giovedì 29 settembre 2016

Prima casa, per la qualifica di immobile di lusso conta anche il seminterrato

I locali seminterrati concorrono al computo dei 240 mq di superficie utile prevista dall'articolo 6 del Dm 2 agosto 1969 che determinano le caratteristiche di lusso di un'abitazione. Pertanto questi locali fanno perdere l'agevolazione prima casa sia ai fini Iva che ai fini dell'imposta di registro fruita in fase d'acquisto dal contribuente che li utilizza a fini abitativi nonostante la loro diversa classificazione catastale.
A sostenerlo è la Suprema di Corte di Cassazione, sezione tributaria civile, sentenza dell'8 giugno 2016 n. 18481 depositata lo scorso 21 settembre.
Si tratta di una sentenza che si colloca nell'alveo tracciato dai giudici su questo argomento, i quali da alcuni anni in più occasioni hanno sostenuto che «occorre fare riferimento alla nozione di “superficie utile complessiva” di cui al decreto ministeriale Lavori pubblici 2 agosto 1969, articolo 6, in forza del quale è irrilevante il requisito dell'“abitabilità” dell'immobile, siccome da esso non richiamato, mentre quello dell'“utilizzabilità'” degli ambienti, a prescindere dalla loro effettiva abitabilità, costituisce parametro idoneo ad esprimere il carattere “lussuoso” di una abitazione» (sentenza 861 del 17 gennaio 2014).

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Non è reato coltivare una piantina di marijuana sul proprio balcone

La punibilità per la coltivazione non autorizzata di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti va esclusa solo se il giudice ne accerti l’inoffensività «in concreto», ossia quando la condotta sia così trascurabile da rendere irrilevante l’aumento di disponibilità della droga e non prospettabile alcun pericolo di ulteriore diffusione della stessa. È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 40030/16 depositata il 26 settembre.
La vicenda. Il gup di Siracusa dichiarava non luogo a procedere nei confronti di un imputato per il reato di coltivazione di sostanze stupefacenti – per un’unica piantina di marijuana detenuta in terrazzo con principio attivo di THC pari all’1,8%. Il Tribunale ha ritenuto che la percentuale di principio attivo ricavabile dalla pianta, tale da garantire n. 12 dosi, consente ragionevolmente di apprezzare un uso personale della sostanza e, nell’esclusione di una possibile diffusione o ampliamento della coltivazione della stessa, escluda altresì la lesione al bene giuridico che la norma mira a proteggere.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Siracusa, deducendo l’irrilevanza della quantità di principio attivo ricavabile, rinvenendosi invece l’attitudine della pianta oggetto di coltivazione a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente, riscontrando in concreto l’offensività della condotta.
L’esclusione della punibilità. La punibilità per la coltivazione non autorizzata di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti va esclusa solo se il giudice ne accerti l’inoffensività «in concreto», ossia quando la condotta sia così trascurabile da rendere irrilevante l’aumento di disponibilità della droga e non prospettabile alcun pericolo di ulteriore diffusione della stessa, risultando non sufficiente in tal senso l’accertamento della conformità al tipo botanico vietato. Dunque ai fini dell’offensività della condotta e della correlata punibilità non è sufficiente il solo dato quantitativo di principio attivo ricavabile dalle singole piante, dovendosi valutare anche l’estensione e il livello di strutturazione della coltivazione, al fine di verificare se da essa possa derivare o meno un produzione potenzialmente idonea a incrementare il mercato.
Trattandosi nel caso concreto della coltivazione di un’unica piantina di canapa indiana, curata in un vaso e posizionata su un terrazzo di abitazione collocata in contesto urbano, è evidente l’esclusione che da detta coltivazione possa derivare quell’aumento nella disponibilità e quel pericolo di ulteriore diffusione che sono gli estremi integrativi dell’offensività e punibilità della condotta ascritta.

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Stanza data in comodato a una ‘lucciola’: è favoreggiamento

Ospite ‘particolare’ in casa: una delle camere da letto è utilizzata abitualmente da una ‘lucciola’. E la proprietaria dell’appartamento, assolutamente consapevole della situazione, è condannata dalla Cassazione per “favoreggiamento della prostituzione”. (Cassazione, sentenza numero 40328 del 28 settembre 2016)
Camera. Pena severa stabilita in Tribunale e confermata in appello: ben «sedici mesi di reclusione» per la proprietaria della casa in cui una sua ospite ha utilizzato una «camera» per esercitare la «prostituzione». Per i giudici è logico parlare di «favoreggiamento», alla luce della ‘legge Merlin’.
E questa visione è ora condivisa dai magistrati della Cassazione. Decisivo il fatto che «una parte dell’appartamento» è stato ceduto «in comodato» a una donna che, come risaputo dalla proprietaria, vi avrebbe svolto la propria attività di ‘lucciola’. Proprio la «consapevolezza» della padrona di casa, difatti, permette di valutare «la gratuità del contratto» come chiaramente finalizzata ad «agevolare l’esercizio della prostituzione».

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martedì 27 settembre 2016

Referendum Costituzionale: si andrà alle urne il 4 dicembre

Il Consiglio dei Ministri, nella seduta n. 132 del 26 settembre 2016, su proposta del Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha convenuto sulla data del 4 dicembre 2016 per l’indizione, attraverso decreto del Presidente della Repubblica, del referendum popolare confermativo previsto dall’articolo 138 della Costituzione.

Referendum popolare confermativo. Scelta, dunque, la data del 4 dicembre 2016 per l’indizione del referendum popolare confermativo previsto dall’articolo 138 della Costituzione sulla legge costituzionale avente ad oggetto le «Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione», approvata dal Parlamento e pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016.

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domenica 25 settembre 2016

Patatine stantie in vendita al bar: commerciante condannato

Superata la data di scadenza indicata sulle confezioni. Ciò nonostante, le buste di patatine sono regolarmente in vendita nel bar. Ma, una volta aperte, il prodotto non appare certo fresco né fragrante, come hanno potuto constatare due carabinieri. Ciò è sufficiente per condannare il proprietario dell’esercizio commerciale. (Cassazione, sentenza numero 38841 depositata il 20 settembre 2016).
Genuinità. In appello il titolare del bar, collocato all’interno di uno stadio, è stato ritenuto cosciente di avere messo in vendita «sostanze non genuine» facendole passare come «genuine». Secondo i giudici, il commerciante, pur consapevole che le «confezioni di patatine» fossero scadute, aveva preferito continuare a tenerle in bella mostra per i clienti.
A inchiodarlo, però, è stato un puro caso, cioè la presenza di «due carabinieri, liberi dal servizio» nell’impianto sportivo in occasione di una partita di calcio. Sono stati loro, difatti, a comprare le patatine e, una volta assaggiatele, a rendersi conto che esse erano stantie, avendo perduto «freschezza e fragranza». A quel punto, è stato naturale andare a controllare la data di scadenza, e scoprire così che quel prodotto non poteva essere proposto ai clienti.
La ricostruzione fatta dai due militari permette, in sostanza, di parlare di «merce non genuina» ma comunque «destinata al commercio». E identica situazione, si è scoperto poi, si era verificata negli altri ‘punti vendita’ presenti nell’impianto sportivo.
Tutto ciò conduce inevitabilmente alla conferma in Cassazione della sanzione inflitta al proprietario del bar, ossia «20 giorni di reclusione».

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No all’arresto in flagranza solo sulla base di informazioni della vittima o di terzi

La quinta sezione della Cassazione aveva rimesso alle Sezioni Unite una questione di diritto riguardante l’esatto significato da attribuire alla nozione di quasi flagranza nella commissione di un reato, chiedendo in particolare di fornire un chiarimento in merito agli elementi che la giurisprudenza di legittimità ritiene fondamentali nella costruzione dell’istituto: ossia la percezione dell’azione delittuosa e l’inseguimento del reo da parte dei soggetti ai quali è conferito il potere di arresto.
Per quasi flagranza si intende, come è noto, una delle forme che può assumere lo stato di flagranza, presupposto indefettibile per procedere all’arresto, obbligatorio (art. 380 c.p.p.) o facoltativo (art. 381 c.p.p.), dell’autore di un reato da parte della polizia giudiziaria (o del privato, nel caso contemplato dall’art. 383 c.p.p.), che l’art. 382 c.p.p., commi 1, dopo avere definito lo stato di flagranza in senso stretto, descrive come la condizione in cui versa «chi, subito dopo il reato, è inseguito dalla polizia giudiziaria, dalla persona offesa o da altre persone ovvero è sorpreso con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima».
Dopo aver riepilogato i diversi orientamenti sul punto, le Sezioni Unite hanno ritenuto di aderire all’indirizzo maggioritario in giurisprudenza secondo cui non sussiste la condizione di quasi flagranza qualora l’inseguimento dell’indagato da parte della polizia giudiziaria sia stato eseguito non a seguito della diretta percezione dei fatti, bensì per effetto e solo dopo la acquisizione di informazioni da parte di terzi.
Questo, di conseguenza, il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite: «non può procedersi all’arresto in flagranza sulla base di informazioni della vittima o di terzi fornite nella immediatezza del fatto».

Per leggere la sentenza clicca quicass-pen-sez-un-2016-39131.pdf

Fonte: www.giurisprudenzapenale.com

Legge 104 anche ai conviventi

Diritto ai permessi retribuiti dal lavoro anche per assistere il convivente portatore di handicap. Non solo per il coniuge o gli stretti parenti. Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 231, depositata il 23 settembre 2016, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 33, comma 3, della legge 104/1992 nella parte in cui non include il convivente tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito per l’assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità, in alternativa al coniuge, parente o affine entro il secondo grado.

La norma bocciata, in effetti, concede il diritto a permessi retribuiti al lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, o entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti. La disposizione, dunque, non include il convivente more uxorio tra i soggetti beneficiari dei permessi di assistenza al portatore di handicap in situazione di gravità.

Fonte: www.italiaoggi.it//Legge 104 anche ai conviventi - News - Italiaoggi

sabato 24 settembre 2016

Scioglimento della comunione: l’assegnazione della proprietà fa venir meno il diritto di abitazione

La Cassazione ha confermato l’orientamento secondo il quale il riconoscimento del diritto di proprietà al genitore affidatario, nel corso dello scioglimento di comunione ordinaria, fa venir meno il diritto di abitazione e, quindi, il conguaglio va calcolato sul valore della piena proprietà.
Il caso. Il Tribunale di Roma disponeva lo scioglimento della comunione dei beni tra due coniugi divorziati relativa a un appartamento e un box, attribuendo la proprietà immobiliare al marito attore e ponendo a suo carico un conguaglio. L’immobile era gravato da un diritto di abitazione riconosciuto allo stesso marito dalla sentenza di divorzio in quanto genitore convivente con il figlio maggiorenne non autosufficiente e, pertanto, in sede di valutazione ai fini del conguaglio, il valore dei beni era stato ridotto del 25%.
Il giudice d’appello confermava l’impostazione del Tribunale aumentando il valore del conguaglio.
A questo punto, ricorreva in Cassazione la moglie, lamentando, tra le altre cose, una eccessiva riduzione del conguaglio giustificata dai giudici dalla circostanza che il figlio trentenne, al momento della sentenza, risultasse convivente con il padre.
Giudici di primo e secondo grado: il diritto di abitazione comporta la decurtazione del valore del bene anche se assegnatario è il titolare di detto diritto.  Per i giudici dei primi due gradi di giudizio «l’assegnazione della casa familiare ad uno dei coniugi, cui l’immobile non appartenga in via esclusiva, instaura un vincolo che oggettivamente comporta una decurtazione del valore della proprietà, totalitaria o parziaria, di cui è titolare l’altro coniuge, il quale da quel vincolo rimane a stretto, come i suoi aventi causa, fino a quando il provvedimento non venga eventualmente modificato». Di conseguenza, si deve tenere conto di tale decurtazione indipendentemente dall’attribuzione della proprietà all’uno o all’altro coniuge.
La proprietà esclusiva della casa familiare fa venir meno il diritto di abitazione. La Cassazione non condivide questa posizione dei giudici e ricorda un precedente orientamento, in base al quale l’assegnazione della casa familiare, di cui siano comproprietari i coniugi, al genitore affidatario «non ha più ragion d’essere» e, quindi, il diritto di abitazione che ne consegue viene meno nel momento in cui il coniuge a cui sia stata assegnata la casa, chieda, nel corso del procedimento per lo scioglimento della comunione, l’assegnazione in proprietà, acquisendo in tal modo anche la quota dell’altro. In questo caso, il diritto di abitazione non può più concorrere alla determinazione del valore di mercato dell’immobile sia perché è un diritto previsto nell’esclusivo interesse dei figli e non del genitore affidatario sia perché «non ha più ragione di esistere», una volta intervenuta l’assegnazione della casa familiare in proprietà esclusiva a quest’ultimo.
La decurtazione di valore dell’immobile penalizza ingiustamente il coniuge non assegnatario. Qualora, infatti, si operasse la decurtazione dal valore in considerazione del diritto di abitazione, il coniuge non assegnatario verrebbe ingiustificatamente penalizzato con la corresponsione di una somma non corrispondente alla metà dell’effettivo valore del bene. Questa considerazione appare decisiva nel caso di specie, in quanto l’attribuzione dell’immobile al coniuge che risultava essere anche l’assegnatario comporta la possibilità per lo stesso di alienare il bene a terzi senza alcun vincolo, conseguendo integralmente il prezzo corrispondente al suo intero valore. Osserva la dottrina che «l’immobile dovrebbe essere valutato “oggettivamente” tenendo conto dell’opponibilità ai terzi di un provvedimento di assegnazione, ancorché reso in favore del coniuge non destinatario dell’attribuzione immobiliare». Si tratta di una fictio iuris iniqua poiché implica un arricchimento in favore del coniuge che sia allo stesso tempo beneficiario dell’immobile presso cui il figlio risiede e «condividente che ottiene l’attribuzione». Queste le ragioni che hanno indotto la Cassazione ad annullare la sentenza impugnata dalla moglie.

Fonte: www.ilfamiliarista.it/Scioglimento della comunione: l’assegnazione della proprietà fa venir meno il diritto di abitazione - La Stampa

Aggressivo nei confronti dell’ex moglie: condannato per maltrattamenti in famiglia

Coniugi separati ufficialmente dal 2009. Ciò nonostante, i comportamenti violenti di lui sono comunque catalogabili come “maltrattamenti in famiglia”. Logica, quindi, la condanna.
Consorzio. Pena severa, quella decisa in Tribunale e confermata in appello: «diciotto mesi di reclusione» per un uomo ritenuto responsabile, tra l’altro, di violenze sull’ex moglie.
Per i giudici non ci sono dubbi sul fatto che le condotte da lui tenute siano valutabili come «maltrattamenti in famiglia».
Di parere opposto, ovviamente, il legale dell’uomo. E le obiezioni proposte in Cassazione puntano, in particolare, a porre in evidenza il fatto che i due coniugi «sono separati dal 2009», cioè ben prima degli episodi oggetto del procedimento penale. Peraltro, ancor prima, aggiunge il difensore, è cessata la «convivenza» tra le mura domestiche.
Questi elementi, però, ribattono i magistrati di Cassazione, non scalfiscono minimamente il quadro accusatorio (sentenza n. 39331, di ieri).
Detto in maniera chiara, né la fine della convivenza né la «separazione» possono fare escludere il «reato di maltrattamenti». Soprattutto perché «il consorzio familiare, inteso come nucleo di persone legato da relazioni di reciproco rispetto ed assistenza, sopravvive alla cessazione della convivenza e, financo, alla separazione».
Ciò comporta, concludono i magistrati, la condanna così come decisa in appello.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /Aggressivo nei confronti dell’ex moglie: condannato per maltrattamenti in famiglia - La Stampa

martedì 20 settembre 2016

Contratto di somministrazione di elettricità e di gas non richiesto e sospensione infondata di esso, sì al risarcimento del danno esistenziale

E' stata recentemente pubblicata (26/07/2016), dal Giudice di Pace di Pisa, una interessante decisione che ha dato ragione all'utente in un caso che lo vedeva parte lesa per avere subìto una attivazione non richiesta. Il perno normativo intorno al quale fondare la condanna dell'azienda erogatrice è stato scorto sia nella disposizione sulla buona fede contrattuale, di cui all'art. 1175 del c.c. (secondo il quale il debitore ed il creditore debbono comportarsi correttamente nella loro relazione obbligatoria), sia nell'art. 1 capo 2, lett. E della legge n. 281/1998 (che impone correttezza e trasparenza nei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi scambiati fra imprese e consumatori).
Il richiamo a questo concetto, come ben sappiamo, è presente in diverse altre norme del codice civile come, ad esempio, nell'art. 1366 (in tema di interpretazione del contratto) e nell'art. 1375 (che lo richiede espressamente nel momento della esecuzione della obbligazione).
Nel caso di specie, il giudice, accertato che fra le parti non era mai intercorso alcun rapporto contrattuale, e che, ciò nonostante, l'azienda erogatrice aveva dato esecuzione ad esso facendo scaturire la pronta contestazione scritta del somministrato, ha ritenuto essere provata la malafede dell'impresa che, in assenza di consenso contrattuale, aveva somministrato il cliente.
E' interessante sottolineare come il giudicante abbia espressamente chiarito come il diritto del consumatore al ristoro per lo stato di "apprensione legato a comportamenti illegittimi del soggetto erogatore del servizio" (danno non patrimoniale qualificato dal magistrato "morale e/o esistenziale) sia da affermarsi sempre, ove provato ed indipendentemente dalla esistenza di direttive emanate da Autorità amministrative regolatorie che non "hanno alcun valore coattivo nei confronti del consumatore".
Sul punto, ricordata l'abrogazione della legge n. 281/1998 per effetto dell'art. 146 del D.Lgs. n. 206/2005, è d'uopo citare analoga pronuncia dello stesso organo giudicante di Pisa, emessa in data 16.10.2014, con cui, sempre nella ipotesi di fattispecie costituita da attivazione non richiesta (cui è seguita illegittima interruzione della somministrazione) é stato riconosciuto il diritto al ristoro del danno non patrimoniale esistenziale, equitativamente determinato, in virtù del summenzionato principio di buona fede dell'art. 1175 c.c..
Per il vero, sempre in tema di riparazione a questa tipologia di danno (da determinarsi in via equitativa), a causa di interruzione della fornitura elettrica con successivo ritardato riallacciamento, anche il Giudice di Pace di Salerno, con sentenza del 2009, ne aveva riconosciuta la legittima affermazione.
Anzi, a questo proposito, quest'ultimo aveva aperto all'uso ampio delle presunzioni per inferire la esistenza del danno da risarcire, così come tralatiziamente insegnato dalla Cassazione (Cass. 31.05.2003 n. 8827; Cass. 19.08.2003 n. 12124; Cass. SS.UU. 24.03.2006 n. 6572) ed atteso che le stesse "non costituiscono uno strumento probatorio di rango secondario nella gerarchia dei mezzi di prova e più debole rispetto alla prova diretta o rappresentativa".
Infine, con sentenza n. 25731 del 22.12.2015, la stessa Cassazione ha confermato la risarcibilità del danno esistenziale cagionato da sospensione indebita della somministrazione di elettricità.
I giudici del supremo collegio hanno puntualizzato che la interruzione della fornitura è legittima solo finché permane l'inadempimento dell'utente, mentre è da ritenere illegittima quando questi abbia già pagato il suo debito.
Sulla scorta di quanto sopra riferito, "il disagio subito dall'utente…per la interruzione del servizio per un periodo di quasi un mese…deve essere risarcito anche con applicazione del criterio di liquidazione del danno in via equitativa ex art. 1226 c.c."
Questa giurisprudenza impone alle aziende venditrici di elettricità e di gas naturale di prestare una maggiore attenzione nella gestione del rapporto contrattuale con i loro clienti.
Spesso, infatti, le prassi aziendali, chiamate a gestire migliaia di rapporti con i rispettivi utenti, si rivelano non idonee al rispetto dei principi di correttezza e buona fede che la legge impone siano, invece, osservati sia nel momento genetico del sorgere del rapporto, che in quello successivo della sua esecuzione.

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Termosifoni con le valvole termostatiche entro dicembre o si paga fino a 2500 euro di multa

Sono molte le famiglie che, in queste settimane, si stanno affrettando a installare le valvole termostatiche con i contabilizzatori di calore. Il termine ultimo per adeguarsi alla normativa (102/2014) è stato confermato per il 31 dicembre di quest’anno. Molti hanno tardato, anche perché speravano in una proroga. Chi non si adegua rischia sanzioni che vanno da 500 a 2500 euro a seconda delle disposizioni adottate dalle singole Regioni. L’operazione, che riguarda soltanto i condomini con riscaldamento centralizzato, promette un risparmio futuro sul conto annuo da pagare e farà bene all’ambiente. Non mancano però dubbi e i rischi sono molti.
Intanto, per mettere a norma i radiatori, le famiglie si ritrovano a dover sborsare una somma iniziale che, in tempi di crisi, non è indifferente. La cifra complessiva da tirare fuori può superare i mille euro a famiglia. Per ammortizzarla ci vorranno dai cinque ai sei anni (sono previste comunque detrazioni). Per ogni calorifero si devono pagare dai 70 ai 100 euro ma si arriva anche a picchi di 200 euro ad apparecchio. Le tariffe variano a seconda delle città e in base al tipo di condominio e di impianto. La corsa dell’ultimo minuto dei tanti ritardatari sta facendo salire i prezzi. Chi opera in questo settore racconta di un boom di richieste di intervento in queste ultime settimane, di materiali che scarseggiano e rialzi dei prezzi.
«Il risparmio sui costi riscaldamento di casa è intorno al 20% - calcola Laurent Socal, esperto della materia e consulente di Confconsumatori -. Da ora in poi si pagherà in base ai consumi effettivi e non più sulla base dei millesimi di casa come avveniva prima». Probabilmente ci sarà più attenzione agli sprechi, le nuove valvole sono molto facili da utilizzare e si potrà, a seconda delle esigenze del momento, chiudere o aprire i singoli radiatori in tutta la casa o in singole stanze o giornate.
Sulle potenzialità di risparmio non sono tutti concordi. Il sindacato dei piccoli proprietari di casa (Uppi) è scettico e denuncia nuovi guai in arrivo. «E’ evidente che alcuni appartamenti, per esempio i piani alti e i piani inferiori a contatto con il terreno, si troveranno con un conteggio dei consumi che sarà più alto rispetto al passato – dice Angelo De Nicola, vicepresidente nazionale dell’Uppi -. In più, oltre alla spesa iniziale per la messa a norma di tutti i radiatori, bisognerà poi pagare ogni anno una società per tutti i conteggi, appartamento per appartamento» (per gli esperti però si tratta di 2-3 euro a radiatore all’anno). Ci sono poi casi estremi come quello di chi vive in un condominio con più appartamenti non occupati. Si ritroverà con spese lievitate perché dovrà accollarsi tutte le dispersioni del palazzo.
Inoltre i calcoli della spesa per ogni abitazione non sono semplici da fare. «Ci troveremo con molte liti in più e con più contenziosi da risolvere perché le valvole segneranno un certo consumo e la ditta che dovrà fare la ripartizione dovrà far collimare i dati e farà aggiustamenti che creeranno molti scontenti» prevede De Nicola. «Il guaio è che in questo settore ci sono molta disinformazione e molti operatori improvvisati – dice Socal -. La materia, a cavallo tra tecnico e giuridico, è complicata e manca una guida dalla pubblica amministrazione».
Le detrazioni
La regola d’oro per chi si appresta a installare le valvole è quello di chiedere più preventivi e non fermarsi alla prima proposta. Si risparmia poi con le detrazioni. «Se questo tipo di interventi viene svolto in concomitanza alla sostituzione del generatore di calore esistente con una nuova caldaia a condensazione, si può presentare la richiesta di detrazione del 65%, prevista per gli interventi di efficientamento energetico e dedicata agli edifici esistenti» – spiega Marco Ogliengo, amministratore delegato di ProntoPro.it, portale di intermediazione di professionisti online.

Fonte: www.lastampa.it/Termosifoni con le valvole termostatiche entro dicembre o si pagano 2500 euro di multa - La Stampa

A disposizione 51 grammi di cocaina, pari a 141 dosi: spaccio professionale

Beccati in possesso di ben mezzo etto di cocaina. Stupefacente destinato ovviamente allo spaccio. E, nonostante le proteste mosse dalle due persone fermate – un uomo e una donna –, è impossibile parlare di “fatto lieve”. (Cassazione, sentenza n. 38758, sezione Sesta Penale, depositata il 19 settembre 2016)
Organizzazione. Sia il giudice dell’udienza preliminare che i giudici d’appello hanno ritenuto grave la condotta tenuta dalle due persone fermate dalle forze dell’ordine. Inequivocabile la disponibilità di «51 grammi di cocaina» da cui, viene sottolineato, «risultavano ricavabili 141 dosi singole».
Ciò è stato ritenuto sufficiente per negare l’ipotesi del «fatto di lieve entità». E su questo punto concordano ora i magistrati della Cassazione, che respingono le obiezioni mosse dal legale dell’uomo e della donna sotto accusa.
Modalità organizzativa dello spaccio. Decisiva, però, non è solo la «consistente quantità dello stupefacente», ma anche «l’allarmante e preordinata modalità organizzativa dello spaccio», «l’attrezzatura» a disposizione e, infine, «la suddivisione professionale della sostanza».
Confermata, perciò, la condanna decisa in Appello, senza alcuna possibilità per l’uomo e la donna di vedere ridotta la pena.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/A disposizione 51 grammi di cocaina, pari a 141 dosi: spaccio professionale - La Stampa

La grande impunità italiana. In cella solo cittadini poveri

Novantanove volte su cento, infatti, con il tempo, con gli appelli, i contrappelli e la Cassazione, anche le condanne iniziali vengono poi cancellate. Sicché alla fine solo gli extracomunitari, gli infimi spacciatori, gli emarginati a vario titolo, gli appartenenti alle classi povere, popolano le nostre galere. Nei Paesi che ci piacerebbe emulare non è così. In Germania, non molto tempo fa, il ricco e potente presidente del Bayern Monaco, condannato per evasione fiscale a due anni e poco più di prigione, ne varcò i cancelli nel giro di un paio di giorni. Un altro esempio: negli Usa i responsabili dei fallimenti bancari e assicurativi del 2008 sono da tempo dietro le sbarre con condanne pesantissime che, c’è da giurarci, sconteranno in grandissima parte. Il famoso finanziere Madoff, colpevole di aver ingannato e spogliato centinaia di ricchi e avidi gonzi che gli avevano affidato i loro capitali, si è beccato una condanna all’ergastolo.

Tutte cose in Italia impensabili: anche se nessuno sembra farci caso, nessuno solleva il problema. Meno che meno l’ineffabile Consiglio superiore della magistratura, pur così instancabilmente sollecito delle sorti della giustizia. E dire che proprio i magistrati, invece, sarebbero i più titolati a spiegarci il perché della vasta impunità italiana. A spiegarci, ad esempio, perché in mano ad avvocati abili, che però solo le persone agiate possono permettersi, le procedure assurde e i codici malfatti che ci governano consentono, attraverso tutto un sistema di rinvii, di prescrizioni e ricorsi, di vanificare indagini e sentenze. Chi lo sa meglio di loro? A quel che ricordo, invece, solo il presidente dell’Anm, Pier Camillo Davigo, vi ha in varie circostanze dedicato qualche attenzione.

Eppure – c’è bisogno di dirlo? – questo doppio standard nell’amministrazione della giustizia ha conseguenze vaste e gravissime. La prima conseguenza è la vanificazione di fatto, prima che del senso della legalità nei cittadini, della legalità effettiva in quanto tale. Una legge che non valga per tutti, infatti, non è più una legge: è un provvedimento arbitrario. Rispetto poi a chi dovrebbe obbedire, ai cittadini, è difficile immaginare che una qualunque legge sia davvero rispettata se sulla base dell’esperienza si diffonde la convinzione che a qualcuno è consentito non rispettarla senza essere sanzionato.

Da ciò la seconda conseguenza: il discredito dell’intera sfera pubblica, a cominciare dalla magistratura per finire con la politica e con il governo: le loro leggi non valgono nulla dal momento che chi sa e soprattutto chi può le viola senz’alcun danno, e dunque anche quei poteri che le emanano e le amministrano non valgono nulla, non meritano alcun rispetto. Anche perché, siano essi di destra o di sinistra, pur sapendo bene come stanno le cose non muovono un dito per cambiarle. Il modo d’essere della giustizia è così divenuto la manifestazione forse più importante della placida doppiezza morale che domina la società italiana. La quale quando parla (specie se parla in pubblico) s’inebria dei nobili concetti di solidarietà e di progresso, mostra regolarmente d’ispirarsi ai più alti principi dell’equità e della benevolenza sociale, ma quando invece si muove nella realtà d’ogni giorno, allora si scopre ferocemente classista, assuefatta ai privilegi come poche, spudorata cultrice di una vasta impunità.

Fonte:www.corriere.it/L’INTERVENTO: La grande impunità italiana. In cella solo cittadini poveri di Ernesto Galli della Loggia (Il Corriere della Sera) -

Bancarotta semplice se i conti sono tracciabili

Risponde di bancarotta semplice non solo il fallito che non ha tenuto i libri e le altre scritture contabili prescritti dalla legge, ma anche quello che li ha tenuti in maniera irregolare o incompleta. Inoltre, per la configurabilità della bancarotta semplice documentale rileva non solo l’irregolare, ma anche, a maggiore ragione, l’omessa tenuta delle scritture contabili e non solo di quelle obbligatorie per legge. Con il risultato di non permettere la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari del fallito. Lo precisa la Corte di cassazione con la sentenza n. 38302 della Corte di cassazione, Quinta sezione penale.

La Cassazione chiarisce che l’elemento di distinzione tra la bancarotta documentale fraudolenta e semplice riguarda soprattutto il profilo oggettivo della condotta del fallito. Nella bancarotta semplice a pesare è l’aspetto solo formale dell’omessa, irregolare o incompleta tenuta delle scritture contabili obbligatorie per legge, «mentre nella bancarotta fraudolenta un profilo sostanziale, atteso che, da un lato, l’illiceità della condotta non è circoscritta alle sole scritture obbligatorie per legge, riguardando tutti i libri e le scritture contabili genericamente intesi, e, dall’altro, è richiesto il requisito dell’impedimento della ricostruzione del volume d’affari o del patrimonio del fallito, estraneo invece al fatto tipico previsto dall’articolo 217 della Legge fallimentare».

In particolare, osserva la Cassazione, non ci sono dubbi che la bancarotta semplice è istituita a presidio della regolarità contabile intesa in senso formale. A questo proposito, ricorda la sentenza, impone l’istituzione di libri obbligatori, come il libro giornale, i libri degli inventari, e altre scritte che sono richieste dalla natura e dalla dimensione dell’impresa. Gli articoli da 2215 a 2220 del Codice civile prescrivono poi le modalità di tenuta e conservazione di queste scritture obbligatorie. L’omessa, irregolare oppure incompleta tenuta delle scritture contabili obbligatorie per legge, in violazione degli articoli 2214 e seguenti del Codice civile costituiscono condotte punte dalla legge fallimentare solo perchè mettono in pericolo il bene giuridico tutelato, costituito dalla esigenza di una corretta informazione sulle vicende patrimoniali e contabili dell’impresa fallita. Nella prospettiva ovviamente della successiva ricostruzione e tutela del patrimonio del fallito, che rappresenta la garanzia per la massa dei creditori.

La Cassazione ricorda allora che si tratta di un delitto di pericolo presunto e pura condotta, che si realizza anche se non si verifica un danno o anche solo la messa in pericolo degli interessi dei creditori.

L’imprenditore fallito o l’amministratore della società fallita che anche solo per negligenza, ha omesso, sotto il profilo formale, di tenere o ha tenuto in modo irregolare o incompleto le scritture contabili obbligatorie, ma che, sotto il profilo sostanziale, ha lasciato traccia di tutte le sue operazioni di gestione, sulla base di documentazione contabile, anche se irregolare tenuta, (fatture, bolle di accompagnamento, estratti conto, annotazioni) in modo tale che è comunque possibile ricostruire sia il patrimonio sia il movimento degli affari, non risponde del reato di bancarotta fraudolenta ma di quello meno grave di bancarotta semplice.

Fonte: www.ilsole24ore.com/CASSAZIONE: Bancarotta semplice se i conti sono tracciabili (Il Sole 24 Ore) -

domenica 18 settembre 2016

Figlio disabile e moglie a lavoro: niente domiciliari per il detenuto

Situazione familiare difficile a casa: figlio disabile a casa e moglie obbligata a lavorare. Ciò nonostante, l’uomo, rinchiuso in carcere, non può puntare alla detenzione domiciliare. Non vi è una situazione di emergenza tale da renderne necessaria la presenza tra le mura domestiche. Ciò perché alla gestione familiare possono contribuire i genitori di lui e i genitori della coniuge. Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 37859/16, sezione prima penale, depositata il 12 settembre.
Casa. Posizione difficile per l’uomo: è in carcere a scontare «sedici anni di reclusione per associazione di tipo mafioso ed estorsione», e, allo stesso tempo, si ritrova con una situazione familiare difficile. Più precisamente, a casa ha «un figlio di 11 anni, portatore di grave handicap» che necessita di assistenza continua, e sua moglie deve non solo badare al ragazzo ma anche mantenere il proprio lavoro.
A fronte di questo quadro, l’uomo chiede di poter essere ammesso alla «detenzione domiciliare speciale», così da poter offrire un sostegno al figlio e alla moglie.
Per i giudici del Tribunale di sorveglianza, però, non vi era una situazione di emergenza. Soprattutto perché la donna «è costantemente supportata dalla famiglia di origine e dalla famiglia» del detenuto.
Famiglia. E anche in Cassazione la richiesta avanzata dal detenuto viene ritenuta eccessiva. Confermato, quindi, il ‘no’ all’ipotesi della «detenzione domiciliare speciale».
Pure per i magistrati, difatti, non si può parlare di «assoluta concreta impossibilità della moglie di occuparsi del figlio», nonostante ella sia impegnata «nello svolgimento di un lavoro che la teneva fuori dalla abitazione». In particolare, viene evidenziato, alla luce delle «relazioni fatte dal Servizio sociale», che i genitori della coppia «seguivano con assiduità il percorso del ragazzo e prestavano tutta l’assistenza imposta dai doveri di solidarietà familiare».
Così la «famiglia allargata», accudendo «anche materialmente il ragazzo», può rendere meno gravosi i compiti della donna, consentendole di «prestare attività lavorativa» regolarmente. Tutto ciò rende non necessaria la presenza del detenuto a casa.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Figlio disabile e moglie a lavoro: niente domiciliari per il detenuto - La Stampa

Guida in stato di ebbrezza aggravata dall’incidente stradale anche senza urto con altri veicoli

Ai fini della configurabilità dell’aggravante il concetto di incidente stradale è riconducibile a ciascun avvenimento che interrompa il normale svolgimento della circolazione stradale determinando un rischio anche meramente potenziale per l’incolumità della collettività. Così si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 38203/16, depositata il 14 settembre.
Il caso. Il gip del Tribunale di Trento condannava l’imputato per guida in stato di ebbrezza aggravato per aver provocato un incidente stradale. L’imputato ricorre “per saltum” dinanzi alla Corte di Cassazione dolendosi per la ritenuta sussistenza dell’aggravante dell’incidente stradale sulla cui base era stata rigettata la richiesta dell’applicazione della pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità. Il Tribunale non aveva infatti considerato, a detta del ricorrente, che l’auto non aveva provocato danni a cose o persone e si era fermata sulla banchina che fa parte della strada senza invadere l’altra carreggiata.
Il ricorso attiene sostanzialmente al concetto di “incidente stradale” quale questione di diritto (e non di fatto) ai fini della configurazione dell’aggravante di cui al comma 2-bis dell’articolo 186 del Codice della Strada.
Il concetto di incidente stradale. La giurisprudenza di legittimità si è già occupata dell’elaborazione interpretativa del concetto – che il legislatore ha volutamente tratteggiato in termini generici – giungendo a riconoscere la sussistenza di un “incidente stradale” in ogni caso in cui l’evento interrompa la normale circolazione stradale e possa provocare un pericolo alla collettività senza che assuma rilevanza l’eventuale coinvolgimento di altri veicoli o di terzi. In particolare, ai fini dell’aggravante in parola, nella nozione di incidente stradale sono ricompresi l’urto del veicolo contro un ostacolo e la sua fuoriuscita dalla sede stradale, essendo dunque sufficiente qualsiasi significativa turbativa del traffico stradale anche solo potenzialmente idonea a causare danni.
Stato di ebbrezza e incidente stradale. Nel caso di specie, ricorrono inequivocabilmente le circostanze per configurare un “incidente stradale”, dovendo inoltre sottolineare l’innegabile riscontro del nesso di strumentalità – occasionalità tra lo stato di ebbrezza del ricorrente e l’incidente da esso provocato. Per questi motivi, la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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Al via le richieste on-line per il rimborso del canone TV non dovuto

Il contribuente che ha versato tramite addebito sulla bolletta il canone TV non dovuto può sfruttare il metodo di rimborso on-line, grazie all’applicazione disponibile sul sito dell’Agenzia delle Entrate. Per accedere  all’applicazione è necessario avere le credenziali di Entratel o Fisconline.
Il rimborso può essere richiesto, ovviamente, nei casi di erroneo addebitamento del canone, e la domanda può essere inoltrata sia dai titolari del contratto di fornitura, sia dagli eredi.
“La richiesta di rimborso va sempre motivata, indicando uno dei sei codici associati alle singole motivazioni”, specifica l’Agenzia delle Entrate, che ricorda come il codice 1 riguardi i contribuenti (o altri componenti della stessa famiglia anagrafica) esenti dal tributo perché over 75 e con reddito familiare sotto i 6.713,98 euro. Il codice 2 riguarda invece l’esenzione per convenzioni internazionali. Bisogna invece indicare il codice 3 per il caso in cui il canone è stato pagato due volte: una, mediante addebito sulle fatture per energia elettrica, ed una con altre modalità, ad esempio mediante addebito sulla pensione.
Il codice 4, invece, va usato quando si verifica un addebito del canone a due componenti della stessa famiglia. Il codice 5, per il caso di non possesso del televisore, quando è stata comunque inviata la dichiarazione di non detenzione. Nei casi diversi dai precedenti, invece, andrà indicato il codice 6.
Resta comunque valida la tradizionale forma cartacea, inviando la richiesta di rimborso tramite servizio postale con raccomandata all’indirizzo Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale 1 di Torino – Ufficio di Torino 1 – Sportello abbonamenti TV – Casella Postale 22 – 10121 Torino, insieme alla copia di un valido documento di riconoscimento; oppure, è possibile inviare la richiesta tramite PEC, all’indirizzo cp22.sat@postacertificata.rai.it.

Fonte: www.fiscopiu.it /Al via le richieste on-line per il rimborso del canone TV non dovuto - La Stampa

domenica 11 settembre 2016

Erogazione di pensione indebita, scatta l'obbligo di restituzione

Chi, con una condotta concludente, percepisce e preleva delle somme di denaro non dovute, acquista la qualità di accipiens e, con essa, l’obbligo di restituire il malo acquisto. Questo il principio espresso dalla Sesta sezione della Cassazione nell’ordinanza n. 17705/16 depositata il 7 settembre.
Il caso. Una banca erogava erroneamente ad una beneficiaria la pensione per 7 anni dopo la sua morte, pensione che veniva accreditata su un conto corrente cointestato a quest’ultima ed un’altra beneficiaria. Tale seconda beneficiaria veniva dunque convenuta in giudizio dalla banca stessa per la restituzione di quanto indebitamente percepito, poiché aveva, nel corso degli anni, prelevato le somme indebitamente erogate. Sia il Tribunale che la Corte d’appello di Milano rigettavano la domanda della banca, osservando che, per effetto della morte della beneficiaria, l’obbligo restitutorio si era trasferito da questa ai suoi eredi e dunque solo questi ultimi potevano essere obbligati alla restituzione.
Ricorreva dunque in Cassazione la banca denunciando che: a) l’obbligo restitutorio, non essendo mai sorto in capo alla prima beneficiaria, non poteva essersi trasferito da costei ai suoi eredi; b) obbligato alla restituzione dell’indebito è chi lo abbia ricevuto.
La decisione della Suprema Corte. La Cassazione ha rilevato che, oltre al fatto che la decisione milanese ha avallato un vero e proprio furto, è stato trascurato di considerare che l’obbligazione restitutoria può sorgere solo qualora chi riceva l’indebito sia in vita. Il pagamento dell’indebito a defunto, ma ritenuto vivente dal solvens, non fa sorgere alcuna obbligazione né in capo al defunto stesso, poiché ovviamente non è soggetto di diritto, né in capo ai suoi eredi, poiché questi assumono i debiti presenti nell’asse ereditario al momento della morte e, nel caso di specie, fino al momento della morte non era stato pagato indebitamente alcun rateo di pensione.
Tale situazione fa invece sorgere l’obbligo di restituzione dell’indebito, ex art. 2033 c.c., in capo a chi di fatto di quel pagamento si avvalga. «È solo questi, infatti, che con una condotta concludente, consistita nella materiale apprensione del pagamento, acquista la qualità di accipiens e, con essa, l’obbligo di restituire il malo acquisto».
Sulla base di queste ragioni la Cassazione ha accolto il ricorso della banca.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Erogazione di pensione indebita, scatta l'obbligo di restituzione - La Stampa

Certificato di assicurazione: nessuna multa se si esibisce la copia digitale

«In sede di controllo, può essere esibito agli organi di polizia stradale anche un certificato di assicurazione in formato digitale o una stampa non originale del formato digitale stesso, senza che il conducente possa essere sanzionato per il mancato possesso dell’originale del certificato di assicurazione obbligatoria o senza che possa essere richiesta la successiva esibizione di un certificato originale in formato cartaceo». Così prevede la Circolare diffusa lo scorso 1° settembre dal Ministero dell’Interno.
Sebbene, infatti, il codice della strada stabilisce che per poter circolare il conducente di un veicolo deve avere il certificato di assicurazione obbligatoria, con l’emanazione del decreto legge n. 1/2012, è cessato l’obbligo di esporre sul veicolo il contrassegno di assicurazione. Inoltre, con provvedimento del 22 dicembre 2014, n. 41, l’IVASS (Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni) ha previsto che «la trasmissione del certificato di assicurazione avviene su supporto cartaceo tramite posta o, ove il contraente abbia manifestato il consenso, su supporto durevole, anche tramite posta elettronica».

Fonte: www.ridare.it/Certificato di assicurazione: nessuna multa se si esibisce la copia digitale - La Stampa

Senza tornaconto si può 'linkare' da un sito internet a un altro

Linkare un’opera protetta da diritto d’autore da un sito internet a un altro non è da considerarsi una «comunicazione al pubblico», quando chi effettua la condivisione non lo fa per scopo di lucro e non è al corrente che la pubblicazione dell’opera da parte sua è illegittima. Al contrario, se il collegamento ipertestuale è fatto a scopo di lucro, si presume che chi effettua il link è a conoscenza dell’illegittimità della pubblicazione. E, dunque, diffonde un contenuto a suo rischio, senza averne titolo e autorizzazione. Lo ha sancito la Corte di giustizia dell’Unione europea, con una sentenza datata 8 settembre 2016 e relativa alla causa C-160/15. Che, in merito alla diffusione via web di alcune foto di donna in Olanda, ha visto contrapposti, da una parte la società GS Media BV, che gestisce un noto sito di gossip, e dall’altro la signora Britt Geertruida Dekker, la Sanoma Media Netherlands BV (che edita nei Paesi Bassi la nota rivista Playboy), e la Playboy enterprises international Inc.

Il fatto. La società GS Media gestisce il sito web GeenStijl, su cui compaiono, in base a quanto professa il sito, «notizie, rivelazioni scandalistiche e inchieste giornalistiche su argomenti leggeri e con tono scherzoso»; si tratta di uno dei dieci siti di attualità più visitati dei Paesi Bassi. Nel 2011 la GS Media ha pubblicato un articolo e un link che rimanda i lettori a un sito australiano; su questo sito erano a disposizione fotografie della signora Britt Geertruida Dekker. Queste foto, però, erano state pubblicate sul sito australiano senza il consenso di Sanoma, l’editore della famosa rivista mensile Playboy, che detiene i diritti d’autore delle foto in questione.

Fonte: www.italiaoggi.it/Senza tornaconto si può linkare - News - Italiaoggi

giovedì 8 settembre 2016

Responsabilità medica: il danno da perdita di chanche non è formulabile per la prima volta in comparsa conclusionale

La sentenza in commento (Tribunale di Palermo, 22 agosto 2016) contiene una pregevole sintesi di alcuni orientamenti giurisprudenziali – assurti oramai a ius receptum – in materia di responsabilità medica, della quale viene confermata innanzitutto la natura contrattuale, messa a dura prova dall’art. 3 della cd. Legge Balduzzi (legge n. 189/20012).
Il caso
I fatti all’origine del contenzioso possono essere così riassunti.
Un’anziana signora che accusava dolori al torace veniva accompagnata dai familiari presso un Pronto Soccorso. Il medico di turno, visitata la paziente, la dimetteva poco dopo prescrivendo l’assunzione di un antidolorifico. Nelle ore successive alla dimissione, essendosi riacutizzato il dolore toracico, la signora veniva riaccompagnata in ospedale, ove, su impulso di altro medico di turno, si procedeva ad effettuare una TAC d’urgenza che evidenziava la dissecazione dell’aorta toracica. La paziente veniva quindi trasferita nel reparto di cardiochirurgia dove, purtroppo, decedeva per shock ipovolemicoda rottura dell’aneurisma dell’aorta toracica. Da qui la richiesta di risarcimento dei danni proposta dagli eredi della signora deceduta, richiesta basata, principalmente, sull’assunto che il tempo inutilmente trascorso tra il primo e il secondo accesso in Pronto Soccorso fosse stato decisivo in ordine al decorso della crisi cardiaca e al suo esito infausto. Precisamente, gli attori chiedevano la condanna dell’Azienda ospedaliera e del primo medico intervenuto, al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali da essi patiti a seguito del decesso della congiunta, per poi aggiungere, in sede di comparsa conclusionale, la richiesta risarcitoria per c.d. “perdita di chances”.
Prima di esaminare il merito della vicenda, il Giudice si è soffermato sulla questione preliminare relativa all’ammissibilità di quest’ultima domanda, giungendo alle conclusioni descritte nel paragrafo che segue. Il Tribunale ha quindi rigettato la richiesta attorea sulla base della ritenuta insussistenza del nesso di causalità tra la condotta del medico convenuto e il decesso della paziente.
L’inammissibilità della domanda formulata per la prima volta in comparsa conclusionale.
Il danno da perdita di chances, richiesto dagli attori solo nell’atto conclusivo del giudizio, non costituisce – ha affermato il Giudice – “una semplice specificazione della originaria domanda, ma … una vera e propria domanda del tutto nuova e come tale inammissibile”. Tale assunto non può essere messo in discussione – ha argomentato il Tribunale – neppure invocando la recente sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 15 giugno 2015, n. 12310 che ha ammesso, sì, la possibilità di modificare il petitum e la causa petendi, ma “a condizione che la domanda così modificata risulti connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio” e chele domande nuove siano proposte per la prima volta con le memorie ex art. 183, sesto comma, n. 1, c.p.c. Ciò in quanto solo così “può dirsi assente il rischio che la controparte possa essere sorpresa dalla modifica e vedersi mortificate le proprie potenzialità difensive”.
La decisione, assolutamente condivisibile, si inserisce nel novero delle pronunce di merito che, all’indomani della dirompente sentenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte, ne hanno recepito il dictum, contribuendo a meglio tracciare i confini della “domanda nuova”. Al riguardo, tra le sentenze più significative, merita di essere segnalata Tribunale Milano, sez. VII, 24 febbraio 2016, secondo cui “la divergenza tra domande nuove vietate e domande modificate, espressamente consentite ex art. 183, comma 6, n. 1. c.p.c., non consiste nel fatto che in queste ultime le modifiche non possono incidere sugli elementi identificativi, bensì nel fatto che le domande modificate non possono essere reputate nuove nel senso di ulteriori e aggiuntive, trattandosi pur sempre delle stesse domande iniziali modificate, eventualmente anche in alcuni elementi fondamentali, o di domande diverse che, però, non si aggiungono a quelle iniziali, ma vi subentrano. Nel sostituirle si pongono in un rapporto di alternatività rispetto a queste, di talchè non sono nuove”.
La natura contrattuale della responsabilità medica
Nell’introdurre l’esame del merito della questione oggetto del contenzioso, il Giudice afferma, senza mezzi termini, la natura contrattuale della responsabilità medica, con le ben note conseguenze in tema di onere della prova. L’assunto, cristallizzato dalla storica sentenza della Corte di Cassazione n. 589/1999, era del tutto scontato sino all’emanazione della legge n. 189/2012 (cd. Legge Balduzzi) e si sta oggi riconsolidando dopo gli autorevoli interventi chiarificatori della Suprema Corte.
Come è noto, infatti, l’art. 3, comma 1, del d.l. 158/2012, convertito dalla legge 189/2012, prevede che “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c.”.
La norma si inquadra nell’alveo di una legislazione d’emergenza volta a risanare la finanza pubblica e, nella fattispecie, ad arginare il fenomeno della medicina difensiva. I nobili scopi perseguiti dal Legislatore hanno dato vita, secondo l’opinione pressoché unanime di dottrina e giurisprudenza, ad un “prodotto” che non si distingue affatto per chiarezza ed efficacia. Basti pensare al dibattito suscitato dal riferimento all’art. 2043 c.c. contenuto nell’ultima proposizione della richiamata novella. Tale formulazione, secondo un primo orientamento, sembra “suggerire l’adesione al modello di responsabilità civile medica come disegnata anteriormente al 1999, in cui, come noto, in assenza di contratto, il paziente poteva richiedere il danno iatrogeno esercitando l’azione aquiliana” (Tribunale Varese, 26 novembre 2012; nello stesso senso cfr. Tribunale Milano, sez. I civile, 23 luglio 2014). A siffatta tesi si oppone quella di quanti ritengono che “la responsabilità del medico ospedaliero – anche dopo l’entrata in vigore dell’art 3. L. 189/2012 – è da qualificarsi come contrattuale” posto che “la presunzione di consapevolezza che si vuole assista l’azione del Legislatore impone di ritenere che esso, ove avesse effettivamente inteso ricondurre una volta per tutte la responsabilità del medico ospedaliero … sotto il … regime della responsabilità extracontrattuale, …così cancellando lustri di elaborazione giurisprudenziale, avrebbe certamente impiegato una proposizione univoca (come per es. “la responsabilità dell’esercente la professione sanitaria per l’attività prestata quale dipendente o collaboratore di ospedali, cliniche e ambulatori è disciplinata dall’art. 2043 del codice civile”) anziché il breve inciso in commento” (Tribunale Milano, sez. V, 18 novembre 2014, n. 13574).
Tale ultima tesi è stata avallata dalla Suprema Corte che ha quindi confermato il tradizionale e consolidato orientamento sulla natura contrattuale della responsabilità medica (Cass. civ., sez. III, 10 gennaio 2013, n. 4030; Cass. civ., sez. VI, ord. 17 aprile 2014, n. 8940; Cass. civ., sez. III, 9 giugno 2016, n. 11789).
Ma la materia è destinata a nuovi e (si spera) definitivi assestamenti in ragione delle imminenti novità legislative: è infatti in discussione in Senato il cd. DDL Gelli (n. S2224), già approvato dalla Camera dei Deputati il 28 gennaio 2016 e recante “Disposizioni in materia di responsabilità professionale del personale sanitario”. Il testo attuale prevede, all’art. 7, la responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, mentre, al secondo comma, stabilisce che “l’esercente la professione sanitaria … risponde del proprio operato ai sensi dell’art. 2043 del codice civile”. E’ forte la speranza che, al di là delle scelte che saranno compiute, si abbia, una volta per tutte, certezza sulla natura della responsabilità medica e sui conseguenti concreti risvolti che ne derivano.
L’insussistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il decesso della paziente.
Il Giudice ha rigettato la domanda di parte attrice sulla base dell’accertata insussistenza del nesso eziologico tra la condotta del medico convenuto e la morte della paziente. Sebbene, infatti, il CTU abbia rilevato significativi profili di imprudenza nel comportamento del sanitario, il complesso delle condizioni cliniche e l’età avanzata della signora poi deceduta inducono a ritenere “che la condotta della convenuta non abbia influito sull’esito infausto che si sarebbe comunque verificato”. La decisione fa proprio, sul punto, il consolidato orientamento che ritiene applicabile, in sede di accertamento della responsabilità civile, il criterio del più probabile che non, sulla base del quale è sufficiente che il nesso causale tra fatto ed evento dannoso si sia verificato con una probabilità superiore al 50% e non con una probabilità molto più alta, superiore al 90%, come previsto dal più rigoroso principio (applicato in sede penale) dell’ al di là di ogni ragionevole dubbio (Cfr., ex pluribus, Cass. penale, sez. IV, 28 novembre 2014, n. 49654).

Per leggere la sentenza clicca quipalermo22 pdf.pdf

Fonte: www.quotidianogiuridico.it

giovedì 1 settembre 2016

Moglie tradita, notizia di dominio pubblico: rottura addebitata al marito

Relazione extraconiugale fatale. Lui tradisce la moglie con una propria dipendente, e il tradimento, ormai di pubblico dominio, lo rende responsabile per la crisi coniugale culminata nella separazione. Così hanno deciso i Giudici di Cassazione con l’ordinanza n. 17317 del 24 agosto scorso.
Relazione. Nessun tentennamento da parte dei giudici, sia in Tribunale che in Corte d’appello: la «separazione» tra i coniugi è frutto della condotta tenuta dal marito. Egli ha tradito la moglie, come certificato dal legame – sentimentale e fisico – con una «dipendente».
A inchiodare l’uomo sono le dichiarazioni rilasciate dalle sorelle della moglie: una ha spiegato che «la relazione extraconiugale era di dominio pubblico» e ha aggiunto di «avere visto abbracci confidenziali» tra il cognato e la donna indicata come sua amante; un’altra ha aggiunto di avere visto il marito della sorella «entrare nell’abitazione» della propria «dipendente» per «rimanervi dalle ore 23.30 fino all’una di notte».
Tutti elementi, questi, che danno forza alle dichiarazioni rilasciate dalla moglie tradita.
Rottura. E l’«addebito della separazione» al marito viene confermato dai magistrati della Cassazione. Anche a loro avviso, difatti, non vi sono dubbi sul nesso tra «relazione extraconiugale» del marito e «intollerabilità della convivenza» per la moglie.
A confermarlo anche le tappe della vicenda: «a maggio 2015» la donne «scopre l’infedeltà del coniuge» e «telefona agitatissima ai genitori»; subito dopo scatta la fase di verifica per ottenere «riscontri» concreti alla ipotesi del «tradimento»; a settembre viene presentato il «ricorso» per la «separazione consensuale» e successivamente quello per la «separazione giudiziale».
Solo col comportamento del marito si può spiegare la rottura della coppia. Ecco perché la «separazione», concludono i magistrati, va addebitata all’uomo, che dovrà anche provvedere all’«assegno di mantenimento» a favore della moglie.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Moglie tradita, notizia di dominio pubblico: rottura addebitata al marito - La Stampa

Approvata la legge contro lo spreco alimentare

Si tratta di un intervento finalizzato a favorire, a fini di solidarietà sociale, il recupero e la donazione di beni alimentari, farmaceutici ed altri prodotti in favore di soggetti che operano senza scopo di lucro.
La nuova normativa prevede una semplificazione burocratica per la donazione, fermo quanto già previsto nella legge di stabilità 2016 che ha innalzato da 5.000 a 15.000 Euro il limite di costo per l'esonero della comunicazione preventiva delle cessioni gratuite.
La legge definisce come
(i) "spreco alimentare" l'insieme dei prodotti scartati dalla catena agroalimentare ancora consumabili, pertanto destinabili al consumo e che sarebbero destinati a essere smaltiti come rifiuti
e per
(ii) "eccedenze alimentari" i prodotti alimentari che, fermo restando il mantenimento dei requisiti di igiene e sicurezza, rimangono invenduti per varie cause (motivi commerciali/estetici, prodotti aventi scadenza ravvicinata, etc).
Al fine di ridurre lo spreco alimentare, la legge distingue il termine minimo di conservazione - inteso come la data fino alla quale un prodotto conserva le sue proprietà specifiche - dalla data di scadenza - oltre la quale gli alimenti sono considerati a rischio.
Fatta questa distinzione, la cessione gratuita di eccedenze alimentari viene consentita anche oltre il temine minimo di conservazione, purché siano garantite l'integrità dell'imballaggio ed idonee condizioni di conservazione.
Deve essere infatti assicurato - sia da coloro che donano il prodotto, sia dalle organizzazioni che lo distribuiscono, per quanto di rispettiva competenza - un corretto stato di conservazione, trasporto, deposito ed utilizzo.
Le cessioni gratuite di eccedenze alimentari da parte degli operatori del settore alimentare devono essere destinate in via prioritaria al consumo degli indigenti, mentre le eccedenze non più idonee al consumo possono essere cedute per il sostegno vitale di animali e per altre destinazioni, come il compostaggio. La cessione riguarda anche la panificazione, i cui prodotti finiti possono essere donati a soggetti che poi li distribuiscono agli indigenti entro le ventiquattro ore successive alla produzione.
La legge prevede anche che il Ministero della Salute potrà emanare linee guida per gli enti gestori di mense scolastiche, aziendali, ospedaliere, sociali e di comunità, al fine di prevenire e, comunque, ridurre lo spreco connesso alla somministrazione degli alimenti.
Sono infine previsti benefici fiscali per chi cede a titolo gratuito prodotti alimentari ad indigenti. Infatti per incentivare chi dona agli indigenti i Comuni possono applicare una riduzione della TARI proporzionata alla quantità, debitamente certificata, dei beni e dei prodotti ritirati dalla vendita ed oggetto della donazione.
Il Legislatore italiano ha dunque disciplinato la materia della lotta allo spreco alimentare in funzione solidaristica attraverso incentivi e semplificazione burocratica, privando la normativa in commento di qualsiasi apparato sanzionatorio.
La medesima finalità solidaristica è stata anche perseguita da altri ordinamenti che, invece, hanno introdotto specifici obblighi e sanzioni contro i soggetti che non cedono gratuitamente le eccedenze alimentari agli indigenti; si ricorda ad esempio la normativa recentemente introdotta in Francia la quale prevede - oltre a specifici obblighi di cedere gratuitamente le eccedenze alimentari - gravi sanzioni, quali la reclusione fino ad anni due e multe fino a 75.000 Euro a seconda della superficie di vendita.

Fonte: www.ilsole24ore.com/Approvata la legge contro lo spreco alimentare

Urta sbarra difettosa del telepass: la società Autostrade deve risarcire il danno

Un automobilista subisce un danno alla propria autovettura in conseguenza del difettoso funzionamento della sbarra di cadenza veicoli apposta in una pista di accesso all’autostrada riservata agli utenti del servizio Telepass: la società Autostrade per l’Italia viene condannata a risarcirlo.
Il caso. Un automobilista, avvicinatosi alla corsia dell’autostrada riservata agli utenti del servizio Telepass, subiva un danno al veicolo a causa del difettoso funzionamento della sbarra di cadenza veicoli. L’uomo ricorreva allora per il risarcimento del danno subito nei confronti della Società Autostrade per l’Italia. Il Tribunale di Nola, confermando la sentenza di primo grado, rigettava la domanda dell’uomo, osservando che non aveva allegato di aver stipulato con la società Autostrade il contratto per il servizio Telepass e «che da ciò conseguiva che non poteva dirsi formata la non contestazione della circostanza da parte della convenuta». Rilevava poi che non poteva dirsi raggiunta la prova che all’uomo fosse consentito l’utilizzo della corsia Telepass, dunque non risultava possibile imputare con certezza il fatto a vizio della strumentazione di proprietà della convenuta piuttosto che alla circostanza che il transito era avvenuto in difetto della necessaria autorizzazione.
Contro tale decisione del Tribunale l’automobilista presentava ricorso  in Cassazione, denunciando violazione.
Allegazione implicita di un fatto costitutivo. La Suprema Corte ha ritenuto fondato il ricorso. Infatti, l’uomo aveva dedotto – implicitamente – di essere titolare di un rapporto che gli consentiva l’accesso alla pista riservata agli utenti del servizio Telepass, avendo egli precisato di aver udito il segnale sonoro del sistema elettronico e di aver visto la sbarra sollevarsi.
Il principio di non contestazione. A fronte di ciò, ben poteva operare il principio di non contestazione – che impone alle parti «l’onere di collaborare a circoscrivere la materia controversa, evidenziando con chiarezza gli elementi in contestazione» e che comporta la necessità per il convenuto (società Autostrade) di prendere posizione in modo chiaro e analitico sui fatti posti dall’attore (l’automobilista) a fondamento della propria domanda, che – in difetto – devono ritenersi ammessi senza necessità di prova. Per tali ragione la Corte ha accolto il ricorso e annullato la sentenza del Tribunale.

Fonte: www.ridare.it/Urta sbarra difettosa del telepass: la società Autostrade deve risarcire il danno - La Stampa

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