ratio dell’art. 149 Cod. Ass.ni, che ha istituito la procedura dell’indennizzo diretto al fine di agevolare l’iter liquidativo consentendo ai danneggiati di rivolgersi direttamente alla propria assicurazione;
c) il meccanismo di rappresentanza e di compensazione tra le due Compagnie che opera alla base dell’indennizzo diretto – in virtù del quale l’Assicurazione che ha pagato può rivalersi su quella del responsabile – sarebbe applicabile anche in caso di applicazione estensiva della procedura ex art. 149 Cod. Ass.ni. Il sistema, infatti, “risulta articolato in modo tale da poter operare non solo in caso di sinistro con unico responsabile, ma anche laddove sussista la corresponsabilità del danneggiato istante, indipendentemente dall’esistenza di altri danneggiati, mentre resta escluso nel caso in cui, essendovi ulteriori soggetti responsabili, si avrebbe il coinvolgimento di una ulteriore compagnia di assicurazione”.
In caso di sinistro tra più veicoli, dunque, per rivolgere la richiesta di risarcimento nei confronti della propria assicurazione (indennizzo diretto) il danneggiato dovrà assicurarsi che la responsabilità sia di una solo delle controparti.
L’interpretazione data dalla Suprema Corte, di sicuro suadente, non solo per l’autorevolezza della Corte, ma anche per la caratura della base argomentativa, lascia spazio ad alcuni interrogativi.
Come conciliare tale interpretazione con la presunzione di corresponsabilità che l’art. 2054 c. 2 c.c. pone in capo a tutti i conducenti dei mezzi coinvolti in un sinistro? L’indennizzo diretto nel caso di sinistro tra più veicoli sarebbe, dunque, a priori una strada non percorribile, salvo prova contraria del danneggiato. In tale prospettiva, nel caso in cui fosse dimostrato un concorso di colpa tra tutte le vetture coinvolte, allora l’attore si vedrebbe dichiarare inammissibile la domanda spiegata nei confronti della propria assicurazione.
Inoltre, come conciliare tale interpretazione con il fatto che sia l’art. 149 Cod. Ass.ni che l’art. 1 del Dpr 254/06, in tema di indennizzo diretto, fanno specifico riferimento allo scontro “tra due veicoli”? Se si volesse dare una risposta diversa rispetto a quella della Cassazione, si potrebbe ragionevolmente affermare che l’espressione “senza coinvolgimento di altri veicoli responsabili” ha una funzione diversa rispetto a quella assegnatale dagli Ermellini e, segnatamente, quella di rendere applicabile la procedura dell’indennizzo diretto non a tutti i casi di scontro tra due veicoli, ma in specifico modo a quelli in cui l’incidente non si è verificato a causa della turbativa senza scontro di un altro veicolo.
 Del resto, è pacifico che l’indennizzo diretto non si applica nel caso di c.d. sinistro da turbativa senza contatto. Accedendo ad una simile ricostruzione, dunque, per l’applicazione dell’indennizzo diretto dovrebbero ricorrere contemporaneamente due presupposti: il coinvolgimento (con contatto) di soli due veicoli e l’assenza di altri mezzi responsabili.
La questione, di stretto interesse pratico/applicativo, sarà senz’altro chiarita dalla futura giurisprudenza.

Fonte: www.altalex.comIndennizzo diretto anche con più veicoli coinvolti se il responsabile è unico | Altalex

giovedì 23 febbraio 2017

Garante Privacy: no al controllo indiscriminato sui lavoratori

Il Garante della Privacy è intervenuto in materia di controlli a distanza da parte del datore di lavoro: vietati i controlli indiscriminati su e-mail e smartphone aziendali.
La vicenda. Il Garante, pronunciandosi su un caso che vedeva coinvolta una multinazionale “accusata” da un dipendente di aver acquisito informazioni private dalle mail e dal telefono aziendale anche dopo il licenziamento, ha sancito il divieto, per il datore di lavoro, di accedere in maniera indiscriminata alla posta elettronica o ai dati personali contenuti negli smartphone aziendali in dotazione al personale.
Cosa prevede la legge. La decisione si fonda sul presupposto per cui, ferma restando la facoltà del datore di lavoro «di verificare l’esatto adempimento della prestazione professionale ed il corretto utilizzo degli strumenti di lavoro da parte dei dipendenti, deve in ogni caso salvaguardarne la libertà e la dignità, attenendosi ai limiti previsti dalla normativa».
In materia di controlli a distanza, l’ordinamento non consente il ricorso ad attività idonee a realizzare, anche in via indiretta, controlli massivi, prolungati ed indiscriminati sull’attività dei lavoratori, che devono essere in ogni caso informati in modo chiaro e dettagliato, sulle modalità di utilizzo degli strumenti aziendali e sulle eventuali verifiche.

Fonte: www.lavoropiu.info/Garante Privacy: no al controllo indiscriminato sui lavoratori - La Stampa

Detenere momentaneamente la droga per proteggere il figlio è un fatto di particolare tenuità

Con la sentenza n. 7606/17 depositata il 17.02.2017 la sesta sezione penale della Corte di cassazione ha ritenuto non punibile, per la particolare tenuità del fatto, la condotta della madre che, per proteggere il figlio, abbia momentaneamente occultato alle forze dell’ordine la sostanza stupefacente che questi deteneva a fini di spaccio ed ha espresso il principio secondo cui, in presenza di determinati presupposti, la causa di non punibilità ex art. 131 bis c.p. può essere rilevata d’ufficio in cassazione, anche se non dedotta nel giudizio di appello.
Il fatto
Con sentenza emessa all’esito di giudizio abbreviato il Tribunale di Agrigento, ritenuto il fatto lieve e previa concessione delle circostanze attenuanti generiche equivalenti alla recidiva, aveva dichiarato gli imputati, rispettivamente madre e figlio, colpevoli del reato di illecita detenzione di sostanze stupefacente del tipo cocaina per gr. 4 circa, da cui erano ricavabili circa 5,1 dosi medie singole.
Proposta impugnazione, la Corte di appello di Palermo confermava in data 14 aprile 2016 la sentenza di primo grado, riformandola (in melius) solo nella parte relativa al trattamento sanzionatorio della madre, cui veniva irrogata la pena di mesi sei di reclusione ed euro 800,00 di multa, previa applicazione delle circostanze attenuanti generiche e della diminuente per il rito.
Gli imputati presentavano due distinti ricorsi in cassazione; nell’interesse del figlio veniva dedotto il vizio di motivazione nella parte in cui era stata esclusa la tesi dell’uso personale e della destinazione all’uso di gruppo della droga; nell’interesse della madre si deduceva che era rimasto indimostrato quale fosse stato il suo contributo partecipativo, dovendosi ritenere elemento neutro il fatto che la cocaina fosse stata rinvenuta nel fazzolettino di cui la donna aveva cercato (invano) di disfarsi
La decisione
La Corte ha ritenuto infondato il ricorso proposto nell’interesse del figlio, mentre ha annullato senza rinvio la sentenza della Corte d’appello di Palermo perché il reato non è punibile per la particolare tenuità del fatto.
La decisione presenta due profili di interesse.
Il primo concerne la deducibilità ed applicabilità d’ufficio in cassazione del nuovo istituto. Il secondo riguarda il riconoscimento della causa di non punibilità in relazione al reato di detenzione illecita di sostanza stupefacente.
Quanto al primo aspetto, nella decisione in esame la Corte ha espresso il principio secondo cui può essere dedotta per la prima volta in cassazione e rilevata d’ufficio la causa di non punibilità per la particolare tenuità, anche nei casi in cui (come quello in esame nel quale la sentenza impugnata è stata emessa il 14 aprile 2016) la sentenza d’appello sia intervenuta dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28 che ha introdotto l’istituto di cui all’art. 131 bis c.p. e l’applicabilità dell’istituto non era stata dedotta in quella sede.
Pur dando conto dell’orientamento contrario, in base al quale la questione dell’applicabilità dell’art. 131 bis c.p. non può essere dedotta per la prima volta in cassazione se l’istituto era già in vigore prima della data della deliberazione della sentenza d’appello, ostandovi il disposto di cui all’art. 609 comma 3 c.p.p. (Cass. pen. sez. 6, 27/04/2016, n. 20270, Gravina, Rv. 266678 e Cass. pen. sez. 7, 27/05/2016, n. 43838, Savini, Rv 268281), e ciò in considerazione dell’intrinseca ed insuperabile natura di merito dei presupposti di applicabilità della particolare tenuità del fatto, deducibili e valutabili solo nel giudizio di merito, la Corte ha ritenuto che tale principio non sia risolutivo per tutte le ipotesi in cui venga in rilievo un fatto di particolare tenuità.
Si è infatti ritenuto - valorizzando quanto espresso dalle Sezioni Unite nelle pronunce n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, e n. 13682 del 25/02/2016, Coccimiglio, entrambe specificatamente relative all’istituto ex art. 131 bis c.p. – che non è precluso al giudice di legittimità adottare una pronuncia di annullamento senza rinvio quando non è richiesta una valutazione sul fatto, le cui componenti vengono assunte nei termini accertati in sede di merito, e quando i presupposti per l’applicazione dell’istituto sono immediatamente rilevabili dagli atti, senza la necessità di ulteriori accertamenti fattuali a tal fine.
Pertanto, fatta salvo il caso in cui il ricorso in cassazione sia inammissibile (ipotesi, questa, in cui la Corte non può pronunciarsi sulla causa di non punibilità), può essere rilevata d’ufficio la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto e ciò in applicazione della regola generale fissata dall’art. 129 c.p.p., che, avendo una portata generale, sistemica, deve trovare applicazione, anche d’ufficio, in relazione all’ipotesi in cui ricorra una causa di non punibilità, quale quella di cui all’art. 131 bis c.p., pur se non dedotta nel corso del giudizio di appello e sempre che non occorrano ulteriori indagini di merito.
Di qui il principio secondo cui la causa di non punibilità ex art. 131 bis c.p. può essere dedotta per la prima volta in cassazione e può essere applicata d’ufficio.
Tanto chiarito in punti di deducibilità e rilevabilità, la Corte ha quindi applicato il principio espresso al caso in esame, nel quale viene in rilievo il concorso della madre nella condotta di detenzione illecita di droga, sia pur di lieve entità, realizzata occultando in un fazzoletto la droga detenuta a fini di spaccio dal figlio.
Pur non essendo stati richiamati nella pronuncia in commento, la Corte ha implicitamente applicato i criteri che essa stessa ha individuato ai fini del riconoscimento della particolare tenuità del fatto in relazione al reato di detenzione a fine di cessione della sostanza illecita, sulla scorta dei quali – a differenza della fattispecie di lieve entità - devono essere considerate le modalità della condotta, il grado di colpevolezza da esse desumibile e l'entità del danno o del pericolo ed altresì il carattere non abituale della condotta (Sez. 4, n. 48758 del 15/07/2016 Ud. - dep. 17/11/2016)
La Suprema Corte, partendo ed analizzando esclusivamente i dati emergenti dalla sentenza impugnata, è giunta così a ritenere che il fatto, per come ricostruito dai giudici di merito, è qualificabile giuridicamente come di particolare tenuità a norma dell’art. 131 bis c.p.
In particolare, sono state valorizzate le circostanze che la condotta posta in essere dalla madre era stata «marginale»; che la donna era incensurata; che alla stessa è stata applicata una pena molto modesta, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche, e che dagli elementi posti in motivazione emergeva evidente “che la condotta posta in essere dall'imputata è stata del tutto momentanea ed essenzialmente finalizzata a "proteggere" il figlio dagli accertamenti delle forze dell'ordine”.
Alla luce di queste considerazioni, la sentenza impugnata, con riferimento alla madre dell’imputato, è stata quindi annullata senza rinvio perché il reato di detenzione illecita di sostanza stupefacente, per il quale era stata condannata, pur se integrato nei suoi elementi oggettivi e soggettivi, non è punibile per la particolare tenuità del fatto.

Fonte: www.quotidianogiuridico.it/Detenere momentaneamente la droga per proteggere il figlio è un fatto di particolare tenuità?| Ipsoa

Reintegra del lavoratore ammissibile anche se l’azienda è fallita

In caso di fallimento dell’impresa datrice di lavoro dopo il licenziamento d’un suo dipendente, questi ha interesse ad una sentenza di reintegra nel posto di lavoro, dalla quale possono scaturire una serie di utilità, quali la ripresa del lavoro (in relazione all’eventualità di un esercizio provvisorio, d’una cessione dell’azienda o della ripresa della sua amministrazione da parte del fallito a seguito di concordato fallimentare o di ritorno in bonis) o l’eventuale ammissione ad una serie di benefici (indennità di cassa integrazione, di disoccupazione, di mobilità).
È quanto ha deciso la Corte di Cassazione, sezione lavoro, nella sentenza n. 2975 del 3 febbraio 2017.
Nel caso di specie, il lavoratore proponeva ricorso in Cassazione in quanto il giudice del merito, pur avendo accertato l’illegittimità del licenziamento intimatogli, non aveva disposto la reintegra nel posto di lavoro perché, nelle more, era intervenuto il fallimento della società ed era cessata l’attività produttiva.
Ma, denuncia il ricorrente, l’omessa reintegra non gli ha permesso di proseguire l’attività, ex art. 2112 c.c., alle dipendenze della ditta che aveva preso in affitto un ramo dell’azienda fallita, come per tutti gli altri ex dipendenti.
Sul punto, osserva la Suprema Corte, per consolidata giurisprudenza di legittimità (cfr., ex aliis, Cass. n. 7129/11; Cass. n. 16867/11; Cass. n. 4051/04) “permane la competenza funzionale del giudice del lavoro, in quanto la domanda proposta non è configurabile come mero strumento di tutela di diritti patrimoniali da far valere sul patrimonio del fallito, ma si fonda anche sull’interesse del lavoratore a tutelare la sua posizione all’interno dell’impresa fallita, sia per l’eventualità della ripresa dell’attività lavorativa (conseguente all’esercizio provvisorio ovvero alla cessione dell’azienda, o a un concordato fallimentare), sia per tutelare i connessi diritti non patrimoniali, estranei all’esigenza della par condicio creditorum”.
Né all’invocata pronuncia di reintegra osta la cessazione dell’attività della società fallita, erroneamente riferita, dal giudice del merito, come dirimente ai fini del diniego del provvedimento richiesto dal lavoratore.
Al contrario, secondo l’indirizzo prevalente (cfr. Cass. n. 6612/03; Cass. n. 11010/98), “in caso di fallimento dell’impresa datrice di lavoro dopo il licenziamento d’un suo dipendente, questi ha interesse ad una sentenza di reintegra nel posto di lavoro, previa dichiarazione giudiziale dell’illegittimità del licenziamento, pronuncia che non ha ad oggetto solo il concreto ripristino della prestazione lavorativa (che presuppone la ripresa dell’attività aziendale previa autorizzazione all’esercizio provvisorio dell’impresa), ma anche le possibili utilità connesse al ripristino del rapporto”.

Fonte: www.altalex.com/Reintegra del lavoratore ammissibile anche se l’azienda è fallita | Altalex

Tra moglie e marito nessun “segreto bancario”. Anche durante la separazione

Il TAR Bari ha riconosciuto alla moglie il diritto di prendere visione della documentazione bancaria del marito durante il procedimento giudiziario di separazione ed indipendentemente dall’ordine del giudice.
Il caso. In pendenza di un procedimento di separazione giudiziale tra due coniugi dinanzi al Tribunale di Bari, la moglie ha presentato istanza all’Agenzia delle Entrate chiedendo l’accesso alla documentazione finanziaria del coniuge, tramite l’Anagrafe dei rapporti finanziari, ai fini della determinazione dell’assegno di mantenimento. Contro il rifiuto dell’Agenzia, la donna ha proposto ricorso al TAR.
Prevale il diritto di accesso se necessario per la tutela di un interesse giuridicamente rilevante. Il TAR rileva che deve essere riconosciuto «il diritto del coniuge, anche in pendenza del giudizio di separazione o divorzio, ad accedere alla documentazione fiscale, reddituale e patrimoniale dell’altro coniuge, al fine di tutelare il proprio interesse giuridico, attuale e concreto, la cui necessità di tutela è reale ed effettiva e non semplicemente ipotizzata».
Con la modifica della l. n. 241/1990 da parte della l. n. 15/2005, inoltre, è stata affermata la prevalenza del diritto d’accesso agli atti amministrativi rispetto all’interesse alla riservatezza dei terzi qualora tale diritto sia esercitato a tutela di un interesse giuridicamente rilevante. Nel caso in esame, il diritto alla riservatezza previsto per l’accesso ai documenti “sensibili” del coniuge deve essere contemperato con la tutela degli interessi economici e della serenità familiare, soprattutto con riguardo ai figli della coppia.
Per questi motivi, il TAR accoglie il ricorso e ordina all’Agenzia delle Entrate l’accesso ai documenti richiesti dalla ricorrente, nella forma della sola visione, entro 30 giorni dal ricevimento della sentenza.

Fonte: www.ilfamiliarista.it /Tra moglie e marito nessun “segreto bancario”. Anche durante la separazione - La Stampa

Povera e senza dimora: rubare alimenti non è giustificabile

Colpo non riuscito in un supermercato: prova a portare via alcuni pezzi di formaggio, ma viene beccata subito dopo aver superato le casse. Inevitabile la condanna, anche perché non regge, secondo i Giudici, la giustificazione addotta dalla donna, cioè di avere agito così perché povera (Corte di Cassazione, sentenza n. 6635/2017 depositata il 13 febbraio).
Soldi. Ricostruito nei dettagli l’episodio, non ci sono dubbi sul comportamento tenuto dalla donna, una cittadina extracomunitaria. Ella, però, ha spiegato di vivere una situazione di grande difficoltà, trovandosi in Italia senza permesso di soggiorno e senza una stabile dimora, e di avere provato a rubare il formaggio per poterlo rivendere, così da «guadagnare dei soldi per affrontare le esigenze quotidiane di vita».
Secondo i giudici, però, ci si trova di fronte a una scusante non accettabile. Ecco spiegata la condanna a 2 mesi di reclusione e 400 euro di multa.
Indigente. Ultima chance, per la donna, è il ricorso in Cassazione, finalizzato, ovviamente, a spiegare l’azione compiuta con la sua condizione di indigente.
Ma l’ipotesi dello stato di necessità viene ritenuta non plausibile. Ciò perché la donna «ben avrebbe potuto soddisfare i propri bisogni alimentari immediati rivolgendosi, ad esempio, alla ‘Caritas’», spiegano i magistrati. E su questo fronte viene aggiunto che non si può far discendere «l’impossibilità di provvedere ai bisogni della vita dalla semplice qualità di extracomunitaria priva di permesso di soggiorno e di una stabile dimora».
Peraltro, in questa vicenda è significativo il valore economico dei prodotti alimentari: 82 euro. Così come non può essere ignorato il fatto che i pezzi di formaggio non erano destinati ad essere consumati immediatamente, bensì ad essere rivenduti per procurarsi del denaro.
Inevitabile perciò la conferma definitiva della condanna nei confronti della straniera.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Povera e senza dimora: rubare alimenti non è giustificabile - La Stampa

mercoledì 22 febbraio 2017

Entrato in vigore il DL Sicurezza (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città)

E’ stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 42 del 20 febbraio 2017, ed è in vigore dal 21 febbraio, il Decreto Legge 20 febbraio 2017, n. 14 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città) con il quale si introducono strumenti volti a rafforzare la sicurezza delle città e la vivibilità dei territori e si promuovono interventi volti al mantenimento del decoro urbano.
Tra le modifiche di rilievo si segnalano quella introdotta dall’art. 13 (Ulteriori misure di contrasto dello spaccio di sostanze stupefacenti all’interno o in prossimità di locali pubblici, aperti al pubblico e di pubblici esercizi), il cui primo comma stabilisce che «nei confronti delle persone condannate con sentenza definitiva o confermata in grado di appello nel corso degli ultimi tre anni per la vendita o la cessione di sostanze stupefacenti o psicotrope, per fatti commessi all’interno o nelle immediate vicinanze di locali pubblici, aperti al pubblico, ovvero in uno dei pubblici esercizi di cui all’articolo 5 della legge 25 agosto 1991, n. 287, il questore può disporre, per ragioni di sicurezza, il divieto di accesso agli stessi locali o a esercizi analoghi, specificamente indicati, ovvero di stazionamento nelle immediate vicinanze degli stessi».
Il Decreto Legge interviene anche sul reato di Deturpamento e imbrattamento di cose altrui (art. 639 c.p.) aggiungendo, dopo il quarto comma, il seguente: «con la sentenza di condanna per i reati di cui al secondo e terzo comma il giudice, ai fini di cui all’articolo 165, primo comma, può disporre l’obbligo di ripristino e di ripulitura dei luoghi ovvero, qualora ciò non sia possibile, l’obbligo a sostenerne le relative spese o a rimborsare quelle a tal fine sostenute, ovvero, se il condannato non si oppone, la prestazione di attività non retribuita a favore della collettività per un tempo determinato comunque non superiore alla durata della pena sospesa, secondo le modalità indicate nella sentenza di condanna».
Si interviene, inoltre, sulla disciplina sulle misure di prevenzione personali. Al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136) sono apportate le seguenti modificazioni:  a) all’articolo 1, comma 1, lettera c), dopo le parole: «sulla base di elementi di fatto», sono inserite le seguenti: «, comprese le reiterate violazioni del foglio di via obbligatorio di cui all’articolo 2, nonché dei divieti di frequentazione di determinati luoghi previsti dalla vigente normativa,»;  b) all’articolo 6, dopo il comma 3, e’ aggiunto il seguente: «3-bis. Ai fini della tutela della sicurezza pubblica, gli obblighi e le prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale possono essere disposti, con il consenso dell’interessato ed accertata la disponibilità dei relativi dispositivi, anche con le modalità di controllo previste all’articolo 275-bis del codice di procedura penale».

Fonte: www.giurisprudenzapenale.com/Entrato in vigore il DL Sicurezza (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città) - Giurisprudenza penale

D.L. immigrazione in G.U.: un intervento eminentemente “giudiziario” e “processuale”

Per fronteggiare l’emergenza immigrazione il Governo ha adottato il D.L. 17 febbraio 2017, n. 13, pubblicato nella G.U. n. 40 della stessa data: un articolato e complesso provvedimento che incide non soltanto, ma soprattutto sugli istituti processuali. In questo commento a prima lettura si cercheranno di evidenziare le novità più rilevanti.
Come emerge dal suo titolo, “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazione, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale”, la principale finalità perseguita dal D.L. n. 13/2017 è cercare di risolvere le conseguenze che i crescenti flussi immigratori hanno sul carico di lavoro dei già assai oberati uffici giudiziari italiani.
Costituisce, infatti, circostanza ben nota a chi si occupa di giustizia civile che, negli ultimi anni, il numero di procedimenti giurisdizionali instaurati in materia di immigrazione, ed in particolare di protezione internazionale, è aumentato in modo esponenziale.
Ad un problema di ordine “processuale” non si può dare che una risposta “processuale” e in questa prospettiva si può comprendere la quasi totalità delle previsioni di cui ai 23 lunghi articoli (molti dei quali di modifica di disposizioni legislative previgenti) del D.L. n. 13/2017.
Le misure non relative al processo
Come accennato, alcune (residuali) disposizioni non attengono né direttamente né indirettamente all’attività giurisdizionale.
Tra queste, senza alcuna pretesa di esaustività, si segnalano in particolare all’attenzione:
- l’art.8, comma 1, lett. d), che introduce nel d.lgs. 18 agosto 2015, n. 142, un nuovo art. 22-bis,che demanda ai prefetti il compito di promuovere, d’intesa con i Comuni “ogni iniziativa utile all’implementazione dell’impiego di richiedenti protezione internazionale, su base volontaria, in attività di utilità sociale in favore delle collettività locali, nel quadro delle disposizioni normative vigenti”;
- l’art. 9, lett. b), che modifica l’art. 29, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, da un lato, stabilendo che “La domanda di nulla osta al ricongiungimento familiare, corredata della documentazione relativa … è inviata con modalità informatiche allo Sportello unico per l’immigrazione presso la prefettura – ufficio territoriale del Governo competente per il luogo di dimora del richiedente, il quale, con le stesse modalità ne rilascia ricevuta” e, dall’altro lato, dimezzando il relativo termine (da 180 a) 90 giorni entro cui la p.a. si deve pronunciare;
- l’art. 17, che inserisce nel D.Lgs. n. 286/1998 un nuovo art. 10-ter, in forza del quale “Lo straniero rintracciato in occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare”, nonché rintracciato “in posizione di irregolarità sul territorio nazionale” è sottoposto alle “operazioni di rilevamento foto dattiloscopico e segnaletico” previste dal Reg. UE 26 giugno 2013, n. 603/2013, artt. 9 e 14;
- l’art. 18, che introduce nell’art. 12, D.Lgs. n. 286/1998, un nuovo comma 9-septies, ai sensi del quale “Il Dipartimento della pubblica sicurezza del Ministero dell’interno assicura, nell’ambito delle attività di contesto dell’immigrazione irregolare, la gestione e il monitoraggio con modalità informatiche, dei procedimenti amministrativi riguardanti le posizioni di ingresso e soggiorno irregolare anche attraverso il Sistema Informativo Automatizzato”, prevedendo la creazione delle necessarie interconnessioni con il Centro elaborazione dati interforze con il Sistema informativo Schengen, il Sistema Automatizzato di Identificazione delle Impronte ed il Sistema gestione accoglienza del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione;
- l’art. 19, che: - - sostituisce la denominazione, ex art. 14, D.Lgs. n. 286/1998, “centro di identificazione ed espulsione” con la più rassicurante formula di “centro di permanenza per i rimpatri” (co. 1); - - introduce la possibilità che “il periodo massimo di trattenimento dello straniero all’interno del centro di permanenza per i rimpatri”, fissato dall’art. 14, comma 5, cit., in 90 giorni, possa essere prorogato “di ulteriori 15 giorni, previa convalida da parte del giudice di pace, nei casi di particolare complessità delle procedure di identificazione e di organizzazione del rimpatrio” (comma 2, lett. a); - - stabilisce che ove venga disposta, ai sensi dell’art. 16, D.Lgs. n. 286/1998, l’espulsione dello straniero a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione, “quando non è possibile effettuare il rimpatrio dello straniero per cause di forze maggiore, l’autorità dispone il ripristino dello stato di detenzione per il tempo strettamente necessario all’esecuzione del provvedimento di espulsione”.
Da ultimo, tra le disposizioni degne di essere ricordate sono gli artt. 12, 13 e 14, che prevedono l’assunzione, rispettivamente:
- fino al limite complessivo di 250 unità di personale a tempo indeterminato per l’Amministrazione civile dell’Interno da destinare agli uffici delle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale e della Commissione nazionale per il diritto di asilo;
- di un numero massimo di 60 funzionari delle professionalità: - - giuridico pedagogico, - - di servizio sociale, - - di mediatore culturale per il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità del Ministero della giustizia;
- fino a 10 unità di personale a contratto a tempo determinato da destinare nelle rappresentanze diplomatiche e negli uffici consolari italiani nel continente africano.
Nessun incremento di organico è, invece, previsto per la magistratura ordinaria, nonostante la contestuale istituzione presso 14 tribunali ordinari delle nuove ...
Sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea
Queste, infatti, sono istituite, come precisato dall’inciso finale dell’art. 1, “senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica né incrementi di dotazioni organiche” (per tacere di limitati stanziamenti previsti dagli artt. 2, comma 3, e 11, comma 3, non tanto per la loro “istituzione”, ex lege “a costo zero”, ma per il loro funzionamento).
Il coordinato disposto degli artt. 2 e 11 lascia sostanzialmente “carta bianca” al C.S.M. sia per l’organizzazione delle nuove sezioni, sia in larga misura per l’individuazione dei magistrati da assegnare alle medesime (viene infatti stabilito che il C.S.M. predisponga un “piano straordinario di applicazioni extradistrettuali” che coinvolga “fino a un massimo di venti unità”).
Con specifico riguardo alla futura composizione delle neo-istituite sezioni specializzate l’art. 2:
- da un lato, al primo comma, prevede che queste siano composte da “magistrati dotati di specifiche competenze”, dando preferenza ai magistrati che siano già stati addetti alla trattazione dei procedimenti della loro competenza per materia per almeno due anni o che abbiano partecipato ai corsi di formazione organizzati dalla Scuola Superiore della Magistratura in collaborazione con l’ufficio europeo di sostegno per l’asilo e con l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e che abbiano conoscenza della lingua inglese;
- dall’altro, al secondo comma, consente che la già richiamata adottanda delibera del C.S.M. possa derogare “alle norme vigenti relative al numero dei giudici da assegnare alle sezioni” (sicché a ciascuna sezione specializzata potrà essere assegnato anche un numero di giudici inferiore a quello di 5, stabilito dall’ultimo comma dell’art. 46, ord. giud.).
Come accennato, il D.L. prevede che il C.S.M. predisponga un piano straordinario di applicazioni extradistrettuali per coprire l’assegnazione dei magistrati alle nuove sezioni specializzate: all’evidente fine di rendere più appetibile l’applicazione extradistrettuale, l’art. 11, comma 3, attribuisce al “magistrato applicato a seguito della propria manifestazione di disponibilità” due rilevanti benefici: - da un lato, il “diritto, ai fini di futuri trasferimenti, a un punteggio di anzianità aggiuntivo pari a 0,10 per ogni otto settimane di effettivo esercizio di funzioni”; - dall’altro lato, il diritto “alla misura del 50 per cento dell’indennità di cui all’art. 2, L. 4 maggio 1998, n. 133, e successive modificazioni” (cioè l’indennità spettante al magistrato per il [diverso] caso di trasferimento d’ufficio).
Competenza per materia delle sezioni specializzate
E’ la rubrica dell’art. 3, i cui commi 1 e 2 devolvono alla cognizione esclusiva delle sezioni specializzate le controversie:
- “in materia di mancato riconoscimento del diritto di soggiorno sul territorio nazionale in favore dei cittadini degli altri Stati membri dell’Unione Europea o dei loro familiari di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30”;
- “aventi ad oggetto l’impugnazione del provvedimento di allontanamento dei cittadini degli altri Stati membri dell’Unione europea o dei loro familiari per motivi imperativi di pubblica sicurezza e per gli altri motivi di pubblica sicurezza di cui all’articolo 20 del decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30, ovvero per i motivi di cui all’articolo 21 del medesimo decreto legislativo, nonché per i procedimenti di convalida dei provvedimenti previsti dall’articolo 20-ter del decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30”;
- “in materia di riconoscimento della protezione internazionale di cui all’articolo 35 del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, per i procedimenti per la convalida del provvedimento con il quale il questore dispone il trattenimento o la proroga del trattenimento del richiedente protezione internazionale, adottati a norma dell’articolo 6, comma 5, del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142, e dell’articolo 10-ter del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, come introdotto dal presente decreto, nonché dell’articolo 28 del regolamento UE n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, nonché per la convalida dei provvedimenti di cui all’articolo 14, comma 6, del predetto decreto legislativo n. 142 del 2015”;
- “in materia di riconoscimento della protezione umanitaria nei casi di cui all’articolo 32, comma 3, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25”;
- “in materia di diniego del nulla osta al ricongiungimento familiare e del permesso di soggiorno per motivi familiari, nonché relative agli altri provvedimenti dell’autorità amministrativa in materia di diritto all’unità familiare, di cui all’articolo 30, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286”;
- “in materia di accertamento dello stato di apolidia”;
Da ultimo, l’art. 3, comma 3 (con una formula che ricalca quella dell’art. 3, D.Lgs. 27 giugno 2003, n. 168, in materia di sezioni specializzate in materia di impresa o c.d. “tribunale delle imprese”) stabilisce che le sezioni specializzate in materia di immigrazione conoscono altresì “le cause e i procedimenti che presentano ragioni di connessione” con quelli sopra richiamati.
Competenza territoriale delle sezioni
E’ la rubrica dell’art. 4, che divide il territorio nazionale in 14 circondari, tante quante sono le nuove sezioni specializzate.
Posto che queste sono istituite soltanto presso i tribunali ordinari individuati secondo l’insondabile discrezionalità del legislatore in quelli di Bari, Bologna, Brescia, Cagliari, Catania, Catanzaro, Firenze, Lecce, Milano, Palermo, Roma, Napoli, Torino e Venezia, conseguentemente, anche i loro ambiti territoriali non soltanto non appaiono rispondere a nessun chiaro disegno sistematico, ma perfino sono determinati attraverso il ricorso a criteri diversi: viene fatto indistintamente riferimento ora ai distretti di corte d’appello, ora alle regioni, ora alle province, ora alla combinata coniugazione di questi criteri (ad esempio, ai sensi dell’art. 4, comma 1, lett. h, la sezione specializzata di Lecce ha giurisdizione per il “territorio della Regione Basilicata e del distretto della Corte di appello di Lecce”).
Vale, peraltro, osservare che, salve le controversie in materia di accertamento dello stato di apolidia (per le quali, ex art. 4, comma 5, si deve aver riguardo al luogo in cui l’attore ha la dimora) la quasi totalità delle controversie devolute alla cognizione delle nuove sezioni specializzate è di carattere impugnatorio di provvedimenti amministrativi, sicché può auspicarsi che quella che a un lettore affrettato pare essere una disordinata distribuzione frutto del caso, sia in realtà la consapevole scelta, risultato di un’analisi del numero di procedimenti instaurati in queste materie nei diversi ambiti territoriali e della collocazione dei centri (secondo la nuova denominazione) di permanenza per i rimpatri, in modo da assicurare la massima efficienza possibile.
Composizione della sezione specializzata in materia di immigrazione
E’ sicuramente funzionale a conseguire la maggiore capacità di smaltimento dei carichi di lavoro la previsione di cui all’art. 3, comma 4, che, in deroga all’art. 50-bis c.p.c., prevede che la sezione specializzata giudichi “in composizione monocratica”.
Le novità relative alle regole processuali da osservarsi nelle controversie di competenza delle sezioni specializzate
Rappresentano, come anticipato, la parte più consistente delle nuove norme di cui al D.L. n. 13/2017.
Gli angusti limiti del presente lavoro, però, non ne consentono l’esame dettagliato.
Gli aspetti più qualificanti e che non si può omettere di citare sono:
- la semplificazione delle forme di notificazione, attraverso soprattutto la possibilità che la notificazione sia eseguita per via telematica (art. 6, co. 1, lett. a);
- la previsione che il colloquio personaleex art. 14 d.lgs. n. 25/2008 venga non più soltanto trascritto in italiano, ma anche (necessariamente) “videoregistrato con mezzi audiovisivi” in modo che copia informatica del file contenente la video registrazione sia resa disponibile all’autorità giudiziaria in caso di ricorso in sede giurisdizionale;
- la radicale riformulazione del rito applicabile alle controversie in materia di riconoscimento della protezione internazionale.
A questo specifico riguardo, viene abbandonato il modello previsto dall’abr. art. 19, D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, del procedimento sommario di cognizione a favore di un procedimento, per così dire, “liberamente ispirato” a quello in camera di consiglio previsto dagli artt. 737 e ss. c.p.c.
In questo speciale procedimento giurisdizionale, infatti, normalmente non verrà neppure celebrata neppure un’udienza di comparizione delle parti: questa infatti sarà fissata esclusivamente quando:
- da un canto, il giudice: - - “visionata la videoregistrazione … ritiene necessario disporre l’audizione dell’interessato; - - “ritiene indispensabile richiedere chiarimenti alle parti; - - “dispone consulenza tecnica ovvero, anche d’ufficio, l’assunzione di mezzi di prova” (art. 35, comma 10);
- dall’altro canto: - - “la videoregistrazione non è resa disponibile”; - -“l’impugnazione si fonda su elementi non dedotti nel corso della procedura amministrativa di primo grado”.
Il contraddittorio viene assicurato in via meramente documentale attraverso lo scambio di atti scritti.
Il procedimento si conclude con decreto, reso (entro quattro mesi dalla presentazione del ricorso) “sulla base degli elementi esistenti al momento della decisione”, non reclamabile, ma suscettibile di essere impugnato con ricorso per cassazione entro 30 giorni dalla comunicazione del decreto a cura della cancelleria.

Fonte: www.quotidianogiuridico.it/D.L. immigrazione in G.U.: un intervento eminentemente “giudiziario” e “processuale” | Quotidiano Giuridico

domenica 19 febbraio 2017

Cartella clinica incompleta: l'errore medico è presunto

L'incompletezza della cartella clinica non può giovare ai medici e/o alla struttura sanitaria convenuta, ma al contrario agevola il paziente danneggiato.
La vicenda
Una paziente, lamentando errori professionali nell'esecuzione di due interventi chirurgici, agiva in giudizio, unitamente al proprio coniuge, contro i sanitari, la struttura e le relative compagnie assicurative. Tribunale e Corte di Appello rigettavano la domanda. In particolare la Corte di Appello escludeva la responsabilità dei convenuti ritenendo la domanda degli attori non provata, mancando la dimostrazione del nesso causale tra gli interventi chirurgici ed il danno lamentato.
Il panorama giurisprudenziale
La presente vicenda tratta di una ipotesi di c.d. responsabilità sanitaria, ossia della responsabilità della struttura sanitaria e del medico nei confronti del paziente.
Il riparto dell'onere probatorio, nel caso di controversia civilistica, è stato oggetto di ampio dibattito giurisprudenziale, con l'originaria impostazione a favore di un distinzione tra rapporto paziente/medico (ritenuto soggetto alle regole della responsabilità extracontrattuale) e paziente/struttura (ritenuto soggetto alle regole della responsabilità contrattuale) ricomposta a favore della tesi della univoca responsabilità contrattuale da Cass. Sez. Un. 22.01.1999, n. 589.
Peraltro, oggi, a seguito della novità rappresentata dal c.d. Decreto Balduzzi si discute se tale impostazione resti ancora valida in relazione alla specifica responsabilità del sanitario, posto che alcune pronunce dei Tribunali di Merito propendono per ricondurre la responsabilità del medico nell'alveo dell'art. 2043 c.c..
Ad ogni modo, ferma (quantomeno) la tesi della responsabilità contrattuale della struttura coinvolta, sulla ripartizione dell'onere probatorio è intervenuta la nota Cass. Sez. Un. 30.10.2001, n. 13533, che ha specificato il generale criterio nel caso di obbligazione contrattuale, imponendo all'attore la prova del titolo e l'allegazione dell'inadempimento del convenuto debitore e, viceversa, gravando il convenuto debitore della prova del fatto estintivo e dell'esatto adempimento della prestazione richiesta.
Tale criterio di riparto è stato costantemente applicato dalla giurisprudenza e da ultimo anche precisato, per quanto attiene la responsabilità sanitaria, da Cass. Sez. Un. 11.01.2008, n. 577, che ha specificato come:
l'attore, paziente danneggiato, deve:
a) provare l'esistenza del contratto o del contatto sociale (e pertanto, tendenzialmente, occorre dimostrare il contatto con la struttura e/o con i sanitari),
b) provare l'insorgenza o l'aggravamento della patologia (e pertanto occorre dimostrare la sussistenza di un danno risarcibile),
c) allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato (e pertanto descrivere l'azione/omissione dei sanitari e/o struttura che avrebbe comportato il danno lamentato);
il convenuto, struttura e/o sanitario, deve:
a) o provare che tale inadempimento non vi sia stato (e pertanto dimostrare che la prestazione fornita al paziente sia stata ineccepibile);
b) o provare che, pur esistendo, esso non sia stato eziologicamente rilevante (e pertanto dimostrare che l'inadempimento non abbia avuto rilevanza causale nella produzione del danno lamentato dal paziente).
La giurisprudenza ha, altresì, chiarito come il contenuto della regola probatoria in campo civile (dove è sufficiente il criterio del “più probabile che non”) si discosti dall'onere della prova in campo penale (dove è richiesta la c.d. prova “oltre il ragionevole dubbio”), con la nota pronuncia Cass. Sez. Un. 11.01.2008, n. 581, che specifica anche le  ragioni della detta differenza.
Nella vicenda attuale, la questione principale era relativa alla prova del nesso causale tra gli interventi effettuati e i danni lamentati: la Corte di Appello riteneva che la stessa mancasse ed escludeva, di conseguenza, la responsabilità dei sanitari e della struttura coinvolta.
La decisione
Contra la detta decisione di rigetto la paziente ed il coniuge proponevano ricorso in Cassazione, articolato in sei distinti motivi.
In particolare, con il primo motivo, i ricorrenti lamentavano l'errata applicazione delle regole di riparto dell'onere probatorio, posto che la Corte di Appello aveva ritenuto incombere sugli attori/danneggiati la dimostrazione della sussistenza del nesso causale tra l'intervento subito ed i danni conseguenti (mentre avrebbe dovuto onerare i convenuti di dover dimostrare l'assenza del detto legame eziologico). Con il secondo motivo, i ricorrenti lamentavano ulteriormente la mancata integrale analisi da parte della Corte di Appello degli elementi probatori acquisiti (con segnato riferimento alla relazione medico legale di parte, che attestava l'esistenza di un errore iatrogeno nel primo intervento, rilevando come lo stesso fosse però non precisabile a fronte della incompletezza della cartella clinica).
La Suprema Corte, con la propria decisione, accoglieva il ricorso cassando con rinvio la sentenza impugnata, ritenendo fondati i detti due motivi (che vagliava congiuntamente) e assorbiti gli altri.
La censura, in particolare, cadeva sulla valutazione del nesso causale (tra gli interventi chirurgici e i danni lamentati) e sul soggetto su cui ricadesse l'eventuale carenza probatoria.
Di fatto, la Corte di Appello aveva ritenuto che la prova della detta circostanza incombesse sull'attore danneggiato e che l'incompletezza della cartella clinica, non permettendo di valutare la sussistenza del detto legame eziologico, si risolvesse a danno dell'attore.
La Suprema Corte, dando seguito al proprio consolidato orientamento, esplicitava invece come l'incompletezza della cartella clinica generasse una prova presuntiva del nesso causale a sfavore del sanitario convenuto, qualora la condotta dello stesso fosse astrattamente idonea a cagionare il danno.
La detta regola è, a ben vedere, una esplicitazione diretta del riparto probatorio assodato (rappresentato dalle Sezioni Unite 577/2008), posto che impone:
a) all'attore danneggiato di “allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato” (ossia di precisare la condotta e/o l'omissione del sanitario che astrattamente avrebbe cagionato il danno);
b) al convenuto (sanitario e/o struttura) di dimostrare “o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante ” (ossia di dimostrare che compiutamente che la prestazione sia stata ineccepibile e/o che comunque i danni non derivino dalla detta prestazione medica).
La ratio del detto riparto si fonda, come illustrato dalla Cassazione, sul principio della c.d. prossimità o vicinanza della prova, ossia sulla regola di matrice giurisprudenziale che grava dell'onere probatorio la parte prossima alla fonte di prova.
Pertanto, posto che la corretta compilazione della cartella clinica è onere dei sanitari, l'eventuale inosservanza del detto obbligo comporta in primo luogo un loro specifico inadempimento, per difetto di diligenza ex art. 1176 c.c., come ravvisato dalla Cassazione.
In secondo luogo, a livello probatorio, proprio tale situazione non può risolversi in un vulnus per il paziente (creditore rispetto alla prestazione medica) e, pertanto, la carente compilazione e/o tenuta della cartella clinica legittima il ricorso alla prova presuntiva, ritenendo pertanto non integrata dal debitore (ossia dal sanitario/struttura) la prova liberatoria prevista (sia essa la prova dell'esatto adempimento e/o la prova dell'irrilevanza eziologica dell'inadempimento).
Di conseguenza, qualora il paziente danneggiato abbia onorato il proprio onere probatorio (ed abbia quindi dimostrato il titolo e il danno, allegando l'inadempimento del medico e/o della struttura), allora sussisterà la responsabilità della controparte.
Per completezza si evidenzia come la detta pronuncia ricalchi, oltre ai precedenti ivi menzionati, anche la più recente Cass., Sez. 3 civ., 31.03.2016 n. 6209, della quale condivide le motivazioni.

Fonte: www.altalex.com/Cartella clinica incompleta: l'errore medico è presunto | Altalex

Inviolabili le mail dei dipendenti

Vietato estrarre informazioni private dalla e-mail e dal telefono aziendale in uso al lavoratore; vietato configurare la copia della posta elettronica per dieci anni; vietato mantenere attive le caselle e-mail dei dipendenti fino a sei mesi dopo la cessazione del contratto; vietato tenerle attive senza dare agli ex dipendenti la possibilità di consultarle o senza informare i mittenti che le lettere non sarebbero state visionate dai legittimi destinatari ma da altri soggetti; vietato accedere da remoto alle informazioni contenute negli smartphone in dotazione ai dipendenti, copiarle o cancellarle, o comunicarle a terzi. Obbligatorio informare su come funzionano i dispositivi elettronici.  Il catalogo dei divieti e degli obblighi, sintetizzabili nella prescrizione di evitare controlli indiscriminati su e-mail e smartphone aziendali, è stilato dal Garante della privacy (provvedimento n. 547 del 22 dicembre 2016, diffuso ieri con la newsletter istituzionale n. 424), che analizza gli effetti del Jobs Act e la disciplina del controllo a distanza sui lavoratori. Nel caso specifico il garante ha vietato a una multinazionale l’ulteriore utilizzo dei dati personali trattati in violazione di legge: la società potrà solo conservarli per la tutela dei diritti in sede giudiziaria.

Fonte: www.italiaoggi.it/Inviolabili le mail dei dipendenti - News - Italiaoggi

venerdì 17 febbraio 2017

Il DDL Gelli approda alle Camere: ecco le novità in tema di responsabilità medica

Dopo il via libera del Senato che l'11 gennaio 2017 ha approvato il DDL n. 2224, recante "Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonchè in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie" (di seguito breviter DDL Gelli), il testo di legge, che apporta rilevanti novità in tema di responsabilità medica, è sottoposto al vaglio della Camera dei Deputati.
Il DDL Gelli, che sopraggiunge a soli tre anni dall'entrata in vigore della L. n. 189/2012 (c.d. Legge Balduzzi), ha fra gli scopi principali sia quello di regolare i confini della responsabilità professionale degli operatori sanitari sia quello di prevedere misure finalizzate a garantire maggiori livelli di sicurezza e garanzia a favore dell'utenza.
La normativa è preordinata al superamento della medicina difensiva ossia di tutti quei comportamenti dei sanitari volti ad astenersi da interventi di cura ritenuti ad alto rischio al fine di annullare, o ridurre al massimo, l'eventualità che si verifichino esiti negativi per il paziente imputabili al medico.
Ma veniamo ora ad una breve disamina di alcune delle novità più importanti introdotte dal DDL.
L'atteso intervento normativo si apre con l'indicazione di principi ed individuazione di istituti volti a garantire la massima tutela del diritto alla salute di cui all'art. 32 della Cost.
Il Legislatore, non a caso, all'art. 1 sceglie di cristallizzare il principio per cui "la sicurezza delle cure è parte costitutiva del diritto alla salute ed è perseguita nell'interesse dell'individuo e della collettività".
A sostegno di tale assunto, l'art. 2 prevede la possibilità da parte delle Regioni di attribuire alla figura del Difensore Civico Regionale o Provinciale la funzione di garante per il diritto alla salute, il quale potrà esser adito gratuitamente da soggetti destinatari di prestazioni sanitarie per segnalare anomalie del sistema sanitario.
L'art. 4 del DDL, invece, rende cogente l'obbligo di trasparenza delle prestazioni sanitarie erogate da strutture pubbliche e private con conseguente onere per le direzioni sanitarie (nel rispetto del codice in materia di protezione dei dati personali) di fornire la documentazione sanitaria del paziente entro il termine di sette giorni dalla richiesta (estensibile fino a trenta per le sole integrazioni).
Nuovi Organismi prendono vita con la riforma:
gli artt. 2 e 3, infatti, prevedono l'istituzione in ogni regione di un Centro per la gestione del rischio sanitario e per la sicurezza del paziente, il quale si occuperà di raccogliere dalle strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private i dati relativi ai rischi ed eventuali contenziosi pendenti per poi di trasmetterli all'Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità.
Tale Istituto, all'esito dell'analisi di tali dati (eseguita avvalendosi dell'ausilio di società scientifiche ed associazioni tecnico-scientifiche), predisporrà le linee di indirizzo per la prevenzione e la gestione del rischio sanitario e per il monitoraggio delle buone pratiche. Anche il DDL Gelli, così come la precedente Leggi Balduzzi, individua, il ruolo centrale delle linee guida periodicamente pubblicate dal Ministero della Salute, alle quali gli operatori avranno l'obbligo di attenersi scrupolosamente.
Permane, sotto tale profilo, un atteggiamento di ambiguità del Legislatore che trascura l'esigenza di autonomia del medico nella scelta del percorso che ritiene più idoneo al conseguimento dell'interesse primario del paziente (la guarigione), individuando nel rispetto delle linee guida un criterio valutativo fondamentale ai fini dell'accertamento della sua responsabilità professionale.
L'art. 6 del DDL Gelli introduce l'art. 590 ter c.p. il quale (seguendo l'evoluzione giurisprudenziale consolidatasi sulla Legge Balduzzi) prevede che l'operatore sanitario risponda di omicidio colposo e lesioni personali colpose solo per colpa grave, escludendone l'insorgenza laddove il medico abbia rispettato le buone pratiche clinico-assistenziali e le raccomandazioni contemplate dalle linee guida fatte salve le rilevanti specificità del caso concreto (cioè i casi in cui le stesse vadano indubbiamente disattese).
L'art. 7 del DDL riscrive in maniera importante i caratteri della responsabilità civile degli operatori sanitari individuando una responsabilità di tipo extracontrattuale (art. 2043 c.c.) in capo al medico che presti il proprio servizio presso strutture pubbliche (anche "intramoenia") ovvero convenzionate con il SSN. Permane, a tutela del paziente, una responsabilità di tipo contrattuale (artt. 1218 e 1228 c.c.) in capo alla struttura sanitaria e al medico privato.
Numerose inoltre sono anche le novità introdotte a carattere procedurale.
L'art. 8 introduce l'obbligo per chi intende promuovere un'azione volta ad ottenere, in sede civile, il risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria di esperire un tentativo di conciliazione ai sensi dell'articolo 696 bis c.p.c., il quale costituisce condizione di procedibilità della corrispondente domanda giudiziale.
L'art. 9, invece, introduce dei limiti all'azione di rivalsa della struttura sanitaria nei confronti del medico responsabile, la quale potrà essere intrapresa solo nei casi di dolo o colpa grave entro un anno dal passaggio in giudicato della sentenza ovvero dal pagamento in caso di risarcimento avvenuto sulla base di accordo stragiudiziale (qualora costui non sia stato parte del giudizio o della procedura conciliativa).
L'importo della rivalsa (o della surrogazione da parte dell'impresa assicurativa) non potrà superare una somma pari al valore maggiore della retribuzione lorda o del corrispettivo convenzionale conseguiti nell'anno di inizio della condotta causa dell'evento (o nell'anno immediatamente precedente o successivo) moltiplicato per il triplo.
In più - e per la prima volta - gli artt. 10 ed 11 introducono un obbligo di copertura assicurativa in capo alle strutture sanitarie (vigente anche in caso di prestazioni svolte "intramoenia" ovvero in regime convenzionato con il SSN); tale garanzia dovrà essere operativa anche per gli eventi accaduti nei dieci anni antecedenti la conclusione del contratto assicurativo purché denunciati durante la vigenza temporale della polizza.
Inoltre, l'art. 12 del DDL Gelli prevede il diritto in capo al danneggiato di agire direttamente nei confronti dell'impresa assicurativa. Sorge poi in capo alle strutture sanitarie e alle relative assicurazioni l'obbligo di comunicare agli esercenti la professione sanitaria, entro dieci giorni dalla notifica dell'atto introduttivo, l'instaurazione di giudizi promossi nei loro confronti dal danneggiato.
Con il DDL Gelli viene altresì istituito un Fondo di Garanzia per i danni derivanti da responsabilità sanitaria, alimentato dal versamento di un contributo annuale da parte delle imprese assicuratrici, con la precipua funzione di garantire ai pazienti il risarcimento dei danni cagionati da responsabilità sanitaria anche nel caso in cui siano di importo eccedente rispetto ai massimali assicurativi ovvero qualora la struttura o l'esercente la professione sanitaria risultino assicurati presso un'impresa in stato di insolvenza o di liquidazione coatta amministrativa ovvero, ancora, risultino sprovvisti di copertura assicurativa (per recesso unilaterale dell'impresa assicuratrice o per la sopravvenuta inesistenza o cancellazione dall'albo della stessa).
Infine, l'art. 15 del DDL Gelli riformula la procedura ed i criteri di nomina di consulenti tecnici e periti nei giudizi civili e penali di responsabilità sanitaria, i quali vanno individuati tra medici specializzati in medicina legale ovvero tra specialisti che abbiano specifica e pratica conoscenza di quanto oggetto del procedimento avendo cura di verificare che gli stessi non siano in posizione di conflitto di interessi nello specifico procedimento o in altri connessi.

Fonte: www.ilsole24ore.com/Il DDL Gelli approda alle Camere: ecco le novità in tema di responsabilità medica

Il venditore di immobile con vizi e difetti risponde delle lesioni cagionate

La controversia in esame riguarda le lesioni subite da alcuni minori, figli di una signora che aveva acquistato un immobile nell’anno 2007 per adibirlo a residenza familiare. La vicenda pare emblematica perché a seguito di querela sporta dalla madre, nell’anno 2013, sono stati tratti a processo avanti al giudice di pace penale forlivese, le due persone fisiche che hanno agito in qualità di rappresentanti legali delle imprese venditrici. In particolare, l’immobile manifestava una copiosa infiltrazione che causava muffe e umidità. Tale vizio costruttivo - mai risolto dai venditori - è stato causa di infezioni alle vie respiratorie dei figli della donna, la quale, esasperata dal continuo ricorso alle cure mediche, per le lesioni subite dai figli, si è rivolta all’autorità giudiziaria. Di qui il processo.
I legali rappresentanti delle società venditrici dell’immobile venivano tratti a giudizio avanti al Giudice di Pace forlivese con l’accusa di aver cagionato lesioni colpose ai figli minori della coppia per aver “omesso di provvedere alla risoluzione di problematiche legate alla presenza di umidità e muffe negli ambienti dell’abitazione tali da renderli insalubri come dalla stessa – n.d.r. madre dei minori - in più occasioni segnalato le quali conseguentemente determinavano l’insorgere nei figli minori della querelante “L. e N.” patologie diagnosticate come faringite acuta, infezione respiratoria con congiuntivite, bronchite con confluenza alveolare a dx ecc. dal 22 ottobre del 2007”.
Nel corso del processo, svoltosi in diverse udienze, venivano escussi vari testimoni. La madre dei minori, costituitasi parte civile in qualità di esercente la potestà genitoriale sugli stessi, esponeva come fin dai primi anni di vita, i figli presentassero le patologie indicate nell’atto di querela e conseguentemente riportate nel capo d’imputazione.
I figli, di quattro e due anni all’epoca della querela, si ammalavano a causa dell’esposizione alle muffe e all’umidità diffuse nell’immobile. Il rapporto di causalità, vero nodo cruciale del procedimento, veniva confermato dalla testimonianza del medico curante, pediatra dei bambini, il quale affermava che la causa delle patologie era eziologicamente riconducibile all’insalubrità degli ambienti nei quali vivevano.
Ad ulteriore conferma del nesso di causalità, ha precisato che il diario clinico dei bambini era notevolmente migliorato a seguito dell’esecuzione dei lavori eseguiti all’interno dell’immobile. Lavori che come ha riferito altro teste, condomina escussa nel corso del procedimento, erano stati commissionati dal condominio per risolvere i problemi situati all’interno dell’immobile in cui soggiornavano i minori.
Va osservato che la documentazione in atti, acquisita nel corso del dibattimento, attestava numerosi accessi al pronto soccorso dei minori per le patologie evidenziate nel capo di imputazione.
Nel dibattimento sono stati escussi altri testimoni: l’amministratore di condominio e l’architetto direttore dei lavori di costruzione dell’immobile. È emersa dall’audizione dell’amministratore di condominio, la volontà da parte degli imputati di non porre rimedio ai difetti costruttivi di cui si sono fatti carico i condomini per i lavori di ripristino, al fine di salvaguardare l’integrità fisica dei minori. La versione fornita dall’architetto, peraltro parente di uno degli imputati, è risultata priva di rilevanza in relazione alla decisione assunta dal giudicante.
La sentenza in commento appare degna di nota poiché affronta il problema del rapporto di causalità tra la condotta  omissiva dei venditori circa il porre rimedio a problematiche dell’immobile da loro alienato e le lesioni subite dagli occupanti per l’esposizione ad ambienti insalubri.
La tematica è di particolare interesse considerato che non si ravvisano precedenti in fattispecie quale quella considerata.
Nel corso del procedimento, le difese degli imputati hanno eccepito anche la tardività della querela nonché la prescrizione del reato in relazione al tempo trascorso dai singoli episodi di malattia.
In proposito il giudicante ha rigettato tale eccezione, considerando le certificazioni mediche in atti attestanti le patologie dei minori.
In conclusione, il Giudice di Pace penale ha ritenuto provata la responsabilità degli imputati all’esito dell’istruttoria nella quale i diversi testimoni hanno confermato i fatti come descritti nell’imputazione.

Fonte: www.altalex.com/Il venditore di immobile con vizi e difetti risponde delle lesioni cagionate | Altalex

Via libera al licenziamento lampo dei furbetti del cartellino nella Pubblica amministrazione

Il Consiglio dei ministri ha approvato due decreti legislativi sui licenziamenti per i furbetti del cartellino e sul taglio alle partecipate pubbliche. Si tratta di due dei tre decreti del Ministro per la pubblica amministrazione Marianna Madia con i correttivi imposti dalla Consulta che ha imposto di concordare questi interventi con le Regioni. All’ordine del giorno era stato inserito anche un terzo decreto, sul riordino della dirigenza sanitaria, ma è stato rinviato a causa dell’assenza del ministro della salute Beatrice Lorenzin. Già giovedì sera era invece stato deciso di spostare alla riunione della prossima settimana il decreto di riordino del lavoro pubblico.
Il nuovo intervento sui licenziamenti, in particolare, serve a chiarire meglio e a rendere più facile l’applicazione delle norme già varate in precedenza. Viene fatto ordine sui casi di licenziamento, dallo scarso rendimento alla cronica condotta illecita, qualora ci sia profilo penale. I tempi per arrivare a decidere sulla sanzione si riducono da quattro a tre mesi e a un mese per tutti i casi di flagranza, viene quindi estesa la procedura sprint applicata ai furbetti del cartellino (con sospensione entro 48 ore e rischio licenziamento anche per il dirigente che si gira dall’altra parte). Infine per gli statali resta intatto l’articolo 18, con reintegra e risarcimento nei casi di ingiusta espulsione. Ma vizi formali, cavilli giuridici, non potranno determinare l’annullamento della sanzione.
Nel corso del 2015, anno in cui non era ancora entrata in vigore la precedente stretta sui furbetti la Pubblica Amministrazione ha avviato 8.259 procedimenti disciplinari (+19% in un anno). Le azioni concluse sono state 7.554, di cui quasi la metà (46,5%) si è risolto con sanzioni minori, mentre 1.690 procedimenti sono finiti con sospensioni e 280 con licenziamenti. Rispetto all’anno prima, in base ai dati pervenuti all’Ispettorato del ministero della Pa si registra un deciso aumento (+23,3%) dei licenziamenti. Quanto alle cause, 108 licenziamenti derivano da assenze. A seguire i licenziamenti connessi ai reati (94) e al mancato rispetto dei propri compiti o alla cattiva condotta (57). Chiudono la lista i casi dovuti al doppio lavoro (20) e all’irreperibilità alla visita fiscale. La parte da leone spetta sicuramente agli assenteisti, che da soli coprono il 39% delle espulsioni.

Fonte: www.lastampa.it/NVia libera al licenziamento lampo dei furbetti del cartellino nella Pubblica amministrazione - La Stampa

Rifiuta il trasferimento: illegittimo il licenziamento per estromettere la lavoratrice madre

La Cassazione con la sentenza n. 3052/2017, afferma che è illegittimo il licenziamento di una dipendente lavoratrice madre, se il suo rifiuto a trasferirsi in altra sede è la reazione al tentativo del datore di lavoro di estrometterla in ragione della maternità.
La vicenda. La Corte d’appello, nell’accogliere il ricorso della lavoratrice, dichiarava la nullità del trasferimento ad altra sede disposto dal datore di lavoro al rientro della lavoratrice da un’assenza per maternità ma rifiutato da quest’ultima, e dichiarava, altresì, illegittimo il successivo licenziamento.
Maternità e licenziamento. La Corte di Cassazione respinge il ricorso del datore di lavoro che lamentava la mancata considerazione e valutazione, da parte dei giudici di secondo grado, di alcune circostanze. La Cassazione, infatti, ritiene corretta la valorizzazione del quadro complessivo della situazione effettuata dai Giudici di appello: emergeva infatti che, mentre la lavoratrice era ancora in maternità, il datore di lavoro aveva assunto, per l’espletamento delle mansioni da lei precedentemente svolte, un’altra persona con un contratto a tempo indeterminato.
Tali circostanze sono ritenute idonee a dimostrare la volontà del datore di lavoro di estromettere la lavoratrice a causa della sua maternità, disponendone il trasferimento in altra sede della società una volta decorso il periodo di tutela previsto dalla legge.

Fonte: www.lavoropiu.info/Rifiuta il trasferimento: illegittimo il licenziamento per estromettere la lavoratrice madre - La Stampa

Sequestrabili i gioielli della moglie per i reati tributari del marito

Un diamante è per sempre? Forse sì, se non vengono commessi reati tributari tali da legittimarne il sequestro. Infatti i gioielli della moglie possono essere sequestrati a causa dei reati commessi dal marito, qualora tra i coniugi sia in vigore il regime di comunione legale, che esclude dal sequestro soltanto i beni strettamente personali. O, per dirla con le parole della Corte di Cassazione (sentenza del 13 febbraio 2017, n. 6595): «in caso di comunione legale dei beni gli acquisti effettuati dopo il matrimonio sono di proprietà anche dell’altro coniuge, a meno che non si tratti di beni di uso strettamente personale del tutto sottratti, in quanto tali, alle disponibilità dell’altro».
La vicenda. Con la sentenza in commento, i Supremi Giudici hanno accolto il ricorso presentato dalla Procura avverso una contribuente: infatti, il tribunale aveva ordinato, in favore di quest’ultima, la restituzione dei preziosi sottoposti a sequestro preventivo, nell’ambito del procedimento penale iscritto a carico anche del marito, indagato per svariati reati di natura tributaria.
Sequestro e confisca. La moglie rivendicava l’esclusiva proprietà di alcuni gioielli, sottoposti a sequestro. Ma la Corte ha sostenuto che la confisca deve essere ordinata sui beni dei quali il reo ha disponibilità, e tale disponibilità non corrisponde necessariamente all’uso effettivo di tali beni. «L’uso, insomma, dimostra la disponibilità del bene da parte del coniuge ma non esclude quella dell’altro», affermano gli Ermellini. Ed è dunque evidente che la comunione legale dei beni non è assolutamente un ostacolo alla confisca: anzi, semmai «l’acquisto effettuato con provviste dell’altro coniuge legittima la presunzione “iuris tantum” della disponibilità anche da parte di quest’ultimo». Va da sé che i giudici hanno annullato la sentenza di appello accogliendo il ricorso della Procura.

Fonte: www.fiscopiu.it /Sequestrabili i gioielli della moglie per i reati tributari del marito - La Stampa

mercoledì 15 febbraio 2017

Equitalia, cifre record prima di chiudere

Nuovo record per Equitalia che nel 2016 ha riscosso 8,7 miliardi, ovvero 509 milioni in più rispetto al 2015 (+6,17%). Le cifre arrivano direttamente dall’Ente, destinato ad essere soppresso a decorrere dal prossimo luglio in virtù delle nuove disposizioni del Decreto Fiscale (art. 1, d.l. 193/2016).
Lotta all’evasione. «I risultati – ha spiegato l’amministratore delegato di Equitalia, Ernesto Maria Ruffini – confermano che le riforme messe in atto dal governo in questi tre anni, l’impegno alla lotta all’evasione e al recupero delle risorse con nuovi strumenti, così come i nostri progetti per costruire un nuovo rapporto coi cittadini grazie anche all’impegno e alla professionalità dei dipendenti di Equitalia, vanno nella giusta direzione, anche se – conclude Ruffini – possiamo e dobbiamo migliorare».
Alcuni dati. La maggior parte degli introiti arrivano dal Centro-Nord (4,8 miliardi) e sono stati riscossi da Equitalia per conto dell’Agenzia delle Entrate (4,66 miliardi, + 9,75% rispetto al 2015), seguita dall’INPS (2,5 miliardi, +5,5% rispetto al 2015) e dall’INAIL (117 milioni, +4,7%). Diminuiscono, invece, i dati relativi ai Comuni, per i quali sono stati riscossi 530 milioni di euro, 20 in meno rispetto al 2015, e quelli relativi ad altri Enti statali (ministeri, prefetture, altre agenzie), in calo di 34,6 milioni (-8,6%).
La classifica delle Regioni, che non include la Sicilia in quanto opera con una Società propria, è capitanata dalla Lombardia (1,84 miliardi, +0,2%) seguita da Lazio (1,28 miliardi di euro, +8,8%) e Campania (875 milioni +5,6%).

Fonte: www.fiscopiu.it/Equitalia, cifre record prima di chiudere - La Stampa

martedì 14 febbraio 2017

Caso Cucchi, chiesto nuovo processo per 5 carabinieri: per tre di loro accusa di omicidio

Un passo verso la giustizia. A distanza di otto anni dalla sua morte è più vicina la verità sulla fine di Stefano Cucchi, picchiato e ucciso il 22 ottobre 2009 da tre servitori dello stato. I carabinieri coinvolti sono gli stessi che lo arrestarono quel giorno nel parco degli acquedotti di Roma: Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro, Francesco Tedesco (che rispondono di omicidio preterintenzionale), Roberto Mandolini e Vincenzo Nicolardi (che rispondono di calunnia).
Per tutti gli indagati il pm Giovanni Musarò, dopo aver chiuso l’inchiesta bis, ha chiesto il rinvio a giudizio. I tre carabinieri, cui viene contestato l’omicidio, erano stati a lungo indagati per lesioni personali aggravate. Ai tre militari dell’Arma è contestato di aver provocato la morte di Stefano «con schiaffi, calci e pugni», provocando con «una rovinosa caduta con impatto al suolo della regione sacrale» lesioni guaribili in almeno 180 giorni e in parte esiti permanenti, che poi hanno portato alla morte di Cucchi.
Ai carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale viene contestato anche l’abuso di autorità per aver sottoposto il geometra «a misure di rigore non consentite dalla legge». Il tutto, per la procura, con «l’aggravante di aver commesso il fatto per futili motivi, riconducibili alla resistenza posta in essere da Cucchi al momento del foto-segnalamento presso i locali della Compagnia di Roma Casilina» dove era stato successivamente trasferito.
Falso e calunnia sono contestati a Tedesco e al maresciallo Roberto Mandolini (che comandava la stazione Appia dove nella notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 venne fatto l’arresto) e, solo per il secondo reato, al carabiniere Vincenzo Nicolardi.
«Le lesioni procurate a Stefano Cucchi, il quale fra le altre cose, durante la degenza presso l’ospedale Sandro Pertini subiva un notevole calo ponderale anche perché non si alimentava correttamente - è scritto ancora nel capo d’imputazione - a causa e in ragione del trauma subìto, ne cagionavano la morte».
Si legge nel provvedimento di chiusura dell’indagine della Procura. «In particolare - scrivono gli inquirenti - la frattura scomposta» della vertebra «s4 e la conseguente lesione delle radici posteriori del nervo sacrale determinavano l’insorgenza di una vescica neurogenica, atonica, con conseguente difficoltà nell’urinare, con successiva abnorme acuta distensione vescicale per l’elevata ritenzione urinaria non correttamente drenata dal catetere».
Un quadro clinico che «accentuava la bradicardia giunzionale con conseguente aritmia mortale».
Secondo i referti medici - inoltre - Cucchi avrebbe subito tante altre lesioni: tumefazioni alle guance e alla fronte, ecchimosi al cuoio capelluto di diverse entità, ecchimosi palpebrali bilaterali, ecchimosi dei solchi naso-labiali bilateralmente, ecchimosi del muscolo temporale destro, ecchimosi del prolabio vestibolare superiore.
Una morte sino ad oggi senza responsabili - tre giudizi di merito, uno di primo grado e due di appello, oltre ad una pronuncia della Cassazione, hanno portato solo ad assoluzioni (definitive quelle degli agenti penitenziari in servizio nelle celle di sicurezza del Tribunale di Roma, confermate nei due giudizi di appello quelle dei sanitari del Pertini) - trova nelle solide acquisizioni di questa seconda inchiesta della Procura di Roma i presupposti per la celebrazione di un nuovo processo e per riscrivere da capo la storia del pestaggio e della morte di Stefano.

Fonte: www.lastampa.it/Caso Cucchi, chiesto nuovo processo per 5 carabinieri: per tre di loro accusa di omicidio - La Stampa

Il contribuente si trasferisce: nulla la cartella inviata al vecchio indirizzo

Nulla la cartella di riscossione delle Entrate notificata al contribuente che si è trasferito in un altro Comune se la sua nuova residenza è nota agli uffici del Fisco. Lo dice la Corte di Cassazione con la sentenza n. 3597/2017, accogliendo il ricorso di un contribuente che aveva impugnato la sentenza che aveva confermato la validità dell’atto.
Il caso. Il contribuente lamentava di essere venuto a conoscenza della pretesa impositiva delle Entrate soltanto con il fermo amministrativo, e ciò perché la cartella era stata notificata mediante deposito nel municipio, come previsto dalla legge.
Contribuente trasferito. «La notificazione in oggetto – scrivono i Giudici nel testo della sentenza – è stata eseguita mediante deposito nella casa comunale […] senza però che ne sussistessero tutti i presupposti. Segnatamente, dopo che il contribuente si era trasferito in Comune diverso da quello del deposito e dopo che tale circostanza dovesse considerarsi nota all’amministrazione finanziaria, in quanto iscritto (successivamente alla presentazione della dichiarazione dei redditi) presso l’anagrafe tributaria. Da questo semplice riscontro anagrafico sarebbe infatti emerso che il contribuente, alla data della notificazione, non risiedeva più nel Comune di esecuzione del deposito, essendosi trasferito».
In definitiva, la Cassazione ha annullato la sentenza.

Fonte: www.fiscopiu.it/Il contribuente si trasferisce: nulla la cartella inviata al vecchio indirizzo - La Stampa

Il genitore che intrattiene rapporti solo via skype con il figlio perde l’affidamento

I contatti giornalieri tra la madre, residente in un Paese estero, ed il figlio minorenne, tramite telefono cellulare e Skype, non sono idonei a surrogare la prolungata assenza del genitore e le visite di persona, non avvenute nemmeno in occasione di tre incontri all’anno disposti dal C.T.U. (Consulente Tecnico d’Ufficio); ne consegue che il figlio debba essere affidato in via esclusiva al padre, dal momento che, affinché sia disposto l’affidamento condiviso, ciascun genitore deve svolgere in modo adeguato il proprio ruolo, educativo ed affettivo.
Il caso concreto
La Prima Sezione civile della Corte di Cassazione si è occupata di un caso di affidamento del figlio minore ai genitori separati e dei rapporti intercorrenti tra il figlio ed uno di essi (la madre), residente in un Paese diverso da quello di residenza del figlio.
Il marito (e padre del minore) aveva chiesto al Tribunale di Udine di pronunciare la propria separazione personale dalla moglie (e madre del minore), con addebito a carico di quest’ultima, a causa di presunte relazioni extraconiugali avute dalla donna, nonché, aveva chiesto fosse disposto l’affidamento condiviso del minore ad entrambi i genitori, con collocazione presso la madre.
Il giudice di prime cure, dichiarando la separazione dei coniugi, aveva però rigettato la domanda di addebito a carico della donna e disposto l’affidamento del minore ad entrambi i genitori, con collocazione presso il padre.
Impugnata la sentenza di primo grado, la Corte d’Appello di Trieste, tra l’altro, dopo aver confermato la separazione dei coniugi, con addebito a carico della donna a causa di almeno due relazioni extraconiugali da essa intrattenute durante il matrimonio, aveva invece disposto l’affidamento del figlio in via esclusiva al padre, siccome la madre risiedeva in un Paese estero, era lontana, non voleva tornare in Italia e non vi era nemmeno tornata per incontrare il figlio in occasione di tre incontri fissati dal C.T.U. (Consulente Tecnico d’Ufficio). Secondo l’Autorità giudiziaria, visto il disinteresse manifestato dalla donna, non sarebbe stato corretto consentire a quest’ultima di condividere le decisioni di maggiore importanza attinenti la sfera personale e patrimoniale del figlio, tenuto conto che, tra la mamma ed il figlio, erano assenti rapporti di ogni genere, ad eccezione di contatti giornalieri intrattenuti con il telefono cellulare e tramite Skype.
La Suprema Corte, chiamata a decidere a seguito del ricorso proposto dalla madre avverso la sentenza del giudice triestino, nel quale Ella aveva evidenziato che la distanza fisica non poteva essere intesa come un suo disinteresse verso il figlio minore, rigettando il ricorso della donna, argomenta la propria decisione ponendo l’accento sul contenuto dell’articolo 155 bis, comma 1, c.c., secondo il quale, il giudice può disporre l’affidamento dei figli ad uno solo dei genitori qualora ritenga che l’affidamento all’altro sia contrario all’interesse del minore e, in effetti, nel caso di specie, era emerso che per più di un anno (dall’estate dell’anno 2012 alla fine dell’anno 2013), la madre non era mai tornata in Italia per incontrare il minore, nemmeno in occasione di tre incontri disposti dal C.T.U..
Richiamando un proprio orientamento (Cass. 2 dicembre 2010, n. 24526; Cass. 17 dicembre 2009, n. 26587; Cass. 18 giugno 2008, n. 16593), la Suprema Corte osserva come la regola dell'affidamento condiviso dei figli ad entrambi i genitori, prevista dall’art. 155 cod.civ., con riferimento alla separazione personale dei coniugi, è derogabile solo ove la sua applicazione risulti pregiudizievole per l'interesse del minore. E il pregiudizio si ravvisa, tra l’altro, quando il diritto di visita viene esercitato in modo discontinuo (Trib. Caltanissetta 30 dicembre 2015; Trib. Modena 2 marzo 2015; App. Roma 15 ottobre 2013; Trib. Bari 17 novembre 2011; Trib. Monza 11 aprile 2011; Cass. 17 dicembre 2009, n. 26587).
Nel caso di specie, dunque, l'assenza di incontri tra la madre e il figlio avevano rappresentato indice del disinteresse del genitore nei confronti del minore e rappresentavano tuttora presupposto idoneo per confermare l’affidamento esclusivo in capo al solo padre.
L’affidamento del minore (condiviso ed esclusivo)
Nel momento in cui una coppia entra in crisi e cessa la convivenza, ove vi siano figli minori, occorre adottare provvedimenti che consentano di proteggere la prole, tenuto conto che l’intenzione del legislatore costituzionale è quella di tutelare i figli in quanto tali, anche se nati fuori dal matrimonio; l’articolo 30 della Costituzione (e il principio è ribadito nell’articolo 315 bis cod.civ.), infatti, stabilisce che i genitori debbano «mantenere, istruire ed educare i figli» e tale regola vale sempre, a prescindere dalla cessazione del rapporto di convivenza tra i genitori e a prescindere dalla crisi della coppia. Si intende evitare che la separazione dei genitori possa avere ricadute negative sulla prole minorenne e, proprio per questo motivo, restano immutati i diritti del minore, anche se cambiano i criteri per darvi attuazione.
La sentenza in esame richiama gli articoli 155 bis e seguenti del Codice civile dal momento che si riferisce ad una vicenda da collocare cronologicamente nell’anno 2009, vale a dire mentre erano in vigore gli artt. 155 bis a 155 sexies c.c., inseriti nel Codice civile dall’articolo 1, L. 8 febbraio 2006, n. 54, e successivamente abrogati dall’art. 106, comma 1, lett. a), D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, ma questa disciplina risulta tuttora attuale in quanto il contenuto delle norme abrogate è stato riproposto, con talune modifiche, negli articoli da 337 bis e seguenti del Codice civile, i quali si riferiscono alla c.d. “responsabilità genitoriale” (a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili del matrimonio), in luogo della “potestà genitoriale”.
Ebbene, anche se è mutata la collocazione delle norme nel Codice civile, non è mutata la sostanza e non sono mutati gli interessi che il legislatore intende perseguire per fornire protezione ai figli che si trovino coinvolti nella separazione dei genitori, tanto che è espressamente previsto che il «figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno [dei genitori], di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale» (art. 337 ter, primo comma, con piccole modifiche, già art. 155, comma 1, c.c.).
L’interesse primario è dunque quello di tutelare la prole minorenne coinvolta nella vicenda patologica della separazione dei genitori, al fine di garantire la conservazione delle condizioni materiali e morali (vale a dire le situazioni economiche ed affettive) anteriori alla separazione. Il legislatore ha quindi disposto che debba essere preferita la «bigenitorialità» (App. Napoli 6 luglio 2016; App. Roma 11 luglio 2007), riconosciuta come un diritto insopprimibile, non solo dei figli minori, ma anche dei genitori, i quali conservano un interesse diretto a mantenere un rapporto costante con i figli, alle cui scelte di vita essi devono partecipare in modo significativo e in modo analogo rispetto a quando la coppia era unita (Trib. Bari 13 settembre 2006).
Proprio per questo motivo, al fine di assicurare il diritto del minore ad avere un rapporto costante, continuativo ed equilibrato con entrambi i genitori (Trib. Napoli 22 gennaio 2007), anche una volta sopraggiunta la crisi coniugale (Trib. Catania 2 ottobre 2007), nel momento in cui il giudice valuta le circostanze concrete, deve preferire la misura dell’affidamento condiviso, il quale presuppone un comune impegno progettuale dei genitori in ordine alle scelte relative alla vita della prole, nonché alla cura della stessa nell'ambito dei vari incombenti della vita quotidiana () e rappresenta la regola (Cass. 8 febbraio 2012, n. 1777; App. Roma 14 novembre 2007; Trib. Catania 2 ottobre 2007; Trib. Campobasso 20 agosto 2007; App. Roma 11 luglio 2007; App. Roma 9 maggio 2007; App. Roma 4 aprile 2007; Trib. Napoli 22 gennaio 2007; Trib. Firenze 13 dicembre 2006; Trib. Bari 13 settembre 2006; Trib. Bologna 10 aprile 2006).
Quest’ultima regola è però derogabile e il giudice deve invece disporre la misura residuale dell’affidamento esclusivo a favore di un solo genitore, con provvedimento motivato (Cass. 8 febbraio 2012, n. 1777; Cass. 2 dicembre 2010, n. 24526; Cass. 17 dicembre 2009, n. 26587; Cass. 18 giugno 2008, n. 16593; App. Roma 11 luglio 2007; App. Roma 9 maggio 2007; App. Roma, 4 aprile 2007), ove l’affidamento condiviso risulti pregiudizievole per l’interesse del minore (articolo 337 quater, comma 1, c.c., già art. 155 bis, comma 1, c.c.), principio peraltro già espresso in diverse occasioni dalla giurisprudenza (Trib. Salerno 22 giugno 2016; Trib. Treviso 29 gennaio 2016; Cass. 11 settembre 2014, n. 19181; Cass. 2 dicembre 2010, n. 24526; Cass. 17 dicembre 2009, n. 26587; Cass. 18 giugno 2008, n. 16593¸ App. Roma 14 novembre 2007).
Si è peraltro osservato che ricorre un pregiudizio per il minore, tra l’altro, nel caso in cui il genitore violi o eserciti con discontinuità il diritto di visita (Trib. Caltanissetta 30 dicembre 2015; Trib. Modena 2 marzo 2015; App. Roma 15 ottobre 2013; Trib. Bari 17 novembre 2011; Trib. Monza 11 aprile 2011; Cass. 17 dicembre 2009, n. 26587) e, nel caso concreto, l’assenza di incontri personali tra la madre ed il figlio rappresentava proprio indice del disinteresse del genitore, non potendosi considerare i contatti giornalieri, tramite telefono cellulare e Skype, idonei a surrogare le visite del genitore assente. Secondo i giudici, l’atteggiamento della madre era quindi idoneo a giustificare l’affidamento esclusivo presso il padre, siccome la finalità dell’affidamento condiviso è quella di permettere ad entrambi i genitori di esercitare la responsabilità genitoriale (già potestà genitoriale) e, quindi, di prendere le decisioni di maggior interesse per la vita del figlio (Trib. Bologna 10 aprile 2006), ma ove un genitore dimostri disinteresse verso il figlio, viene meno il presupposto che giustifica la misura, volta a soddisfare le oggettive, fondamentali, imprescindibili esigenze della prole minorenne, di cura, mantenimento, educazione, istruzione, assistenza morale e della sua sana ed equilibrata crescita psicologica, morale e materiale (Cass. 22 settembre 2016, n. 18559).
Infine, occorre osservare che la giurisprudenza, in altre occasioni, ha affermato che l'affidamento esclusivo del figlio trova giustificazione anche nella grande distanza esistente tra il luogo di residenza del minore e quello del genitore non collocatario, distanza che renderebbe, di fatto, privo di significato un provvedimento di affidamento congiunto (Trib. Catanzaro 26 ottobre 2010; App. Roma 18 aprile 2007; Trib. Minorenni Emilia-Romagna 6 febbraio 2007; App. Bologna 28 dicembre 2006. Contra: Cass., 2 dicembre 2010, n. 24526; Trib. Messina, 12 ottobre 2010; nel senso che la lontananza di per sè non preclude l'affidamento condiviso, bensì, può incidere soltanto sulla disciplina dei tempi e delle modalità della presenza del minore presso ciascun genitore).

Violenza sessuale: costituisce ''induzione'' qualsiasi forma di sopraffazione della vittima

 L’induzione necessaria ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale non si identifica solo con la persuasione subdola ma si...