venerdì 27 settembre 2019

Cellulare rubato e lasciato su una panchina: trovarlo e tenerlo vale una condanna per furto

Definitiva la sanzione per un uomo finito sotto processo perché beccato ad andare in giro portando con sé un telefonino oggetto di una denuncia per furto. Ha spiegato di aver trovato il cellulare abbandonato su una panchina, ma questo elemento non è sufficiente, secondo i Giudici, per rendere meno grave la sua condotta ed evitargli la condanna.

Pessima idea quella di raccogliere e portar via un telefono cellulare – poi risultato rubato – trovato su una panchina. Tale comportamento può valere, difatti, una condanna per furto (Cassazione, sentenza n. 32419/201919, sez. V Penale).

Possesso. Concordi i Giudici del Tribunale e della Corte d’Appello sulla pena nei confronti dell’uomo beccato ad andare in giro portando con sé un cellulare – oggetto di denuncia di furto – e finito per questo sotto processo: due mesi e venti giorni di reclusione e 80 euro di multa. In secondo grado, però, viene data una lettura diversa all’episodio, verificatosi nel Palermitano: i giudici, difatti, ritengono legittimo contestare il reato di furto, e non quello di ricettazione, come invece fatto in primo grado.

Inevitabile la contestazione da parte dell’uomo sotto processo, che attraverso il proprio legale prova ad alleggerire la propria posizione, sostenendo che «il semplice possesso dell’apparecchio telefonico non può integrare il reato di ricettazione o di furto, essendo stato rinvenuto in stato di abbandono su una panchina».
Proprietà. Per il difensore è evidente che la condotta tenuta dal cliente ha avuto ad oggetto «una res derelicta».
Questa visione viene censurata subito dai giudici della Cassazione, i quali osservano che «la condotta ha riguardato un bene che non poteva ritenersi abbandonato, in quanto oggetto di furto».
Per meglio inquadrare la vicenda viene poi richiamato il principio secondo cui «integra il delitto di furto semplice la condotta di colui che sottragga una cosa rubata, perché essa, ancorché abbandonata dal ladro, non costituisce res derelicta, appropriabile da chiunque, considerato che non vi è abbandono senza una volontà in tal senso dell’avente diritto, che nella specie è il proprietario».
In sostanza, «la cosa rubata, una volta abbandonata dal ladro, deve considerarsi nuovamente in possesso del proprietario», concludono i giudici della Cassazione.
Nessun dubbio, quindi, sulla condanna dell’uomo che sostiene di avere preso possesso del cellulare – risultato rubato – dopo averlo trovato abbandonato su una panchina.

fonte:www.lastampa.it

martedì 24 settembre 2019

Definisce “animale” il ragazzino che ha ferito la figlia: è diffamazione

Cancellata in Cassazione la sorprendente assoluzione pronunciata dal Giudice di Pace. Per i Magistrati è evidente la valenza offensiva della frase con cui si paragona un bambino ad un animale. (Cassazione, sentenza n. 34145/19, sez. V Penale). 

Oggi è evidente, soprattutto sui social media, la degradazione dei codici comunicativi. Altrettanto ovvio come sia scaduto il livello espressivo utilizzato dalla maggioranza delle persone. Ciò nonostante, determinati epiteti continuano ad essere chiaramente offensivi: ad esempio, è inaccettabile definire “animale” un ragazzino. Questa la visione tracciata dai Giudici della Cassazione, visione che rende vicina la condanna per un uomo che su WhatsApp nella chat condominiale ha indicato come “animale” un ragazzo che aveva ferito al volto la figlia.

Chat. Scenario della vicenda è un condominio nel leccese. A dare il ‘la’ al caso giudiziario è un incidente che coinvolge un ragazzino e una ragazzina: quest’ultima riporta una ferita al volto. Rabbiosa la reazione del padre che si sfoga su WhatsApp nella chat di gruppo del condominio. In quel contesto – che include anche il genitore del ragazzino – egli scrive una frase inequivocabile: «Volevo solo far sapere al proprietario dell’animale ciò che è stato procurato al volto di mia figlia. Domani, al rientro dal turno lavorativo, prenderò le dovute precauzioni».

Proprio quelle parole sono oggetto del processo a carico del genitore della ragazzina per il reato di diffamazione. A sorpresa, però, il Giudice di Pace di Lecce ritiene prive di fondamento le accuse nei confronti dell’uomo ed esclude «la portata offensiva del termine “animale”» utilizzato per indicare il ragazzino.
Offesa. La decisione del Giudice di Pace viene fortemente contestata dalla Procura di Lecce, che presenta ricorso in Cassazione, sottolineando che «il termine “animale” era stato utilizzato per indicare in maniera spregiativa il bambino». Questa osservazione è ritenuta corretta dai Giudici della Cassazione, i quali aggiungono che «la frase» incriminata «presenta un immediato contenuto offensivo, espresso dalla parola “animale” riferita a un bambino».
Lo sfogo su WhatsApp del padre della ragazzina va assolutamente censurato. Ciò perché è vero che in passato ci sono state delle «‘aperture’ verso un linguaggio più diretto e disinvolto», ma «talune espressioni presentano» comunque «un carattere insultante». E di sicuro «sono ingiuriose», spiegano i Giudici, «quelle espressioni con cui si disumanizza la vittima, assimilandola a cose o animali»: in questa vicenda, in particolare, «paragonare un bambino a un animale – inteso addirittura come oggetto, visto che il padre ne viene definito “proprietario” – è certamente locuzione» caratterizzata da «valenza offensiva».

fonte: www.lastampa.it

Scontro fatale: la cintura di sicurezza non allacciata riduce il risarcimento

Respinte le obiezioni mosse dai familiari della persona deceduta a seguito dell’incidente. Legittima, secondo la Cassazione, la visione tracciata in appello, laddove si è attribuito alla vittima un concorso di colpa nella misura del 30%. Lo ha affermato la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 21747/19, depositata il 27 agosto. 
Il caso. Semaforo rosso completamente ignorato da un’automobilista che con la propria vettura occupa illegittimamente l’incrocio e centra in pieno un furgone. A riportare i danni più seri è una donna, terza trasportata a bordo del furgone: le lesioni ne provocano la morte.
Nessun dubbio sulla responsabilità dell’automobilista. Evidente, però, anche il concorso di colpa della vittima, che non aveva allacciato la cintura di sicurezza. E questo dato è ritenuto decisivo per ridurre al 70% il risarcimento in favore dei familiari della persona deceduta.
Colpa. Ricostruito nei dettagli il drammatico incidente stradale, sono ritenute lapalissiane dai Giudici le colpe dell’automobilista che «non rispettando il semaforo che portava luce rossa ha occupato l’incrocio andando ad urtare un furgone». A essere chiamato in causa è, peraltro, anche il proprietario del veicolo.
In sostanza, nessun dubbio sull’onere risarcitorio in favore dei familiari della donna che, trasportata a bordo del furgone, è morta a causa delle lesioni riportate a seguito dell’incidente. Su questo punto concordano i giudici di Tribunale e di Corte d’Appello, che, comunque, mostrano anche di essere d’accordo sul «concorso di colpa» - per un 30% – della persona deceduta.
In sostanza, si è appurato che la vittima «non aveva allacciato la cintura di sicurezza», e questo dato è ritenuto sufficiente per ‘tagliare’ il risarcimento in favore dei suoi familiari.
Tale decisione viene fortemente contestata dai parenti della donna, ma ogni obiezione si rivela inutile. Per i Giudici della Cassazione, difatti, è corretta la visione tracciata in Appello, poiché si è raggiunta la prova che «la persona trasportata a bordo del furgone non aveva allacciato la cintura di sicurezza nel momento dello scontro».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it

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