domenica 27 maggio 2018

Consultabili on line i dati sulle ricette mediche

Consultabili nel fascicolo sanitario elettronico i dati sulle ricette. Il ministero dell'Economia e delle finanze, che attraverso la Ragioneria generale dello stato gestisce il sistema di tessera sanitaria, ha pubblicato sul sito istituzionale (disponibile al seguente link: http://www.mef.gov.it/pubblicita_legale/documenti/Fascicolo_sanitario_elettronico._Informativa_semplificata_per_gli_assistiti.pdf) l'informativa semplificata per gli assistiti del servizio sanitario nazionale in merito all'accesso ai dati contenuti nel fascicolo sanitario elettronico (Fse). Aprendo il proprio fascicolo, secondo le indicazioni fornite dalla regione di appartenenza, è possibile per ciascun assistito consultare i dati presenti nelle ricette elettroniche dematerializzate relative a farmaci e prestazioni specialistiche. E' anche possibile rinvenire le informazioni sull'eventuale esenzione per reddito (legge di Bilancio 2017). Tali informazioni, comunica il ministero dell'Economia, risultano accessibili tramite il Fse solo se sia stato rilasciato dall'assistito il consenso alla consultazione/alimentazione del proprio Fse. L'assistito, si legge nella comunicazione dell'amministrazione finanziaria, ha la facoltà di esercitare il cosiddetto diritto di oscuramento, ovvero chiedere che le stesse non siano consultabili dai soggetti autorizzati all'accesso del Fse (medici e personale sanitario). Le informazioni, acquisite presso il sistema informativo centrale gestito dal ministero dell'Economia, sono aggiornate a partire dal 1° settembre 2017.

fonte: Consultabili on line i dati sulle ricette mediche - ItaliaOggi.it

La scelta di fumare esclude il risarcimento

Escluso il risarcimento dei danni causati dal fumo quando alla base della fattispecie c'è un atto libero, consapevole ed autonomo di un soggetto dotato di capacità di agire, quale la scelta di fumare nonostante la notoria nocività del fumo. Nell'accertamento della responsabilità civile, infatti, il primo presupposto da verificare è l'esistenza del nesso eziologico tra quello che s'assume essere il comportamento potenzialmente dannoso e il danno che si assume esserne derivato. Una volta verificato che il nesso non sussiste non ha più rilevanza né l'accertamento di un'eventuale colpa, né l'accertamento di una eventuale responsabilità speciale (con tutto ciò che ne consegue in ordine all'inversione dell'onere probatorio). La Cassazione, sez. III, con la sentenza 11272 del 10/5/2018, ricostruisce le norme applicabili ai danni da fumo e ripercorrendone il regime probatorio applicabile, evidenzia come alla base di ogni pronuncia di responsabilità, sia essa di natura contrattuale o extracontrattuale, ci sia l'accertamento del nesso di causalità tra la condotta potenzialmente dannosa e l'evento di danno; in mancanza di tale riscontro non è riconoscibile alcun risarcimento a chi, a qualunque titolo, si ritenga danneggiato. Nel caso portato all'attenzione della Cassazione, il ricorrente chiedeva la condanna dei ministero delle Finanze e della Salute e delle Dogane al pagamento dei danni patrimoniali e non, subiti a causa della gravissima malattia (un carcinoma al lobo inferiore del polmone sinistro) che aveva contratto a causa del fumo. L'istante, nel dettaglio, rappresentava di aver iniziato a fumare in giovane età, ma di non essere riuscito a smettere a causa del forte bisogno di consumare sigarette ingenerato dalle sostanze chimiche inserite all'interno delle sigarette, tale da provocare un bisogno imperioso con dipendenza psichica e fisica tali da indurlo a divenire un tabagista incallito. Da qui anche l'asserita responsabilità del ministero della Salute, il quale avrebbe omesso di salvaguardare la salute pubblica non obbligando le multinazionali e lo Stato ad offrire un prodotto quanto più naturale possibile, privo di rischi per la salute e di quelle sostanze che producono assuefazione. La Corte ha affermato la preliminarietà dell'accertamento del nesso di causalità tra la condotta potenzialmente dannosa e il danno, rispetto alla declaratoria di responsabilità, sia essa di natura contrattuale o extracontrattuale. Facendo uso di tali coordinate ermeneutiche, la Cassazione esclude la spettanza di ogni diritto al risarcimento, poiché la causa del lamentato danno, in ossequio alla teoria della causa prossima di rilievo, sarebbe la scelta libera e consapevole del danneggiato di diventare fumatore. La dannosità del fumo, precisa la sentenza aderendo alle argomentazioni della Corte d'appello, costituisce sin dagli anni 70 un dato di comune esperienza, essendo nota già allora la circostanza che l'inalazione di fumo fosse dannosa alla salute e provocasse il cancro. Che il fumo faccia male, ritiene la Corte, è un fatto notorio, anche se per ragioni culturali, sociali o di costume il vizio del fumo era più accettato, né può avere una valenza risarcitoria la circostanza che un espresso avvertimento sulla dannosità sia stato introdotto dall'art. 46 L. 428/1990, poiché ha l'intento di affermare una nozione da lungo tempo di comune esperienza.

fonte: La scelta di fumare esclude il risarcimento - ItaliaOggi.it

venerdì 25 maggio 2018

E' vietato svolgere l'attività di onoranze funebri all'interno di un Ospedale

Questa pronuncia della Suprema Corte, a Sezioni Unite (sentenza n. 10440 del 2 maggio 2018), affronta una tematica particolare che ha ad oggetto l'esercizio dell'attività commerciale di onoranze funebri. In buona sostanza una sentenza del Consiglio di Stato, la n. 3052 del 17.06.2015, aveva confermato la sentenza del Tar Veneto che aveva rigettato il ricorso proposto avverso il provvedimento del dirigente del Comune di Venezia , Settore del Commercio ed attività correlate. Con maggiore precisione va detto che il provvedimento emesso, dal dirigente del Comune di Venezia, disponeva nei confronti di una società il divieto di proseguire l'attività di onoranze funebri all'interno di uno Ospedale.
Il Tar Veneto aveva rigettato il ricorso della società di onoranze funebri ritenendo che la Legge Regionale Veneto, n. 18 del 2010, all'art. 5 comma 3,vietava che si svolgesse l'attività di onoranze funebri all'interno di strutture sanitarie e socio –assistenziali di cura pubbliche e private di strutture obitoriali e di cimiteri. Il Consiglio di Stato confermava la decisione del Tar Veneto affermando che sia la Legge Regionale Veneto, precedentemente indicata, sia il regolamento di polizia mortuaria cimiteriale del Comune di Venezia, vietavano espressamente lo svolgimento di attività di onoranze funebri in determinati locali, indipendentemente dalla destinazione impressa agli stessi.
La ragione di ciò sta in questo logico ragionamento: qualora fosse stato concesso di svolgere un'attività di onoranze funebri all'interno dell'Ospedale la società esercente l'attività di onoranze funebri avrebbe avuto un indubbio vantaggio concorrenziale.
Il ricorso della società si fondava sostanzialmente su due motivi, nel primo si lamentava un" eccesso di potere giurisdizionale" del Consiglio di Stato; la Cassazione ha,invece, ritenuto inammissibile il motivo precisando che il Consiglio di Stato non aveva commesso alcun "eccesso di potere giurisdizionale" perché aveva interpretato le norme poste a fondamento dell'atto amministrativo. Si ha "eccesso di potere giurisdizionale" tutte le volte in cui il giudice speciale non applichi una norma esistente ma una norma da lui creata;in questo modo da vita ad una produzione normativa che non gli compete. Nel secondo motivo si lamentava ,invece, lo sconfinamento del Consiglio di Stato nella sfera del merito riservata alla Pubblica Amministrazione. Anche questo motivo è stato ritenuto inammissibile e la Suprema Corte ha puntualizzato che il Consiglio di Stato ha semplicemente individuato la regola di diritto in base alla quale doveva essere condotto l'apprezzamento mentre non si è sostituito all'autorità amministrativa in valutazioni di merito, sotto il profilo dell'opportunità e convenienza delle scelte da operare in concreto.

fonte: www.ilsole24ore.com/E' vietato svolgere l'attività di onoranze funebri all'interno di un Ospedale

Ferrara: Raggirò i clienti, condannato il commercialista Schincaglia



Il giusto epilogo, condanna e risarcimento parti civili. 

giovedì 24 maggio 2018

Lui cerca relazioni online, lei lascia la casa coniugale: no all’addebito

Respinta la domanda di addebito presentata dal marito nei confronti della moglie che aveva improvvisamente abbandonato la casa coniugale dopo averlo scoperto mentre cercava relazioni extraconiugali online (Corte di Cassazione, sentenza n. 9384 del 16 aprile 2018).
Il caso. Tizio ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza con cui la Corte di appello aveva respinto la sua domanda di addebito della separazione a carico della moglie, la quale aveva abbandonato la casa coniugale dopo averlo scoperto mentre cercava relazioni extraconiugali online.
Cercare relazioni online è una violazione dell’obbligo di fedeltà. La Cassazione rileva che la Corte territoriale ha escluso la violazione dell’obbligo di coabitazione ravvisando, invece, una violazione degli obblighi di fedeltà nella circostanza che il marito avesse cercato relazioni extraconiugali tramite internet. Tale comportamento, secondo il Giudice di merito, deve ritenersi oggettivamente idoneo a compromettere la fiducia tra i coniugi e a provocare l’insorgere di una crisi matrimoniale, causa della separazione.
Poiché tale ultima statuizione non è stata oggetto di impugnazione da parte del ricorrente che si è limitato a minimizzare la gravità della propria condotta, deve considerarsi formato un giudicato interno incompatibile con la pronuncia di addebito per abbandono del tetto coniugale, giustificato, secondo la Corte d’appello, proprio dalla condotta del ricorrente.
La Cassazione, pertanto, dichiara inammissibile il ricorso.

Fonte: www.ilfamiliarista.it/Lui cerca relazioni online, lei lascia la casa coniugale: no all’addebito - La Stampa

No al risarcimento per la caduta dal marciapiede se il dislivello era evidente

La disattenzione della danneggiata può essere considerata una causa efficiente prossima e sufficiente ad elidere il rapporto di causalità con l’avvallamento della pavimentazione del marciapiede.
Il caso. Una donna conviene in giudizio il Comune di Anzio per ottenere il risarcimento dei danni patiti a seguito  della caduta occorsa mentre percorreva un tratto di marciapiede comunale, attribuendone la causa alla disconnessione della pavimentazione. Il Tribunale di Velletri, e la Corte d’appello di Roma poi, rigettano la domanda. La danneggiata ricorre dunque in Cassazione.
La donna denuncia come la Corte d’appello abbia erroneamente escluso la pericolosità della pavimentazione, a causa della mancanza di due mattonelle, e conseguentemente i presupposti per l’applicazione al caso concreto della presunzione di responsabilità per danno da cosa in custodia.
Non esclusa la responsabilità. La Suprema Corte ritiene tale motivo manifestamente infondato, affermando che la Corte d’appello non aveva escluso l’applicabilità della responsabilità da cosa in custodia, bensì aveva escluso la sua operabilità poiché la pericolosità della cosa in custodia era chiaramente individuabile con l’ordinaria diligenza.
Disattenzione della danneggiata. In particolare, la Corte territoriale aveva sottolineato che la disattenzione della ricorrente poteva essere considerata «una causa efficiente prossima e sufficiente ad elidere il rapporto di causalità con l’avvallamento della pavimentazione del marciapiede».
Caso fortuito. La Corte ricorda infine che , a norma dell’art. 2051 c.c. il caso fortuito comprende la condotta incauta della vittima, rilevante ex art. 1227 c.c., da graduarsi in base di un accertamento in ordine alla sua «effettiva incidenza causale sull’evento dannoso, che può anche essere esclusiva» (Cass. civ., sez. VI, 22 dicembre 2017 n. 30775).
La Corte pertanto rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato.

Fonte: www.ridare.it/No al risarcimento per la caduta dal marciapiede se il dislivello era evidente - La Stampa

Ferrara: Raggirò i suoi clienti, condannato il ragioniere-commercialista

Dopo quasi tre ore in camera di consiglio, oggi (23 maggio) il giudice Debora Landolfi, ha condannato il ragionier Riccardo Schincaglia, 50 anni, ferrarese alla pena di 5 anni e 4 mesi, per aver raggirato e truffato i suoi clienti e aver frodato il Fisco italiano.
Una condanna inferiore agli 8 anni richiesti dall’accusa, ma per lui al di là della pena, pesano di più le condanne di interdizione: alla professione di commercialista per 3 anni, dai pubblici uffici per 5 anni, dagli uffici direttivi persone giuridiche e imprese, divieto di contatti con la pubblica amministrazione e sarà interdetto dalle funzioni di rappresentanza e assistenza tributari per la durata di 2 anni. Insomma, il ragionier Riccardo Schincaglia non potrà più svolgere la sua professione per cui ha raggirato decine e decine di clienti, ieri rappresentati in aula dai legali di parte civile (E. Mancino, O. Di Stefano, V.Bellitti, M.Lambertini, G.Pieraccini, S. Stano).
Ha fatto lo slalom, il giudice Landolfi tra leggi, decreti in materia fiscale, prescrizioni dando alla fine un «vestito giudiziario - spiega uno dei legali - ad un atteggiamento e comportamento discutibile dell’imputato». Dovuti alla strafottenza di Schincaglia, in aula, quando quasi sfidando presenti e giudici, giustificava che tutti coloro che lo avevano denunciato in realtà si rivolgevano a lui, «perchè io non facevo pagar loro tasse e li aiutavo ad evadere», aveva detto al giudice. In parte era vero, ma non per i clienti costituiti parte civile che credevano realmente di pagare oltre i suoi compensi anche tasse, tributi, contributi e imposte che versavano a Schincaglia. Che, poi, invece di trasferire nelle casse dello Stato, con compensazioni negli F24 (di cui i clienti erano all’oscuro), inventava crediti Iva inesistenti che andavano ad annullare debiti in tasse e imposte che i clienti dovevano al Fisco.
Così facendo, dopo anni da quelle operazioni, i suoi clienti si vedevano recapitare cartelle esattoriali dell’Agenzia delle entrate per tasse non pagate e che loro credevano di aver saldato tramite Schincalgia. Il suo difensore, Alberto Bova, ieri mattina (ha già annunciato ricorso in appello) con una difesa tecnica è riuscito comunque ad attenuare la stangata, con la richiesta di applicazione di nuove norme, azzerando la truffa allo Stato contestata per oltre 2 milioni di euro, poichè non più prevista più da nuove norme, essendo le somme “compensate” negli F24 sotto soglia (sotto i 50mila euro, non è previsto il reato penale). Tecnicismi che non spostano il focus del processo: «Un processo che ha messo in luce la assoluta illegalità del sistema Schincaglia». Che ora per anni non potrà più svolgere la sua professione. Mentre il Collegio ragionieri e commercialisti, rimasto alla finestra in attesa di un pronunciamento, potrebbe attivarsi nei suoi confronti, tutelando i cittadini ferraresi.

fonte: Raggirò i suoi clienti, condannato il ragioniere-commercialista - Cronaca - La Nuova Ferrara

domenica 20 maggio 2018

Studi di settore aboliti per imprese in crisi economica

Alle imprese che risentono della crisi economica d'ora in avanti non saranno più applicabili gli studi di settore.
Lo ha sancito senza troppi giri di parole la Corte di cassazione che, con l'ordinanza n. 12273 del 18 maggio 2018, ha ritenuto nullo l'accertamento induttivo spiccato a carico di una piccola impresa edile che aveva subito una sensibile flessione delle commesse e degli ordini.
A nulla è valso il ricorso ai giudici del Palazzaccio presentato dall'Agenzia delle entrate. L'atto impositivo è definitivamente nullo. E questo perché l'ufficio aveva applicato gli studi di settore nonostante la piccola azienda risentisse della pesante crisi che aveva colpito i costruttori.
Per decidere i Supremi giudici «la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l'applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standard in sé considerati- meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività, ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell'accertamento, con il contribuente» e hanno pure aggiunto che «in tale sede, quest'ultimo ha l'onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l'esclusione dell'impresa dall'area dei soggetti cui possono essere applicati gli standard o la specifica realtà dell'attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell'atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell'applicabilità in concreto dello «standard» prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente».
Per la Cassazione, giustamente, dunque, la Ctr di Venezia ha escluso l'applicabilità degli studi di settore rilevando che «nel caso di specie la particolarità dell'attività svolta con l'ausilio di un solo collaboratore familiare, caratterizzata da una flessione nelle commesse e degli ordini tali da indurre a licenziare personale dipendente, rappresenta un aspetto particolarmente grave ed il contribuente prima che non congruo in relazione al volume di ricavi, si palesava altresì non coerente con riferimento al valore aggiunto per addetto».
Insomma per il Collegio di legittimità è dunque appurato che il contribuente, esercente l'attività di artigiano edile, aveva risentito della crisi economica che aveva colpito il settore di appartenenza e che nessuna specifica verifica era stata svolta dall'ufficio, prima di emettere l'accertamento.

fonte: Studi di settore aboliti per imprese in crisi economica - ItaliaOggi.it

sabato 19 maggio 2018

Ritardo del treno: risarcito il danno patrimoniale e non il disagio

Ritardo di cinque ore in seguito a guasto dell’impianto elettrico e di riscaldamento: sufficiente, come ristoro per i danni patiti, il rimborso del 50% del prezzo del biglietto, ossia €7,38, per il solo danno patrimoniale. La Cassazione respinge ogni richiesta di risarcimento del danno morale per il viaggio travagliato.
Due passeggeri, rimasti in una situazione di totale abbandono, al buio ed al freddo, a seguito di un guasto del treno su cui viaggiavano, ottengono dal Giudice di Pace un risarcimento pari a € 413,37.
In seguito, però, il Tribunale di Milano li condanna alla restituzione a Trenitalia Spa della somma ricevuta, accertando solo il parziale inadempimento della società di trasporti ma negando la sussistenza del danno morale.
I danneggiati, ritenendo di dover essere risarciti anche per lo stress subito, ricorrono in Cassazione.
Solo risarcimento del danno patrimoniale. Pur riconoscendo la responsabilità di Trenitalia, poiché in capo all’azienda risiede l’obbligo di manutenzione del mezzo di trasporto, e perché non risulta provato che il ritardo fosse attribuibile a caso fortuito o forza maggiore, la Cassazione precisa però che «il ritardo di cinque ore con cui i passeggeri sono giunti a destinazione legittima solo una riduzione del prezzo del biglietto, nella misura ritenuta equa del 50%».
Escluso il risarcimento del danno morale. La Suprema Corte ritiene che i disagi lamentati dai passeggeri non siano connotati da gravità: disagi, fastidi, disappunti, ansie rientrano necessariamente nel minimo di tolleranza che ogni cittadino è tenuto ad accettare in virtù del dovere di convivenza.
La Corte pertanto rigetta il ricorso.

Fonte: ridare.it/Ritardo del treno: risarcito il danno patrimoniale e non il disagio - La Stampa

Abusiva occupazione di alloggi popolari non è reato se c'è un minore malato

L'occupazione arbitraria di un appartamento di proprietà comunale deve ritenersi scriminata dalla causa di giustificazione dello stato di necessità quando la condotta illecita appare necessaria per evitare il concretizzarsi di un pericolo attuale di un danno grave alla persona, tenendo conto anche delle esigenze di tutela dei diritti dei terzi coinvolti. Ciò non si verifica se l'esigenza di chi invade è quella di reperire un alloggio per risolvere i propri problemi abitativi, ma si configura, invece, quando l'indisponibilità sopravvenuta di altri luoghi da adibire ad abitazione possa pregiudicare lo stato di precaria salute del figlio minore. Questo è quanto si desume dalla sentenza 1381/2017 del Tribunale di Frosinone.
I fatti - La vicenda prende le mosse da una ispezione effettuata dalla Polizia locale di un comune frusinate presso alcune abitazioni popolari, all'esito della quale era emerso che una giovane coppia, assieme al loro figlio minore versante in cattive condizioni di salute, in assenza di autorizzazione aveva occupato una delle case di proprietà del Comune, nonostante questa fosse già stata assegnata ad altra persona. Di qui il decreto penale di condanna per il reato di “Invasione di terreni o edifici” previsto dall'articolo 633 c.p. e il successivo giudizio immediato in esito all'opposizione, dove la difesa dei coniugi chiedeva di ritenere scriminata l'occupazione arbitraria dell'appartamento, ai sensi dell'articolo 54 c.p. che disciplina lo stato di necessità. Per gli imputati, infatti, l'occupazione dell'immobile era la conseguenza della «improrogabile urgenza ed emergenza di procurarsi un alloggio», a causa della precaria situazione igienico-sanitaria in cui versava l'alloggio dove gli stessi abitavano, che era stato dichiarato inagibile, nonché a causa delle precarie condizioni di salute del piccolo affetto da “bronchiti asmatiformi ricorrenti”.
La decisione - Il Tribunale accoglie questa tesi e assolve la coppia con la formula “il fatto non costituisce reato”, ritenendo per l'appunto configurata nella fattispecie la causa di giustificazione dello stato di necessità. Il giudice parte dalla certezza del fatto storico, ovvero dell'illecita occupazione dell'appartamento, così come risultante dalla documentazione della Polizia, e valorizza, al fine di mandare assolti gli imputati, il duplice profilo dell'esigenza abitativa degli stessi e dello stato di malattia del figlio minore. Il Tribunale ricorda, infatti, come ormai la giurisprudenza è costante nel ritenere che l'occupazione arbitraria di un appartamento di proprietà comunale «ricada nell'ambito operativo dell'art. 54 c.p. solo qualora ricorra un pericolo attuale di un danno grave alla persona, non coincidendo la scriminante dello stato di necessità con l'esigenza dell'agente di reperire un alloggio e risolvere i propri problemi abitativi». E ciò ovviamente vale «sempre che ricorrano, per tutto il tempo dell'illecita occupazione, gli altri elementi costitutivi della scriminante, quali l'assoluta necessità della condotta e l'inevitabilità del pericolo», tenendo anche conto «delle esigenze di tutela dei diritti dei terzi, involontariamente coinvolti, diritti che non possono essere compressi se non in condizioni eccezionali e chiaramente comprovate».
Ciò posto, nel caso di specie l'occupazione dell'immobile è avvenuta sulla spinta non di un generico stato di disagio abitativo, bensì sulla scorta di una effettiva urgenza di procurarsi un alloggio, dopo che la vecchia abitazione era stata dichiarata inagibile dalle autorità sanitarie preposte e, soprattutto, in considerazione della patologia del figlio minore grave e non transitoria che induce a ritenere la sussistenza del pericolo attuale di un danno grave alla sua integrità.

fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

DALLA NUOVA FERRARA

Ci siamo quasi, incrociamo le dita 💪👊...#Ferrara #Tribunale #Penale #CommercialistaInfedele #Truffa #AppropriazioneIndebita #ParteCivile #StudioLegaleMancino #AvvEmilianoMancino

giovedì 17 maggio 2018

Matrimonio omosessuale all’estero: no alla trascrizione

Respinta definitivamente la richiesta presentata da un cittadino italiano e uno straniero, sposatisi all’estero. Impossibile riconoscere in Italia, secondo i Giudici, le nozze tra persone dello stesso sesso. Possibile, invece, il riconoscimento come unione civile.
Niente trascrizione in Italia per il matrimonio omosessuale celebrato all’estero tra un cittadino italiano ed uno straniero. I Giudici del Palazzaccio hanno ritenuto legittima la scelta dell’amministrazione comunale di una città del nord Italia con la quale è stata respinta la richiesta avanzata dalla coppia gay, che invece avrebbe dovuto puntare all’inserimento nel Registro delle unioni civili (Cassazione, sentenza n. 11696, Sezione Prima Civile, depositata il 14 maggio).
Unione civile. Chiusa definitivamente con una sconfitta la battaglia portata avanti da una coppia che, sposatisi all’estero, aveva chiesto ad una città italiana la trascrizione del loro matrimonio.
La risposta negativa da parte del Comune era stata ritenuta corretta già dai giudici del Tribunale e della Corte d’Appello, ma a darle ancora più legittimità hanno provveduto i magistrati della Cassazione, respingendo in modo netto le obiezioni proposte dalla coppia e spiegando che in Italia «il legislatore ha inteso esercitare pienamente la libertà di scelta del modello di riconoscimento delle unioni omoaffettive», inquadrandole nel regime ad hoc – la l. n. 76/2016, legge Cirinnà – previsto per le unioni civili.
Riconoscendo piena applicabilità alle nuove disposizioni anche alle coppie unitesi in matrimonio all’estero prima della sua entrata in vigore, il Supremo Collegio sottolinea la peculiarità del caso di specie dovuta al fatto che i due sposi hanno chiesto categoricamente «il riconoscimento della loro unione coniugale come matrimonio» a tutti gli effetti, ritenendo illegittima l’applicazione del c.d. «drowngrading, ovvero la conversione della loro unione matrimoniale in unione civile».
In virtù dell’art. 32-bis l. n. 218/1995, la Corte nega fondamento alla richiesta dei ricorrenti posto che la norma citata recita testualmente «Il matrimonio contratto all’estero da cittadini italiani con persona dello stesso sesso produce gli effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana». Ugualmente, nel caso in cui solo uno dei due coniugi sia cittadino italiano, la tutela che può essere riconosciuta dall’ordinamento italiano non è quella del matrimonio ma solo quella dell’unione civile omoaffettiva, al cui favor è ispirato l’intervento della legge Cirinnà con la quale il legislatore ha esercitato pienamente la liberà di scelta del modello di riconoscimento giuridico delle unioni omoaffettive coerentemente con il quadro di diritto comunitario.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Matrimonio omosessuale all’estero: no alla trascrizione - La Stampa

Scatta lo stalking anche se alcuni episodi sono anteriori alla norma ma collegati ad altri successivi

Si configura il reato di atti persecutori, in relazione al quale la deposizione della persona offesa potrà essere legittimamente posta da sola a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato – ferma l'aderenza al principio indicato dalle Sezioni Unite n. 41461 del 24 ottobre 2012 e, dunque, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità oggettiva del dichiarante nonché dell'attendibilità intrinseca del racconto – anche nell'ipotesi di condotta iniziata prima dell'entrata in vigore della norma incriminatrice, purché si accerti la commissione reiterata, per il periodo successivo, di atti idonei a creare nella vittima un costante stato di ansia e di paura. Lo puntualizza la quinta sezione penale della Corte di cassazione, con la sentenza n. 54308 resa il 25 settembre 2017 e depositata il successivo primo dicembre.
La pronuncia, in sostanza, interviene a marcare come per l'applicabilità della nuova norma non sia «sufficiente che sia stato compiuto l'ultimo atto dopo la sua entrata in vigore» occorrendo che «tale atto sia preceduto da altri comportamenti tipici ugualmente compiuti sotto la vigenza della nuova norma incriminatrice».
Il fatto - Protagonista, un uomo accusato di aver perpetrato, nei confronti dell'ex convivente, reiterate condotte di minaccia e molestia, tali da cagionarle un perdurante e grave stato di ansia e paura ed un fondato timore per l'incolumità propria e della prole comune. Egli, da quanto emerso, era solito effettuare chiamate notturne al telefono di casa della donna, sostare a lungo nei pressi della sua abitazione lasciando l'autoradio acceso a tutto volume, rivolgerle pesanti offese all'onore e al decoro, minacciarla, anche di morte, seguirla e fingere di tamponarla col proprio veicolo.
Comportamenti, quelli descritti, evidentemente riconducibili nell'alveo del delitto di stalking di cui all'articolo 612 bis del codice penale, a norma del quale veniva condannato dal Tribunale, con sentenza confermata in appello, alla pena di nove mesi di reclusione e al risarcimento in favore della vittima di cinque mila euro per il danno morale arrecato.
Il ricorso dell’imputato - Prevedibile, il ricorso dell'imputato: la decisione impugnata, rileva, non era supportata da congrua motivazione in punto di testimonianza della persona offesa, erroneamente intesa come prova dei fatti, risultando carenti, a suo parere, i riscontri oggettivi richiesti dalla difesa. La deposizione della signora, in altre parole, era stata ritenuta attendibile sulla base di una motivazione solo apparente. Non solo. I giudici, precisa, non avevano neanche spiegato le ragioni per le quali era stato ritenuto superfluo l'esame dei tabulati telefonici e l'audizione dei vicini di casa. Elementi che, invece, avrebbero potuto smontare il narrato dell'offesa. Difetto di motivazione ravvisabile, prosegue il legale dell'uomo, anche in punto di collocazione temporale degli episodi riferiti dai testimoni, invero riferibili a periodi diversi da quello indicato in imputazione. Ma il vizio motivazionale, prosegue, avrebbe investito anche la qualificazione giuridica dei fatti contestati, da inquadrarsi – dovendosi escludere l'abitualità delle persecuzioni, consistenti, al massimo, in uno o due eventi – nell'ambito dei meno gravi reati di cui agli articoli 660, 594 e 612 del codice penale (molestia, ingiuria e minaccia).
Ricorso inammissibile per i giudici di Piazza Cavour - Nel sancirlo, la Corte si sofferma in maniera certosina sull'analisi delle doglianze difensive, prima fra tutte, quella inerente la mancanza della motivazione in relazione alla ritenuta sufficienza della sola testimonianza della persona offesa quale prova del fatto, ritenuta attendibile, assenti riscontri oggettivi che la confortassero, sulla base di una motivazione, in realtà, meramente apparente.
Intanto, annota la Cassazione, la censura mossa è inammissibile, risolvendosi, a ben vedere, nella mera recriminazione di un'erronea ricostruzione della vicenda e, di conseguo, in una rivalutazione dei fatti non consentita in sede di legittimità. È palese, infatti, come una tale operazione – lungi dal potersi equiparare a una verifica della correttezza del percorso decisionale sfociato nella pronuncia impugnata – si tradurrebbe in un controllo sulla valutazione della prova, in un ulteriore vaglio delle acquisizioni probatorie, in una nuova ed alternativa analisi delle risultanze processuali «che ineluttabilmente sconfinerebbe in un eccentrico terzo grado di giudizio». Ma, ed è insegnamento costante, la Cassazione non può «ingerirsi nella valutazione del fatto che ha spinto i giudici del merito a ritenere del tutto coerente e attendibile quanto riferito dalla parte civile» (Cassazione penale, sezione VI, 29 marzo 2006 n. 10951). Tanto premesso, il Collegio coglie l'occasione per ribadire come – se con riferimento alla valutazione della deposizione della persona offesa, non si applicano le disposizioni di cui al comma terzo dell'articolo 192 del codice di procedura penale – esse potranno «essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato». È ormai consolidato, difatti, il principio per il quale il narrato della vittima, seppur da valutare con la dovuta cautela, sia soggetto «al solo limite ordinario dell'attendibilità, senza necessità di riscontri esterni» (Corte di Appello di Napoli, sezione VI, 7 luglio 2015 n. 2702), potendo, ai fini dell'affermazione della responsabilità penale dell'imputato, costituire la deposizione della persona offesa, di per sé sola, prova piena dell'accaduto.
Ciò, sia inteso, previa verifica, corredata da motivazione idonea nonché più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui si sottopongono le dichiarazioni di qualsiasi altro testimone, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto. Indispensabile, inoltre, prestare la dovuta cautela per escludere l'eventuale innesto di situazioni concrete che possano far dubitare dell'attendibilità della vittima (Corte di Appello di Trento, 9 gennaio 2015, n. 381). Non solo. Ove l'offeso si sia costituito parte civile, sarà opportuno procedere anche al riscontro delle sue dichiarazioni con ulteriori elementi (Cassazione penale, sezioni Unite, 24 ottobre 2012 n. 41461).
Nella vicenda, però, si afferma nella pronuncia in analisi, non v'erano motivi per ritenere errata la logica seguita dalla Corte d'Appello nell'esprimere «piena sintonia con l'approfondita valutazione operata dal Giudice di primo grado» in ordine all'intrinseca credibilità della donna, apparsa serena e non influenzata dal rancore e al contempo coerente e specifica. È per tale ragione, si sottolinea, che non si erano resi necessari i riscontri esterni proposti dal legale del reo, il quale, peraltro, non aveva né indicato se dette prove fossero state tempestivamente proposte né argomentato sulla sussistenza dei presupposti per riaprire l'istruttoria in sede di gravame. Tanto chiarito, la Cassazione, quanto all'addotta immotivata riferibilità degli episodi narrati dai testi a periodi diversi da quello contestato, annota che, per la verità, la decisione impugnata menziona tutta una serie di comportamenti persecutori posti in essere dal ricorrente a danno dell'ex convivente, dopo il marzo del 2009 e protrattisi almeno fino all'ottobre 2010 e, perciò, proseguiti successivamente all'introduzione del delitto di atti persecutori (operata dall'articolo 7 del decreto legge n. 11 del 23 febbraio 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 38 del 23 aprile 2009).
Quando scatta il reato, la giurisprudenza - Ed è la stessa giurisprudenza ad aver elaborato la tesi per cui possa dirsi configurabile il reato di cui all'articolo 612 bis del codice penale, anche nell'evenienza di condotta persecutoria iniziata antecedentemente all'entrata in vigore della norma incriminatrice, purché si accerti, per il periodo successivo, la commissione reiterata di atti aggressivi e molesti idonei a creare nella vittima «lo status di persona lesa nella propria libertà morale, in quanto condizionata da costante stato di ansia e di paura» (Cassazione penale, sezione V, 16 novembre 2016 n. 48268). Lo stalking, d'altronde, si caratterizza per l'abitualità della condotta – nel senso di reiterazione di minacce o di molestie, ravvisabile anche in soli due atti (Tribunale di Nocera Inferiore, 27 settembre 2016 n. 1941) – e per il verificarsi di uno degli eventi alternativi (Cassazione pen., Sez. V, 30 agosto 2016 n. 35778) indicati nella norma: il perdurante e grave stato di ansia o di paura, da intendersi come apprezzabile destabilizzazione della serenità e dell'equilibrio psicologico dell'offeso (Tribunale di Firenze, 25 ottobre 2016 n. 6166; Tribunale di Bari 22 luglio 2016 n. 3669) e il fondato timore per l'incolumità e l'alterazione delle abitudini di vita di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva (Cassazione penale, sezione V, 23 maggio 2016 n. 21407).
Criterio, elaborato in conformità con quello per cui la prova del crimine andrà ancorata a elementi sintomatici del turbamento psicologico, ricavabili sia dal narrato della vittima che dai comportamenti conseguenti alla condotta del reo, alla luce dell'astratta idoneità a causare l'evento e delle «effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata» (Cassazione penale, sezione V, 28 giugno 2016 n. 26878. Da ultimo: Tribunale Ivrea, 3 novembre 2017 n. 891). A rilevare, allora, sarà sia la minaccia palese che quella implicita o subdola, se idonea a incutere timore, considerate le circostanze del caso, la personalità del reo, le condizioni della parte offesa e quelle ambientali. Ciò, a prescindere dal concreto verificarsi dello stato di intimidazione, reputandosi sufficiente, a far scattare la condanna per atti persecutori, l'attitudine a intimorire (Tribunale di Campobasso, 20 novembre 2017 n. 508) mediante qualsiasi seccante intrusione nell'altrui sfera individuale, incluse le telefonate reiterate (Tribunale di Campobasso, 23 gennaio 2017 n. 8), il massiccio invio di sms (Tribunale di Bari, 3 ottobre 2017 n. 2800), gli atteggiamenti predatori (Tribunale di Genova, 20 ottobre 2016 n. 5425) o gli appostamenti sui mezzi usati dalla vittima per recarsi al lavoro, associati ad avvicinamenti, sguardi insistenti e pedinamenti idonei a procurarle ansia e indurla a mutare abitudini di vita (Tribunale di Genova, 24 gennaio 2017 n. 37).
Tuttavia – trattandosi di reato a eventi alternativi, «la realizzazione di ciascuno dei quali è idonea ad integrarlo» (Cassazione penale, sezione V, 30 agosto 2016 n. 35778; Tribunale di Campobasso, 18 luglio 2016 n. 574) – non si esigerà, perché lo si configuri, né l'effettivo mutamento delle consuetudini della parte offesa, né che lo stato di ansia e timore sofferto si sia tradotto in patologia, essendo sufficiente che le persecuzioni abbiano avuto effetti destabilizzanti della sua serenità e del suo equilibrio psicologico (Cassazione penale, sezione V, 30 ottobre 2017 n. 49681; Tribunale di Firenze, 19 agosto 2016 n. 3976). Effetti che, sia inteso, potranno desumersi anche dalle dichiarazioni rese dalla vittima a riscontro delle modalità degli episodi riferiti (Corte di Appello di Roma, 30 settembre 2016 n. 6501).
Quanto, poi, alla realizzazione di una condotta frazionata in una pluralità di azioni tipiche, omogenee o eterogenee, susseguitesi nel tempo mediante la reiterazione dei singoli episodi, sarà legittima una contestazione che, come nella fattispecie, vada al di là delle tradizionali incriminazioni previste da singole norme e finisca per versarsi in un contesto diverso, quale il delitto di stalking, per la cui configurabilità – annota la Corte in lettura – non è «sufficiente che sia stato compiuto l'ultimo atto dopo la sua entrata in vigore, ma occorre che tale atto sia preceduto da altri comportamenti tipici ugualmente compiuti sotto la vigenza della nuova norma incriminatrice». Affermazione adesiva alla tesi, ormai solida, per cui il crimine di atti persecutori è rinvenibile laddove, pur essendo la condotta iniziata anteriormente all'intervento del 2009, si accerti la commissione reiterata, anche dopo la sua entrata in vigore, di atti aggressivi e molesti idonei a creare nella vittima lo status di persona lesa nella propria libertà morale, condizionata da un costante stato di ansia e paura (Cassazione penale, sezione V, 16 novembre 2016 n. 48268). In sintesi, annotarono i giudici, l'analisi sulla condotta delittuosa esigerà uno sguardo sulla sua «articolazione complessiva, sicché comportamenti che in sé potrebbero non essere punibili si presentano, comunque, rilevanti al fine di integrare il reato di atti persecutori».
Sarà ininfluente, pertanto, in una tale ottica, la proposizione o meno – per atti integranti condotte tipizzate – di apposita querela, dovendosi prendere a riferimento, per il computo del termine semestrale, il comportamento complessivamente persecutorio dell'imputato. E il carattere del reato, abituale a reiterazione necessaria delle condotte, rileverà altresì ai fini della procedibilità, tanto che, ove il presupposto della reiterazione venga integrato da azioni poste in essere oltre i sei mesi previsti dalla norma rispetto alla prima o alle precedenti condotte, la querela estenderà la sua efficacia anche a tali pregresse condotte, indipendentemente dal decorso del termine predetto (Cassazione penale, sezione V, 14 maggio 2015 n. 20065). Del resto, proseguono i giudici, lo stato di alterazione e turbamento psicologico e comportamentale della vittima, seppur non penalmente rilevante in via autonoma, con la Riforma del 2009 ha acquistato «una propria valenza offensiva, in virtù del suo perpetuarsi e radicarsi nella psiche, nei comportamenti quotidiani, nella libertà di autodeterminarsi nella scelta dei luoghi, dei comportanti, delle frequentazioni».
Il reato, quindi, non si perfezionerà con l'instaurarsi della condotta persecutoria, bensì al realizzarsi – con l'innesto della nuova fattispecie – della rilevanza giuridica «nell'esistenza psicologica e nella vita di relazione, del grave stato di ansia e di paura». È il substrato del delitto, fondamentalmente, a consentire di configurare il crimine anche in caso di comportamento invasivo frazionato, a patto che la reiterazione di atti aggressivi e molesti sia idonea (alla luce del pregresso affievolimento delle capacità di resistenza e autodifesa della vittima) a creare nel soggetto leso nella propria libertà morale, l'evento di danno previsto e punito dalla norma.
E nella vicenda, erano stati appurati almeno due episodi di molestie successivi all'introduzione della nuova disciplina. Si palesano, così, le motivazioni per le quali la Cassazione, riscontrati gli elementi integrativi del delitto contestato, inclusa l'abitualità della condotta tenuta dal reo successivamente all'entrata in vigore della Novella ma legata a doppio filo a episodi precedentemente commessi, ha confermato, cristallizzandola, la condanna per atti persecutori inferta al ricorrente.

fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

domenica 13 maggio 2018

Sindaco costringe impresa ad assumere “raccomandati”: scatta la concussione

Risponde di concussione e non di induzione indebita il Sindaco di un Comune che dietro minaccia di non rinnovare un contratto costringe una casa di cura ad alcune assunzioni clientelari.
E' quanto ha stabilito la Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione del 10 aprile 2018, n. 15792.
Il caso vedeva un Sindaco essere condannato in secondo grado per aver costretto l'amministratore unico di una casa di riposo ad assumere due raccomandati, minacciando, in caso contrario, l'estromissione dalla struttura e il mancato rinnovo del contratto.
Il delitto di concussione, ex art. 317 c.p., come modificato dalla Legge n. 190 del 2012, si caratterizza, dal punto di vista oggettivo, da un abuso costrittivo del pubblico agente che si attua mediante violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno “contra ius” da cui deriva una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario che, senza alcun vantaggio indebito per sé, viene posto di fronte all'alternativa di subire un danno o di evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita, e si distingue dal delitto di induzione indebita, previsto dall'art. 319-quater c.p., introdotto dalla medesima legge n. 190, la cui condotta si configura come persuasione, suggestione, inganno, pressione morale con più tenue valore condizionante della libertà di autodeterminazione del destinatario il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta di presentazione non dovuta, perché motivato dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico (Cass. pen., Sez. Un., 24 ottobre 2013, n. 12228; Cass. pen., Sez. VI, 2 marzo 2016, n. 9429).
I criteri scriminanti del danno antigiuridico e del vantaggio indebito risultano nella specie correttamente scrutinati dal momento che si appalesa sicuramente “contra ius” la richiesta di assunzione di plurimi soggetti pretesa dall'agente ad onta delle esigenze della società gestrice della casa di cura, senza alcuna considerazione dei profili professionali eventualmente necessari e in dispregio di trasparenti procedure di selezione del personale, al fine di soddisfare in maniera clientelare le istanze di soggetti elettoralmente vicini al Sindaco.
Come ha avuto modo di evidenziare la giurisprudenza di legittimità, qualora rispetto al vantaggio prospettato quale conseguenza della promessa o della dazione indebita della utilità si accompagni anche un male ingiusto di portata assolutamente spropositata, la presenza di un utile immediato e contingente per il destinatario dell'azione illecita risulta priva di rilievo ai fini della possibile distinzione tra costrizione da concussione e induzione indebita, in quanto, in tal caso, il beneficio conseguibile risulta integralmente assorbito dalla netta preponderanza del male ingiusto (Cass. pen., Sez. VI, 12 febbraio 2015, n. 8963).
Conseguentemente, i giudici hanno confermato la sussunzione del fatto nell'alveo dell'art. 317 c.p., valorizzando la natura delle minacce, le ricadute coercitive sulla vittima e l'assenza di profili di indebito vantaggio per la stessa.

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È fedifrago il marito in cerca di incontri amorosi sul web

La condotta del marito, intento alla ricerca di relazioni extraconiugali tramite internet, integra una violazione dell’obbligo di fedeltà ex art. 143 cod. civ., in quanto costituisce una circostanza oggettivamente idonea a compromettere la fiducia tra i coniugi e a provocare l’insorgere della crisi matrimoniale all’origine della separazione.
Lo stabilisce la Cassazione, sez. I civ., con l'ordinanza 16 aprile 2018, n. 9384.
PB ricorre per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Bologna, che aveva confermato la prima decisione in controversia concernente la separazione giudiziale da FM: in primo grado, respinta la domanda di addebito a carico della moglie, il marito era stato onerato di un contributo al di lei mantenimento in € 600,00 al mese.
In particolare, con il terzo motivo di ricorso, il ricorrente si duole che la Corte di appello abbia ritenuto giustificato l’allontanamento della moglie dalla casa coniugale, senza preavviso, esclusivamente per la scoperta di un interesse del marito alla ricerca di compagnie femminili sul web; sostiene che tale circostanza non era sufficiente a provare che l’allontanamento fosse dipeso esclusivamente da ciò, in assenza di pregresse tensioni tra i coniugi.
La Suprema Corte, nel ritenere il motivo inammissibile, ha osservato che la Corte di appello aveva escluso la violazione dell’obbligo di coabitazione, ravvisando una violazione dell’obbligo di fedeltà ex art. 143 c.c. da parte del marito, intento alla ricerca di relazioni extraconiugali tramite internet, ritenendo ciò circostanza oggettivamente idonea a compromettere la fiducia tra i coniugi e a provocare l’insorgere della crisi matrimoniale all’origine della separazione; su tale statuizione, non oggetto di impugnazione, in quanto il ricorrente si è limitato a minimizzare la sua condotta, si è formato un giudicato interno, incompatibile con la pronuncia di abbandono del tetto coniugale, perché questo è stato ritenuto giustificato dalla Corte territoriale proprio dalla violazione degli obblighi di fedeltà.
L’ordinanza in commento si segnala per due motivi.
In primo luogo, la pronuncia costituisce applicazione del tradizionale orientamento giurisprudenziale secondo cui, affinché una condotta violativa dei doveri coniugali possa essere motivo di addebito della separazione, occorre che essa sia in rapporto causale con la crisi matrimoniale.
Nel caso di specie, la condotta della donna non è stata ritenuta giustificativa dell’addebito della separazione, giacché essa non è stata individuata come la causa della rottura coniugale, che, invece, era da attribuirsi alla condotta del marito, dedito alla ricerca tramite internet di incontri con altre donne.
E’ stato, invero, ripetutamente affermato in giurisprudenza che la pronuncia di addebito postula in ogni caso l'accertamento che il comportamento contrario ai doveri coniugali abbia causato l'intollerabilità della prosecuzione della convivenza.
Si è andato consolidando il principio secondo cui grava sulla parte che richieda, per l'inosservanza dell'obbligo di fedeltà, l'addebito della separazione all'altro coniuge l'onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, mentre è onere di chi eccepisce l'inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda, provare le circostanze su cui l'eccezione si fonda, vale a dire l'anteriorità della crisi matrimoniale all'accertata infedeltà.
In secondo luogo, l’ordinanza conferma l’orientamento favorevole ad una nozione ampia di obbligo di fedeltà.
Infatti, mentre in passato si riteneva che l'unica violazione dell'obbligo di fedeltà fosse costituita dall'adulterio, dopo la riforma del diritto di famiglia si è ampliata la sfera dei comportamenti "infedeli", giacché la fedeltà viene considerata un impegno globale che presuppone la comunione materiale e spirituale dei coniugi. Ne consegue che sono sanzionabili con l'addebito tutti quei comportamenti, sessuali e non, che comportino una lesione del reciproco dovere di devozione dei coniugi e, quindi, della comunione materiale e spirituale. La valutazione di tali comportamenti non è tuttavia automatica, ma è rimessa all'apprezzamento del giudice il quale può addebitare la separazione al coniuge infedele solo «ove ne ricorrano le circostanze»:
Secondo la giurisprudenza, il dovere di fedeltà - la cui inosservanza costituisce una violazione particolarmente grave - consiste appunto nell'impegno, sussistente in capo a ciascun coniuge, di non tradire la fiducia dell'altro ovvero il rapporto di dedizione fisica e spirituale, sicché si potrà avere violazione del suddetto dovere e addebito della separazione anche in assenza di relazioni sessuali extraconiugali, essendo sufficiente l'esternazione di comportamenti tali da ledere la sensibilità e la dignità del coniuge. In applicazione di tali principi è stato ritenuto rilevante, ad esempio, il mero «tentativo di adulterio», ancorché non comportante addebito nel caso di specie.
Di recente, si è affermato in giurisprudenza - riprendendo, in sostanza, il tema della infedeltà apparente – che la relazione di un coniuge con estranei rende addebitabile la separazione ai sensi dell'art. 151 c.c. quando, in considerazione degli aspetti esteriori con cui è coltivata e dell'ambiente in cui i coniugi vivono, dia luogo a plausibili sospetti di infedeltà e quindi, anche se non si sostanzi in un adulterio, comporti offesa alla dignità e all'onore dell'altro coniuge.

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venerdì 11 maggio 2018

Cassazione: fumatore incallito malato di tumore, nessun risarcimento per i familiari

Non riceveranno alcun risarcimento i familiari di un uomo, fumatore incallito, che, dopo essersi ammalato di cancro ai polmoni, aveva citato in giudizio la British American Tobacco, i Monopoli dello Stato, i ministeri delle Finanze e della Salute e la Philip Morris Italia per i danni da lui subiti per la malattia contratta a causa del fumo. La terza sezione civile della Cassazione ha rigettato il ricorso degli eredi dell’uomo, le cui doglianze erano già state respinte dai giudici del merito (tribunale e Corte d’appello di Roma).
Nel 2002, due anni dopo aver saputo di essere malato, l’uomo aveva avviato la causa contro lo Stato e le aziende produttrici di sigarette affermando di essere fin da giovane abituato a fumare anche due pacchetti di Marlboro al giorno: dopo i primi sintomi della malattia, aveva cercato di smettere, riuscendovi soltanto quando il medico lo aveva avvisato delle possibili «conseguenze nefaste». Per questo, imputava la causa della sua malattia ai soggetti che avevano prodotto e posto in commercio le sigarette, sostenendo che «il produttore aveva subdolamente studiato e inserito nel prodotto sostanze tali da generare uno stato di bisogno imperioso con dipendenza psichica e fisica tali da indurlo a diventare un tabagista incallito». Inoltre, citava in giudizio il ministero della Salute, responsabile, a suo dire, di «avere omesso di salvaguardare la salute pubblica non obbligando le multinazionali e lo Stato stesso a offrire un prodotto quanto più naturale, privo di rischi per la salute e di quelle sostanze che producono assuefazione».
I giudici del merito avevano invece bocciato il ricorso ritenendo «manifesta» l’«insussistenza del nesso di causa» tra le «pretese condotte illegittime» dei produttori di sigarette e dello Stato e il «danno»: la Corte d’appello di Roma, in particolare, aveva evidenziato che «la dannosità da fumo costituisce da lunghissimo tempo dato di comune esperienza» e che «non può sostenersi che la nicotina annulli la capacità di autodeterminazione del soggetto “costringendolo” a fumare, senza possibilità di smettere, dai 2 ai 4 pacchetti al giorno».
I familiari dell’uomo si sono quindi rivolti alla Cassazione, affermando che, da parte dei giudici di secondo grado, non fosse stato correttamente applicato il principio in tema di responsabilità per «esercizio di attività pericolosa (la produzione e commercializzazione di prodotti da fumo)». La Suprema Corte, con la sentenza depositata oggi, ha rigettato il loro ricorso, mettendo in evidenza l’esclusione del nesso causale effettuata nei precedenti giudizi «in applicazione del principio della `causa prossima di rilievo´, costituito nella fattispecie - si legge nella sentenza - da un atto di volizione libero, consapevole ed autonomo di soggetto dotato di capacità di agire, quale, appunto, la scelta di fumare nonostante la notoria nocività del fumo».

fonte: Cassazione: fumatore incallito malato di tumore, nessun risarcimento per i familiari - La Stampa

Prelievi e versamenti oltre i 3 mila euro segnalati a Bankitalia

Al via il monitoraggio automatico sui contanti. I prelevamenti e i versamenti oltre soglia (3.000 euro) saranno trasmessi automaticamente alla Banca di Italia, più precisamente all'Unità di informazione finanziaria (Uif), la task force antiriciclaggio dell'istituto di via Nazionale. Entro il 2018 dunque prenderà forma la comunicazione oggettiva che affianca le segnalazioni di operazioni sospette. La novità, introdotta dal dlgs 90/2017 (recepimento della IV direttiva antiriciclaggio) è stata annunciata ieri a Ostia da Alfredo Tidu, capo servizio Operazioni sospette dell'Uif, durante il convegno su «I presidi antiriciclaggio alla luce dell'applicazione della iv direttiva e dello sviluppo dell'economia digitale», organizzato dal Comando generale della Guardia di finanza e da Wolters Kluwer Italia.
Per il momento l'Italia partirà con solo questo flusso di informazioni mentre in altri paesi sono censiti anche altri flussi di dati. In buona sostanza l'organo vigilante in tema di antiriciclaggio stabilisce che al verificarsi di determinati parametri quell'operazione abbia un rilievo, prescindendo dalla valutazione soggettiva. La comunicazione oggettiva, dunque, non andrà a sovrapporsi ma a sostituirsi alla segnalazione di operazione sospetta in quell'ambito.
All'intermediario, però, resta sempre il compito di valutare se quell'operazione affiancata ad altri indici di pericolosità non si sviluppi poi come operazione sospetta, seguendo in questo caso la strada tradizionale della Sos (segnalazione di operazione sospetta, appunto). L'Italia dunque partirà con i movimenti in contante ma in futuro la comunicazione automatica antiriciclaggio potrà essere estesa ad altre fattispecie. Ad esempio in Australia vengono censiti tutti i bonifici verso l'estero. E negli Stati Uniti i conti esteri sopra una certa soglia finiscono nei flussi di comunicazione automatica.
Durante il convegno Giorgio Toschi, comandante generale della Guardia di finanza ha ricordato che «l'approfondimento delle segnalazioni di operazioni sospette generate dal sistema finanziario (giunte ad essere circa 104 mila nel 2017) permette ai reparti del Corpo di svolgere non solo importanti investigazioni di carattere penale (volte a contrastare le più insidiose condotte delittuose di riciclaggio, autoriciclaggio, usura, abusivismo finanziario, che ledono il regolare funzionamento dell'economia legale, la libera concorrenza del mercato e la corretta allocazione del risparmio) ma anche di acquisire significativi elementi informativi da porre a base per l'avvio di pregnanti attività di carattere tributario».
Il ministro dell'economia Pier Carlo Padoan ha sottolineato che il fenomeno del riciclaggio è «articolato e diffuso, coinvolge diversi profili e ha una vocazione transazionale, come tale difficilissima da contrastare». Padoan ha poi sottolineato i «livelli elevati dei volumi dei proventi da illecito» con stime che variano «tra l'1,7 e il 12% del Pil». «Di questo volume di ricchezza», ha spiegato, «la maggior parte è generata da evasione di imposte e accise, circa il 75% dei proventi totali. Credo che basti questa cifra per dimostrate che lotta evasione e lotta al riciclaggio sono facce della stessa medaglia. Poi il narco traffico e usura al 15% e tutte le altre fonti di reato che assommano al 10%».

fonte: Prelievi e versamenti oltre i 3 mila euro segnalati a Bankitalia - ItaliaOggi.it

Omesse ritenute, condanna evitata se l'imprenditore ha acceso un'ipoteca per proseguire l'attività

Va annullata la condanna per omesso versamento delle ritenute se l'imprenditore si è attivato in tutti i modi possibili, anche accendendo mutui e ipoteche sui propri beni personali per assicurare la prosecuzione dell'attività d'impresa. Questa la conclusione cui approda la Corte di cassazione con la sentenza n. 20725 della Terza sezione penale depositata ieri. La Corte ha così annullato la condanna inflitta a un imprenditore al quale era stata contestato l'omesso versamento di ritenute sulle retribuzioni dei dipendenti per un importo di circa 15.000 euro.
La difesa aveva sostenuto che l'impresa era stata investita non da una semplice crisi di liquidità, quanto piuttosto da una gravissima crisi economica e finanziaria dovuta da una parte a una riduzione del fatturato e dall'altro a importanti oneri finanziari per investimenti soprattutto in macchinari effettuati in una fase antecedente all'esplodere della crisi.
La sentenza ricorda che l'imputato può invocare l'impossibilità di adempiere il debito d'imposta, come causa di esclusone da responsabilità penale, a patto di corroborare anche in via documentale il profilo della sua non imputabilità e l'impossibilità dell'azienda a fronteggiare in altro modo la crisi. Occorre cioè la prova che non è stato altrimenti possibile per il contribuente trovare risorse necessarie a permetterli un puntuale rispetto degli obblighi fiscali.
La condanna inflitta invece non aveva neppure preso in considerazione le argomentazioni dell'imprenditore, che avrebbero potuto cambiare la valutazione almeno sull'elemento psicologico del reato valorizzando, per esempio, afferma la Cassazione, quelle soluzioni, come muti e ipoteche, individuate per reperire liquidità.

fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

mercoledì 9 maggio 2018

Continue liti tra i genitori davanti ai figli: è maltrattamento

Laddove la conflittualità tra i genitori coinvolga indirettamente anche i figli «quali involontari spettatori delle feroci liti e dei brutali scontri […] che si svolgano all’interno delle mura domestiche», è configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia.
Così ha affermato la Suprema Corte con la sentenza n. 18833/18, depositata il 2 maggio.
Il fatto. La Corte d’Appello di Firenze riformava parzialmente la sentenza del Tribunale dichiarando di non doversi procedere nei confronti di un’imputata per alcuni titoli di reato (ormai prescritti), mentre rideterminava la pena inflitta per il reato di maltrattamenti a danno dei due figli minori, reato commesso in concorso col convivente.
Il difensore ricorre in Cassazione chiedendo l’annullamento della sentenza deducendo l’insussistenza del reato di maltrattamenti. Secondo la ricostruzione dei giudici, i maltrattamenti consistevano nel costringere i figli minori a vivere in un clima di violenza e paura, nella costante tensione di dover assistere come spettatori passivi alle violente dispute tra i genitori. Facendo leva su tale premessa, il ricorso sottolinea come i figli non fossero mai stati oggetto di aggressioni o soprusi diretti, né di violenza psicologica tanto che non hanno mai manifestato alcun segno di disagio familiare.
Elementi costitutivi del delitto. Il delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.), sottolinea la Corte, è un «reato contro la famiglia (precisamente, contro l’assistenza familiare)» ed il suo oggetto è «costituito dai congiunti interessi dello Stato alla tutela della famiglia da comportamenti vessatori e violenti e delle persone facenti pare della famiglia alla difesa della propria incolumità fisica e psichica». Per tale ragione, la fattispecie in parola deve essere estesa fino al punto di ricomprendere tutti i soggetti che fanno parte della sfera familiare e che possono subire un pregiudizio alla propria incolumità per comportamenti maturati in tale contesto.
Deve però essere sottolineata anche l’ampia portata del termine «maltratta» utilizzato dalla legge per descrivere la condotta dell’imputato, concetto in cui rientrano non solo percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni ed umiliazioni ma anche atti di disprezzo e di offesa della dignità che sfociano in vere e proprie sofferenze morali per la persona offesa. Il reato di maltrattamenti si configura infatti pacificamente anche di fronte ad un’omissione o all’instaurazione di un certo clima di sopraffazione indistinta che si protragga nel tempo creando una sofferenza fisica o morale continuativa per la vittima.
Violenza passiva. Passando ad esaminare il caso della violenza passiva, dove i comportamenti vessatori non sono direttamente volti a danno dei figli minori ma li coinvolgono solo indirettamente «quali involontari spettatori delle feroci liti e dei brutali scontri fra i genitori che si svolgano all’interno delle mura domestiche», i giudici riconoscono un’offesa al bene della famiglia e sottolineano come sia in tal caso necessaria una prova rigorosa dell’abituale comportamento e della sua capacità lesiva.
Sul punto, la motivazione offerta dalla Corte d’Appello risulta carente avendo omesso di verificare se effettivamente il rapporto estremamente conflittuale tra i genitori avesse avuto ripercussioni sui figli, anche in virtù del fatto che i bambini non avevano manifestato alcun segno di disagio familiare. Per questi motivi, la sentenza merita l’annullamento per difetto di motivazione, sennonché, essendo nel frattempo intervenuta la prescrizione del reato, la Corte annulla senza rinvio la decisione.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Continue liti tra i genitori davanti ai figli: è maltrattamento - La Stampa

L'allaccio abusivo alla rete idrica configura furto aggravato

Ricorre furto aggravato nel caso in cui la sottrazione dell’acqua da parte di un condomino sia avvenuta mediante allacciamento abusivo e diretto alla rete idrica, a prescindere dal danno alla fornitura d’acqua causato ad altri utenti. Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 10735 del 9 marzo 2018.
Allaccio abusivo. Una condomina viene condannata dal Tribunale di Enna alla pena di 6 mesi di reclusione ed euro 154 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali, per aver creato un allaccio diretto alla condotta idrica pubblica, effettuando in tal modo un prelievo diretto dell’acqua senza il passaggio attraverso il contatore.
L’imputata propone ricorso in Cassazione, sostenendo in primo luogo che non vi sia certezza in ordine all’autore dell’allaccio abusivo. In secondo luogo lamenta la violazione e l’erronea applicazione delle norme penali in quanto ha agito in stato di necessità, per sopperire ad un bisogno primario ed essenziale che gli era stato inopinatamente sottratto: di fatto l’imputata sostiene che non sia stato provato che il distacco della fornitura idrica dipenda da una asserita e dimostrata morosità. Con un terzo motivo di censura, la condomina lamenta che l’aggravante della pena non risulti contestata in fatto per cui non c’è correlazione tra l’imputazione e la sentenza, pertanto si versa in una situazione di nullità insanabile.
Distacco. I Giudici di legittimità ricostruendo i fatti, hanno in primo luogo accertato che a causa della morosità della condomina si era proceduto al distacco della fornitura idrica, con conseguente ritiro del contatore ed apposizione dei sigilli. Inoltre non può trovare accoglimento neanche l’ipotesi della sussistenza dello stato di necessità, poiché non è stato addotto nessun elemento idoneo a comprovare tale scriminante, e deve ritenersi che la condotta dell’imputata non possa essere derubricata nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, poiché nel caso di specie l’appropriazione di cosa altrui è finalizzata a trarre un profitto.
L’aggravante. In merito all’aggravante, comminata dal giudice di merito, essa trova fondamento nel fatto che trattandosi di cose destinate a pubblico servizio e dunque di pubblica utilità, sono meritevoli di una maggiore tutela proprio per la loro destinazione.
In conclusione, sussiste l’aggravante in senso oggettivo, quindi al verificarsi delle ipotesi individuate dal legislatore, indipendentemente dagli effetti provocati dall’azione delittuosa sul bene ritenuto meritevole di tutela. Pertanto l’aggravante sussiste nei casi in cui, come nella fattispecie concreta, la sottrazione dell’acqua sia avvenuta mediante allacciamento abusivo e diretto alla rete idrica, indipendentemente dal fatto che tale condotta abbia recato effettivo nocumento alla fornitura d’acqua di altri utenti.
Per questi motivi la Corte dichiara il ricorso inammissibile.

Fonte: www.condominioelocazione.it/L'allaccio abusivo alla rete idrica configura furto aggravato - La Stampa

domenica 6 maggio 2018

Multe mal digerite, sfogo contro l’agente: niente condanna

Esclusa l’ipotesi che l’automobilista abbia prospettato un male ingiusto contro l’agente. Le parole utilizzate sono reputate una semplice critica al suo operato. Decisiva anche la constatazione che le tre multe, poi annullate, erano collocate in uno scontro tra condomini.
«Guardati attorno e pensa a quello che hai fatto…». Così l’automobilista, irritato per i tre verbali recapitatigli a casa, si sfoga con l’agente di polizia che aveva elevato le contravvenzioni.
Quelle parole, però, se contestualizzate, non possono essere valutate come una seria minaccia. Decisiva la constatazione che i tre verbali erano poi stati annullati, e che il raptus verbale era frutto di una legittima, anche se poco ortodossa, critica (Cassazione, sentenza n. 18805/18, sez. V Penale, depositata oggi).
Critica. Scontro tra condomini per un parcheggio. Uno dei due litiganti è però un agente di polizia e sanziona il ‘nemico’ con «tre contravvenzioni: una per intralcio alla circolazione; una per non avere indossato la cintura di sicurezza; una per avere proferito una bestemmia».
La notifica dei verbali scatena la reazione dell’automobilista, che si rivolge con rabbia all’agente: «Vedrai come perdi il posto di lavoro a comportarti così. Mi sono arrivati i verbali. Vedrai cosa ti succede… guardati attorno e pensa a quello che hai fatto». E quelle parole gli costano una condanna per «minaccia», con relativa pena fissata, sia dal Giudice di Pace che dai Giudici del Tribunale, in «400 euro di multa».
Di parere opposto sono invece i giudici della Cassazione, i quali ritengono poco plausibile parlare di «minaccia» ai danni dell’agente di polizia.
In sostanza, il fatto e il contesto aiutano a ridimensionare le parole dell’automobilista. Nello specifico, è stato appurato che l’uomo «ha occupato un posto auto riservato ai residenti del condominio in cui vivono sia costui che l’agente di polizia», e quest’ultimo «gli ha elevato una contravvenzione per il parcheggio irregolare, pur non essendo l’automobilista parcheggiato in un luogo ad uso pubblico». E non è un caso, viene aggiunto, che «le contravvenzioni sono state annullate dal Giudice di pace».
A fronte di questo quadro, per i giudici della Cassazione «le frasi pronunciate dall’automobilista» sono mere «espressioni di critica all’operato dell’agente» ma non possono considerarsi «la prospettazione di un male ingiusto». In particolare, i magistrati ritengono che l’automobilista abbia voluto invitare l’agente «ad operare nella propria funzione in modo meno personalistico e più oggettivo».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Multe mal digerite, sfogo contro l’agente: niente condanna - La Stampa

Dispetti e umiliazioni continue al collega: è Stalking

Scatta lo stalking per le continue prese in giro e i dispetti al collega. E se, come nel caso esaminato, il collega ha anche un handicap viene contestata anche l'aggravante. La Corte di cassazione, con la sentenza 18717 respinge il ricorso del “bullo” che si era dato come “mission” quella di umiliare un collega, colpito da un ictus che gli aveva provocato un'invalidità del 50%, motivo per il quale era stato assunto grazie alle quote riservate ai disabili, in una ditta di autospurgo. Vasta la gamma di “scherzi” che il ricorrente metteva in atto nei confronti del lavoratore più debole: dall'appendere in bacheca la foto in cui era sporco dopo essere caduto mentre era intento alla manutenzione dell'impianto fognario comunale, agli schizzi di acqua fredda sotto la doccia, fino al finto “furto” della bicicletta nascosta quando l'uomo ne aveva bisogno per andare ad una visita medica. Tutto era teso a ridicolizzarlo proprio per la sua menomazione. La Suprema corte, in una prima pronuncia sul caso, aveva annullato la condanna per stalking, considerando la sentenza della Corte d'appello non abbastanza esauriente per quanto riguardava la configurabilità del reato previsto dall'articolo 612-bis del Codice penale. La Corte territoriale ha ora convinto la Cassazione. Le azioni contestate all'imputato non si potevano considerare “scherzi” sporadici, ma vessazioni e umiliazioni sistematiche che si erano protratte per tutto il tempo in cui l'uomo aveva condiviso con il suo persecutore lo stesso posto. Una situazione che sarebbe stata di grande stress, precisa la Cassazione, per chiunque e non solo per chi si trovava in una condizione di “fragilità” come la vittima. Nello specifico l'uomo aveva sviluppato un grave stato ansioso che lo aveva portato a stare a lungo lontano dal lavoro, fino a quando era arrivato il suo licenziamento, prima di aver maturato la pensione. Per i giudici gli elementi dello stalking c'erano tutti: dal danno, al cambio di abitudini, all'ansia. Né si poteva pensare che la parte lesa avesse un accanimento accusatorio nei confronti dello stalker. I giudici hanno apprezzato la sua pacatezza, la semplicità e lo scrupolo nel non attribuire al collega condotte delle quali non era certo. La condanna per il reato non è esclusa, chiariscono i giudici, dal fatto che la vittima e il persecutore abbiano raggiunto bonariamente un accordo sul risarcimento

fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

giovedì 3 maggio 2018

Fisco, quasi mezzo milione di cartelle da rottamare

Le richieste di adesione alla rottamazione delle cartelle superano soglia 450 mila. Al 26 aprile scorso, le domande presentate all'Agenzia delle entrate-Riscossione sono state circa 455 mila di cui la metà attraverso i servizi digitali e la posta elettronica certificata, mentre il resto dei contribuenti ha scelto uno dei 200 sportelli di Agenzia delle entrate-Riscossione. I contribuenti che aderiscono alla definizione agevolata pagheranno l'importo residuo delle somme dovute senza corrispondere le sanzioni e gli interessi di mora. Per le multe stradali, invece, non si pagheranno gli interessi di mora e le maggiorazioni previste dalla legge. Nella classifica per regione, fa sapere l'Agenzia delle entrate, il Lazio è in testa con 77.621 domande presentate, seguita dalla Lombardia (58.645) e dalla Campania (46.922). Subito dopo si posiziona la Puglia (46.540) e a seguire Emilia-Romagna (32.829), Toscana (32.018), Veneto (29.902), Piemonte/Valle d'Aosta (23.278), Calabria (19.265), Sardegna (18.890), Liguria (13.089), Marche (12.631), Abruzzo (11.584), Friuli-Venezia Giulia (8.735), Umbria (8.216), Basilicata (7.183), Trentino Alto-Adige (4.514) e infine chiude la classifica il Molise con 3.626 istanze presentate. Il provvedimento interessa i contribuenti con debiti affidati alla riscossione dal 1 gennaio 2000 al 30 settembre 2017. La definizione agevolata non può essere nuovamente presentata per quei debiti interessati dalla precedente richiesta di «rottamazione» delle cartelle ai sensi del decreto legge 193/2016, per i quali non si sia poi provveduto al pagamento delle somme dovute entro le previste scadenze. Possono presentare domanda anche i contribuenti che non sono stati ammessi alla precedente definizione agevolata esclusivamente perché al 24 ottobre 2016 avevano un piano di rateizzazione in essere con l'agente della riscossione e non erano in regola con i pagamenti delle rate in scadenza entro il 31 dicembre 2016. Per aderire bisogna presentare domanda entro il prossimo 15 maggio. Si può inviare il modulo utilizzando la propria pec ma la domanda di adesione può essere presentata anche direttamente online o delegando un professionista di fiducia a trasmetterla. Il contribuente, infine, può scegliere di consegnare il modulo compilato e firmato, agli sportelli di Agenzia delle entrate-Riscossione. Per sapere quali sono le cartelle e gli avvisi che rientrano per legge nel perimetro della definizione agevolata 2000/17, è possibile richiedere il prospetto informativo, un documento in cui sono indicati i carichi «definibili» e quelli «non definibili». L'Agenzia delle entrate-Riscossione, inoltre, ha inviato ai contribuenti per posta ordinaria la comunicazione in cui sono indicati i carichi dell'anno 2017 affidati dagli Enti creditori entro il 30 settembre scorso.

fonte: Fisco, quasi mezzo milione di cartelle da rottamare - ItaliaOggi.it

Lettere anonime: escluso il reato di molestie

Il reato di molestie si configura solo se la condotta è commessa in un luogo pubblico o aperto al pubblico oppure col mezzo del telefono.
E' quanto emerge dalla sentenza della Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione del 6 aprile 2018, n. 15523.
Osservano i giudici che il reato di cui all'art. 660 c.p. implica che l'agente rechi molestia o disturbo in un luogo pubblico o aperto al pubblico ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo.
Nella fattispecie nessuna delle condotte tipizzate dalla norma incriminatrice veniva posta in essere dall'imputata, alla quale veniva contestata la trasmissione di lettere anonime che venivano depositate nella cassetta delle lettere della vittima.
Conseguentemente, l'azione della donna non si concretizzava in un luogo pubblico o aperto al pubblico, né veniva arrecata mediante l'uso del telefono, con la conseguenza di rendere privi di rilievo penale i comportamenti emulativi dell'imputata e insussistente la fattispecie oggetto di contestazione, così come prefigurata dalla consolidata giurisprudenza di legittimità (Cass. pen., Sez. I, 24 giugno 2011, n. 30294; Cass. pen., Sez. I, 6 maggio 2004, n. 26303).

fonte: Lettere anonime: escluso il reato di molestie | Altalex

Azzardo: boom tra gli adulti, ma i giovani giocano meno

Il gioco d’azzardo è in calo tra i giovani, ma tra gli adulti si registra un vero boom: nel 2017 i giocatori-studenti nella fascia 15-19 anni sono diminuiti di 400mila unità rispetto al 2014 quando erano 1,4 milioni. Complessivamente, nel 2017 hanno giocato almeno una volta 17 milioni di italiani (di cui 1 milione di studenti) contro i 10 milioni del 2014. Al Sud crescono, però, gli studenti-giocatori problematici, ovvero a rischio di gioco patologico.
Secondo i due nuovi studi Espad e Ipsad - scrive l’agenzia Ansa - dell’Istituto di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa - dedicati rispettivamente alla diffusione del gioco d’azzardo tra gli studenti delle scuole superiori (15-19 anni) e tra la popolazione generale adulta comprensiva anche di quella più giovane (15-64 anni) - aumentano i giocatori adulti mentre diminuiscono tra gli studenti. Nel corso del 2017 oltre 17 milioni di italiani hanno giocato d’azzardo almeno una volta, nel 2014 erano 10 milioni e fra questi oltre un milione di studenti ha giocato almeno una volta, nel 2014 erano 1,4 milioni.
«Aumentano tra gli adulti anche i giocatori problematici, ovvero a rischio di gioco patologico - spiega Sabrina Molinaro dell’Ifc-Cnr - che sono passate dai 100 mila stimati nel 2007 ai 400 mila del 2017. Di contro i giocatori problematici diminuiscono tra gli studenti passando dall’8,7% del 2009 ai 7,1% del 2017. In particolare la quota di giovani giocatori con profilo di gioco problematico fa registrare una diminuzione o un assestamento nelle regioni del Nord e del Centro Italia, mentre nella macro-area Sud e isole si rilevano incrementi in Sicilia, Basilicata, Calabria, Molise e Abruzzo».
Sembrano più a rischio di sviluppare problematicità al gioco coloro che sono in cerca di prima occupazione (19,2%) e gli studenti (14,1%). Il 10,8% degli studenti ignora che nel nostro Paese è illegale giocare per gli `under 18´ e si stima che 580.000 (33,6%) studenti minorenni abbiano giocato d’azzardo nel corso dell’anno. La facilità di accesso ai luoghi di gioco per gli under 18 è confermata dal dato che solo il 27,1% riferisce di aver avuto problemi a giocare d’azzardo in luoghi pubblici perché minorenne. Il 75% degli studenti spende in giochi d’azzardo meno di 10 euro al mese e il 6,3% spende più di 50 euro al mese, quota che tra gli studenti con un profilo problematico sale al 22,1%.

fonte: Azzardo: boom tra gli adulti, ma i giovani giocano meno - La Stampa

Alimenti figli: no all'aiuto dei nonni se i genitori non provano l'impossibilità di provvedere

La nuora, non può chiedere alla suocera gli alimenti per i nipoti perché l'ex marito è inadempiente: l'aiuto dei nonni c'è solo nell'impossibilità dei genitori. La Cassazione, con la sentenza 10419, ricorda che l'obbligo di mantenere i figli minori spetta prima di tutto ai genitori, quindi se uno dei due non vuole o non può adempiere al suo dovere, l'altro, nell'interesse preminente dei figli deve far fronte per intero alle loro esigenze con tute le sue sostanze patrimoniali e sfruttando tutta la sua capacità lavorativa. Ferma ovviamente la possibilità di citare in giudizio il genitore inadempiente per ottenere un contributo “tarato” sulle sue possibilità. I nonni e in generale gli ascendenti non possono dunque essere chiamati in causa solo perché uno dei genitori viene meno al suo dovere, se l'altro è in grado di mantenere i figli. La Cassazione respinge il ricorso della donna che, rimasta single con un ex che non versava l'assegno per i figli aveva deciso di “battere cassa” con i suoceri, citandoli in Tribunale. E in primo grado la signora aveva vinto la partita: i nonni erano stati condannati a pagare un assegno di 300 euro al mese, a fronte di una richiesta iniziale di 700 euro. Il verdetto era stato ribaltato dalla Corte d'Appello con una decisione confermata dalla Cassazione. I giudici territoriali, avevano infatti ricordato la natura sussidiaria dell'obbligazione alimentare degli ascendenti, rispetto a quella dei genitori. Per i giudici di secondo grado la nuora non aveva dimostrato né l'incapacità di padre e madre di provvedere alle esigenze primarie dei minori, né la possibilità dei nonni di far fronte all'obbligazione.
La donna poteva contare su un reddito da lavoro di 700 euro mensili e su una casa di proprietà e non aveva dimostrato la sua incapacità, per condizione professionale o sociale, di incrementare la sua entrata. Non agiata la condizione dei suoceri che vivevano della sola pensione del nonno di 1.500 euro al mese.

fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

Sinistri stradali, è possibile cedere il credito a chi ripara l'auto danneggiata

È legittima la cessione del credito risarcitorio derivante da sinistro stradale, in quanto si tratta di un credito attuale e non strettamente personale, la cui trasferibilità non è espressamente vietata dalla normativa del codice civile. Di conseguenza, è possibile per il creditore cessionario citare in giudizio debitore ceduto, ovvero il responsabile civile dell'incidente, mentre l'importo richiesto, qualora derivante da fattura riconducibile allo stesso cessionario, può essere ridotta equitativamente dal giudice essendo un documento non oggettivamente idoneo a fornire la prova del quantum. Questo è quanto emerge dalla sentenza del Tribunale di Roma 19137/2017.
La vicenda - La controversia trae origine da un tamponamento nel quale venivano coinvolti due veicoli. Uno dei due conducenti si assumeva la responsabilità del sinistro sottoscrivendo il modello Cai, mentre l'altro conducente, dopo aver fatto riparare la sua vettura dal carrozziere di fiducia, cedeva in favore di quest'ultimo il proprio credito nei confronti del responsabile dell'incidente a fronte dell'emissione di regolare fattura pari a circa 4 mila euro.
La questione finiva poi dinanzi al Giudice di Pace, il quale però dichiarava l'improponibilità e improcedibilità della domanda. Per il magistrato onorario, infatti, il carrozziere non aveva la legittimazione attiva all'azione risarcitoria nei confronti della compagnia assicuratrice del responsabile civile, non essendo altresì valida la prova del quantum risarcitorio che trovava dimostrazione nella fattura dei lavori eseguiti, ovvero in un atto proveniente dalla stessa parte attrice.
La cessione del credito - Il Tribunale in sede d'appello cambia però il verdetto e spiega il meccanismo di funzionamento della cedibilità del credito, di cui all'articolo 1260 c.c., il quale non trova ostacoli per la sua applicazione anche in relazione al credito derivante da sinistro stradale. Ebbene, afferma il giudice, tale particolare credito non riveste natura strettamente personale e non ricade in uno dei divieti posti dalle norme del codice civile al riguardo. È, inoltre, un credito attuale e non futuro, in quanto determinato o determinabile nel suo ammontare, che sorge nel momento del sinistro «come risulta confermato anche dalla circostanza che gli interessi sulla sorte capitale decorrono dall'epoca del fatto e non del relativo accertamento giudiziale». Pertanto, in base alle norme codicistiche, per la trasferibilità dello stesso credito è sufficiente solo l'accordo tra il cedente e il cessionario, ossia tra il guidatore tamponato e il carrozziere, mentre la notifica della cessione al debitore, ossia al conducente responsabile, incide unicamente sulla efficacia della cessione rispetto a quest'ultimo. A ciò consegue che il carrozziere, subentrando nella stessa posizione del conducente tamponato, può far valere il suo diritto nei confronti del conducente responsabile anche in giudizio.
In relazione all'importo richiesto, invece, il Tribunale sceglie una via di mezzo diminuendo equitativamente a 3 mila euro la somma, ritenendo cioè la fattura quale parametro per provare l'entità del danno ad «attendibilità ridotta», proprio perché documento fiscale proveniente dallo stesso soggetto che agisce in giudizio.

fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

Violenza sessuale: costituisce ''induzione'' qualsiasi forma di sopraffazione della vittima

 L’induzione necessaria ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale non si identifica solo con la persuasione subdola ma si...