lunedì 31 marzo 2014

Non si tassano gli interessi capitalizzati non ancora percepiti

L'Agenzia delle Entrate ricorreva in Cassazione per ottenere l'annullamento della sentenza d'Appello che, contrariamente ad un suo avviso d'accertamento, escludeva dalla tassazione il reddito di capitale derivante da interessi capitalizzati ma non ancora percepiti. Il Giudice di merito fondava la sua decisione proprio sul diverso "status" degli interessi, che non essendo ancora entrati nella materiale disposizione del percettore non potevano essere sottoposti ad IRPEF. La Corte chiamata ad esprimersi, con la sentenza n. 7090 depositata il 26 marzo scorso, ha rigettato il ricorso dell'Amministrazione. Confermando quanto già sostenuto dai giudici di merito dei primi due gradi di giudizio, e quanto già affermato dalla stessa Corte, gli Ermellini hanno statuito che gli interessi derivanti dalle somme affidate dal cliente all'intermediario finanziario che siano soltanto "contabilizzati a credito in schede nominative e tabulati riferiti a detto creditore, non costituiscono reddito di capitale, desumendosi dall'art. 42, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (nel testo ratione temporis vigente) che gli interessi entrano a far parte del reddito solo se messi nella disponibilità concreta ed effettiva del creditore, il quale li abbia materialmente incamerati o ne abbia comunque disposto o sia stato messo nelle condizioni di farlo a suo piacimento". La Cassazione, al fine di scongiurare eventuali ulteriori dubbi interpretativi, ha aggiunto che l'ipotesi di equiparazione tra interessi contabilizzati e percepiti, prevista per i soli interessi oggetto di compensazione dal comma 3 del menzionato vecchio art. 42 T.U.I.R., dev'essere intesa in "senso stretto (...) valendo la norma esclusivamente per gli accrediti di somme su conto corrente" e non per i conti di gestione, come nel caso di specie, che si fondano su di un contratto di gestione individuale del patrimonio mobiliare riconducibile ad un "mandato ad investire denaro o ad amministrare portafoglio di titoli, conferito da un investitore ad un operatore finanziario".

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Quarantenne vittima di un infarto: il superlavoro è elemento scatenante

È doveroso il riconoscimento di una correlazione tra infarto e superlavoro, nel caso in cui la crisi cardiaca colpisca un uomo appena quarantenne che smaltisca un’ingente mole di lavoro nei giorni precedenti: l’intensità della fatica può ben essere considerata elemento scatenante. Lo ha stabilito la Cassazione nella sentenza 684/14. Il caso La Corte d’Appello di Genova condannava l’INAIL a corrispondere a un uomo colpito da infarto del miocardio l’indennità per invalidità temporanea. Il particolare, sottolineava che la crisi cardiaca era stata determinata da stress lavorativo che, nell’ultimo periodo, aveva raggiunto un’intensità tale da agire come fattore scatenante. Riconosceva, poi, una percentuale di invalidità permanente pari al 4% secondo quanto affermato dal secondo CTU che, a differenza del primo, aveva tenuto conto della ipertensione arteriosa e della coronaropatia ischemica preesistenti e non aventi origine professionale. Il lavoratore propone ricorso in Cassazione. Il ricorrente lamenta che la Corte d'Appello, dopo aver esattamente qualificato lo stress lavorativo come causa violenta, e il conseguente infarto del miocardio come infortunio sul lavoro, ha esaminato superficialmente la questione relativa alla quantificazione del danno permanente residuato al suddetto infarto. In particolare, si lamenta che la Corte genovese non abbia spiegato la ragione per cui - a fronte di due CTU di primo grado, che avevano, rispettivamente, concluso, la prima, per postumi permanenti pari al 18% e la seconda per una percentuale del 4%di invalidità permanente residua - abbia ritenuto di concordare con le conclusioni del secondo CTU attributive di un danno permanente di percentuale inferiore alla soglia indennizzabile, senza spiegarne in modo adeguato le ragioni e senza menzionare il fatto che anche il consulente di parte dell'INAIL si era espresso in modo concorde con il primo consulente per un danno permanente residuo pari al 18%. E poiché la seconda CTU è assolutamente priva di riscontri scientifici, le carenze e le deficienze diagnostiche della consulenza si rifletterebbero sulla sentenza viziandone la motivazione. La Suprema Corte condivide la doglianza del ricorrente: «benché lo svolgimento di una prima consulenza tecnica non precluda l'affidamento di un’ulteriore indagine a professionista qualificato nella materia al fine di fornire al giudice un ulteriore mezzo volto alla più approfondita conoscenza dei fatti già provati dalle parti, se il giudice intende uniformarsi alle risultanze della seconda consulenza tecnica di ufficio è tuttavia necessario - ove tali risultanze siano state oggetto, nella impostazione difensiva della parte interessata, di critiche precise e circostanziate idonee, se fondate, a condurre a conclusioni diverse da quelle indicate nella consulenza tecnica - che non si limiti a generiche affermazioni di adesione alle risultanze stesse, ma che giustifichi la propria preferenza, specificando la ragione per la quale ritiene di discostarsi dalle conclusioni del primo consulente, salvo che queste abbiano formato oggetto di preciso esame critico nell'ambito della nuova relazione peritale con considerazioni non specificamente contestate dalle parti». Natura della consulenza tecnica d’ufficio. Anche perché la consulenza tecnica d’ufficio che è strumento di valutazione dei fatti già probatoriamente acquisiti può costituire fonte oggettiva di prova quando si risolva nell’accertamento di situazioni rilevabili solo con l’ausilio di specifiche cognizioni o strumentazioni tecniche. Solo in questo caso, il giudice può aderire alle conclusioni del consulente senza essere tenuto a motivare la sua scelta, salvo che dette conclusioni formino oggetto di specifiche censure. Inoltre, la Corte genovese, accedendo alla tesi del secondo CTU sulla sussistenza di fattori patologici preesistenti non aventi origine professionale, non ha fatto applicazione dell'art. 79, d.P.R. n. 1124/1965, secondo cui il grado di riduzione permanente dell'attitudine al lavoro causata da infortunio, quando risulti aggravata da inabilità preesistenti derivanti da fatti estranei al lavoro deve essere rapportata non alla normale attitudine al lavoro ma a quella ridotta per effetto delle preesistenti inabilità, e deve essere calcolata secondo la cosiddetta formula Gabrielli, espressa da una frazione avente come denominatore la ridotta attitudine preesistente e come numeratore la differenza tra quest’ultima (minuendo) ed il grado di attitudine al lavoro residuato dopo l'infortunio (sottraendo), senza che abbia rilievo la circostanza che l'inabilità preesistente e quella da infortunio incidano sullo stesso apparato anatomo- funzionale. Il ricorso, pertanto, deve intendersi accolto.

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domenica 30 marzo 2014

Separazione, obbligo di affidamento condiviso salvo il caso di inidoneità genitoriale

L'articolo 155 codice civile sancisce il diritto del minore a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori. Per conseguire tale risultato è previsto che in caso di separazione dei coniugi (a anche di separazione di fatto) il giudice valuti in via prioritaria che il minore venga affidato ad entrambi i genitori. Tale forma di affidamento viene quindi ritenuta, in via generale, lo strumento più idoneo per garantire l'interesse del minore ad un sereno sviluppo. Resta comunque fermo il potere del giudice, in via residuale, di disporre l'affidamento ad uno solo dei genitore qualora l'affidamento ad entrambi possa risultare contrario all'interesse del minore.
Non contano le responsabilità nella crisi 
È necessario premettere che i provvedimenti in materia di affidamento prescindono dalle responsabilità dell'uno o dell'altro genitore nell'avere reso intollerabile la prosecuzione della convivenza a meno che, l'atteggiamento del coniuge contrario ai doveri nascenti dal matrimonio non sia anche espressione di una inidoneità educativa che non può non avere riflessi sul piano dell'affidamento.
Il diritto alla bigenitorialità 
La bigenitorialità diviene quindi principio insopprimibile sia dei figli che dei genitori, i quali conservano un interesse diretto a mantenere un rapporto costante con i figli, alle cui scelte di vita essi devono partecipare in modo significativo. In quanto diritto dei figli lo scrivente ritiene che l'affidamento condiviso debba essere disposto anche a prescindere dalla volontà espressa dei genitori (in tal senso Tribunale di Napoli del 22 gennaio 2007).
La derogabilità 
In virtù del favor legislativo verso l'affidamento condiviso, una sua esclusione può essere dettata solo da circostanza particolarmente gravi. 
Sulla derogabilità alla concessione dell'affidamento condiviso esiste una grande confusione in giurisprudenza dettata per lo più dall'assenza di parametri ostativi prestabiliti e dall'esistenza di pronunzie dei giudici di merito e, soprattutto, di legittimità assolutamente contrastanti da di loro.
Il rifiuto del minore 
Una condizione per derogare alla regola dell'affidamento condiviso è rappresentata dal rifiuto netto del minore alla frequentazione dell'altro genitore, rifiuto palesato in modo chiaro, preciso, sereno e spontaneo e che risulti opportuno assecondare anche in virtù dell'età del minore. Ovviamente, compito del giudice sarà quello di accertare se la volontà del minore corrisponde, effettivamente, al suo interesse e verificare se il rifiuto del minore non sia invece frutto di un condizionamento del minore da parte di un genitore o ancora peggio un segnale della così detta sindrome di alienazione genitoriale vale a dire di una situazione di alienazione costante di un genitore la cui figura viene continuamente svilita, demonizzata e svalorizzata dal genitore alienante e che produce in capo al minore una serie di disagi e segnali tra cui il netto rifiuto ad intrattenere rapporti con il genitore alienato.
Il caso della paralisi decisionale 
L'affidamento condiviso viene certamente reso difficoltoso dall'assenza di uno spirito collaborativo tra i genitori anche se, la difficoltà di comunicazione, non è di per sé sufficiente ad escludere tale forma di affidamento a meno che non traduca in una impossibilità oggettiva di adottare qualsiasi decisione nell'interesse del minore. Ciò a cui tende l'affidamento condiviso è proprio la corresponsabilizzazione dei genitori e l'assunzione di un compito educativo pieno e, quindi, condiviso, nell'interesse del minore superando rancori e le ostilità. Qualora l'incomunicabilità perduri nel tempo e sia così accentuata da produrre una situazione di "paralisi decisionale" il giudice non potrà che prendere atto dell'assenza della succitata corresponsabilizzazione derogando, quindi, alla concessione dell'affidamento condiviso. 
Pertanto, il motivo ostativo alla concessione dell'affidamento condiviso non risiede tanto nella 
conflittualità tra coniugi quanto nella mancanza di maturità e nell'assenza di consapevolezza circa l'importanza per il minore di crescere in modo armonico educato ed assistito da due genitori "dialoganti". 
L'inidoneità genitoriale 
Compito dei genitori è anche quello di rimuovere eventuali livori, pregiudizi o rancori personali dimostrando di avere sufficiente consapevolezza della delicatezza del ruolo affettivo ed educativo. In presenza di caratteristiche personali di un genitore che lo rendano pervicacemente restio a seguire ogni indicazione che possa favorire un riparto non conflittuale delle funzioni genitoriali, solo l'affidamento esclusivo della prole all'altro genitore appare essere la soluzione che meglio possa assicurare il sereno sviluppo della personalità dei figli stessi.
Da ciò si evince che la conflittualità diviene motivo ostativo alla concessione dell'affidamento condiviso solo se è si traduce in inidoneità genitoriale. La mera conflittualità, come sopra esposto, di per sé non può essere motivo sufficiente per ritenere contrario all'interesse dei figli il loro affidamento ad entrambi i genitori atteso che far dipendere la scelta del regime di affidamento dal più o meno armonico rapporto esistente tra i genitori, significherebbe subordinare il primario diritto dei figli alla mera qualità dei rapporti tra i genitori, i quali potrebbero addirittura strumentalizzare il loro conflitto al fine di acquisire un maggiore potere di reciproca interdizione alla piena relazione morale e materiale di ciascuno con la prole, vanificando, di fatto, il fondamentale diritto dei minori a vivere da figli di entrambe le figure parentali.
Ove, invece, la conflittualità sia l'espressione di un atteggiamento totalmente immaturo ed irresponsabile di uno o genitore che palesa, così una manifesta carenza o inidoneità educativa, il giudice non potrà che escludere tale genitore dall'affidamento sorreggendo tale esclusione da una motivazione specifica basata anche sulla non rispondenza, nel caso specifico, dell'affidamento condiviso, agli interessi del minore.
Esistono poi, una serie di condizioni e situazioni che possono risultare ostative alla concessione dell'affidamento condiviso sempre purchè tali situazioni siano espressione di una inidoneità educativa del genitore e che, allo stesso tempo rendano sconsigliabile nell'interesse del minore il ricorso ad una forma di affidamento bigenitoriale. 
La distanza 
La giurisprudenza ha affrontato in diversi casi il problema dell'eventuale distanza esistente tra il genitore collocatario e l'altro genitore sancendo, a volte, che la suddetta distanza non è un motivo ostativo alla concessione dell'affidamento condiviso e a volte, giungendo ad affermare, che anche una distanza di pochi chilometri può rappresentare una ragione impeditiva al riconoscimento dell'affidamento condiviso. 
L'affidamento a terzi 
È possibile che entrambi i genitori, per situazioni oggettive o soggettive vengano ritenuti non idonei ad educare i propri figli. Sebbene la disciplina relativa all'affidamento dei figli minori attualmente in vigore non contempli espressamente la possibilità di affidamento degli stessi a soggetti diversi dai genitori, deve ritenersi consentito, anche attualmente, l'affidamento a terzi soggetti (ad esempio i nonni) in caso di incapacità dei genitori ad assolvere ai loro compiti e ciò in virtù del disposto dell'articolo 155 secondo comma del codice civile a mente del quale il giudice può adottare "ogni altro provvedimento relativo alla prole".
fonte: ilsole24ore.com//Separazione, obbligo di affidamento condiviso salvo il caso di inidoneità genitoriale

Codice della Strada: i termini della notifica per notificante e destinatario

Corte di Cassazione, Sezione 6 ter civile, Sentenza 4 marzo 2014, n. 4993
L'impugnazione si considera tempestiva quando l'atto di citazione con la quale va proposta è consegnata per la notifica all'ufficiale entro il relativo termine perentorio, non rilevando in alcun modo il tempo di effettiva ricezione dell'atto da parte del destinatario. 
In tema di notificazioni degli atti, il momento in cui la notifica si deve considerare perfezionata per il notificante, che deve distinguersi da quello in cui essa si perfeziona per il destinatario, è esclusivamente quello della consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario.
E' il principio di diritto stabilito dalla Corte di Cassazione, con la sentenza 4 marzo 2014, n. 4993.
In particolare, il fondamento della scissione fra i due momenti di perfezionamento della notificazione si rinviene nell'articolo 149, codice procedura civile, per effetto della sentenza n. 477 del 2002, della Corte Costituzionale - e nell'articolo 142, anche in combinato disposto con il terzo comma dell'articolo 143, per effetto della sentenza n. 69 del 1994, sempre emessa dalla Corte Costituzionale.
La regola - in applicazione di giurisprudenza consolidata - vale soltanto nel caso in cui la notifica comunque si perfezioni anche per il destinatario.
Cercando di fare chiarezza tra le varie interpretazioni, in riferimento all'articolo 149, codice procedura civile, relativa alla notificazione a mezzo del servizio postale, che riguarda, in particolare, la procedura di notificazione dei verbali di accertamento di violazione al codice della strada, la Corte Costituzionale, con la sentenza 26 novembre 2002, n. 477 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del combinato disposto del suddetto articolo e dell'articolo 4, comma 3, della legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari) nella parte in cui prevede che la notificazione si perfeziona, per il notificante, alla data di ricezione dell'atto da parte del destinatario anziché a quella, antecedente, di consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario.
Per cui, per quanto concerne la notificazione dei verbali di accertamento di violazione alle norme del codice della strada, per il Comando di Polizia Municipale notificante, la notifica si perfeziona al momento della consegna del plico all'ufficio postale, per la spedizione, ovvero al messo comunale, per la consegna, a mezzo notificazione.
L'articolo 201, comma 1, codice della strada, prescrive che il verbale debba essere notificato all'interessato entro 90 giorni dall'accertamento: operativamente, il verbale, per il notificante, deve, quindi, essere consegnato, entro 90 giorni dall'accertamento, all'ufficio postale, ovvero al messo comunale, per la successiva notificazione.
Con la successiva sentenza 28/2004, la Corte Costituzionale ha precisato che "risulta ormai presente nell'ordinamento processuale civile, fra le norme generali sulle notificazioni degli atti, il principio secondo il quale - relativamente alla funzione che sul piano processuale, cioè come atto della sequenza del processo, la notificazione è destinata a svolgere per il notificante - il momento in cui la notifica si deve considerare perfezionata per il medesimo deve distinguersi da quello in cui essa si perfeziona per il destinatario; pur restando fermo che la produzione degli effetti che alla notificazione stessa sono ricollegati è condizionata al perfezionamento del procedimento notificatorio anche per il destinatario e che, ove a favore o a carico di costui la legge preveda termini o adempimenti o comunque conseguenze dalla notificazione decorrenti, gli stessi debbano comunque calcolarsi o correlarsi al momento in cui la notifica si perfeziona nei suoi confronti".
Per cui il destinatario del verbale di accertamento di violazione delle norme del codice della strada potrà proporre legittimamente opposizione amministrativa o giudiziaria nei confronti dell'atto notificato tardivamente (oltre il termine di 90 giorni dall'accertamento), sempre che la notifica tardiva non sia stata determinata da una rimessione in termini a favore dell'organo di polizia accertatore: il caso, ad esempio, è quello dell'atto notificato ad un soggetto, che dimostra di essere estraneo; ricevuta comunicazione dell'estranietà alla violazione, ad esempio, per vendita del veicolo precedente all'accertamento, il Comando ha nuovamente un termine di 90 giorni per notificare l'atto al nuovo proprietario: la notifica sarà perfezionata anche se l'atto verrà consegnato all'interessato oltre 90 giorni dall'accertamento, purchè la notifica avvenga entro 90 giorni dal giorno in cui l'organo di polizia procedente è venuto a conoscenza del nuovo destinatario.
Da ultimo, in materia di notificazione degli atti, si segnala come la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 3 del 14 gennaio 2010, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 140, codice procedura civile, nella parte in cui prevede che la notifica si perfezioni, per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa, anziché con il ricevimento della stessa o, comunque decorsi dieci giorni dalla relativa spedizione.
Operativamente, quindi, nel caso di procedimento di notificazione di verbale di accertamento di violazione al codice della strada, conclusosi secondo le disposizioni dell'articolo 140, codice procedura civile (irreperibilità relativa del destinatario), la notifica deve ritenersi perfezionata, per il destinatario, quando sono state compiute le tre formalità previste dalla norma:
•affissione dell'avviso di deposito dell'atto in busta chiusa sigillata alla porta dell'abitazione dell'interessato (l'avviso dovrà essere infilato nella buca delle lettere, a garanzia della privacy dell'interessato);
•deposito della copia dell'atto da notificare presso la casa comunale dove la notificazione deve eseguirsi;
•ricevimento della raccomandata A/R con la quale viene data notizia all'interessato del deposito dell'atto presso la casa comunale; ovvero, decorrenza di dieci giorni dalla spedizione (compiuta giacenza).
fonte: ilsole24ore/I termini della notifica per notificante e destinatario

venerdì 28 marzo 2014

Risoluzione del contratto di locazione: sì al risarcimento ma solo se l’immobile viene rimesso sul mercato

In caso di risoluzione anticipata del contratto di locazione per inadempimento del conduttore, un volta cessata l’occupazione dell’immobile, il danno risarcibile a titolo di lucro cessante per il locatore è rappresentato dalla mancata percezione di un introito mensile per tutto il tempo presumibilmente necessario per poterlo nuovamente affittare. Questo, però senza alcun automatismo, gravando comunque sul locatore la prova di aver rimesso l’immobile sul mercato e individuando nel periodo di preavviso una soglia massima orientativa per il risarcimento. È quanto stabilito dalla Cassazione nella sentenza 530/14.

Il caso

A seguito della risoluzione del contratto di locazione per inadempimento della conduttrice, la proprietaria dell’immobile pretendeva il risarcimento in ragione dei canoni e oneri accessori rimasti insoluti fino al rilascio dell’immobile e dei maggiori danni derivanti per la sua mancata locazione nel periodo successivo al rilascio. La Corte d’Appello di Milano, in riforma della sentenza di primo grado, riduceva la somma dovuta dalla società conduttrice, escludendo l’importo che si sarebbe dovuto a titolo di mancato reddito fino al momento in cui l’immobile era stato venduto. La locatrice propone ricorso, in quanto tale mancato reddito, che giustificava il risarcimento, si fondava sull’intervenuta risoluzione per inadempimento imputabile alla conduttrice e perché era stato erroneamente configurato a suo carico l’onere di provare il concorso del fatto colposo nella produzione del danno (costituito dal mancato guadagno per l’accertata mancata locazione dell’immobile successivamente al suo rilascio). La mancata locazione dell’immobile non può fondare la pretesa risarcitoria. La Cassazione sottolinea che la parte locatrice non ha dedotto che l’immobile, dopo la risoluzione anticipata, fosse stato nuovamente posto sul mercato, non tenendo conto che la semplice circostanza della mancata locazione non può fondare, di per sé, il diritto al risarcimento. In altre parole, va escluso qualsiasi automatismo tra mancata locazione del bene e pretesa risarcitoria Che cosa comprende il risarcimento a titolo di lucro cessante? Secondo l’art. 1453 c.c., una volta intervenuta la risoluzione anticipata per inadempimento del conduttore e cessata, altresì, l'occupazione dell’immobile, il danno risarcibile al locatore (id est, l'effetto pregiudizievole conseguente alla risoluzione anticipata) a titolo di lucro cessante è rappresentato dalla mancata percezione di un introito mensile per tutto il tempo presumibilmente necessario per poterlo nuovamente locare, in relazione al quale un obiettivo parametro di riferimento può essere utilmente individuato, salvo prova diversa, nel periodo di preavviso previsto per il recesso del conduttore. Il che postula che, una volta ottenuta la disponibilità materiale del bene, il locatore abbia effettivamente rimesso l'immobile sul mercato delle locazioni, non essendo, altrimenti, possibile profilare l'esistenza di un danno che trovi fonte nell'inadempimento del debitore. Onere della prova. Inoltre - in applicazione del principio generale che onera la parte creditrice della specifica dimostrazione del'esistenza del danno - deve ritenersi che gravi sul locatore l'onere della prova di avere inutilmente tentato di locare l'immobile ovvero della sussistenza di altre analoghe situazioni pregiudizievoli (come, ad esempio, il reperimento di offerte di locazione meno vantaggiose), dando conto dei concreti propositi di utilizzazione dell'immobile, atteso che la relativa dimostrazione, anche in ragione del criterio di vicinanza della prova, non può far carico al conduttore. Ne consegue che non sussiste un danno risarcibile per il mero fatto della mancata locazione, «atteso che tale circostanza – in difetto di prova, necessariamete incombente alla parte istante, in ordine alla determinazioni assunte circa l’utilizzo dell’immobile – non può automaticamente ascriversi all’evento risolutivo imputato al conduttore». Pertanto, il ricorso va rigettato.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Risoluzione del contratto di locazione: sì al risarcimento ma solo se l’immobile viene rimesso sul mercato

Omesso versamento, c’è reato se c’è coincidenza tra chi dichiara e chi non versa

Attesa la natura di reato a condotta mista, in parte commissiva e in parte omissiva, dell’omesso versamento IVA, di cui all’art. 10-ter, D.Lgs. n. 74/2000, è esclusa la sua punibilità nel caso in cui il soggetto tenuto a versare l’Iva dichiarata sia diverso dal soggetto che aveva presentato la dichiarazione, salvo che la pubblica accusa dimostri l’esistenza di una inequivoca preordinazione della condotta del soggetto dichiarante rispetto al momento omissivo o di un suo contributo causale all’omissione posta in essere dal soggetto obbligato al versamento dell’imposta. La Corte di cassazione è tornata a pronunciarsi sulla delicata materia dell’omesso versamento IVA, restringendo ancora, sebbene in relazione a ipotesi ben definite, l’applicazione della norma incriminatrice citata. Nella sentenza n. 12248/2014, infatti, i giudici di legittimità si sono soffermati sulla natura del reato, rilevandone gli elementi qualificanti e ribadendo una serie di principi riferibili alla fattispecie. Il caso riguardava gli ex amministratori di una società accusati del reato di omesso Iva di cui all'art. art. 10-ter del D.Lgs. n. 74/2000. La società aveva dichiarato lo stato di insolvenza - in un momento successivo alla dichiarazione Iva - ed era stata ammessa alla procedura di amministrazione straordinaria. Alla data di scadenza per il versamento dell'Iva dichiarata (27 dicembre dell'anno successivo alla dichiarazione)la società era già commissariata, e dunque gli imputati erano già stati spogliati del potere e della qualifica di amministratori, poteri e qualifica passati in capo al commissario giudiziale. La pubblica accusa aveva ritenuto ugualmente attribuibile agli indagati il reato in parola, sottolineando l'esigenza di "garantire effettività al precetto penale, altrimenti facilmente eludibile mediante calibrati passaggi di consegne nella cariche societarie". Nel decidere il ricorso presentato dal p.m. avverso i provvedimenti dei giudici del riesame, che avevano respinto la richiesta di misura cautelare, escludendo che la colpevolezza degli indagati alla luce di due motivi: l'assenza di prova di qualsiasi continuità tra l'omissione del versamento da parte del commissario giudiziale e le omissioni pregresse degli ex amministratori, e l'assenza di elementi di fatto da cui desumere l'induzione in errore del commissario da parte dei medesimi. I Giudici della Suprema corte, in una articolata motivazione della decisione di rigetto del ricorso, hanno anzitutto esaminato la natura del reato de quo. Trattasi, secondo i rilievi della Corte, di reato: proprio, per cui la condotta illecita è integrabile unicamente dai soggetti IVA che effettuano le cessioni di beni e le prestazioni di servizi per la quali è dovuta l'imposta; istantaneo, per cui si consuma nel momento in cui scade il termine previsto dalla legge per il versamento; a condotta mista, in parte commissiva (presentazione della dichiarazione annuale IVA da parte di chi è obbligato a tale adempimento) e in parte omissiva (omesso versamento dell'Iva liquidata nella relativa dichiarazione), per cui non è configurabile il tentativo di reato, essendo la parte di condotta penalmente rilevante a consumazione istantanea (prima della scadenza per il versamento non c'è reato, dopo il reato è già consumato, non tentato); punibile a titolo di dolo generico, per cui è sufficiente la coscienza e volontà del soggetto che pone in essere la condotta illecita, che nel reato in questione si incentra nel momento omissivo della condotta penalmente rilevante. Alla luce di questa disamina, e richiamando principi già precedentemente enunciati dalla giurisprudenza di legittimità, la Corte ha concluso che, poiché è al momento omissivo che bisogna far riferimento per la configurabilità dell'illecito di cui alla'art. 10-ter citato sotto il profilo dell'elemento psicologico, deve escludersi la punibilità del reato in esame a titolo di dolo eventuale nel caso in cui il soggetto tenuto all'adempimento fiscale penalmente rilevante (omesso versamento dell'Iva) sia diverso dal soggetto tenuto all'adempimento della condotta non ancora penalmente rilevante (dichiarazione IVA). Ne consegue che, ai fini della sussistenza del dolo generico, il giudice deve accertarne l'esistenza nel momento in cui il reato si perfeziona e, nel caso in cui il soggetto che presenta la dichiarazione non coincida con il soggetto che omette il versamento, la pubblica accusa ha l'onere di dimostrare l'esistenza di "una inequivoca preordinazione della condotta del soggetto dichiarante rispetto al momento omissivo o di un suo contributo causale all’omissione posta in essere dal soggetto obbligato al versamento dell’imposta".

Fonte: http://fiscopiu.it/La Stampa - Omesso versamento, c’è reato se c’è coincidenza tra chi dichiara e chi non versa

mercoledì 26 marzo 2014

Marito infortunato non appaga sessualmente la moglie: il danno non patrimoniale deve essere risarcito

Premesso che il danno morale e quello sessuale e alla vita di relazione rientrano pur sempre nell’ampia e onnicomprensiva categoria del danno non patrimoniale, la loro esistenza può presumersi anche in base a mere massime di esperienza, in particolare se basate sui rapporti personali tra coniugi. Inoltre, essi dovranno essere liquidati e equitativamente. È quanto stabilito dalla Cassazione nella sentenza 386/14.

Il caso

La Corte di Cassazione annulla la sentenza con cui il Tribunale di Latina aveva condannato una società al risarcimento del danno subito dal marito di una donna a causa di un infortunio. Tale decisione si giustifica in base all’assunto secondo il quale la decisione si basava su documenti depositati in appello dalla moglie dell’uomo, senza che fosse intervenuta una pronuncia sull’eccezione di tardività della loro produzione sollevata dalla società. La Corte d’Appello di Roma rigetta tale ricostruzione dei fatti e conferma la decisione del Tribunale di Latina. La società ricorre in Cassazione. A parte alcune questioni di carattere spiccatamente procedurale, il profilo più interessante della pronuncia riguarda l’insussistenza, a parere della ricorrente, del danno alla vita sessuale, essendosi ipotizzata una mera impossibilità a procreare (aspermia), destinata a regredire nel tempo. Si consideri, tra l’altro, che la donna aveva affermato di non volere altri figli e che, da anni ormai, era separata dal marito. Non era stato provato, poi, il danno morale, per di più liquidato in maniera arbitraria. Ora, premesso che il danno morale e quello sessuale e alla vita di relazione rientrano pur sempre nell'ampia ed omnicomprensiva categoria del danno non patrimoniale, che non è possibile suddividere in ulteriori sottocategorie, se non con valenza meramente descrittiva, si tenga presente che la loro esistenza può presumersi anche in base a mere massime di esperienza, in particolare se basate sui rapporti personali fra coniugi (regolati dall'art. 143 c.c.), come nel caso di specie, salva restando la possibilità di prova contraria. Le obiezioni svolte circa una pretesa separazione fra la controricorrente e il marito e/o quelle concernenti la scelta di non avere (altri) figli implicano accertamenti di fatto, estranei al giudizio di legittimità. In ordine, poi, alla liquidazione dei danni, si noti che essa non può che avvenire in via equitativa, non esistendo parametri legislativi a riguardo. Ciò detto, non risponde al vero che l'impugnata sentenza abbia proceduto ad una loro liquidazione arbitraria: essa è avvenuta sulla base di una sentenza perfettamente conosciuta da entrambe le parti e, segnatamente, proprio dalla ricorrente che l'aveva specificamente impugnata mediante ricorso per cassazione anche riguardo alla prova del danno e alla sua liquidazione. In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Marito infortunato non appaga sessualmente la moglie: il danno non patrimoniale deve essere risarcito

Se il matrimonio va a rotoli il fallimento del progetto di vita comune va adeguatamente valutato

In caso di divorzio, l’assegno per il coniuge deve tendere al mantenimento del tenore di vita da questo goduto durante la convivenza matrimoniale e, tuttavia, indice di tale tenore di vita può essere l’attuale disparità di posizioni economiche tra i coniugi. È quanto stabilito dalla Cassazione nelle ordinanze 304/14 e 305/14. Le Corti di Appello di Venezia e di Ancona confermano le sentenze di primo grado relative a due casi di divorzio tra coniugi e al conseguente assegno di mantenimento. A seguito dei ricorsi presentati dai mariti, la Cassazione non riscontra, nelle decisioni intervenute, alcuna violazione di legge. Decisivo è il tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale. Per giurisprudenza ampiamente consolidata, l’assegno per il coniuge deve tendere al mantenimento del tenore di vita da questo goduto durante la convivenza matrimoniale e, tuttavia, indice di tale tenore di vita può essere l’attuale disparità di posizioni economiche tra i coniugi. Tuttavia, la circostanza in questione può incidere sul quantum ma non sull’an dell’assegno, così come altri parametri quali la durata del matrimonio, la cura della famiglia e dei figli e il contributo dato dai coniugi al miglioramento della condizione economica e finanziaria del nucleo. Non a caso, nell’ordinanza n. 304, la Cassazione conferma la decisione del giudice a quo che aveva posto a carico del marito un contributo mensile molto ridotto, proprio tenendo conto della notevole inferiorità economica di lui rispetto alla moglie, del fatto che quest’ultima fosse usufruttuaria di un piccolo appartamento attiguo alla casa coniugale e che fosse sempre stata in grado di contribuire alla cura dei figli e al miglioramento della situazione famigliare, oltreché dell’attività professionale del marito. Decisiva è anche la capacità lavorativa dei coniugi. Da considerare anche la capacità lavorativa dei coniugi, in relazione ad alcuni specifici parametri quali l’età, il titolo di studio, l’esperienza pregressa e la situazione economica generale. È quanto emerge dall’ordinanza n. 305: il Tribunale di Venezia pone a carico del marito un assegno mensile ancora una volta di entità estremamente ridotta tenendo conto sempre della disparità di trattamento economico tra marito e moglie, a discapito di quest’ultima. Ma si considera anche l’attività della donna che, seppur precaria (insegnante a tempo determinato), le permette, comunque, una certa autonomia. Sulla base di queste conclusioni, i ricorsi si intendono respinti.

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martedì 25 marzo 2014

Alla guida senza cinture: condotta legittima in presenza di dolore toracico

In presenza di una patologia che impedisca l’utilizzo delle cinture di sicurezza, tale condotta non può essere qualificata come antigiuridica. È quanto stabilito dalla Cassazione nell’ordinanza 259/14.

Il caso

Un uomo propone opposizione contro il verbale redatto dalla Polizia Municipale di Caserta per guida senza cinture di sicurezza: egli, in quella sede, aveva sostenuto di essere in stato di necessità a causa delle proprie condizioni di salute. E, infatti, il locale presidio ospedaliero aveva refertato un dolore toracico di breve durata. Il Comune di Caserta, costituendosi in giudizio, nega che tale patologia possa integrare gli estremi della causa di giustificazione di cui all’art. 4, l. n. 689/1981. L’opposizione viene respinta e la decisione viene confermata dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Ricorre in Cassazione la Regione. Secondo la ricorrente il giudice del gravame non si sarebbe pronunciato sullo stato di necessità. Ma la censura non è fondata in quanto la motivazione del giudice dell'appello ha preso espressamente in esame l’incidenza della patologia lamentata – refertata nel nosocomio casertano come «dolore toracico di breve durata» - sulla richiamata esclusione della antigiuridicità della condotta contestata, e quindi, ha pronunciato, pur senza indicarne il referente normativo, sull'insussistenza dell'esimente di cui all’art. 4, l. n. 689/1981. Secondo la regione, inoltre, non è stato ampiamente dimostrato che la sintomatologia transeunte oggetto della causa fosse di gravità tale da giustificare l’incompatibilità con l’uso delle cinture di sicurezza. Ma la Cassazione respinge anche tale ulteriore addebito, rilevando come il giudice di merito abbia posto alla base della propria decisione un ragionamento che permette di ricostruire le basi logiche del proprio iter argomentativo, pur senza dover motivare sulla scelta di cosa porre a fondamento del proprio ragionamento. Ecco perché viene respinta anche l’ulteriore doglianza secondo la quale il referto medico era stato interpretato erroneamente. La parte ricorrente denunzia, poi, la nullità della decisione per non aver il giudice dell'appello pronunziato sentenza a seguito di discussione orale né letto il dispositivo - oltre a non aver esposto concisamente il fatto e le ragioni di diritto a contestazione dello stato di necessità. Ma appare evidente che la contestazione non sia fondata in quanto dalla lettura della sentenza emerge che la stessa è stata pronunziata e depositata lo stesso giorno in cui era fissata la discussione e, dunque, non vi è stato iato tra pronunzia ed il deposito della motivazione della sentenza, così rispettandosi l'esigenza di ancorare il momento dell'immodificabilità della decisione alla data dell’udienza di discussione, per assicurare alle parti l'immediata conoscenza del regolamento giudiziale dei loro rapporti e l'immutabilità del medesimo rispetto alla successiva stesura della motivazione. Si propone, pertanto, la definizione del ricorso in camera di consiglio con ordinanza di manifesta infondatezza.

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lunedì 24 marzo 2014

Il professore viene trasferito in una scuola per corsi di recupero: salva la sua professionalità

Nel pubblico impiego, ha rilievo soltanto il criterio dell’equivalenza formale in riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita e senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione. È quanto stabilito dalla Cassazione nella sentenza 26285/13.

Il caso

A seguito del trasferimento in una nuova scuola per corsi di recupero, un insegnante di discipline economico-giuridiche presso una scuola regionale, dipendente dal comune di Milano, chiedeva che fosse dichiarato illegittimo e annullato tale demansionamento, accompagnato da atti vessatori, e la sua reintegrazione presso la scuola regionale. Sia in primo grado che in appello, la domanda viene respinta e il professore ricorre per cassazione. Il motivo di ricorso relativo alla presunta violazione dell’art. 2103 c.c. è infondato in quanto, nel pubblico impiego, ciò che rileva è il criterio dell’equivalenza formale in riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dal concreto incarico svolto. L’assegnazione di incarichi nel pubblico impiego avviene mediante concorsi. Dunque, essa unitamente alla contestazione delle graduatorie, deve formare oggetto di specifiche impugnazioni in sede amministrativa. Nel caso di specie, tali impugnazioni non sono state proposte. Tra l’altro, il trasferimento lamentato era il risultato di un processo avviato dal Comune in anni precedenti per la ottimizzazione e la razionalizzazione delle risorse interne che, finora, non era mai stato oggetto di specifiche censure.

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Comunicazioni di cancelleria a mezzo PEC: nulla se manca l'allegato integrale del provvedimento

Nel corso degli ultimi anni si sono registrati numerosi e frammentari interventi legislativi sulle in-novazioni in generale e specificamente sul tema della c.d. giustizia digitale. I primi interventi sono stati effettuati con riguardo alla posta elettronica certificata (PEC) obbligando i professionisti a co-municare la propria PEC all'Ordine di appartenenza, quindi i difensori ad indicare negli atti la PEC e modificando le norme del codice di procedura civile.
Riguardo alla PEC e alle comunicazioni di cancelleria, transitando prima dall'art. 4, comma 2, del decreto-legge 29 dicembre 2009, n. 193, recante "Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario", convertito con modificazioni dalla L. 22 febbraio 2010, n. 24 e poi dalle regole tecniche con il DM 21/2/2011, n. 44 (così come modificato dalla DM 15/10/2012, n. 209), si è approdati alle disposizioni seguenti:
•art. 16, comma 3, del decreto-legge 18/10/2012, n. 179, recante: "Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese", convertito dalla Legge 221/2012, che modifica l'art. 45 delle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie;
•art. 16, comma 4, del decreto-legge 18/10/2012, n. 179, recante: "Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese", convertito dalla Legge 221/2012, secondo cui «Nei procedimenti civili le comunicazioni e le notificazioni a cura della cancelleria sono effettuate esclusivamente per via telematica all'indirizzo di posta elettronica certificata risultante da pubblici elenchi …»;
Nel corso di un giudizio di appello, definito dalla Corte d'Appello di Milano, Sezione Lavoro, con sentenza n. 224/2014 del 3/3/2014, è stata sollevata una questione preliminare sulla inammissibilità del reclamo perché lo stesso sarebbe stato proposto oltre il termine di decadenza di 30 giorni dalla comunicazione di cancelleria, termine appunto previsto dall' art. 1, comma 58, della legge n. 92/2012. L'art. 1, comma 61, della medesima legge dispone che «In mancanza di comunicazione o notificazione della sentenza si applica l'articolo 327 del codice di procedura civile». In tale ultima ipotesi si applica il termine di sei mesi. 
Nel caso di specie, ovviamente, la comunicazione di cancelleria è stata effettuata a mezzo PEC, ma la stessa non conteneva in allegato il provvedimento integrale e cioè la sentenza di primo grado. Il reclamante, pertanto, ha depositato il reclamo nel termine di sei mesi.
Il citato art. 45, comma 2, disp. att. c.p.c. è stato modificato in questi esatti termini: «Il biglietto contiene in ogni caso l'indicazione dell'ufficio giudiziario, della sezione alla quale la causa è asse-gnata, dell'istruttore se è nominato, del numero del ruolo generale sotto il quale l'affare è iscritto e del ruolo dell'istruttore il nome delle parti ed il testo integrale del provvedimento comunicato».
La Corte d'Appello di Milano, con un'interpretazione, ad avviso dello scrivente rigorosa e corretta, delle norme citate ed in particolare del novellato art. 45 disp. att. c.p.c. e dell'art. 327, come richia-mato dall'art. 1, comma 61, della L. 92/2012, ha dichiarato regolare il reclamo poiché proposto nel termine di sei mesi in assenza del provvedimento integrale allegato alla PEC con cui è stata eseguita la comunicazione di cancelleria. In buona sostanza, afferma la Corte, qualora il messaggio di PEC inviato dalla cancelleria non contenga il provvedimento integrale, la comunicazione non è «idonea a raggiungere lo scopo di una piena conoscenza della sentenza da parte dei destinatari, presupposto necessario per far decorrere il termine breve ed inderogabile di trenta giorni per la proposizione del reclamo (come previsto dalla legge 92/12, nel combinato disposto di cui ai commi 58 e comma 61 dell'art.1 citato)».
In virtù dell'applicazione del termine ordinario previsto dall'art. 327 c.p.c. ad avviso della Corte d'Appello di Milano è necessaria una domanda specifica diretta a far dichiarare la nullità della co-municazione di cancelleria «perché appunto l'effetto in qualche modo "sanzionatorio" della mancata comunicazione anche della sentenza è già automaticamente previsto dalla legge».
La vicenda che è stata definita con la citata sentenza della Corte d'Appello di Milano, evidenzia come sia rilevante, anche ai fini giuridici e non soltanto pratici e/o di maggiore utilità o comodità per gli operatori, porre attenzione ad un corretto utilizzo degli strumenti digitali nel settore della giustizia. Il PCT si avvia verso la generale obbligatorietà a decorrere dal prossimo 30 giugno, salvo proroghe, ed emergono profili specifici e criticità che devono essere risolti alla luce delle norme vigenti. Molto spesso, peraltro, si pensa alla digitalizzazione della giustizia in maniera limitativa, po-sto che non viene effettuata una interpretazione sistematica che tenga conto delle diverse norme presenti nel nostro ordinamento. Spesso si trascura di considerare l'intero impianto normativo con-tenuto nel codice dell'amministrazione digitale (CAD) che disciplina diversi istituti.
Pertanto, è evidente come l'introduzione dell'uso della PEC, posta elettronica certificata, nel processo civile non abbia affatto modificato le norme di rito che devono essere, pertanto, compiutamente rispettate. Gli strumenti informatici hanno lo scopo (primario?) di agevolare e migliorare le attività lavorative ed i processi. Le norme del codice di rito che, sebbene modificate per l'introduzione nel giudizio civile dell'uso della PEC, vanno sempre lette ed interpretate alla luce dei principi generali dell'ordinamento e le tecnologie non possono costituire norma e prevalere sulle disposizioni proces-suali vigenti.
Fonte: ilsole24ore.com/Comunicazioni di cancelleria a mezzo PEC: nulla se manca l'allegato integrale del provvedimento

sabato 22 marzo 2014

Per la classificazione catastale l'ultima parola spetta al Giudice tributario

Il possessore dell'immobile vanta il diritto ad una "definizione mirata e specifica" della sua proprietà, e, in difetto di questa, relativamente alle categorie e classi catastali, tenute presenti le circolari dell'Amministrazione, il privato può ricorrere al Giudice tributario. E tale diritto discende direttamente dall'art. 53 Cost. "poiché i dati catastali costituiscono il punto di riferimento per tutto il sistema impositivo, e non può essere assoggettato a indicazioni o provvedimenti di carattere generale". Dunque, ogni proprietario che vede negarsi dall'Amministrazione la sua richiesta di diversa classificazione catastale, e conseguente rendita, potrà rivolgersi al Giudice, il quale, svolte le opportune valutazioni circa le mutate condizioni, la vetustà dell'edificio nonché l'eventuale non rispondenza dell'immobile alle attuali esigenze, potrà anche "disapplicare i criteri elaborati dall'Amministrazione". Questo ciò che è successo per un immobile sito in Campobasso, i cui proprietari, vedendosi negare l'istanza di revisione, in autotutela, del classamento dalla categoria A/1 alla categoria A/2 ricorrevano davanti alla competente Commissione Provinciale Tributaria, la quale, in forza dei principi sovraesposti, con la sentenza n. 52/1/14, depositata il 6 febbraio 2014, prima disponeva una C.T.U. per l'accertamento di categoria, classe e rendita e poi accoglieva il ricorso annullando i provvedimenti. Nel caso di specie, dall'elaborato peritale, che si fondava tra l'altro su un'accurata comparazione di diversi complessi abitativi campobassani, emergeva come all'edificio in causa non potesse essere attribuita la classe risultante dal classamento automatico, ma quella maggiore "ritenuta più congrua alla realtà dei fatti".

Fonte: http://fiscopiu.it/La Stampa - Per la classificazione catastale l'ultima parola spetta al Giudice tributario

Rateazione: decadenza dal beneficio dopo otto rate non pagate

Applicazione retroattiva per l’art. 52, comma 1, lett. a), n. 2) del D.L. n. 69/2013 (cosiddetto “Decreto Fare”, convertito nella Legge 9 agosto 2013, n. 98), che prevede l’innalzamento da due a otto del numero delle rate il cui mancato pagamento determina la decadenza dal beneficio della rateazione del debito per somme iscritte a ruolo. La norma, dunque, sarà riferibile non solo ai piani di rateizzazione predisposti dopo il 22 giugno 2013, data di entrata in vigore del citato decreto, ma anche ai piani già in essere a quella data. Lo ha spiegato l’Agenzia delle Entrate nella Risoluzione 19 marzo 2014, n. 32/E, rispondendo alle richieste di chiarimenti pervenute da alcuni contribuenti. A detta conclusione l’Ufficio è giunto applicando in via interpretativa la ratio sottesa all’art. 4 del decreto di attuazione del 6 novembre 2013, (“Rateizzazione straordinaria delle somme iscritte a ruolo, come previsto dall'art. 52, comma 3, del D.L. n. 69/2013, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 98/2013”). La norma disciplina l'attuazione dell'art. 52 citato, comma 1, lett. a), n. 1, secondo cui il debitore, ove si trovi, per ragioni estranee alla propria responsabilità, in una comprovata e grave situazione di difficoltà legata alla congiuntura economica, può chiedere di aumentare la rateazione delle somme iscritte a ruolo fino a centoventi rate mensili. L'art. 4 dispone che tale possibilità di rateazione, alla condizioni indicate, si applica anche ai "piani di rateazione già accordati alla data di entrata in vigore della modifica normativa", ovvero il 22 giugno 2013 (data di entrata in vigore del "Decreto Fare"). L'Agenzia ritiene, dunque, che la medesima ratiopossa essere applicata, in via interpretativa, con riferimento alla disposizione che ha innalzato (da due a otto) il numero delle rate il cui mancato pagamento determina la decadenza dal beneficio della rateazione, per cui l’art. 19, comma 3, del D.P.R. n. 602/1973, come modificato dall’art. 52, comma 1, lett. a), n. 2), del D.L. n. 69/2013, è applicabile anche i piani di rateizzazione già in essere - e, dunque, non decaduti - alla data del 22 giugno 2013 (data di entrata in vigore del citato “Decreto Fare”).

Fonte: http://fiscopiu.it/La Stampa - Rateazione: decadenza dal beneficio dopo otto rate non pagate

venerdì 21 marzo 2014

Apertura di una finestra sul muro condominiale solo se non viene pregiudicata la stabilità e il decoro dell’edificio

È possibile l’apertura di finestre su area di proprietà comune e indivisa, ma non bisogna pregiudicare la stabilità e il decoro architettonico dell’edificio e, inoltre, non bisogna impedire l’esercizio concorrente di analoghi diritti degli altri condomini. Lo ha affermato la Cassazione con la sentenza 53/2014.

Il caso

Un condominio conveniva in giudizio due coniugi, che avevano realizzato sul terrazzo di copertura due manufatti in profilato in ferro e pannelli e avevano, inoltre, aperto una finestra sul muro condominiale con affaccia sulla chiostrina, per vederli condannare al ripristino dello stato dei luoghi. Ritenuto che i manufatti arrecavano pregiudizio al decoro architettonico e possibile danno come ostacolo al deflusso delle acque piovane, i giudici di merito, in entrambi i gradi di giudizio, condannavano i convenuti alla demolizione dei manufatti realizzati e alla chiusura della finestra. I coniugi, tuttavia, non si arrendono e propongono ricorso in Cassazione. I manufatti arrecano pregiudizio al decoro architettonico? Gli Ermellini, pur sottolineando che la sentenza impugnata si è attenuta agli orientamenti secondo i quali sia l’art. 1120 c.c. (innovazioni gravose o voluttuarie) e sia l’art. 1122 c.c. (opere sulle parti dell’edificio di proprietà comune) vietano innovazioni che alterano il decoro architettonico del fabbricato, ha accolto il sesto e il settimo motivo del ricorso. In particolare, i giudici di appello avrebbero errato nel ritenere illegittima la finestra aperta dai ricorrenti sul muro condominiale. Infatti, la S.C. ha sottolineato che l’apertura di una finestra o di vedute, o la trasformazione di finestre in balconi, sono legittimi. Tuttavia – viene precisato in sentenza - vanno rispettati i limiti contenuti nell’art. 1117 c.c. (parti comuni dell’edificio), consistenti nel non pregiudicare la stabilità e il decoro architettonico dell’edificio, nel non menomare o diminuire sensibilmente la fruizione di aria o di luce per i proprietari dei piani inferiori, nel non impedire l’esercizio concorrente di analoghi diritti degli altri condomini, nel non alterate la destinazione a cui il bene è preposto e nel rispettare i divieti di cui all’art. 1120 c.c. (ad esempio, pregiudizio della stabilità e sicurezza del fabbricato, pregiudizio al decoro architettonico). Nella fattispecie, dunque, nessun pregiudizio è stato arrecato. E poi – conclude la Cassazione – l’apertura di finestre su area di proprietà comune e indivisa tra le parti «non integra gli estremi di una costituzione di un diritto di servitù», ma utilizzazione della cosa comune e, quindi, di un bene di cui è sono proprietari anche i ricorrenti.

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Lavoro interinale: non si può rimandare all’infinito l’assunzione a tempo indeterminato

L’addetto a un call center ha diritto all’assunzione a tempo indeterminato dopo tre successive proroghe del rapporto a termine. Lo ha stabilito la Cassazione nella sentenza 161/14.

Il caso

Una donna, dopo aver stipulato due contratti di lavoro temporaneo con un’agenzia interinale e dopo tre successive proroghe, chiede che venga dichiarato sussistente un rapporto di lavoro direttamente con l’impresa utilizzatrice e a tempo indeterminato In primo grado, ella vede riconosciute le sue ragioni ma la Corte d’Appello di Torino precisa che il contratto di fornitura di lavoro temporaneo ha natura causale, nel senso che l'imprenditore può farvi ricorso solo nei casi previsti dalla legge e dalla contrattazione collettiva e che ciò implica la necessaria esplicitazione del motivo della sua conclusione, cui è collegata la possibilità di controllarne il rispetto. La Corte aggiunge anche che l'indicazione della causale deve essere sufficientemente specifica così da poter essere oggetto di successivo accertamento giudiziale, specificità che mancava nel caso in esame. Ciò premesso, però, la Corte assume che, diversamente da quanto essa stessa aveva sostenuto in precedenti decisioni, l'indicazione generica dei motivi di ricorso al lavoro temporaneo non comporta la conversione del rapporto di lavoro alle dipendenze della impresa utilizzatrice e a tempo indeterminato. La donna propone, quindi, ricorso in Cassazione. La tesi sostenuta dalla Corte d'appello non è fondata. La Corte di Cassazione si è più volte espressa sulla questione: «in materia di contratto di lavoro interinale, la mancata o la generica previsione, nel contratto intercorrente tra l'impresa fornitrice ed il singolo lavoratore, dei casi in cui è possibile ricorrere a prestazioni di lavoro temporaneo, in base ai contratti collettivi dell'impresa utilizzatrice, spezza l'unitarietà della fattispecie complessa voluta dal legislatore per favorire la flessibilità dell'offerta di lavoro nella salvaguardia dei diritti fondamentali del lavoratore e fa venir meno quella presunzione di legittimità del contratto interinale, che il legislatore fa discendere dall'indicazione nel contratto di fornitura, delle ipotesi in cui il contratto interinale può essere concluso». La stessa Corte ha precisato che quando il contratto di lavoro che accompagna il contratto di fornitura è a tempo determinato, alla conversione soggettiva del rapporto, si aggiunge la conversione dello stesso da lavoro a tempo determinato in lavoro a tempo indeterminato tra l’utilizzatore della prestazione, datore di lavoro effettivo, e il lavoratore. Il ricorso è, quindi, accolto con rinvio alla corte d’Appello in diversa composizione.

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martedì 18 marzo 2014

Ignari del carico illecito, assolti dal tribunale

Due cittadini ucraini fermati con una bicicletta e un computer rubati, ma non ne conoscevano la provenienza

Erano stati fermati nello scorso agosto dalla guardia di finanza mentre trasportavano un carico sospetto su un furgone lungo corso Piave, in zona stadio, tanto che le fiamme gialle avevano deciso di procedere a un controllo per verificare che non si trattasse di merce e materiale di provenienza illecita. Un’ipotesi subito avvalorata dai riscontri con la centrale, che avevano evidenziato una bicicletta, tra le varie accatastate nel furgone, e un computer di cui erano stati denunciati i furti in quelle settimane. È così che i cittadini ucraini D. S. e R. T. sono finiti sotto processo con l’accusa di ricettazione.
Un’accusa che non ha però trovato riscontro durante le udienze in tribunale vista l’assoluzione dei due imputati, entrambi difesi dall’avvocato Emiliano Mancino. Secondo la linea sostenuta dal legale, mancavano infatti gli elementi soggettivi per dimostrare che i due imputati fossero a conoscenza della provenienza illecita del materiale. I due avevano infatti acquistato il carico per poi regalarlo ai familiari in Ucraina, ma nessun elemento in mano all’accusa ha potuto dimostrare la loro mala fede in questo proposito. Durante le udienze gli imputati hanno affermato che i sospetti sorti durante il controllo erano dovuti anche alle difficoltà linguistiche, che avevano creato difficoltà nello spiegare agli agenti delle fiamme gialle per quale motivo trasportassero due oggetti rubati in mezzo al loro carico.
fonte: estense.com/Ignari del carico illecito, assolti dal tribunale | estense.com Ferrara

Il marito nasconde foto equivoche? Rischia l'addebito

La sesta sezione civile della Suprema Corte di Cassazione ha pronunciato l'ordinanza n. 4420 del 25 Febbraio 2014 con la quale ha rigettato il ricorso di un marito avverso la sentenza di secondo grado. 
In virtù di detta sentenza, infatti, la Corte di Appello di Brescia aveva dichiarato la separazione personale tra le parti con addebito al marito, ponendo altresì a suo carico il pagamento di Euro 1.000 a titolo di assegno di mantenimento a favore della moglie.
L'ordinanza della Cassazione, in sostanza, conferma che la domanda di addebito avanzata dalla moglie che scopre la relazione extraconiugale del marito grazie al rinvenimento di foto che questi aveva occultato (nel caso di specie le aveva nascoste in cassaforte), è legittima e fondata.
Ancora una volta, dunque, la Suprema Corte viene chiamata a decidere in ordine ad un istituto, quale quello dell'addebito, considerato da gran parte della dottrina e da molti operatori del diritto, desueto e pressochè inutile.
Tant'è che la giurisprudenza è intervenuta negli anni a ridurre sempre più la possibilità di ottenere la pronuncia di addebito della separazione, ancorando tale risultato ad una ferrea prova della violazione del dovere matrimoniale eccepito al coniuge ed ancorando la sussistenza effettiva di tale violazione a presupposti precisi e causalmente vincolati al fallimento del matrimonio.
Nel caso della infedeltà, non è quindi facile ottenere una pronuncia d addebito della separazione a tale titolo, dovendo il ricorrente dimostrare che l'eccepita infedeltà è stata la causa della fine della coniugio, oppure che le modalità siano inequivocabilmente lesive della dignità personale del coniuge tanto da rendere imperdonabile la violazione di tale dovere matrimoniale.
Sovente, ottenere la pronuncia di addebito nei confronti del coniuge rappresenta una sorta di riscatto morale per una ferita ingiustamente subita, in quanto, dal punto di vista giuridico e del concreto vantaggio, la legge ben poco soddisfa il richiedente. 
Come è noto, infatti, la pronuncia di addebito ha solo conseguenze negative nei confronti di chi la subisce, ma non ha diretti effetti positivi a favore di chi la ottiene. 
In altre parole, il coniuge al quale viene addebitata la separazione, perde il diritto all'eventuale assegno di mantenimento e perde i diritti ereditari nei confronti del coniuge. Con la conseguenza, dunque, che un soggetto economicamente autosuffciente non subirà da una tale pronuncia alcun tipo di nocumento.
Tornando al caso in esame, il rinvenimento da parte della moglie di messaggi e foto equivoche nascoste in cassaforte, sono state considerate prove sufficienti a provare l'infedeltà del marito ed ad addebitargli la separazione.
Tuttavia, è opportuno ricordare che può rivelarsi fatale la modalità con la quale il coniuge tradito si procura le prove della infedeltà, dal momento che i rischi di incorrere in responsabilità penale per interferenza illecita nella vita privata, violazione della privacy, sottrazione di documenti ed altri reati annessi e conseguenti, non sono da sottovalutare.
Nel caso di specie, i giudici non hanno ravvisato nessuna violazione della privacy del marito da parte della moglie, non potendosi considerare violati né il domicilio, né la vita privata del coniuge traditore: la moglie, infatti, non si era procurata le foto e i messaggini comprovanti l'infedeltà in modo illecito, bensì scoprendole in casa propria, nella cassaforte di famiglia.
Quanto al secondo aspetto della impugnata sentenza della Corte di Appello di Brescia, ovvero quello riguardante la condanna al pagamento di 1000 euro al mese a favore della moglie a titolo di assegno di mantenimento, l'ordinanza 4420/2014 della Cassazione, rigettando il ricorso del marito, ha confermato l'ottenuto aumento dell' assegno da parte della moglie in virtù della prova da quest'ultima fornita della la sussistenza di redditi occulti che il marito percepiva ( i cd "fuori busta"), oltre al suo normale stipendio mensile.
A questo proposito, le dichiarazioni rese in giudizio dal datore di lavoro, sono state ritenute prove insindacabili.
Secondo gli Ermellini, il giudice del merito ha compiuto una attenta valutazione delle risultanze probatorie, controllandone attendibilità e concludenza, nonché effettuando una corretta scelta tra quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione.
Al marito non è rimasto, dunque che pagare pure le spese legali.
fonte : ilsole24ore.com/Il marito nasconde foto equivoche? rischia l'addebito

Sproporzionato il licenziamento per l'uso privato della e-mail aziendale

L'uso, anche quotidiano, della e-mail aziendale per ragioni private, così come l'installazione sul pc di programmi non inerenti all'attività lavorativa, non costituiscono violazioni sufficienti ad autorizzare il licenziamento del dipendente. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 6222/2014, respingendo il ricorso di una azienda contro la sentenza della Corte di Appello di L'Aquila che aveva confermato la reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente licenziato.

Il giudizio di appello

Per la Corte territoriale «il fatto contestato corrispondeva alla fattispecie disciplinare prevista dal contratto collettivo applicabile, ove è stabilita solo una sanzione conservativa per l'infrazione consistente nell'utilizzazione "in modo improprio di strumenti di lavoro aziendali"». Dunque, il datore di lavoro «non avrebbe potuto irrogare una sanzione disciplinare più grave di quella pattizia».

Il ricorso

Nel ricorso l'azienda ha però sostenuto che nella lettera inviata al dipendente non erano stati contestati solo «l'uso improprio dello strumento di lavoro aziendale, ma anche la violazione del dovere di obbedienza di cui all'art. 2104 cod. civ.». Infatti, vi erano state «chiare informative» e «molteplici preavvisi» da parte della società che invitavano i dipendenti ad un corretto utilizzo della posta. In più, nel pc era stata riscontrata la presenza di materiale di carattere pornografico, e l'utilizzo di programmi coperti da copyright, «con esposizione del datore dl lavoro a conseguente responsabilità». In definitiva, il dipendente «avrebbe dimostrato di intendere il posto di lavoro e il tempo di lavoro come destinato ad attività di svago piuttosto che di adempimento dell'obbligo di prestazione lavorativa».

La motivazione della Cassazione

Per la Suprema corte però nessuna doglianza coglie nel segno. In primis, come chiarito in appello, «il datore di lavoro non può irrogare un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo applicabile in relazione ad una determinata infrazione».

Poi, il riferimento del datore di lavoro alle disposizioni in ordine all'uso dei computer aziendali «non prospetta certo una violazione di distinti obblighi contrattuali, rilevando solo ai fini della valutazione della gravità dell'inadempimento». Giudizio che spetta al giudice di merito.

In ultimo, la «rilevata presenza di materiale pornografico non corrisponde ad una specifica contestazione di addebito formulata con la suddetta lettera». Lettera che, peraltro, quanto alla presenza di programmi coperti da copyright, non chiariva neppure quali violazioni sarebbero state commesse per far sorgere «eventuali profili di responsabilità dell'azienda».

fonte: ilsole24ore.com/Sproporzionato il licenziamento per l'uso privato della e-mail aziendale

Registratore di cassa vuoto, il rapinatore va via: condannato. Illogico parlare di desistenza volontaria

A ‘vuoto’ il colpo tentato da un giovane, che ha preso di mira un piccolo negozio di alimentari. Decisiva la constatazione della mancanza di un bottino appetibile. Consequenziale la scelta di scappare via. Ciò però non cancella la contestazione del delitto di tentata rapina. Grossa delusione per il rapinatore: il registratore di cassa del negozio – che vende frutta e verdura – è completamente vuoto, a parte qualche spicciolo. Scelta logica, a quel punto, riporre l’arma – un coltello da cucina – e scappare via, seppure a mani vuote. Ma, sia chiaro, la razionalità del rapinatore è non valutabile con un’ottica buonista: non si può, cioè, parlare di “desistenza volontaria”, perché, comunque, si è concretizzato, senza dubbio, il delitto di “tentata rapina”. (Cass., sent. 51514/13). A ‘ridimensionare’ l’azione compiuta dal giovane rapinatore è stato, in prima battuta, il Giudice dell’udienza preliminare: azzerata la contestazione del «delitto di tentata rapina pluriaggravata» alla luce del comportamento tenuto di fronte ai proprietari del negozio ortofrutticolo, ossia alla luce della scelta di riporre l’arma utilizzata e di andare via a mani vuote. Per il Gup si può, a ragion veduta, parlare di «desistenza volontaria». Di opposto avviso, invece, sono i giudici della Corte d’Appello, che confermano l’ipotesi della «tentata rapina pluriaggravata», condannando il giovane uomo a «due anni di reclusione» e «600 euro di multa». E questa visione, davvero lontana dalla prospettiva tracciata dal Gup, è condivisa anche dai giudici del ‘Palazzaccio’, i quali, difatti, ribadiscono la condanna nei confronti del «rapinatore». Ciò perché il giovane «ha consumato per intero l’azione» – cioè «penetrare nel negozio per impossessarsi del denaro nel registratore di cassa», minacciando i «gestori del negozio di alimentari, con un grosso coltello da cucina in mano» –, mentre la successiva decisione di andare via senza alcun bottino, sottolineano i giudici, è stata «solo motivata dalla constatazione che l’oggetto a cui la condotta era finalizzata era occasionalmente mancante, così da imporre, più che giustificare, ineluttabilmente la condotta della fuga per evitare di essere individuato e punito». Assolutamente illogico, quindi, parlare di «desistenza volontaria», molto più sensato, invece, considerare pienamente consumata la «tentata rapina»: ecco spiegata la conferma della condanna a due anni di reclusione nei confronti dell’uomo.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Registratore di cassa vuoto, il rapinatore va via: condannato. Illogico parlare di desistenza volontaria

Rivali in amore si prendono a botte: basta un graffio e scatta la condanna per lesioni

Rivali in amore si prendono a botte: basta un graffio e scatta la condanna per lesioni

Affinché di malattia possa parlarsi, ai fini della sussistenza del reato di lesione personale di cui all’art. 582 c.p., è sufficiente qualsiasi alterazione anatomica e funzionale dell’organismo, anche localizzata, lieve e non compromettente le condizioni organiche generali... come un semplice graffio. È quanto stabilito dalla Cassazione nella sentenza 51393/13. Il caso Una donna ricorre in Cassazione avverso la sentenza del Tribunale di Massa che aveva assolto una sua rivale in amore, la quale, durante un alterco, le aveva procurato un graffio sul viso e una prognosi di dieci giorni. É incongrua e giuridicamente erronea l’affermazione secondo la quale il graffio riportato dalla ricorrente non fosse qualificabile come lesione, nell’accezione penalistica, in palese dissonanza con il pacifico insegnamento giurisprudenziale di legittimità. In un suo precedente, la Suprema Corte ha chiarito che per la configurazione della nozione di "malattia", «rilevante ai fini della sussistenza del reato di lesione personale di cui all'art. 582 c.p., è sufficiente qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell'organismo, ancorché localizzata, di lieve entità e non influente sulle condizioni organiche generali, onde lo stato di malattia perdura fino a quando sia in atto il suddetto processo di alterazione». Sulla base di ciò, il ricorso deve essere accolto e la sentenza impugnata annullata.



Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Rivali in amore si prendono a botte: basta un graffio e scatta la condanna per lesioni

L'avviso orale non basta a revocare la patente

L'avviso orale, non accompagnato dalle ulteriori prescrizioni previste dalla legge solo come eventuali a discrezione dell'autorità di pubblica sicurezza, non può essere considerato di per sé una "misura di prevenzione" e non dà luogo all'applicazione del provvedimento di revoca della patente di guida previsto dal Codice della strada.

Il caso
Tizio era stato destinatario di un provvedimento di revoca della patente di guida, ex art. 120 del Codice della strada, emesso sul presupposto che l’interessato aveva già ricevuto un “avviso orale” ai sensi della legge n. 1423/1956 (ora art. 3 del d.lgs. n. 159/2011).
Avverso tale provvedimento, Tizio ricorreva dapprima dinanzi al Tar, che respingeva il ricorso con sentenza immediata, e poi in appello.
La decisione e i risvolti pratici
Il Collegio ritiene che, per la risoluzione della controversia, la questione preliminare ed assorbente da esaminare sia se l’avviso orale di cui alla legge n. 1423/1956 (ora art. 3 del d.lgs. n. 159/2011) possa considerarsi annoverabile tra le misure di prevenzione personale le quali costituiscono presupposto per l’applicazione dell’art. 120 del Codice della strada.
Dopo aver specificato che l’appellante era stato raggiunto da un avviso orale semplice, ossia non accompagnato dalle ulteriori prescrizioni di cui all’art. 3, comma 4, d.lgs. n. 159/2011, il Collegio esclude che il mero avviso orale si configuri come una “misura di prevenzione” essendo invece un antecedente necessario per l’applicazione delle misure di prevenzione propriamente dette.
Considerato che il dettato della legge in materia è molto esplicito nel chiarire che le misure di prevenzione si applicano qualora, dopo l’avviso orale, il soggetto abbia perseverato nelle sue condotte riprovevoli, appare inequivoco, secondo quanto chiarito dai Giudici di Palazzo Spada, che l’avviso orale non è, di per sé, una misura di prevenzione.
Invero, evidenzia ancora il Collegio, le misure di sicurezza impongono al soggetto vincoli di fare e di non fare che ne limitano in qualche modo la libertà personale e in particolare lo privano della facoltà di tenere comportamenti che altrimenti sarebbero leciti; al contrario il mero avviso orale non comporta alcun vincolo consistendo soltanto nell’intimazione di tenere «una condotta conforme alla legge» e, pertanto, nulla di più o di meno di ciò che è richiesto alla generalità dei cittadini.
In conclusione dunque, a parere dei Giudici di Palazzo Spada, l’avviso orale non accompagnato dalle ulteriori prescrizioni, previste dalla legge solo come eventuali a discrezione dell’autorità di pubblica sicurezza, non può essere considerato di per sé una “misura di prevenzione” e non dà luogo all’applicazione dell’art. 120 del Codice della strada.
Precedenti giurisprudenziali
Sulla natura dell’avviso orale si veda Tar Campania, Napoli, Sez. V, 11 ottobre 2007, n. 958. 
Si veda altresì Tar Sicilia, Palermo, 30 settembre 2002, n. 2702 in cui, il Collegio annulla il provvedimento con il quale il Prefetto aveva revocato al ricorrente il conferimento della qualifica di agente di P.S. per essere stato sottoposto ad avviso orale. Osserva il Collegio infatti che l’avviso orale non produce altro effetto se non quello di consentire, entro tre anni, l’applicazione di una misura di prevenzione, in riferimento ad analoga precedente decisione dello stesso Tar Sicilia, Palermo, 21 marzo 1997, n. 396.
Sulla circostanza che l’avviso orale non possiede un carattere immediatamente incidente sulla sfera dell’esercizio dei diritti da parte dell'avvisato si veda anche Tar Veneto, Sez. I, 27 agosto 1990, n. 879.

Fonte:L'avviso orale non basta a revocare la patente - Il Quotidiano Giuridico

lunedì 17 marzo 2014

Giovane, ribelle e madre... inadeguata: dichiarato lo stato di abbandono della figlia minore

Esclusa una probabile evoluzione in senso positivo della situazione, stante l’incapacità della madre di giovarsi dell’aiuto degli operatori e degli educatori del servizio sociale. È quanto emerge dalla sentenza 28213/13 della Cassazione.

Il caso

Accertata l’incapacità genitoriale di una giovane madre, emersa anche all’esito di vari tentativi di collaborazione con i servizi sociali, il Tribunale dei minorenni prima, e la Corte di appello poi, hanno dichiarato lo stato di abbandono della figlia minore della donna. Lo stato di adottabilità come soluzione estrema. La Corte Suprema - a cui ha presentato ricorso la giovane donna - ritenendo inammissibile il ricorso, ricorda che il minore ha sì diritto di rimanere nella propria famiglia di origine, con conseguente ricorso allo stato di adottabilità come soluzione estrema, quando ogni altro rimedio appare inadeguato, con «l’esigenza dell’acquisto o di un recupero della capacità genitoriale in tempi compatibili con l’esigenza del minore di uno stabile contesto familiare». È esclusa una probabile evoluzione in senso positivo. Ed è proprio questo che manca nel caso in esame. Infatti, secondo quanto accertato dai giudici territoriali, la giovane donna non ha mai accettato il rispetto delle regole e ha assunto, fin da quando andava a scuola, comportamenti trasgressivi. E poi, i nonni materni avevano sicuramente contribuito alla confusione della donna, «stimolandone l’onnipotenza». Pertanto, già i giudici di merito avevano – giustamente secondo la Cassazione - «escluso una probabilità di evoluzione in senso positivo, stante l’incapacità della madre di giovarsi dell’aiuto – nei cui confronti ha sempre mostrato un atteggiamento di ‘insofferenza ed opposizione’ – degli operatori e degli educatori del servizio».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Giovane, ribelle e madre... inadeguata: dichiarato lo stato di abbandono della figlia minore

domenica 16 marzo 2014

Sms volgare, destinataria è l’utilizzatrice del cellulare, non la proprietaria. Legittima l’azione penale

Ribaltata completamente la prospettiva adottata dal Giudice di pace, il quale aveva optato per la non procedibilità penale, sostenendo che l’utilizzatrice del cellulare, figlia della proprietaria dell’utenza telefonica, non potesse agire contro l’uomo. Ciò che conta, invece, è che ella, proprio come utilizzatrice del cellulare, sia stata destinataria del messaggio, e quindi sia parte offesa (Cassazione, sentenza 51395/13).

Il caso

Cellulare a portata di mano, lieve ‘beep’ a segnalare l’arrivo di un messaggio, e all’apertura una ‘sorpresa’ davvero poco gradevole... una proposta hot assai volgare! Proprietaria ufficiale della scheda telefonica è la madre, utilizzatrice effettiva la figlia, ma questo distinguo non può assolutamente portare all’azzeramento del diritto della ragazza di considerarsi parte offesa e di dare il ‘la’ all’azione penale contro l’uomo che le ha mandato quello scritto irriguardoso. A fare scalpore, a dir la verità, è la decisione del Giudice di pace, il quale opta per il «non doversi procedere nei confronti» dell’uomo – autore di un messaggio non certo da lord inglese, praticamente una proposta sessuale esplicita e volgare –, evidenziando che non era «legittimata alla proposizione dell’istanza punitiva la destinataria del messaggio, la quale non risultava titolare o contitolare dell’utenza telefonica, intestata alla madre». A spazzar via questa tesi arrivano i giudici del ‘Palazzaccio’ accogliendo il ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica. Riferimento fondamentale – che i giudici richiamano alla memoria del Giudice di pace che dovrà riesaminare la vicenda, centrata sulla ipotesi del «delitto di ingiuria» – è «il diritto di querela» attribuito dal Codice Penale alla «persona offesa dal reato», ossia la ragazza, «utilizzatrice» del telefono cellulare e destinataria dello sgradevole messaggio. Assolutamente irrilevante, invece, chiariscono ancora i giudici, la «titolarità formale della utenza» telefonica, che, come detto, risulta intestata ufficialmente alla madre della ragazza.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Sms volgare, destinataria è l’utilizzatrice del cellulare, non la proprietaria. Legittima l’azione penale

Un coerede possiede in maniera esclusiva un immobile? Il silenzio degli altri congiunti fa di lui l’unico proprietario

Nessuna contestazione è stata mai mossa nei confronti del possessore, che ha goduto del bene in via esclusiva insieme alla moglie e alla figlia, facendo lavori e pagando le tasse: il proprietario è lui (Cassazione, sentenza 28346/13).

Il caso

Tre proprietari pro indiviso di 8/10 di un immobile, convenivano in giudizio altre 2 persone al fine di ottenere pronuncia di scioglimento della comunione ereditaria in relazione all’immobile stesso. La questione, però, arriva in Corte di Cassazione, dove i giudici - con la sentenza n. 28346/13 depositata il 18 dicembre scorso – si esprimono sul quesito di diritto proposto dagli attori. In pratica, viene chiesto alla S.C. se, «in presenza di comproprietà tra soggetti legati da vincoli parentali, l’accertamento del possesso esclusivo animo domini di uno di loro deve limitarsi all’accertamento di quanto questo abbia esattamente maturato anche solo all’approssimarsi del decorso del tempo necessario ad usucapire, o viceversa, deve estendersi all’accertamento che tale animo sia perdurato per l’intero tempo necessario ad usucapire e sia stato sin dall’inizio palesato o comunque reso riconoscibile agli altri comproprietari prossimi congiunti». Possedere in maniera esclusiva. La Cassazione, tuttavia, ritiene corretta la decisione della Corte di secondo grado, la quale aveva sottolineato che il coerede o il partecipante alla comunione può usucapire l’altrui quota indivisa della cosa comune estendendo la propria signoria di fatto sulla res communis in termini di esclusività dimostrando l’intenzione di possedere non a titolo di compossesso, ma di possesso esclusivo per il tempo prescritto dalla legge senza la necessità di compiere atti di interversio possesionis. Il congiunto si è sempre comportato come se fosse l’unico proprietario del bene. Nel caso di specie, infatti, nessuna contestazione è stata mai mossa nei confronti del possessore, che ha goduto del bene in via esclusiva insieme alla moglie e alla figlia. Senza contare che, tra l’altro, egli ha eseguito opere di ordinaria e straordinaria amministrazione, ha assolto nell’intero arco temporale tutti gli oneri fiscali gravanti sull’immobile e ha provveduto ad ottenere le autorizzazioni amministrative per la realizzazione delle notevoli migliorie. E i coeredi non hanno mai contestato. I ricorrenti, visto che non avevano mai contestato il fatto che nel comportamento del loro congiunto era ravvisabile un esercizio del possesso animo domini con la manifesta intenzione di non riconoscere nei confronti degli altri coeredi alcun diritto sul bene in questione, si sono visti rigettare in toto il ricorso dalla Cassazione.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Un coerede possiede in maniera esclusiva un immobile? Il silenzio degli altri congiunti fa di lui l’unico proprietario

giovedì 13 marzo 2014

OUA: l'astensione degli avvocati ridotta al 20 ed al 21 marzo

La giunta dell'Organismo unitario dell'avvocatura alla luce delle aperture del ministro di Giustizia, Andrea Orlando ha deciso di revocare parzialmente l'astensione prevista dal 17 al 22, limitandola al 20 e 21 marzo.

Rimane lo stato di agitazione e le altre proteste già proclamate. Lo rende noto l'Oua, dopo una lunga consultazione con i delegati dell'Assemblea Oua, degli Ordini e delle Associazioni e vista l'impossibilità (per mancanza di numero legale) di convocare un'assemblea straordinaria a Roma.

Per il Presidente dell'Organismo unitario dell'avvocatura, Nicola Marino, "la comunicazione dal ministero della Giustizia dell'imminente costituzione del Tavolo di consultazione e concertazione con avvocatura e magistratura sulla riforma del processo civile e la concordata e definitiva approvazione dei parametri forensi, sono due elementi importanti di novità: un tangibile passo in avanti dopo anni di assoluta disattenzione nei confronti dell'avvocatura".

"Ritengo - ha aggiunto Marino - che quanto mostrato dal ministro Orlando meriti un segnale di fiducia e di distensione, per continuare e approfondire un dialogo appena iniziato".

"Certo - ha concluso Marino - tutto ciò non è sufficiente per abbassare la guardia, ora attendiamo l'eliminazione di tutte quelle norme ipotizzate che danneggiano i diritti dei cittadini e mortificano il ruolo della difesa, a partire, solo per fare un esempio, dalla motivazione della sentenza a pagamento". E "dopo ampia consultazione dell'avvocatura (è bene ricordare che solo 5 ordini, su 165, sono in sciopero ad oltranza)" l'Oua ha quindi deciso "di revocare parzialmente le giornate di astensione come gesto di disponibilità al confronto, ora ridotte al 20 e 21 marzo".

Rimangono lo stato di agitazione, le altre forme di protesta proclamate e la convocazione sempre il 20 e 21, in coincidenza con la prossima Assemblea Oua, degli Stati Generali dell'Avvocatura con la partecipazione di Consiglio nazionale forense, Consiglio dell'ordine degli avvocati e Associazioni "per discutere delle prospettive della mobilitazione".

fonte: ilsole24ore.com/OUA: l'astensione degli avvocati ridotta al 20 ed al 21 marzo

Manca il titolo che attribuisce la proprietà esclusiva: il sottotetto è del condominio

Il condomino dell’ultimo piano rivendica la proprietà esclusiva del sottotetto praticabile e destinato alla collocazione del ripartitore centrale dell’impianto idrico, ma senza i titoli necessari non può farlo. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza 28141/13.

Il caso

In riforma della decisione di primo grado, la Corte di appello dichiarava che la porzione di sottotetto sovrastante l’appartamento di proprietà dei condomini dell’ultimo piano, marito e moglie, era di loro proprietà. Avverso tale decisione, il condominio propone ricorso in Cassazione, rilevando che il locale era destinato all’uso comune, in quanto indicato nel regolamento condominiale come locale del serbatoio dell’acqua. il sottotetto ha la funzione di isolamento e protezione dei singoli appartamenti? Gli Ermellini, accogliendo il ricorso, sottolineano che la natura condominiale del sottotetto derivava dalla sua destinazione al servizio comune e dall’uso al quale era stato adibito sin dalla costruzione dell’edificio, «dovendosi escludere che lo stesso avesse la funzione esclusiva di isolamento e protezione delle singole unità immobiliari». Se manca il titolo che attribuisce la proprietà esclusiva, il sottotetto è un bene comune. Inoltre – conclude la S.C. – in mancanza di un titolo che attribuisca la proprietà esclusiva, il sottotetto rientra nel novero dei beni di cui all’art. 1117 c.c. quando è destinato all’uso comune, «mentre costituisce pertinenza dell’appartamento dell’ultimo piano nel caso in cui assolva la funzione di isolare e proteggerlo dal caldo, dal freddo e dal’umidità».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Manca il titolo che attribuisce la proprietà esclusiva: il sottotetto è del condominio

martedì 11 marzo 2014

Parcheggiare le auto nel cortile condominiale: quando non è possibile

Escluso il diritto di parcheggiare nel cortile condominiale, se la presenza di veicoli in sosta, oltre a rendere scomodo il raggiungimento a piedi delle singole unità immobiliari, impedisce a un condomino di utilizzare il cortile per l’introduzione di automezzi nei vani di sua proprietà posti a pianterreno. È quanto risulta dalla sentenza della Cassazione 27940/13.

Il caso

Il proprietario della maggior parte di un palazzo aveva convenuto in giudizio i proprietari di un appartamento sito nello stesso stabile, al fine di sentir dichiarare illegittimo e inibire il parcheggio delle loro autovetture nell’androne o cortile. I convenuti avevano eccepito la natura condominiale del cortile in questione e la legittimità dell’uso da loro fattone, che, in considerazione dell’ampiezza dell’area, non impediva il concorrente godimento della parte attrice di accedere alle autorimesse di sua proprietà. La Corte di Appello aveva confermato l’esclusione del diritto di parcheggiare dei convenuti, in quanto il relativo esercizio, «oltre a rendere scomodo il raggiungimento a piedi delle singole unità immobiliari», avrebbe impedito all’altro condomino, parte attrice, di utilizzare il cortile «per l’introduzione di automezzi nei vani di sua proprietà posti a pianterreno». Contro tale sentenza, i coniugi convenuti hanno proposto ricorso per cassazione, censurando l’affermazione della Corte distrettuale circa l’incompatibilità dell’utilizzo a parcheggio del cortile con la destinazione dello stesso, richiamando la giurisprudenza di legittimità, da cui deriverebbe la necessità di verificare, caso per caso, l’idoneità a tale uso. La Suprema Corte ha considerato la censura non meritevole di accoglimento. Valutazione delle caratteristiche dimensionali e funzionali del cortile incensurabile. Gli Ermellini hanno ritenuto che la doglianza non evidenzia alcun malgoverno del fondamentale principio regolatore della comunione, risolvendosi in una sostanziale censura in fatto avverso l’accertamento compiuto dal giudice di merito. Questi, per Piazza Cavour, sulla base di una incensurabile valutazione in concreto delle caratteristiche dimensionali e funzionali del cortile, è pervenuto alla motivata conclusione dell’inidoneità obiettiva dello stesso a consentire l’esercizio della facoltà di parcheggio. Tale conclusione, secondo il Collegio, non si pone in contrasto con la giurisprudenza richiamata dai ricorrenti, non essendo basata sulla negazione, in linea astratta e di principio, della compatibilità dei cortili comuni con siffatto uso, ma su di un apprezzamento delle specifiche caratteristiche dell’area in questione, in considerazione delle quali è stato ritenuto - senza incorrere in vizi logici o lacune argomentative - che lo stesso non si prestasse al parcheggio di autovetture, «ma soltanto al passaggio delle persone e al transito dei veicoli diretti nelle rimesse, aventi accesso dal medesimo, facoltà il cui esercizio sarebbe stato ostacolato o reso incomodo dalla presenza di veicoli in sosta». Tale argomentazione, per il S.C., è perfettamente rispondente alla fondamentale regola di cui all’art. 1102 (uso della cosa comune), comma 1, c.c., secondo la quale l’uso della cosa comune da parte di ciascun partecipante non può alterarne la destinazione, da intendersi in concreto in considerazione delle caratteristiche obiettive e funzionali, e non può impedire il concorrente uso degli altri comunisti, secondo il loro diritto. Alla luce di ciò, il ricorso è stato rigettato.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Parcheggiare le auto nel cortile condominiale: quando non è possibile

venerdì 7 marzo 2014

Proroga rottamazione cartelle: la scadenza del 31 marzo ora è ufficiale

La disposizione della Legge di Stabilità 2014 (art. 1, comma 618, Legge 27 dicembre 2013, n. 147) che prevedeva la possibilità di estinguere, in via agevolata, i debiti risultanti dai ruoli emessi da uffici statali, agenzie fiscali, regioni, province e comuni, che fossero stati affidati agli agenti incaricati della riscossione entro il 31 ottobre 2013, ha ottenuto la tanto sospirata proroga al 31 marzo 2014, grazie al D.L. 06 marzo 2014, n. 16, pubblicato ieri in Gazzetta Ufficiale (G.U. n. 51). La mancata conversione del D.L. 151/2013, che ha “mietuto tra le sue vittime” il bonus arredi (che torna ad essere agevolabile solo nel limite delle spese di ristrutturazione), rischiava, infatti di portare con sé anche il differimento della sanatoria sulle cartelle. In realtà già dai primi giorni successivi alla mancata conversione del decreto era emersa la volontà di consentire la prosecuzione della procedura relativa alla rottamazione delle cartelle. Ricordiamo, tra l’altro, che detta proroga non appariva nell’originaria stesura del decreto, ma solo in un successivo emendamento. Dunque i contribuenti avranno ancora tempo sino al 31 marzo 2014 per pagare l’intero importo iscritto a ruolo (riferito a carichi “affidati in riscossione fino al 31 ottobre 2013") e le somme per la remunerazione dei diritti alla riscossione. L’agevolazione consisterà nell’esclusione dal pagamento degli interessi per ritardata iscrizione a ruolo (ex art. 20, D.P.R. 29 settemnbre 1973, n. 602) e degli interessi di mora (ex art. 30, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602). Le somme, come si evince dal portale di Equitalia (http://www.gruppoequitalia.it), potranno essere versate utilizzando, negli uffici postali, il bollettino “F35”, avendo cura di indicare nel campo “Eseguito da”, oltre ai propri dati anagrafici, la dicitura “Definizione Ruoli - L.S. 2014”. Si segnala, infine, che la riscossione dei carichi, in conseguenza della proroga, è stata differita dal 15 marzo 2014 al 15 aprile 2014.

Fonte: http://fiscopiu.it/La Stampa - Proroga rottamazione cartelle: la scadenza del 31 marzo ora è ufficiale

giovedì 6 marzo 2014

Diritto di cronaca con garanzie anche sul web

Massima cautela nell'esercizio del sequestro preventivo per gli articoli pubblicati sul web. È quanto raccomanda in sintesi la Corte di cassazione con la sentenza n. 10594 della Quinta sezione penale depositata ieri che ha annullato il provvedimento del tribunale di Roma con il quale veniva confermata la misura cautelare per alcuni articoli usciti sul sito del quotidiano «Il Fatto» nei quali si accusava Andrea Carandini all'epoca presidente del Consiglio dei Beni culturali, di una gestione privatistica e personalistica della sua carica istituzionale. Di qui l'avvio di un procedimento per il reato di diffamazione.

La Cassazione, nella sua riflessione, parte sottolineando che per blog, mailing list, chat, newsletter, e-mail, newsgroup, la tutela costituzionale prevista dall'articolo 21 per la libertà di stampa non scatta.

fonte: ilsole24ore.com/Diritto di cronaca con garanzie anche sul web

Non paga l'assegno di mantenimento? Ecco quando scatta il carcere

Se il mancato versamento dell'assegno di mantenimento si ripercuote negativamente sui figli scatta il carcere. E' quanto emerge dalla sentenza 5 novembre 2013, n. 44629 della Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione.

Il caso vedeva un uomo essere condannato a sei mesi di carcere e 400 euro di multa in quanto responsabile del delitto di cui all'art. 570, secondo comma, n. 2 c.p., per aver fatto mancare i mezzi di sussistenza ai propri due figli, omettendo di versare alla moglie l'assegno di mantenimento di euro 400 stabilito dal giudice in sede di separazione coniugale. Secondo gli ermellini formalmente la contestazione comprende sia la fattispecie prevista dalla L. 8 febbraio 2006, n. 54, art. 3 (disposizioni penali in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli), che ha esteso al coniuge separato l'applicabilità della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12-sexies (disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), sia la fattispecie prevista dal codice penale all'art. 570, comma 2, n. 2.

Trattasi di diverse violazioni di legge che, tuttavia, determinano un concorso apparente di reati, in quanto, in situazioni siffatte, il delitto di aver fatto mancare i mezzi di sussistenza ai figli minori implica l'omissione del versamento dell'assegno di mantenimento stabilito dal giudice civile.

Continuano i giudici di legittimità che, mentre può essere realizzata la violazione dalla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12-sexies, o della L. 8 febbraio 2006, n. 54, art. 3, senza che siano fatti mancare i mezzi di sussistenza alle parti offese indicate nell'art. 570 c.p., comma 2, n. 2, il genitore separato che fa mancare i mezzi di sussistenza ai figli minori, omettendo di versare l'assegno di mantenimento, commette un unico reato, ovvero quello previsto dall'art. 570 c.p., comma 2, n. 2.

"La violazione meno grave (l'omissione di versamento dell'assegno di mantenimento) per il principio di assorbimento, volto ad evitare il bis in idem sostanziale, perde infatti la sua autonomia e viene ricompresa nella accertata sussistenza della più grave violazione della norma prevalente per severità di trattamento sanzionatorio (aver fatto mancare i mezzi di sussistenza nei confronti del beneficiario dell'assegno di mantenimento)".

fonte: Altalex.com/Non paga l'assegno di mantenimento? Ecco quando scatta il carcere

Violenza sessuale: costituisce ''induzione'' qualsiasi forma di sopraffazione della vittima

 L’induzione necessaria ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale non si identifica solo con la persuasione subdola ma si...