giovedì 30 giugno 2016

Ne bis in idem in area Schengen solo se c'è stato esame nel merito

Un sospettato può essere nuovamente sottoposto a indagini in uno Stato Schengen se le precedenti indagini in un altro Stato Schengen sono state concluse senza un'istruzione approfondita. La mancata audizione della vittima e di un eventuale testimone costituisce un indizio della mancanza di una siffatta istruzione. Lo mette nero su bianco la Corte di giustizia europea con la sentenza nella causa C-486/14. Applicare il principio ne bis in idem a una decisione di conclusione delle indagini adottata dall'autorità giudiziaria di uno Stato Schengen in assenza di qualsiasi esame approfondito del comportamento illecito addebitato all'accusato sarebbe manifestamente in contrasto con la finalità stessa dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, costituita dalla lotta alla criminalità, e rischierebbe di rimettere in discussione la fiducia reciproca degli Stati membri fra di essi.

Fonte: www.ilsole24ore.com/Ne bis in idem in area Schengen solo se c'è stato esame nel merito

Decreto banche approvato in via definitiva

Nella seduta di ieri, mercoledì 29 giugno 2016, la Camera dei deputati ha approvato in via definitiva il disegno di legge di conversione, con modificazioni, del decreto legge 3 maggio 2016, n. 59, recante disposizioni urgenti in materia di procedure esecutive e concorsuali, nonché a favore degli investitoti in banche in liquidazione. Dopo gli emendamenti approvati dal Senato lo scorso 9 giugno, il Governo incassa la fiducia e si conclude così l’iter di conversione del cd. decreto banche.
Procedure esecutive. Il testo prevede diverse misure a favore di una velocizzazione e semplificazione delle procedure esecutive, oltre ad interventi a favore degli obbligazionisti delle quattro banche in default coinvolte nel cd. Salva Banche, per i quali è prevista una dilazione del periodo di tempo entro il quale dovranno essere presentate le istanze di rimborso.
Patto marciano e pegno mobiliare non possessorio. È stata inoltre introdotta la possibilità di applicare il patto marciano anche ai contratti già esistenti, mentre il pegno mobiliare non possessorio consentirà agli imprenditori di concedere in pegno beni mobili destinati all’esercizio dell’impresa senza subirne lo spossessamento. Per quanto riguarda le procedure esecutive e le operazioni di vendita dei beni pignorati si prevede la redazione di un elenco di professionisti, secondo le modalità e i requisiti che verranno stabiliti dal Ministero della Giustizia.
Registro delle procedure esecutive. Per quanto riguarda la materia concorsuale, è infine prevista l’introduzione del Registro delle procedure di espropriazione forzata immobiliari, delle procedure di insolvenza e degli strumenti di gestione della crisi che i creditori potranno consultare in via telematica, creando così una banca dati che consentirà di verificare in tempo reale l’andamento delle procedure concorsuali a cui sono soggetti i propri debitori.

Fonte: www.ilsocietario.it/Decreto banche approvato in via definitiva - La Stampa

Immigrata in Italia, ufficiale l’espulsione: misura illegittima perché la donna è stata operata

Debilitata fisicamente e in piena fase postoperatoria. A fronte delle precarie condizioni di una straniera – una cittadina peruviana – presente in Italia, per la Corte di Cassazione è incomprensibile e illegittimo il provvedimento di espulsione (ordinanza n. 13252 del 27 giugno 2016).
Operazione. Nonostante la difficile situazione affrontata dalla donna, sottopostasi ad un delicato e complesso «intervento chirurgico», Prefetto e Giudice di pace concordano comunque sulla correttezza del «provvedimento di espulsione» dall’Italia.
In particolare, il magistrato, pur preso atto delle precarie condizioni della donna, evidenzia che ella «non ha chiesto alcun permesso».
Salute. La visione adottata dal Giudice di pace viene ora severamente criticata dai magistrati della Cassazione. Ciò alla luce di una semplice constatazione: «la garanzia del diritto fondamentale alla salute» è prevista anche per «il cittadino straniero che comunque si trovi nel territorio nazionale» e «impedisce l’espulsione» laddove essa, come in questo caso, possa provocare un «irreparabile pregiudizio» alla persona.
I giudici tengono poi a sottolineare che il «diritto alla salute» comprende «non solo le prestazioni di pronto soccorso e di medicina d’urgenza», ma anche «le altre prestazioni essenziali per la vita». E ciò vale a maggior ragione quando ci si trova di fronte, come in questa vicenda, a una persona che ha l’obbligo di osservare «un rigido protocollo postoperatorio conseguente a un intervento chirurgico» resosi necessario «a causa di un tumore».
Appare una forzatura, quindi, la linea di pensiero adottata dal Prefetto e condivisa dal Giudice di pace.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Immigrata in Italia, ufficiale l’espulsione: misura illegittima perché la donna è stata operata - La Stampa

martedì 28 giugno 2016

Molestie: sì a sms e telefonate assillanti per i soldi del mantenimento

Lecito tampinare l’ex coniuge con telefonate continue ed sms, anche nelle ore notturne, se l’oggetto delle comunicazioni riguarda il rispetto degli obblighi di mantenimento e i rapporti con i figli. Il reato di molestie, infatti, può scattare solo nel caso in cui il comportamento persecutorio sia determinato da futili motivi e, di certo, tali non sono le questioni attinenti ai doveri familiari, specie se in mezzo ci sono i figli minori. È quanto chiarito dalla Cassazione con la sentenza n. 26778/2016.
La vicenda
La Corte assolve dalla accusa penale di molestie una donna, incriminata a causa del suo comportamento assillante nei confronti del precedente marito; oggetto del contendere una serie continua di comunicazioni tramite telefono ed sms che, a detta del destinatario, avrebbero avuto l’effetto di procurargli un indebito disturbo. Senonché tale comportamento era stato dettato dalla necessità di incalzare l’uomo al rispetto dei propri doveri stabiliti dal giudice della separazione: questi, infatti, era a sua volta accusato di violazione degli obblighi di assistenza familiare, non avendo provveduto al mantenimento tanto da essere condannato anche in sede penale.
La donna, in evidente stato di bisogno e necessità, era stata sfrattata per morosità e aveva grandi difficoltà a gestire la prole.
Lecito lo stress telefonico se per necessità
Lo stato di necessità economica e l’agire in ragione di un proprio diritto tutt’altro che secondario, come l’ottenimento dell’assegno di mantenimento, fanno sì che il comportamento ossessivo, quello cioè di chi telefona in tutti gli orari del giorno e della notte, non possa essere qualificato come reato di molestia. Insomma, è lecito stressare telefonicamente per ottenere i soldi dell’assegno mensile e il rispetto dei doveri di genitore verso i figli. Secondo infatti la sentenza in commento, una volta riconosciuto che le telefonate e gli sms vertono su questioni non futili e di rilevante interesse per i figli, è illogico definirle petulanti e fonti di disturbo.
Il che significa che non può essere giustificato il comportamento del genitore che, per sottrarsi agli obblighi a suo carico (economici e di assistenza), rifiuti ogni colloquio con il coniuge separato. Egli deve, anzi, andare incontro alle proprie responsabilità e non può glissare dinanzi alle telefonate che lo richiamano ai doveri stabiliti dal giudice.

Fonte: www.laleggepertutti.it/Molestie: sì a sms e telefonate assillanti per i soldi del mantenimento

lunedì 27 giugno 2016

Danno biologico Inail: la Cassazione precisa i criteri per la quantificazione

La liquidazione degli indennizzi operata dall’INAIL non si effettua secondo i criteri ordinari, ma in base ai parametri, alle tabelle e alle regole proprie stabilite dal sistema assicurativo e per conseguire i fini suoi propri in conformità all’art. 38 Cost.
È questo il principio di diritto espresso dalla Cassazione, sezione lavoro, cui dovrà attenersi il giudice dell’appello.
Nello specifico, i giudici del merito avevano respinto la domanda di un lavoratore volta ad ottenere il riconoscimento di malattia (mobbing) di origine professionale con condanna dell’INAIL ad erogargli le prestazioni di cui all’art. 13 d.lgs. n. 38/2000. Ciò in quanto l’entità del danno biologico è stata determinata dal ctu, nel giudizio contro il datore di lavoro, nella misura del 5% (inferiore al minimo richiesto ai fini della tutela INAIL).
Il ricorrente contestava, quindi, in Cassazione la possibilità di determinare l’entità del danno biologico richiesto ai sensi dell’art. 13 cit. sulla scorta di quella effettuata nella causa risarcitoria contro il datore di lavoro.
Tale motivo di impugnazione è stato ritenuto  dal giudice di legittimità fondato. In effetti, la determinazione del danno biologico ai fini della tutela dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali non si effettua con i medesimi criteri valevoli in sede civilistica atteso che in sede previdenziale vanno osservate obbligatoriamente le tabelle delle invalidità ("Tabella delle menomazioni"; "Tabella indennizzo danno biologico"; "Tabella dei coefficienti") di cui al D.M. 12.7.2000, e successivi aggiornamenti, ai sensi dell’art.13 d.lgs. n. 38/2000; mentre ai fini civilistici si utilizzano baremes facoltativi, secondo tabelle elaborate dalla comunità scientifica.

Fonte: www.altalex.com/Danno biologico Inail: la Cassazione precisa i criteri per la quantificazione | Altalex

sabato 25 giugno 2016

Canone Rai: la circolare esplicativa delle Entrate

L’articolo 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 (legge di stabilità 2016) ha fissato per l’anno 2016 a 100 euro complessivi l’importo del canone di abbonamento alla televisione per uso privato di cui al Regio decreto-legge 21 febbraio 1938, n. 246, e ha introdotto una nuova modalità di riscossione del canone mediante addebito sulle fatture per la fornitura di energia elettrica, secondo le disposizioni di seguito richiamate.

Nel caso in cui esista un’utenza per la fornitura di energia elettrica nel luogo in cui un soggetto ha la sua residenza anagrafica si presume la detenzione di un apparecchio televisivo, che costituisce presupposto dell’obbligo di pagamento del canone (secondo periodo del secondo comma dell’articolo 1 del RDL n. 246/1938, aggiunto dall’articolo 1, comma 153, lettera a, della legge n. 208/2015).

Per i titolari di utenza di fornitura di energia elettrica di cui sopra, il pagamento del canone avviene in dieci rate mensili, addebitate sulle fatture emesse dall’impresa elettrica aventi scadenza del pagamento successiva alla scadenza delle rate.

L'agenzia delle Entrate, nella Circolare 21 giugno 2016, n. 29 illustra, oltre al contesto normativo, le regole di determinazione del canone dovuto per le varie casistiche con particolare attenzione alle modalità di individuazione delle utenze residenziali, ai casi particolari, a volture e switch e alle dichiarazioni di non detenzione e di sussistenza di altra utenza elettrica per la quale uno dei componenti del nucleo familiare è già tenuto al pagamento del canone.

Per leggere la circolare clicca quiagenzia-entrate-circolare-29-2016 pdf.pdf

Fonte: www.altalex.com

Guida con patente sospesa: i chiarimenti del Ministero su procedure e sanzioni

Con circolare del 1° giugno 2016 il Ministero dell'Interno fa chiarezza sul regime sanzionatorio da applicare in caso di circolazione alla guida di veicoli con patente sospesa (Circolare n. 300/A/3953/16/109/55).
Il Ministero ricorda che la sospensione della patente di guida può avere una duplice natura: sanzionatoria o cautelare.
La sospensione di natura sanzionatoria tende a reprimere comportamenti illeciti particolarmente gravi, che impongono l'interdizione alla guida; in genere essa ha natura accessoria rispetto alla sanzione principale prevista per l'illecito (amministrativo o penale).
In questi casi, il regime sanzionatorio per la circolazione con patente sospesa è disciplinato dall'art. 218, comma 6, del Codice della Strada: si applica la sanzione amministrativa da 2.004 a 8.017 euro, oltre alle sanzioni accessorie della revoca della patente e del fermo amministrativo del veicolo per un periodo di tre mesi (in caso di reiterazione delle violazioni, in luogo del fermo amministrativo, è prevista la confisca amministrativa del veicolo).
Il Ministero elenca i casi in cui troverà applicazione il regime sanzionatorio sopra descritto:
sospensione a tempo determinato a seguito dell'accertamento della guida in stato di ebbrezza (art. 186, comma 2, lettere a, b e c);
sospensione a tempo determinato a seguito dell'accertamento della guida in stato di alterazione dovuta all'uso di stupefacenti (art. 187);
sospensione cautelare disposta dal prefetto fino all'esito dell'esame di revisione, in caso di guida in stato di ebbrezza con tasso superiore a 1,5 g/l;
sospensione cautelare disposta dal prefetto fino all'esito dell'esame di revisione, in caso di guida in stato di alterazione dovuta all'uso di stupefacenti.
La sospensione di natura cautelare è invece legata a situazioni di fatto che indicano o lasciano presumere il venir meno dei requisiti psico-fisici o di abilitazione tecnica alla guida. Il regime è disciplinato dall'art. 128, comma 2:
se nei casi prescritti il titolare di patente di guida non si sottopone, nei termini indicati, agli accertamenti psico-fisici o di idoneità alla guida, dal giorno successivo alla scadenza è sempre disposta la sospensione della patente di guida fino al superamento degli accertamenti con esito favorevole; la patente è sospesa senza necessità di un ulteriore provvedimento da parte degli uffici provinciali o del prefetto;
la circolazione durante il periodo di sospensione della patente comporta la sanzione pecuniaria da 164 a 663 euro e la sanzione accessoria della revoca della patente di guida.
Per ragioni di coerenza sistematica la procedura e il regime sanzionatorio sopra indicato si applicheranno in tutte le ipotesi di sospensione cautelare finché il titolare non dimostri di aver recuperato l'idoneità psico-fisica o tecnica; vale a dire:
sospensione disposta in caso di mancata sottoposizione a visita medica ordinata dal prefetto a seguito di rifiuto di sottoporsi agli accertamenti qualitativi dello stato di ebbrezza (art. 186, comma 7, terzo periodo);
sospensione disposta in caso di mancata sottoposizione a visita medica ordinata dal prefetto a seguito di guida in stato di ebbrezza con tasso compreso tra 0,51 e 1,5 g/l (art. 186, comma 8);
sospensione disposta in caso di mancata sottoposizione a visita medica ordinata dal prefetto a seguito di rifiuto di sottoporsi agli accertamenti qualitativi dello stato di alterazione dovuto all'uso di stupefacenti (art. 187, comma 8, terzo periodo);
sospensione disposta in caso di mancata sottoposizione agli esami di idoentà tecnica per perdita totale dei punti della patente (art. 126-bis, comma 6);
ogni provvedimento di revisione dall'ufficio provinciale della MCTC diretto ad accertare la permanenza dell'idoneità tecnica.

Fonte: www.altalex.com//Guida con patente sospesa: i chiarimenti del Ministero su procedure e sanzioni | Altalex

venerdì 24 giugno 2016

#Ferrara: rinvio a giudizio per il commercialista che defraudò 50 clienti

In udienza è apparso piuttosto sereno ma per Riccardo Schincaglia, commercialista accusato di aver defraudato più di 50 clienti, oltre allo Stato, è arrivato il rinvio a giudizio deciso dal gip Piera Tassoni.
Giovedì mattina nell’Aula A del tribunale di Ferrara circa una ventina di avvocati delle parti civili hanno atteso la decisione del giudice dopo le numerose eccezioni sollevate dal difensore di Schincaglia per cercare di chiudere lì il procedimento. In particolare è stato sollevata l’eccezione di nullità per il capo d’imputazione così come modificato dalla procura (in udienza c’era il sostituto Stefano Longhi, l’indagine è però passata nelle mani della pm Patrizia Castaldini dopo l’approdo di Nicola Proto a Bologna) su richiesta del gip, considerato troppo generico per quanto riguarda la truffa ai danni dello Stato. Eccezioni di nullità anche per quanto riguarda il capo 2 bis per omesse dichiarazioni e versamento dei tributi, secondo il legale assorbito nel capo 2. Altra eccezione è stata quella sull’intervenuta prescrizione per le contestazioni sulle omesse dichiarazioni, occultamento, distrazione e infedele tenuta delle scritture contabili. Ma il giudice le ha respinte tutte e disposto il rinvio a giudizio.
“Ora le cose stanno andando come dovrebbero, durante la scorsa udienza eravamo un po’ abbattuti perché sembrava che stessa cadendo tutto”, afferma l’avvocato Saverio Stano, che rappresenta una delle parti civili e una delle chiavi che ha portato all’apertura dell’indagine contro il commercialista. Amico di Schincaglia, che aveva visto crescere vicino a casa, accettò di sostituire la madre di quest’ultimo come socio della Eta Beta, società del commercialista. Fino a scoprire – grazie all’arrivo di inspiegabili multe a delle auto delle società – che non era affatto socio di minoranza, ma legale rappresentate della società. A cascata arrivarono poi gli accertamenti dell’Agenzia delle Entrate che fecero scattare le prime denunce. Nel frattempo l’uomo dovette affrontare diversi guai giudiziari per questa vicenda, tutti conclusisi con la sua assoluzione. Alla vicenda si aggiunsero gli accertamenti verso gli altri clienti di Schincaglia, tra i quali l’artigiano 48enne di Porotto che si suicidò  dopo aver ricevuto la cartella esattoriale per 80mila euro di tasse non pagate.
Soddisfazione anche per i due clienti rappresentati dall’avvocato Emiliano Mancino, fra i primi a sporgere denuncia: “Si sentono un po’ meno soli – racconta il legale -, dopo la scorsa udienza erano usciti un po’ dubbiosi”. Loro hanno lasciato per strada 156mila euro il primo e 45mila euro il secondo a fronte di 50mila euro totali consegnati al commercialista per i versamenti di contributi, tasse e imposte.
Per il commercialista l’accusa è anche quella di appropriazione indebita di poco meno di 500mila euro in un periodo che va dal 2008 al 2013 tramite la falsificazione delle scritture contabili di ben 52 parti offese. Il processo inizierà a novembre davanti al giudice Debora Landolfi.

Fonte: www.estense.com//Rinvio a giudizio per il commercialista che defraudò 50 clienti | estense.com Ferrara

giovedì 23 giugno 2016

Violenza sessuale: concludere il rapporto con modalità non accettate configura il reato

Le costanti precisazioni di questa Corte Suprema sul tema dell’abuso sessuale determinato da un mutamento dell’originario consenso iniziale, fanno sì che anche una conclusione del rapporto sessuale, magari inizialmente voluto, ma proseguito con modalità sgradite o comunque non accettate dal partner, rientri a pieno titolo nel delitto di violenza sessuale.
Così la Suprema Corte, che ha ribadito i principi enucleati in precedenza in tema di consenso delle parti durante il rapporto sessuale affinché non possa ritenersi consumato il delitto di cui all’art. 609 bis cod. pen., dovendosi guardare all’atto sessuale nella sua globalità e in ogni sua componente.
Con la sentenza, la III Sezione ha offerto un’accurata quanto sintetica analisi del delitto di violenza sessuale per ciò che concerne il momento volitivo dell’atto, addivenendo alla conclusione a seguito di una disamina dei principi fondanti che sovrintendono la criminalizzazione della condotta descritta dall’art. 609 bis cod. pen.
La questio juris: il consenso nell'atto conclusivo del rapporto sessuale
La questione si sviluppa a seguito della decisione del Tribunale delle libertà di accogliere il riesame della persona sottoposta alle indagini proposto avverso il provvedimento applicativo della misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa e dai suoi prossimi congiunti.
Il Tribunale aveva ritenuto non sussistere i gravi indizi di colpevolezza necessari per la sottoposizione a misura cautelare con riferimento al reato di violenza sessuale.
Per il giudicante, la condotta dell’indagato non sarebbe stata caratterizzata né da violenza né da costrizione ma, piuttosto, dal consenso della vittima, rintracciabile da tutta una serie di elementi, quali le portiere dell’auto perfettamente apribili dall’interno per cui la ragazza sarebbe potuta uscire dall’auto (luogo di consumazione dell'asserita violenza), gli indumenti intimi e i leggins indossati della ragazza perfettamente integri nonostante la giovane avesse riferito che le fossero stati abbassati con violenza, l’impossibilità di apprezzare alcun segno di violenza esterna sul corpo della ragazza all’atto della vista ginecologica avvenuta il mattino dopo l’episodio.
Il Giudice aveva ritenuto che il momento di conflitto interiore della ragazza fosse riconducibile alla fase finale del rapporto, connotato dall’avvenuta eiaculazione del giovane all’interno della vagina, evento che «aveva in realtà suscitato nella ragazza un senso di rammarico rispetto a quel modo di completamento dell’atto sessuale, sicché il consenso iniziale al rapporto sessuale (…) non poteva considerarsi venuto meno solo per effetto di quella particolare conclusione dell’amplesso».
A ciò addiveniva il giudicante nonostante le parole scambiate dai due soggetti in un momento successivo al congiungimento, in particolare la frase "Mi sei arrivato dentro contro voglia ed io non volevo farlo" contenuta nella memoria del cellulare e la frase "Ora ti ho rovinata" proferita dal ragazzo al termine del rapporto. Frasi, entrambe, riportate nell'ordinanza impugnata.
La censura nomofilattica: l’oggetto di tutela e la declinazione del consenso durante il rapporto sessuale
La Suprema Corte ha ritenuto per nulla condivisibile l’argomentazione del Tribunale, in quanto «non solo manifestamente illogica e contraddittoria, ma anche assai poco rispettosa dei criteri interpretativi enunciati (...) sul tema della violenza sessuale e degli elementi costitutivi del reato nonché sulle modalità e limiti del consenso al rapporto».
Gli Ermellini sono addivenuti a tale conclusione procedendo dall’oggetto giuridico che il Legislatore ha inteso tutelare con il delitto di violenza sessuale, vale a dire la libertà sessuale intesa come «libertà di espressione e di autodeterminazione afferente alla sfera esistenziale della persona – e dunque inviolabile». Le relazioni sessuali «costituiscono uno degli essenziali modi di espressione della persona umana, rientranti tra i diritti inviolabili tutelabili costituzionalmente».
Tale libertà tuttavia «non è indisponibile, occorrendo una forma di collaborazione reciproca tra soggetti che vengono in relazione (sessuale) tra loro: collaborazione che deve però permanere senza soluzioni di continuità e incertezze comportamentali per l’intera durata del rapporto».
La III Sezione ha individuato come riferimento essenziale per apprezzare la presenza o meno del consenso da parte di uno dei soggetti il rapporto sessuale inteso nella sua globalità, scevro da possibili quanto ipotizzabili frammentazioni, postulante la «presenza necessaria del consenso durante l’intero arco del rapporto sessuale da parte della vittima senza interruzioni ed esitazioni o resistenze di sorta».
Perciò la Corte ha ritenuto per nulla condivisibile «l’affermazione del Tribunale secondo la quale l’avvenuta eiaculazione interna avesse causato nella ragazza soltanto un sorta di rammarico che nulla toglieva alla natura consensuale iniziale del rapporto sessuale, perché così facendo, si frammenta il concetto di atto sessuale che va riguardato in modo globale ed ogni sua componente per essere giudicato non voluto o meno».
Invero, «è indubbio che il modo di conclusione del rapporto può assumere un significato invasivo tale da incidere sulla iniziale libertà di autodeterminazione del partner», potendo ciò prospettare un comportamento prevaricatorio volto a legare a sé un altro soggetto anche attraverso la prefiguarazione di un’eventuale gravidanza, conseguenza di quella conclusione dell’atto sessuale.
Infatti, come spiega il Consesso, «l’eiaculazione interna rappresenta (…) una delle tante modalità di conclusione di un rapporto sessuale che può incidere sulla sua spontaneità e libertà reciproca fino a trasformarlo in atto sessuale contrario alla volontà di uno dei due protagonisti», per nulla riducibile «ad un segmento “neutro” dell’atto sessuale», posto che «può avere conseguenze significative tali da trasformare un rapporto sessuale voluto in uno non voluto»
A nulla vale neppure l’inconsapevolezza di quanto avvenuto da parte soggetto “ricevente” se comunque un tale epilogo dell’atto sessuale non rappresentava quanto da egli voluto.
A tal proposito, la Suprema Corte ha valorizzato anche la contestualizzazione dei fatti nel delitto di violenza sessuale, posto che in ogni caso «un congiungimento sessuale tra due persone aventi opposte finalità (...) è ben diverso da un qualsiasi rapporto sessuale tra due persone desiderose di averlo e di viverlo congiuntamente», dovendosi poi tener conto anche dei rapporti che caratterizzavano i periodi di tempo antecedenti ai fatti da accertare, specie in presenza della volontà di uno dei soggetti di interrompere, come aveva fatto, il legame sentimentale e della volontà dell'altro di ricucire ad ogni costo il rapporto.
I precedenti arresti della Suprema Corte richiamati dalla Sezione III
Inoltre, la Corte tiene a mente il consolidato orientamento nomofilattico secondo cui «sul tema dell’abuso sessuale determinato da un mutamento dell’originario consenso iniziale, fanno sì che anche una conclusione del rapporto sessuale, magari inizialmente voluto ma proseguito con modalità sgradite o comunque non accettate dal partner, rientri a pieno titolo nel delitto di violenza sessuale».
A tal proposito, la III Sezione richiama alcuni suoi precedenti che depongono in tale senso.
La sentenza 4532/2007 ha affermato che integra il reato di violenza sessuale la condotta di colui che prosegua un rapporto sessuale quando il consenso della vittima, originariamente prestato, venga poi meno a causa di un ripensamento ovvero della non condivisione delle forme o delle modalità di consumazione del rapporto, ciò in quanto il consenso della vittima agli atti sessuali deve perdurare nel corso dell'intero rapporto senza soluzione di continuità.
La decisione 39428/2007 invece ha chiarito che il consenso iniziale all'atto sessuale non è sufficiente quando quest'ultimo si trasformi, "in itinere", in atto violento, consumando il rapporto con forme e modalità non volute dalla vittima.
Inoltre, la decisione 6214/1996 prendeva appunto posizione su un caso analogo, in riferimento ad un rapporto sessuale inizialmente consentito ma completato con l’eiaculazione in vagina non condivisa dalla donna.
Ciò a riprova che forma oggetto di un orientamento costante la necessità di un consenso scevro di qualsivoglia interruzione durante l’intero rapporto sessuale e che deve involgere tutte le possibili forme e modalità con cui lo stesso si svolge od evolve. Al contrario, venendo meno il consenso anche solo con riferimento all’atto finale di un rapporto caratterizzato ab origine dalla libera partecipazione delle parti, la condotta integra gli elementi tipici del  delitto di violenza sessuale di cui all’art. 609 bis cod. pen.
Le conseguenze dell’opposta argomentazione proposta dal Tribunale del riesame
Di fatto il Tribunale aveva formulato un pericoloso principio generale, che traeva origine dall'argomento secondo cui l'eiaculazione non voluta all'interno della vagina non svilisce il consenso prestato dalla ragazza a fronte di un rapporto invece inizialmente voluto.
Traslando tale assunto, mutatis mutandis, si potrebbe agevolmente concludere che all'interno del rapporto sessuale possono considerarsi leciti sviluppi o pratiche non volute da uno dei soggetti interessati se la genesi del rapporto sia stato oggetto di deliberato consenso.
Non per nulla, la Corte ha ritenuto la valutazione del Tribunale «assiomatica ed assertiva», oltre che «semplicistica ed errata in diritto».

Fonte: www.altalex.com//Violenza sessuale: concludere il rapporto con modalità non accettate configura il reato | Altalex

La Cassazione dice sì alla stepchild adoption

Per la Suprema Corte una donna può adottare, nelle forme dell’adozione in casi particolari, la figlia della propria compagna, nata in seguito a fecondazione assistita con seme di donatore anonimo, all’interno di un progetto genitoriale condiviso.
Il caso. Due donne, legate da una relazione sentimentale e di convivenza, decidono di avere un figlio tramite il ricorso, da parte di una delle due, alla fecondazione assistita. Nasce una bambina che instaura un profondo legame affettivo con entrambe le donne, in un contesto familiare e di relazioni sociali analogo a quello delle altre bambine della sua età. La compagna della madre (c.d. genitore sociale) intendendo formalizzare la relazione in essere, chiede di poter adottare la bambina ai sensi dell’art. 44 lett. d) l. 184/1983.  La domanda viene accolta dal Tribunale minorile, la cui pronuncia è confermata in secondo grado. La Cassazione, rigetta il ricorso proposto dalla Procura Generale presso la Corte d’appello, ammettendo così l’adozione.
Non obbligatorietà della nomina di un curatore speciale alla minore. La Corte d’appello aveva escluso che fosse obbligatorio nominare alla minore un curatore speciale, non risultando un potenziale conflitto di interessi tra la stessa e la madre, chiamata ad esprimere il suo consenso all’adozione da parte della convivente. La Cassazione conferma la pronuncia ed osserva che «l’appezzamento dell’esistenza di un potenziale conflitto di interessi, che non sia previsto normativamente in modo espresso […] e non sia ricavabile dall’interpretazione coordinata delle norme che regolano il giudizio […] è rimesso in via esclusiva al giudice del merito e non è sindacabile in sede di giudizio di legittimità». «Non può ravvisarsi una situazione di incompatibilità di interessi in re ipsa, desumibile cioè dal modello adottivo astratto, tra il genitore-legale rappresentante ed il minore adottato». Una tale situazione potrebbe se mai configurarsi in concreto, nel corso del procedimento, ove espressamente dedotta; nella specie, la Corte d’appello, con motivazione coerente, avulsa da qualsiasi violazione di legge, aveva peraltro escluso  una situazione di conflitto d’interessi tra la minore e la madre, tale da imporre la nomina di un curatore speciale. L’unica ragione posta poi dalla Procura a sostegno del denunciato conflitto d’interessi era stata individuata nell’interesse personale della madre della minore a consolidare il proprio progetto di vita con la compagna. Osserva la Corte che, «o si ritiene che sia proprio la relazione sottostante (coppia omoaffettiva) ad essere potenzialmente contrastante, in re ipsa con l’interesse della minore» (con una discriminazione basata sull’orientamento sessuale del genitore), ma ciò sarebbe privo di fondamento probatorio scientifico, «oppure si deve escludere tout court.. la configurabilità in via generale e astratta di una situazione di conflitto».
L’operatività dell’art. 44 lett. d) l. 184/1983. La norma, là dove prevede l’adozione del minore in casi particolari, in presenza della constatata impossibilità di affidamento preadottivo, va interpretato alla luce del quadro costituzionale e convenzionale ed in particolare dei principi affermati dalla Corte EDU in ordine al best interest del minore. La tesi, propugnata dalla Procura Generale, per la quale, anche nell’ipotesi di cui alla lett. d) cit., l’adozione sarebbe comunque subordinata alla preventiva declaratoria dello stato di abbandono «condurrebbe sempre ad escludere che l’adozione possa conseguire ad una relazione già instaurata e consolidata con il minore, essendo tale condizione relazionale contrastante con l’accertamento di una situazione di abbandono». Solo l’adozione “legittimante” postula la situazione di abbandono del minore, non invece quella “non legittimante” (in casi particolari). La Cassazione conferma l’interpretazione dell’espressione “constatata impossibilità di affidamento preadottivo” adottata dalla Corte d’appello; «deve ritenersi sufficiente l’impossibilità “di diritto” di procedere all’affidamento preadottivo e non solo quella “di fatto”, derivante da una situazione di abbandono in senso tecnico-giuridico».
L’applicabilità dell’art, 44 lett. d) nelle coppie same sex. Rileva la Corte di Cassazione che, «poiché all’adozione in casi particolari prevista dall’art. 44 lett. d) possono accedere sia le persone singole che le coppie di fatto, l’esame de requisiti e delle condizioni imposte dalla legge, sia in astratto (“la constatata impossibilità di affidamento preadottivo”), sia in concreto (l’indagine sull’interesse del minore imposta dalla legge) non può essere svolto – neanche indirettamente – dando rilievo all’orientamento sessuale del richiedente e alla conseguente natura della relazione da questo stabilita con il proprio partner». Viene così legittimata quella che, mutuando un’espressione anglofona, è stata definita stepchild adoption anche in favore del compagno dello stesso sesso del genitore biologico del minore.

Fonte: www.ilfamiliarista.it/La Cassazione dice sì alla stepchild adoption - La Stampa

Abuso edilizio: anche se passa tanto tempo nessuna sanatoria

L’ordine di demolizione di un immobile abusivo non va mai in prescrizione: l’amministrazione può esercitare tale potere in qualsiasi momento, anche dopo numerosi anni dal compimento dell’opera. Il decorso del tempo, infatti, non comporta alcuna sanatoria. È quanto ricordato dal Tar Campania con una recente sentenza [1].
Al centro della contesa vi è un balcone costruito durante una ristrutturazione, ma senza permesso edilizio. Da tempo immemorabile, il manufatto era restato lì, in bella mostra a tutta al cittadinanza, ma nessuno aveva mai detto nulla, ancor meno l’amministrazione che aveva così dimostrato – a detta del ricorrente – di tollerare l’illecito. Ma non è così e l’autore dell’abuso edilizio non può mai dormire su sette cuscini neanche se è passata una generazione: la demolizione può essere chiesta in qualsiasi momento.
La prescrizione del reato di abuso edilizio
Quando si parla di prescrizione nell’ambito del reato di abuso edilizio è necessario separare il discorso della sanzione amministrativa consistente nella demolizione, dalla sanzione penale conseguente al crimine commesso. Solo quest’ultima si prescrive. La prima, invece, mai. In particolare, i reati edilizi si prescrivono in 4 o 5 anni a seconda che sia iniziata o meno, in tale lasso di tempo, l’azione penale. In particolare, la prescrizione scatta dopo
– 4 anni se, in tutto questo lasso tempo, nessuno si è mai accorto dell’abuso ed il tempo è decorso senza l’avvio di azioni penali;
– 5 anni se, invece, l’azione penale ha avuto avvio: intervengono infatti le cosiddette cause di sospensione e/o interruzione del corso della prescrizione.
L’ordine di demolizione
L’obbligo di ripristinare lo stato dei luoghi per come era prima dell’abuso non trova termini di prescrizione e può essere impartito dalle autorità in qualsiasi momento: in questi casi viene prima, infatti, l’interesse pubblico al rispetto dei vincoli urbanistici. Pertanto, il semplice decorso del tempo non può costituire una sanatoria se, a monte, manca il permesso di costruire. Né il proprietario dell’immobile può difendersi sostenendo che l’inerzia dell’amministrazione manifestata negli anni abbia generato in lui l’affidamento sulla tollerabilità delle opere poste in essere.
Il provvedimento finalizzato alla demolizione ha una sua autonomia rispetto a quanto avviene in sede di processo penale tanto è vero – sottolinea la Cassazione [2] – che neppure il sequestro penale dell’immobile è di ostacolo alla sua “distruzione”.
Spesso, l’ordine di demolizione arriva all’improvviso, anche a distanza di anni dal compimento dell’opera. A questo punto, il destinatario dell’ordinanza di demolizione (che potrebbe essere anche un soggetto diverso da quello che ha posto in essere l’abuso) si trincera dietro la cosiddetta teoria dell’affidamento. Il punto è questo: il decorso del tempo può, in qualche maniera, legittimare l’opera abusiva?
Secondo la tesi più accreditata della giurisprudenza, il decorso del tempo non può in alcun modo legittimare l’opera abusiva. Quando è stato commesso un fatto illecito con una costruzione in tutto o in parte abusiva, non è ravvisabile un “affidamento incolpevole”, né il titolare dell’abuso (o un suo avente causa) può dolersi del ritardo con cui l’Amministrazione ha emanato il dovuto ordine di demolizione. Ammettere “l’estinzione” dell’abuso per il decorso del tempo vorrebbe dire accettare una sanatoria di fatto.
Tale ritardo può dar luogo alle conseguenze sanzionatorie a carico delle autorità che non esercitano le loro doverose funzioni, ma non può essere invocato a proprio favore da chi riceve – a causa dell’omissione della pubblica autorità – il vantaggio di poter continuare a utilizzare un bene, di cui l’ordinamento dispone la demolizione [3].
Il potere-dovere dell’amministrazione
Con riferimento al potere-dovere dell’amministrazione di procedere alla demolizione dell’opera abusiva, il Comune, una volta che abbia avviato il procedimento sanzionatorio con l’emanazione dell’ingiunzione di demolizione, resta obbligato a portarlo a compimento adottando tutti i provvedimenti e gli atti materiali ulteriori, diretti a darvi piena attuazione [4].

[1] Tar Campania, sent. n. 2154/2016.
[2] Cass. sent. n. 49331/2015. L’ordine di demolizione ha natura strettamente vincolata e non soggetta a termini di decadenza o di prescrizione (TAR Lazio, Roma, Sez. I, sent. 1° aprile 2015, n. 4943 e Sez. I- quater , sent. 19 marzo 2015, n. 43550), per cui non richiede l’avvio del procedimento previsto dalla legge 241/1990 che impone la partecipazione del cittadino. L’intervento collaborativo della parte, infatti, non potrebbe in alcun modo influire sul risultato del procedimento in quanto l’amministrazione, come dicevamo, esercita poteri vincolanti e non discrezionali (Cons. Stato, Sez. VI, sent. 4 marzo 2013, n. 1268). Trattandosi di atto vincolato, non è richiesta neanche una specifica motivazione ma è sufficiente che il provvedimento contenga, al proprio interno, il riferimento al carattere illecito dell’opera realizzata né richiede una espressa comparazione tra l’interesse pubblico alla rimozione dell’opera, che è in re ipsa , e quello privato alla relativa conservazione, e ciò anche se l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell’abuso (TAR Lazio, Roma, Sez. II- bis , sent. 16 gennaio 2015, n. 1647; Cons. Stato, Sez. VI, sent. 29 gennaio 2015, n. 406; TAR Campania, Napoli, Sez. VII, sent. 14 novembre 2014, n. 5899; TAR Campania, Napoli, Sez. VI, sent. 23 ottobre 2014, n. 5455; TAR Roma, Sez. II- ter , sent. 13 ottobre 2014, n. 10271; Cons. Stato, Sez. V, sent. 2 ottobre 2014, n. 4926; Cons. Stato, Sez. V, sent. 13 marzo 2014, n. 1230; Cons. Stato, Sez. V, sent. 30 giugno 2014, n. 3282; Cons. Stato, Sez. IV, sent. 28 aprile 2014, n. 2194; Cons. Stato, Sez. VI, sent. 28 gennaio 2014, n. 431; Cons. Stato, sent. 11 dicembre 2013, n. 5943; Cons. Stato, Sez. VI, sent. 11 novembre 2013, n. 5368; Cons. Stato, Sez. VI, sent. 21 ottobre 2013, n. 5088; Cons. Stato, Sez. VI, sent. 4 marzo 2013, n. 1268; Cons. Stato, Sez. VI, sent. 28 gennaio 2013, n. 498; Cons. Stato, Sez. IV, sent. 20 luglio 2011, n. 443; Cons. Stato, Sez. VI, sent. 11 maggio 2011, n. 2781; Cons. Stato, Sez. V, sent. 27 aprile 2011, n 2526).
L’ordine di demolizione non richiede neanche una comparazione tra l’interesse pubblico e quello privato coinvolto e sacrificato, e neppure una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione (TAR Piemonte, Sez. I, sent. 12 luglio 2013, n. 889; Cons. Stato, Sez. IV, sent. 16 aprile 2012, n. 2185 e Sez. V, sent. 17 settembre 2012, n. 4915).
Tale tesi trova il proprio fondamento legislativo nel combinato disposto dell’art. 2, comma 1, e dell’art. 21- quater della legge 241/1990 per cui « i provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente» con la conseguenza che l’amministrazione ha il potere-dovere di portare a effettiva attuazione i propri provvedimenti emessi al termine del procedimento. Chi ne ha interesse può agire proponendo, nei confronti del comune, un’istanza per sollecitare l’esercizio dei poteri repressivi in materia edilizia, e, in caso di inerzia da parte dell’amministrazione, può ricorrere avverso il suo silenzio.
[3] Cons. Stato, sent. n. 431/2014 e n. 3183/2013; TAR Campania sent. n. 2390/2012.
[4] La richiesta con cui il responsabile del servizio tecnico comunale chiede la disponibilità economica per effettuare l’impegno di spesa necessaria ad anticipare i costi della demolizione, nonché la richiesta alla regione di poter accedere al fondo di rotazione stanziato per la demolizione di opere abusive, pur potendo essere considerati atti prodromici alla demolizione non giustificano l’inerzia del comune (Cons. Stato, Sez. VI, sent. 10 maggio 2013, n. 2565).

Fonte: www.laleggepertutti.it//Abuso edilizio: anche se passa tanto tempo nessuna sanatoria

mercoledì 22 giugno 2016

Cade a causa della pensilina: risarcita dalla società che doveva provvedere alla manutenzione

Brutto capitombolo per una donna, inciampata sullo ‘scheletro’ della struttura destinata ai passeggeri in attesa dell’autobus. A risarcirla, versandole quasi 10 mila euro, però non sarà il Comune, bensì la società a cui è affidata la gestione del cosiddetto ‘arredo urbano pubblicitario’, ‘pensiline’ incluse. A deciderlo è stata la Cassazione con la sentenza n. 12745 di ieri.

‘Scheletro’. Ricostruito facilmente l’episodio. La donna, cittadina di un Comune veneto, «mentre camminava sul marciapiede», è inciampata «sullo ‘scheletro’ della pensilina, in particolare sulla barra destinata all’alloggiamento dei pannelli laterali, posta a circa 10 centimetri dal piano di calpestio». Inevitabile la caduta, con conseguenti serie «lesioni personali».

Gli elementi probatori a disposizione consentono ai giudici del Tribunale di escludere un coinvolgimento del Comune. Nessun dubbio, invece, sulla responsabilità della società a cui sono attribuite «proprietà e manutenzione della pensilina», e che, quindi, viene condannata a risarcire la donna con una somma prossima ai 20 mila euro.

Cifra dimezzata, però, in Appello. Per i giudici, difatti, non va trascurato il «concorso di colpa» attribuibile alla donna, dimostratasi quantomeno disattenta.

Colpa. E ora, nonostante le obiezioni proposte dal legale della persona danneggiata, viene confermato in Cassazione il risarcimento stabilito in secondo grado, cioè poco meno di 10 mila euro.

Evidente per i magistrati, difatti, la «corresponsabilità» della donna, che «usando la normale diligenza, avrebbe potuto accorgersi dell’ostacolo». Su questo fronte è decisiva la constatazione che «il marciapiede è molto ampio» e, quindi, la cittadina avrebbe potuto «transitare senza passare sotto la pensilina».

Da un altro punto di vista, quello della società sanzionata, i giudici tengono a ribadire il peso specifico del «cattivo stato della pensilina»: esso è riconducibile proprio all’operato dell’azienda che, come detto, era proprietaria della struttura e aveva l’obbligo di provvedere alla «manutenzione».

Fonte: www.dirittoegiusitzia.it/Cade a causa della pensilina: risarcita dalla società che doveva provvedere alla manutenzione - La Stampa

Banca Dati sinistri e contrasto alle frodi assicurative: qualcosa (finalmente) si muove

Ci son voluti dieci anni, ma ha preso finalmente forma il sistema di contrasto alle frodi assicurative nel ramo r.c.a., istituito dal legislatore sin dal 2005 con l’art. 135 cod. ass. Si tratta di un sistema basato sulla conservazione e sulla consultazione dei dati significativi relativi ad ogni sinistro denunciato ad una impresa assicurativa operante nel ramo r.c.a. Questo sistema trova la fonte primaria nell’art. 135 cod. ass., che tuttavia delega l’IVASS all’emanazione delle norme di dettaglio ed attuative. Tali norme sono state finalmente emanate, e sono contenute nel Provvedimento IVASS 1.6.2016 n. 23 (in Gazz. uff. 10.6.2016 n. 134).
Il contrasto alle frodi assicurative nel ramo r.c.a., nel nostro ordinamento, ha stentato a decollare per lungo tempo.
Sul piano penale, il contrasto alle frodi ha incontrato oggettive difficoltà nella procedibilità a querela del delitto di truffa, nella complessità di indagini che necessariamente richiedevano l’analisi di migliaia di sinistri, e nella mitezza della pena per il reato di truffa, che sovente faceva scattare la prescrizione.
Sul piano civile, il contrasto alle frodi assicurative è stato tradizionalmente affidato alla maggiore o minore solerzia con la quale il giudice civile raccoglieva e vagliava le prove. E non è un mistero che, nei giudizi aventi ad oggetto il risarcimento di danni da sinistri stradali, l’assunzione delle prove costituende non sempre è caratterizzato da rigore.
Sul piano amministrativo, la prevenzione ed il contrasto all’attività fraudolenta sono affidate principalmente a quattro istituti:
(a) i poteri ispettivi e di controllo dell’autorità di vigilanza; (b) i servizi antifrode che le imprese assicuratrici hanno l’obbligo di costituire; (c) le commissioni regionali di controllo sull’operato del personale sanitario (art. 10 bis, comma 2, d.l. 31.5.2010 n. 78, cit.); (d) le banche dati sinistri istituite presso l’IVASS, alle quali tutte le imprese operanti in Italia debbono inviare i dati riguardanti i sinistri dei propri assicurati (art. 135 cod. ass.).
L’attribuzione all’autorità di vigilanza di poteri di controllo, prevenzione e repressione delle frodi, sebbene non potesse ritenersi del tutto estranea ai suoi compiti, è stata espressamente attribuita all’IVASS soltanto dall’art. 21 d.l. 18.10.2012 n. 179 (convertito nella l. 17.12.2012 n. 221). Tale norma attribuisce all’IVASS rilevanti compiti di intelligence, consistenti principalmente nell’incrociare i dati risultanti dall’ “archivio informatico integrato”, ovvero una enorme “meta-banca dati”, costituita dalla connessione delle banche dati gestite dallo stesso IVASS (su cui infra) con quelle del PRA, dell’Archivio Nazionale Veicoli, dell’UCI e della CONSAP.
L’archivio informatico integrato è stato istituito e disciplinato con d.m. 11.5.2015 n. 108.
Una seconda misura amministrativa per la prevenzione delle frodi è rappresentata dall’obbligo imposto alle compagnie assicuratrici di dotarsi di servizi antifrode, previsto dall’art. 30, comma 1, d.l. 1/2012, cit. Tale norma prescrive infatti alle società assicuratrici di inviare annualmente all’IVASS una relazione contenente, tra l’altro, l’indicazione delle misure organizzative interne adottate o promosse per contrastare le frodi; contenuti e modalità di trasmissione della relazione sono precisati dal Regolamento ISVAP 9.8.2012 n. 44.
Una terza misura amministrativa di contrasto alle attività fraudolente è rappresentata dalle commissioni regionali previste dall’art. 10 bis, comma 2, d.l. 78/2010, cit. Tali commissioni, composte da un rappresentante della regione, uno dell’ordine dei medici ed uno dell’ANIA, avrebbero dovuto avere il compito di vigilare sul corretto esercizio dell’attività di certificazione da parte degli esercenti d professioni sanitarie, e monitorare eventuali condanne per il reato di falsa certificazione in danno di imprese assicuratrici, di cui al comma 1 del citato art. 10 bis d.l. 78/2012. Si è tuttavia usato il condizionale in quanto l’istituzione delle suddette commissioni da parte delle regioni è rimasta lettera morta: ed una volta tanto non v’è da dolersene, posto che dell’effettiva utilità di esse sarebbe stato quanto meno lecito dubitare.
Le banche dati antifrode
Solo con l’art. 135 cod. ass. (in vigore dal 1°.1.2006) si è prevista la costituzione di una “banca dati sinistri”, dall’allora ISVAP, cui attingere per acquisire elementi di valutazione sulla genuinità delle allegazioni del preteso danneggiato.
L’art. 135 cod. ass. tuttavia ha avuto vita travagliata.
Per lunghi anni è rimasto lettera morta; solo nel 2009 venne emanato un provvedimento attuativo da parte dell’ISVAP (Provvedimento 1°(gradi) giugno 2009, n. 31), seguì il Provvedimento 25.8.2010 n. 2827, il quale stabilì i c.d. “parametri di significatività”, ovvero le circostanze di fatto in presenza delle quali i soggetti abilitati possono consultare in modalità on line la banca dati sinistri, ed il Provvedimento 10.8.2010 n. 2826, il quale disciplinò le modalità tecniche di trasmissione dei dati dalle imprese all’IVASS.
L’art. 135 cod. ass. divenne oggetto d’una cura rivitalizzante da parte dell’art. 32, comma 3-bis, lettera (a), del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1 (convertito dalla l. 24 marzo 2012, n. 27), il quale ha aumentato da una a tre le banche dati originariamente previste, aggiungendo a quella dei sinistri l’anagrafe dei testimoni e l’anagrafe dei danneggiati.
Anche quella riforma rimase tuttavia sulla carta per oltre quattro anni: tanti ne sono occorsi all’IVASS per decidersi ad emanare il regolamento attuativo, oggetto come si disse del Provvedimento 1.6.2016.
Il provvedimento 1.6.2016 disciplina quattro aspetti fondamentali delle banche dati di cui all’art. 135 cod. ass.:
- chi deve alimentarle;
- quali dati vanno inviati;
- come vanno trattati questi dati;
- chi può consultare le banche dati.
Le banche dati “sinistri”, testimoni” e “danneggiati” saranno alimentate dalle informazioni che le imprese assicuratrici hanno l’obbligo di trasmettere, entro sette giorni (lavorativi) da quello in cui hanno ricevuto la denuncia di sinistro dal proprio assicurato, ovvero la richiesta di risarcimento da parte del danneggiato. Ovviamente il termine settimanale decorrerà dall’atto ricevuto per primo (art. 6, comma 1, e 7, comma 2, del Provvedimento).
L’obbligo di segnalazione dei dati inerenti il sinistro denunciato è posto a carico dell’impresa assicuratrice della r.c.a. della vittima, nel caso in cui quest’ultima le rivolga la richiesta di risarcimento ai sensi dell’art. 149 cod. ass. (risarcimento diretto); ovvero a carico dell’impresa che “gestisce la procedura di liquidazione (…) nel caso di sinistri soggetti alla procedura di risarcimento di cui all’art. 148 cod. ass.” [così l’art. 6, comma 1, lettera (b)].
E’ singolare osservare come l’obbligo di trasmissione dei dati non sia affatto previsto a carico dell’UCI, della Consap, del mandatario per la liquidazione dei sinistri, dell’Organismo italiano di indennizzo: ovvero altrettanti soggetti legittimati a ricevere, in condizioni particolari, richieste di risarcimento. Ma io credo che, facendo leva sul richiamo alla “procedura di cui all’art. 148 cod. ass.”, l’obbligo di comunicazione possa essere agevolmente esteso anche a tali soggetti. Quella procedura infatti ha carattere generale e si applica a qualsiasi richiesta di risarcimento, anche se indirizzata ai soggetti sopra elencati. Se dunque si applica quella procedura, dovrebbe sussistere anche l’obbligo di comunicazione dei dati.
I dati da inviare all’IVASS son indicati dall’art. 6, comma 2, del Provvedimenti 23/2016, e sono opportunamente costituiti non solo dagli elementi ovviamente essenziali per la ricostruzione del fatto (luogo, tempo, responsabile, danneggiato, veicoli), ma anche da elementi a corredo, quali le generalità dei testimoni, dei professionisti che assistono le parti (e quindi, deve ritenersi, avvocati e medici legali), e degli ospedali dove la vittima assume essere stata curata.
Si è detto “opportunamente”, perché la cronaca non raramente ha fatto emergere casi di professionisti o di ospedali “specializzati” nella simulazione di falsi sinistri stradali. Così, ad esempio, la circostanza che il sinistro sia avvenuto nel quartiere EUR della Capitale, e risulti che la vittima abbia scelto di farsi curare nel pronto soccorso del policlinico “Gemelli”, dall’altro capo della città, può costituire un elemento di sospetto, non essendo verosimile che chi abbia bisogno di cure urgenti trascuri la mezza dozzina di ospedali che incontra sulla sua strada, prima di arrivare a quello prescelto.
V’è da segnalare che l’obbligo di trasmissione dei dati sussiste non solo nel momento iniziale, cioè quando l’assicuratore riceve la denuncia di sinistro dall’assicurato o la richiesta di risarcimento dal terzo danneggiato, ma permane sino a quando la procedura non sia “esaurita”: ovvero quando il risarcimento sia pagato, ovvero quando il danneggiato desista dalla richiesta di risarcimento (art. 7, comma 3, Provvedimento).
Così, ad esempio, se nel corso del giudizio di appello dovessero essere ammesse nuove prove, ovvero dovessero essere sentiti testimoni ritenuti inammissibili in primo grado, l’assicuratore del responsabile dovrebbe trasmetterne le relative generalità all’IVASS.
Sebbene il regolamento non lo dica, il riferimento al pagamento come fatto conclusivo dell’obbligo di trasmissione dei dati deve intendersi in senso stretto: dunque il pagamento compiuto dall’assicuratore in esecuzione d’una sentenza di primo grado, che però sia stata impugnata, non esonera l’assicuratore dall’obbligo di trasmettere gli ulteriori dati successivamente emersi (ad esempio, l’accertamento in sede d’appello che proprietario del veicolo investitore fosse Tizio e non Caio).
I dati vengono trasmessi all’IVASS, il quale effettua due verifiche:
- sulla correttezza delle modalità di trasmissione;
- sulla “congruità” (sic) dei dati.
La verifica sulla correttezza della trasmissione è obbligatoria e formale; se negativa ha come effetto una richiesta di nuova comunicazione, da parte dell’IVASS nei confronti dell’impresa trasmittente.
La verifica sulla “congruità” dei dati è facoltativa e sostanziale, e ha ad oggetto il rilievo di eventuali indici di sospetto. Tanto si desume (nonostante la non felice formula lessicale scelta dal regolamento) dal rinvio, contenuto nell’art. 8, comma 3, del Provvedimento, all’archivio informatico integrato di cui al d.m. 115/08. Questo archivio, come accennato, è quello che consente all’IVASS di verificare i casi sospetti e segnalarli alle imprese assicuratrici. Dunque il “controllo di congruità” effettuato tramite la connessione al suddetto archivio altro non può significare che la facoltà per l’IVASS di inoltrare all’assicuratore della r.c.a. un caveat! sulla genuinità del sinistro.
I dati trasmessi all’IVASS conservano efficacia e visibilità per dieci anni, ma il regolamento prevede – per così dire – un sistema di “affievolimento progressivo”.
Dopo cinque anni dalla “definizione del sinistro”, ovvero dal pagamento o dalla rinuncia del danneggiato, i dati vengono cancellati dalla banca dati, e trasferiti in un “archivio segreto”, accessibile solo per “esigenze di giustizia penale” o su richiesta dei titolari dei dati medesimi.
Credo tuttavia che tale norma non inibisca affatto al giudice civile di chiedere informazioni all’IVASS sui contenuti di questo “archivio segreto”. Sia perché il Provvedimento 23/2016 è un regolamento amministrativo, e non può derogare all’art. 213 c.p.c.; sia perché ritenere il contrario sarebbe in palese contrasto con la ratio dell’art. 135 cod. ass., istitutivo del sistema delle banche dati sinistri, che è quello di prevenire le frodi.
Dopo dieci anni dalla definizione del sinistro, invece, vengono cancellati tutti i dati che consentano di identificare le persone fisiche a vario titolo coinvolte nel sinistro e nella sua gestione (parti, avvocati, medici legali, sanitari), ma i dati continuano ad essere conservati dall’IVASS, così epurati, per sole finalità statistiche.
I soggetti legittimati a consultare le banche dati possono essere divisi in due gruppi: i soggetti pubblici e quelli privati.
I soggetti pubblici ammessi alla consultazione delle banche dati sono l’autorità giudiziaria, le forze di polizia e le amministrazioni “competenti in materia di prevenzione e contrasto di comportamenti fraudolenti nel settore delle assicurazioni obbligatorie” per la r.c.a.
Come accennato, la espressa previsione della possibilità di accesso per tribunali e polizia è forse superflua, essendo già implicitamente consentita dagli artt. 213 c.p.p. e 650 c.p.p. Per le altre amministrazioni pubbliche, mi resta oscuro comprendere quali possano essere quelle competenti in materia di prevenzione e contrasto di comportamenti fraudolenti nel settore della r.c.a., oltre l’IVASS e il Ministero dello sviluppo economico. Ma si tratta di previsione opportuna, ove mai in futuro dovessero essere attribuire competenze antifrode ad altre autorità amministrative.
I soggetti privati ammessi alla consultazione delle banche dati di cui si discorre sono le imprese assicuratrici, l’UCI e la Consap.
Il Provvedimento non fa cenno di altri soggetti: ad esempio il preteso responsabile, che volesse difendersi contro l’esagerazione dolosa del danno da parte del danneggiato. Tuttavia a tutti coloro che dovessero essere convenuti in giudizio non potrà negarsi l’accesso alle banche dati: le suddette banche dati costituiscono infatti “atti amministrativi” in senso lato, e il diritto di accesso agli atti in possesso delle pubbliche amministrazioni è consentito a tutti coloro che ne abbisognassero per esercitare il diritto di difesa in giudizio, di cui all’art. 24 cost.
Mentre i soggetti pubblici possono accedere a tutti i dati contenuti negli archivi di cui si discorre senza limitazioni, per i soggetti privati esiste un doppio sbarramento: alcuni dati sono sempre consultabili; altri invece, più delicati, sono consultabili solo quando vi sia puzza di bruciato (art. 13, comma 5, Provvedimento 23/2016): ovvero quando l’accesso sia richiesto per la gestione d’una richiesta di risarcimento, quando siano superati almeno due degli indici di sospetto, ovvero nel caso di “potenziale esistenza di comportamenti fraudolenti. Si tratta peraltro, come ognun vede, di presupposti così modesti, da consentire praticamente sempre l’accesso ai dati di secondo livello (targhe, assicuratori, lesioni personali, nomi delle parti e degli avvocati, ecc.).

Fonte: www.quotidianogiuridico.it/Banca Dati sinistri e contrasto alle frodi assicurative: qualcosa (finalmente) si muove | Quotidiano Giuridico

martedì 21 giugno 2016

Condannato l’imprenditore che usa fatture con partita IVA aperta e chiusa in 24 ore

Resta la pena a un anno di reclusione per fatture false per l’imprenditore che emetteva fatture con una Partita IVA aperta e chiusa nello stesso giorno. Così ha deciso la terza Sezione Penale della Cassazione, con la sentenza del 16 giugno 2016, n. 25033, dichiarando inammissibile il ricorso presentato dal manager contro la sentenza di condanna.
Dal Palazzaccio i Giudici della Cassazione hanno osservato che l’irregolarità formale delle fatture contestate, che avevano un numero di Partita IVA non più esistente, non ha escluso il fatto materiale della loro emissione e del loro successivo utilizzo per evadere le imposte; ciò dunque fa ritenere integrato il reato contestato.
“La circostanza che le fatture fossero state emesse utilizzando una Partita IVA cessata – si legge nella sentenza – non esclude la sussistenza di tutti i requisiti formali richiesti dall’art. 21, comma 2, D.P.R. 633/72 [fatturazione delle operazioni, ndr], essendo comunque stati soddisfatti i requisiti di contenuto e forma prescritti da tale disposizione per la formazione delle fatture, cui è subordinata la ravvisabilità della fattispecie di cui all’art. 8 D. Lgs. 74/2000 [Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, ndr], con la conseguenza che le stesse potevano essere utilizzate per dedurre costi inesistenti, indipendentemente dall’utilizzo di una partita IVA di cui era stata comunicata la cessazione e che quindi non avrebbe potuto essere utilizzata”.
Insomma, ribadendo l’affermazione di responsabilità dell’imputato, la Cassazione ha rigettato il ricorso e ha condannato l’imprenditore anche al pagamento delle spese processuali.

Fonte: www.fiscopiu.it/Condannato l’imprenditore che usa fatture con partita IVA aperta e chiusa in 24 ore - La Stampa

Sinistro stradale: dinamica poco chiara, irrilevante il ‘Cid’. Niente risarcimento

Smentita la decisione del Giudice di pace, che aveva riconosciuto al conducente maggiormente danneggiato il diritto ad ottenere un ristoro economico. Per i magistrati del Tribunale e della Cassazione sono clamorose le incertezze sulla dinamica dell’incidente. Inutile il richiamo al modulo di constatazione amichevole firmato dall’altro conducente.

Cid. Per il Giudice di pace l’incidente «era da ascrivere alle condotte colpose di entrambi conducenti». Tuttavia, una volta ricostruita la dinamica e preso atto del ‘Cid’ firmato dai conducenti, viene riconosciuto il diritto dell’automobilista maggiormente danneggiato a ottenere un «risarcimento»: l’altro automobilista e la compagnia di assicurazione dovranno versargli «6.500 euro».

Di avviso completamente opposto, invece, i giudici del Tribunale: a loro avviso non è affatto scontata la ricostruzione dell’incidente, e, quindi, vanno messe in discussione le responsabilità dei conducenti. Ecco spiegata la decisione con cui si obbliga l’automobilista, risarcito in primo grado, alla «restituzione delle somme ricevute».

Dinamica. Ora a chiudere la vicenda provvede la Cassazione, ribadendo che mancano i presupposti per riconoscere un «risarcimento» all’automobilista (ordinanza n. 12370 del 15 giugno 2016).

Condivise, difatti, le perplessità evidenziate in Tribunale sulla «dinamica dell’incidente». Poco credibile la versione proposta dall’automobilista danneggiato, nonostante, sia chiaro, l’altro conducente «avesse sottoscritto un verbale di ‘constatazione amichevole’».

Diversi i particolari che stonano: primo, «l’inverosimiglianza di un incidente con danni di significativa entità alla vettura, senza che il conducente avesse riportato conseguenze»; secondo, «la mancanza di documentazione attestante il ricovero dell’automobilista presso un ‘pronto soccorso’ ospedaliero»; terzo, «la non corrispondenza della data sulla ricevuta fiscale relativa alla chiamata del ‘carro attrezzi’ rispetto a quella dell’incidente»; quarto, «l’esito della consulenza tecnica» da cui è emersa «l’impossibilità di accertare la reale dinamica dell’incidente».

Questo quadro non è in discussione, spiegano i giudici, alla luce del modulo ‘Cid’. Esso è reso irrilevante dalla evidente «incompatibilità oggettiva tra il fatto come descritto in quel documento e le conseguenze dell’incidente come accertate in giudizio».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Sinistro stradale: dinamica poco chiara, irrilevante il ‘Cid’. Niente risarcimento - La Stampa

domenica 19 giugno 2016

Daspo: sulla revoca è competente il GIP già investito della convalida

Il divieto di cui all’art. 6 comma 1 (avente ad oggetto l’accesso ai luoghi ove si svolgono manifestazioni sportive, nonché altri luoghi “sensibili”) e l’ulteriore prescrizione di cui al comma 2 (obbligo di comparire personalmente nell’ufficio di polizia competente) disposti nei confronti delle persone denunciate o condannate ai sensi del comma 1, non possono avere durata inferiore a un anno e superiore a cinque anni e sono revocati o modificati qualora, anche per effetto di provvedimenti dell’autorità giudiziaria, siano venute meno o siano mutate le condizioni che ne hanno giustificato l’emissione.
«Per quanto la norma non specifichi quale autorità sia competente a provvedere in tema di revoca o modifica – si legge in sentenza – la stessa deve esser individuata nell’autorità giudiziaria, allorquando il provvedimento del Questore – oltre al divieto di accesso – abbia ad oggetto l’obbligo di presentazione».
«Tale conclusione – specifica il Collegio – appare giustificata dalla natura dell’obbligo medesimo – quale misura di prevenzione che incide sulla libertà personale – per come costantemente affermata dalla giurisprudenza di legittimità, nonchè da quella costituzionale. Il precedente orientamento – motivato sulla natura eminentemente amministrativa della misura, e quindi dell’intera procedura, con intervento giurisdizionale incidentale e nella sola fase genetica – non pare conciliarsi con la lettura operatane dalla Corte costituzionale, con la natura da questa riconosciuta all’obbligo di presentazione e, pertanto, con le garanzie anche in punto di tutela giurisdizionale che alla stessa debbono conseguire»
Questo, dunque, il principio di diritto sancito dalla Corte:
«competente a decidere sulla richiesta di revoca o di modifica del provvedimento impositivo dell’obbligo, previsto dall’art. 6 comma 2, L. n. 401 del 1989, di comparire ad un ufficio o comando di polizia in coincidenza di manifestazioni sportive, è il giudice per le indagini preliminari già investito della convalida del provvedimento medesimo».

Per leggere la senteza clicca qui: cass-pen-2016-24819.pdf

Fonte: www.giurisprudenzapenale.it

Videosorveglianza, recenti orientamenti in tema di conservazione delle immagini registrate

Il tema relativo ai termini di conservazione delle immagini registrate dagli impianti di videosorveglianza ha assunto un'importanza sempre maggiore nell'ambito della corretta gestione tecnica e giuridica di tali apparati, anche a fronte delle evoluzioni tecnologiche che consentono riprese sempre più dettagliate e delle necessità delle aziende. In tale contesto, il Garante per la Protezione dei Dati Personali, sin dall'aprile 2010, ha emanato un apposito Provvedimento di carattere generale in materia di videosorveglianza ( doc. web n. 1712680) che individua i principali adempimenti in capo alle aziende fra i quali:
(i) l'obbligo di informare, con appositi cartelli visibili e comprensibili, i soggetti che si trovano a transitare in un'area aziendale soggetta a tale controllo;
(ii) la specifica designazione scritta degli incaricati preposti a gestire le immagini;
(iii) la protezione delle immagini con idonee e preventive misure di sicurezza finalizzate a ridurre al minimo i rischi di accesso non autorizzato e/o di trattamento non conforme;
(iv) il rispetto delle disposizioni in materia di tempi di conservazione delle immagini.
Su questo ultimo aspetto il Provvedimento a carattere generale stabilisce che le immagini debbano essere conservate per il tempo strettamente necessario per le ragioni di sicurezza e, comunque, per un massimo di 24 ore successive alla rilevazione. Solo nel caso in cui l'azienda svolga attività particolarmente rischiose è ammesso un tempo di conservazione maggiore, comunque non superiore alla settimana e ciò al fine di tutelare interessi ritenuti meritevoli di una maggior difesa, quali la sicurezza e l'incolumità pubblica. Tuttavia sono intervenute diverse pronunce dell'Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali, finalizzate ad autorizzare detta conservazione per tempi prolungati, poiché la regolamentazione adottata in materia consente ai soggetti interessati di attivare una specifica procedura, con richiesta preliminare al Garante, per ottenere l'autorizzazione ad un allungamento dei tempi di conservazione, sulla base di specifiche ragioni da dettagliare, fermo restando il rispetto di tutte le altre prescrizioni.
Al riguardo, la più recente determinazione dell'Autorità Garante è quella del 07 aprile 2016 (doc. web n. 5063704), in relazione ad una richiesta preliminare (ai sensi dell'art. 17 del Codice della Privacy) presentata da due Società che operano nel settore delle cosiddette video lottery e cioè attività di raccolta di gioco a mezzo di apparecchiature video terminali.
Dette aziende hanno motivato la richiesta con la necessità di salvaguardare il patrimonio aziendale da possibili atti illeciti e facilitare il compito dell'Autorità di Polizia nelle indagini finalizzate alla identificazione dei responsabili. Le due imprese, dopo aver dichiarato che talune loro sale da gioco avevano subito azioni criminose, hanno precisato che l'accertamento di determinati illeciti (in particolare la contestazione di ammanchi di denaro) potrebbe avvenire solo a fonte di complesse attività di controllo, articolate in diverse fasi e mirate, specificatamente, al conteggio del denaro raccolto ed effettuate tenendo conto sia delle esigenze di economicità di gestione sia dei tempi tecnici necessari per la disamina delle registrazioni ed il controllo delle centinaia di macchine installate.
Da qui la necessità di un' autorizzazione per conservare le immagini per un periodo superiore alla settimana. Peraltro le istanti aveva anche rappresentato l'esistenza di accordi sindacali al riguardo, con le rappresentanze aziendali. L'Autorità Garante, effettuata l'istruttoria, ha ritenuto legittima la richiesta di allungamento dei tempi di conservazione sino a 15 giorni, considerando non solo l'esistenza di un'obiettiva esigenza di tutela del patrimonio aziendale che può essere perseguita solo effettuando controlli sul denaro e sulle apparecchiature presenti in sala ove vengono effettuate le giocate, ma anche la necessità di soddisfare le frequenti richieste delle Autorità inquirenti di messa a disposizione delle immagini (richieste che non potrebbero essere soddisfatte in presenza di termini di cancellazione stringenti). Pertanto la domanda di allungamento dei tempi fino ai 15 giorni è stata ritenuta conforme ai principi di necessità e proporzionalità. Si tratta, peraltro, di determinazione conforme ad una precedente assunta in analogo settore, nel dicembre 2013 (doc web 2914191).
Sempre in argomento è significativa la richiesta presentata da una delle più importanti aziende che operano nel settore dei servizi di lusso, con un prestigioso marchio italiano che contraddistingue gioielli, orologi, accessori, profumi e prodotti cosmetici e con attività di commercializzazione attraverso boutique di proprietà. Ebbene tale azienda - sul presupposto che: (i) l'effettiva consistenza dello stock di prodotti viene verificato attraverso attività inventariale con cadenza semestrale; (ii) nelle boutique sono presenti migliaia di pezzi, la maggior parte di piccole dimensioni (con la conseguenza con l'eventuale ammanco difficilmente potrebbe essere verificato nell'immediatezza ma solo a distanza di tempo in coincidenza con l'inventario); (iii) il trend di furti nelle gioiellerie è risultato in aumento - ha chiesto l'autorizzazione alla conservazione delle immagini per il periodo un anno, stante l'esigenza di rafforzare il livello di tutela dei beni aziendali, nonché dell' incolumità del personale e della clientela. A fronte di tale istanza per un significativo, notevole incremento del termine di conservazione dei dati, l'Autorità Garante - con determinazione del 25 giugno 2015 (doc. web. 4173504) - ha accolto parzialmente la richiesta, ammettendo la conservazione fino a 7 mesi delle riprese acquisite dalla società mediante l'uso dei sistemi di videosorveglianza in uso.
Maggiore perplessità desta una precedente determinazione del novembre 2011, con cui la medesima Autorità ha accolto una richiesta di proroga dei tempi di conservazione delle immagini sino a 24 mesi, avanzata da una azienda produttrice di componenti meccanici di elevata precisione. L'istanza era stata giustificata con la necessità di mantenere i filmati per il tempo necessario per scoprire eventuali sabotaggi dei prodotti, a fronte di episodi verificatisi e denunciati in passato. In tal caso il provvedimento che ha autorizzato la conservazione per due anni, ha stabilito che i filmati potevano, tuttavia, essere utilizzati esclusivamente per l'accertamento di possibili atti di sabotaggio.
Si potrebbe continuare nell'elencazione di provvedimenti in materia; tuttavia da tale pur sintetica panoramica emerge che, in presenza di situazioni di tutela ormai ritenute indispensabili, anche in considerazione delle trasformazioni tecnologiche delle attività e dei sistemi di rilevamento, è riconosciuta con una maggior di ampiezza la possibilità di ottenere provvedimenti in deroga alle stringenti disposizioni di carattere generale in materia tempi di conservazione delle immagini videoregistrate. Tutto ciò – in ogni caso – dovrebbe essere monitorato con attenzione al fine di non dar luogo a situazioni invasive e, soprattutto, affinchè non si trasformi in regola generale ciò che oggi costituisce un' eccezione alle citate disposizioni limitative.

Fonte: www.ilsole24ore.com//Videosorveglianza, recenti orientamenti in tema di conservazione delle immagini registrate

Avvocato perde la causa: il cliente non vanta alcun diritto ad essere risarcito

L'avvocato può essere ritenuto responsabile, nei confronti del proprio cliente, soltanto se abbia violato il canone della diligenza professionale media, prescritto al secondo comma dell'articolo 1176 del codice civile. Questo il dictum ribadito dalla III sezione civile della Cassazione, nella sentenza n. 11906 depositata il 10 giugno scorso. Colui che intraprende una causa giudiziaria, infatti, deve essere edotto della circostanza che dalla stessa può derivare un esito positivo, nella stessa misura in cui può verificarsi un esito infausto. Per il collegio romano il difensore risponde nei confronti del proprio cliente nell'ipotesi in cui la condotta, nel gestire il mandato difensivo, sia stata contrassegnata da incuranza o indifferenza, ovvero abbia manifestato di non conoscere le regole giuridiche. L'imperizia, tuttavia, non sarà ravvisabile qualora si riscontrino pareri divergenti per quanto concerne le opzioni strategiche e difensive da adottare nell'effettiva gestione processuale.
Un uomo conveniva in giudizio un avvocato, deducendone l'inadempimento al mandato che gli aveva conferito in una controversia civile. Deduceva che, a causa dell'introduzione di una nuova domanda e della mancata proposizione dell'appello incidentale, siffatta domanda, accolta in primo grado, era stata invece ritenuta come "nuova" in secondo grado. Per tale motivo la Corte territoriale, accogliendo il gravame della controparte, aveva rigettato le istanze formulate nell'originario atto di citazione.
Ritenendo sussistente la responsabilità professionale del proprio difensore, l'attore ne chiedeva la condanna al risarcimento del danno subito. Nei due gradi di merito il cliente si vede negare le proprie ragioni. Adisce quindi i giudici di piazza Cavour che confermano le tesi dei colleghi. Secondo il ricorrente, avrebbe errato la Corte d'Appello ad escludere la colpa professionale, senza considerare che la controversia tra il cliente e l'originaria controparte era di semplice soluzione, che la proposizione irrituale di domanda nuova costituirebbe "errore grave derivante da colpa gravissima", che l'omessa proposizione di appello incidentale rivelerebbe "una condotta colposa giuridicamente rilevante e sanzionabile con responsabilità professionale".
La Cassazione ribadisce che la giurisprudenza, ormai consolidata, ha affermato che la responsabilità professionale dell'avvocato, la cui obbligazione risulta di mezzi e non di risultato, presuppone la violazione del dovere di diligenza, per il quale trova applicazione, in luogo del criterio generale della diligenza del buon padre di famiglia, quello della diligenza professionale media esigibile, ai sensi dell'articolo 1176, comma II, c.c. da commisurare alla natura dell'attività esercitata, non potendo il professionista garantire l'esito comunque favorevole auspicato dal cliente (ex multis Cass. n. 10289/15) ed inoltre che l'avvocato deve considerarsi responsabile nei confronti del proprio cliente, ai sensi degli articoli 2236 e 1176 c.c., in ipotesi di incuria o di ignoranza di disposizioni di legge ed, in genere, nei casi in cui, per negligenza o imperizia, compromette il buon esito del giudizio, mentre nelle fattispecie di interpretazione di leggi o di risoluzione di questioni opinabili, deve ritenersi esclusa detta responsabilità, tranne nel caso ove risulti che abbia agito con dolo o colpa grave.
Pertanto, l'inadempimento del professionista non può essere desunto dall'omesso raggiungimento del risultato utile cui mira il cliente, bensì soltanto dalla violazione del dovere di diligenza commisurato alla natura dell'attività esercitata, ragione per la quale l'affermazione della responsabilità implica l'indagine circa il sicuro e chiaro fondamento dell'azione che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente coltivata e, in definitiva, la certezza morale che gli effetti di un differente operato sarebbero stati maggiormente vantaggiosi per il cliente (cfr. Cass. n. 16846/05).
L'imperizia dà luogo alla responsabilità per colpa, soltanto quando il legale mostri di non conoscere o violi precise norme di legge, ovvero sbagli nel risolvere questioni giuridiche la cui soluzione non presenti alcun margine di opinabilità. Quanto alla scelta della strategia processuale, la sua adeguatezza o meno a raggiungere il risultato perseguito dal cliente non può essere valutata ex post, a seconda dell'esito del giudizio, bensì unicamente ex ante.
Gli ulteriori motivi formulati dal cliente, ripropongono, in sede di legittimità, questioni di diritto già sollevate nell'ambito del procedimento civile ove si svolse il mandato professionale.
La Cassazione precisa che il giudizio su tali questioni risulta riservato al giudice di merito che, nel procedervi, pur muovendosi su un piano necessariamente tecnico, e non di accertamento di fatti storici, non è tuttavia chiamato a risolvere nuovamente le medesime questioni agitate nel giudizio nel quale l'avvocato ha svolto il mandato che si assume negligente, ma soltanto a verificare che l'opzione difensiva adottata, nel caso di specie, avesse tenuto conto delle norme di legge applicabili ed, in caso di opinabilità, fosse comunque plausibile, alla stregua degli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali invocati a sostegno. Il controllo rimesso alla Cassazione sulla spiegata attività valutativa del giudice del merito non ha per oggetto la soluzione in termini giuridici delle questioni poste alla sua attenzione (cfr. Cass. n. 3355/14), bensì soltanto la circostanza che il giudice si sia occupato degli addebiti mossi all'avvocato, nonché la correttezza logico-giuridica del ragionamento seguito per escludere, ovvero affermare, la violazione dell'obbligo di diligenza media.

Fonte: www.ilsole24ore.com//Avvocato perde la causa: il cliente non vanta alcun diritto ad essere risarcito

Il collaboratore familiare fa scattare l’Irap

Basta un collaboratore familiare per far scattare il pagamento dell’Irap a carico dell’impresa, a prescindere dall’utilizzo di beni strumentali modesti.

È quanto affermato dalla Cassazione che, con l’ordinanza 12616 del 17/06/2016, ha accolto il ricorso presentato dall’Agenzia delle entrate contro un agente di commercio che aveva costituito, per l’esercizio della propria attività, un’impresa familiare, di cui all’art. 230-bis c.c..

Le commissioni di merito avevano dato il via libera al rimborso del tributo, poiché l’agente di commercio utilizzava beni strumentali di entità modesta.

Le Entrate hanno rilevato, innanzi alla Suprema Corte, la presenza di un collaboratore familiare, cui era corrisposto il 47% del reddito d’impresa realizzato, evidenziando l’esistenza di un’impresa familiare, sufficiente a configurare un’attività imprenditoriale assoggettata al tributo regionale (Irap), di cui al d.lgs. 446/1997; tesi confermata anche dagli Ermellini.

Fonte: www.italiaoggi.it/Il familiare fa scattare l’Irap - News - Italiaoggi

L’utilizzo di password altrui fa venir meno il rapporto fiduciario: giusto il licenziamento

Il caso. Una donna veniva licenziata a seguito di contestazioni disciplinari con le quali si addebitava di aver utilizzato le credenziali del precedente direttore di filiale per accedere al terminale a lei in uso ed avere informazioni non collegate ad esigenze di servizio. Finita la vicenda in Tribunale, la donna insiste fino all’ultimo grado di giudizio per vedere riconosciute le sue ragioni: i giudici d’appello, a suo dire, non hanno valutato che la navigazione in Internet non era stata effettuata per ragioni personali, ma per far fronte a compiti d’ufficio e, inoltre, non avrebbero considerato l’assenza di precedenti disciplinari a suo carico e la situazione nella quale si era venuta a trovare, vittima di un processo di denigrazione sistematica.

La giusta causa di licenziamento richiede di essere specificata in sede interpretativa. Ma le sue tesi non sono riuscite a fare breccia tra i Giudici di Cassazione. Per i magistrati, infatti, il giudizio di proporzionalità è stato compiuto sulla base della valutazione di tutte le risultanze fattuali rilevanti. In particolare, l’utilizzo di password altrui e gli accessi alla banca dati non attinente l’attività demandata, sono stati considerati nell’ambito della delicatezza della funzione attribuita alla dipendente, che avrebbe imposto un rigoroso rispetto delle regole, la cui violazione era pertanto idonea a determinare il venir meno dell’elemento fiduciario. Per tali ragioni la Cassazione ha rigettato il ricorso della donna (sentenza n. 12337/16, del 15 giugno).

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/L’utilizzo di password altrui fa venir meno il rapporto fiduciario: giusto il licenziamento - La Stampa

“Vieni fuori che facciamo a pugni”: minaccia non credibile perché pronunciata da un classe 1928

La discussione condominiale degenera in una lite. La frase incriminata, cioè la proposta di una scazzottata, è teoricamente valutabile come una minaccia, ma l’età del protagonista, 84 anni, rende inoffensive quelle parole.

Età. Assurdo epilogo per la discussione condominiale, degenerata in lite. E le parole utilizzate da uno dei contendenti, cioè “Vieni fuori che facciamo a pugni…”, gli valgono addirittura una «condanna per minaccia», con relativa «pena pecuniaria».

La decisione assunta dal giudice di pace viene ora smentita dai Magistrati della Cassazione. A loro dire, difatti, la teorica «idoneità intimidatoria della frase» pronunciata durante lo scontro condominiale è smentita dalla valutazione del «contesto» della vicenda. Più precisamente, viene posta in evidenza la differenza d’età tra i due litiganti: quello che ha proposto la scazzottata è un giovanotto classe 1928, con oltre venti anni in più rispetto all’altro contendente.

Tutto ciò rende evidente, sanciscono i giudici, la «inoffensività» delle parole pronunciate nella foga della discussione in condominio.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/“Vieni fuori che facciamo a pugni”: minaccia non credibile perché pronunciata da un classe 1928 - La Stampa

martedì 14 giugno 2016

Responsabilità medica: le novità del ddl Gelli

Sulla scia della legge “Balduzzi” (legge 189/2012), è in corso di approvazione un disegno di legge denominato dal relatore on. Gelli; è già stato licenziato dalla Camera dei Deputati il 28.1.2016 ed attualmente è all’esame del Senato. Se dovesse diventare legge, essa come già la legge “Balduzzi”, avrebbe fra gli scopi principali quello di scongiurare la c.d. “medicina difensiva”, e cioè i comportamenti dei sanitari volti più ad evitare eventuali addebiti che non a prendersi cura del paziente. Quindi esami inutili ma costosi e magari anche rischiosi per il paziente. Ma ancor peggio, la tendenza ad evitare interventi che comportino un elevato rischio infausto.
Una delle novità più significative, ed anzi rivoluzionarie, del ddl in esame è contemplata dall’art. 6, sulla penale responsabilità dell’esercente la professione sanitaria.
Detto articolo introduce una nuova norma nel codice penale, l’art. 590 ter (sarà in effetti il quater), composto da due commi.
Il primo comma prevede che “l’esercente la professione sanitaria che, nello svolgimento della propria attività, cagiona a causa di imperizia la morte o la lesione personale della persona assistita risponde dei reati di cui agli artt. 589 e 590 solo in caso di colpa grave”.
Il secondo comma statuisce che “agli effetti di quanto previsto dal primo comma, è esclusa la colpa grave quando, salve le rilevanti specificità del caso concreto, sono rispettate le buone pratiche clinico-assistenziali e le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge”.
Perchè queste previsioni sono rivoluzionarie?
Non tanto per quanto precettato nel primo comma; difatti la limitazione della responsabilità professionale sanitaria all’ipotesi di colpa grave era già contemplata, sia pure in termini diversi, nella c.d. Legge Balduzzi (con l’ulteriore interpretazione giurisprudenziale che circoscriveva tale limitazione alla colpa per imperizia).
Quanto piuttosto per ciò che si contempla nel secondo comma, laddove viene esclusa ogni responsabilità penale colposa (per imperizia) in capo all’esercente la professione sanitaria relativamente ai delitti di lesioni e omicidio colposi, laddove l’operatore si sia attenuto alle buone pratiche ed alle linee guida.
In realtà l’attuale formulazione dell’art. 6 del ddl è alquanto “aperta” e lascia quindi molti interrogativi sulla sua concreta attuazione e fa immaginare scenari non sempre rassicuranti nelle quotidiane pratiche sanitarie.
L’operatore sanitario è esentato da responsabilità penale per i reati indicati allorquando segua le linee guida e se l’eventuale colpa sia configurabile quale imperizia (e non quindi imprudenza e negligenza o violazione di specifiche norme di comportamento).
La distinzione tra i vari profili di colpa non è affatto semplice nella realtà dei processi: ad esempio una dimissione dall’ospedale con diagnosi di gastralgia cui segue la morte del paziente per infarto è riferibile a negligenza, imprudenza o imperizia?
Se vengono rispettate le linee guida diagnostiche il sanitario ha tutto l’interesse a far rientrare l’eventuale colpa nel profilo dell’imperizia, in quanto se vi riesce andrà esente da qualsiasi responsabilità penale (anche se vi è stata una grave imperizia), mentre se dovessero configurarsi i profili della negligenza o dell’imprudenza risponderà anche nella loro forma lieve.
Da qui discende che il ruolo del consulente di parte (della persona offesa, del pubblico ministero e della persona sottoposta ad indagini) diventerà ancor più decisivo.
Sempre che, ovviamente sussista il nesso di causalità tra la condotta colposa e l’evento.
La forbice della possibile responsabilità è quindi assai allargata: dal niente al tutto.
Appare quindi decisivo per l’operatore sanitario, medico o infermiere, rimanere nei binari delle linee guida e delle buone pratiche.
E’ pur vero che il comma 2 del redigendo art. 590 ter (quater) fa salve “le rilevanti specificità del caso concreto”, indicando all’esercente la professione sanitaria che in tali casi dovrà discostarsi dalle buone pratiche e dalle linee guida, tuttavia sembra proprio doversi ritenere che, discostandosene, non potrà più avvalersi della “copertura” di tale comma, che, come detto, esclude la responsabilità per colpa (imperizia) soltanto quando esse vengono applicate.
Stiamo considerando le seguenti ipotesi:
a) il professionista sanitario segue le linee guida (nella fase diagnostica o in quella terapeutica) e tuttavia commette un errore, che causa un evento negativo (morte o lesioni del paziente);
b) il professionista si discosta dalle linee guida, ritenendo rilevanti le specificità del caso concreto e tuttavia commette un errore (eventualmente anche perché se ne è discostato mentre non avrebbe dovuto).
Come detto nel caso sub a) l’imperizia diagnostica o terapeutica non comporta responsabilità penale (comma 2), nel caso sub b) vi è responsabilità soltanto nel caso di imperizia grave (comma 1).
La chiave di volta delle norme in corso di approvazione pare quindi essere la dimostrabilità e sostenibilità delle “rilevanti specificità” del caso concreto.
Stante la necessità di applicazione delle “raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge”, al fine della autotutela del professionista diventa fondamentale il sopracitato aspetto.
In un caso infatti il professionista che si trovi ad applicare il protocollo, non rilevando una specificità che invece avrebbe dovuto rilevare, si troverebbe comunque esente da responsabilità o in una posizione ben più favorevole rispetto al professionista che più coscientemente dovesse ritenere di non attenersi alle linee guida avendo considerato la “specificità” del caso.
Nella prima ipotesi infatti l'onere probatorio sarebbe in capo all'accusa, la quale dovrebbe dimostrare che, in base alla situazione concreta del paziente, l'operatore sanitario non avrebbe non potuto rilevarne la specificità e quindi avrebbe dovuto discostarsi dalle raccomandazioni delle linee guida.
Tale posizione appare ben più vantaggiosa rispetto alla seconda ipotesi ove tale onere rimane in capo all'operatore che si troverebbe a correre il concreto rischio di non riuscire a dimostrare con sufficiente valenza che nel caso specifico era assolutamente necessario discostarsi dalle raccomandazioni delle linee guida.
Sarà verosimilmente più agevole difendersi, in caso di processo penale, assumendo o che il caso concreto non presentava specificità o che esse non apparivano rilevanti.
Ciò è stato frutto di un errore (anche grave)? Tuttavia non vi sarà responsabilità penale.
Aggiungendo che, avendo seguito le linee guida, ben difficilmente si potrebbero ipotizzare negligenza o imprudenza.
Va oltretutto tenuto presente che nella scienza medica vi sono tante zone grigie dove non c'è letteratura, ponendosi il problema di trovare un comportamento che il sanitario debba seguire per andare esente da responsabilità penale in caso di errore.
L'applicazione rigorosa di questa norma rischia di spingere il sanitario a seguire pedestremente le linee guida senza operare una valutazione critica di ogni situazione: la non punibilità così come prevista rischia di premiare chi opera in maniera acritica ed aderente ai protocolli e di penalizzare chi invece coscientemente si discosti da essi.
Tuttavia è evidente che l’attenzione del sanitario tenderà a spostarsi dal malato alla malattia. In altri termini, dal caso concreto alla linea guida.
Se è vero che le indicazioni delle linee guida consentiranno di superare la tendenziale autoreferenzialità scientifica del sanitario, esse tuttavia non possono né devono trasformarsi da strumento a fine di una professione che si misura costantemente con situazioni difficilmente codificabili.
Ma forse questa conseguenza sarà limitata dalla coscienza professionale del sanitario, il quale correrà i rischi di un errore (sanzionabile) ma abbandonerà in tutto o in parte una linea guida che non gli appaia adeguata a quel paziente
In tal caso tuttavia dovrà evitare, in previsione di un possibile errore, che l’abbandono possa apparire frutto di negligenza o imprudenza, in quanto risponderebbe penalmente anche per colpa lieve. E’ facile prevedere che il Pubblico Ministero (e prima di lui il consulente dell’accusa), riscontrando che il sanitario non ha seguito le linee guida, ipotizzi proprio i profili colposi della negligenza e dell’imprudenza
Come evitare questa (processualmente) pericolosa eventualità?
Documentando ed illustrando il perché della scelta di non seguire (in tutto o in parte) la linea guida: utilizzando quindi la cartella clinica o quella infermieristica.
In esse infatti dovrà essere spiegato con sufficienza di argomentazione perché il caso concreto presentasse rilevanti specificità che imponevano una strada, diagnostica o terapeutica, alternativa.
In sostanza è opportuno che il sanitario si precostituisca una prova del fatto che ha ben meditato sulla scelta fatta, anche se essa successivamente risulterà frutto di un errore di valutazione, errore però non dovuto o a negligenza o ad imprudenza (e quindi non rilevante nel caso di colpa lieve).
Altro punto che andrà approfondito e che potrebbe creare alcune perplessità è quello che riguarda la pubblicazione delle “buone pratiche clinico-assistenziali e le raccomandazioni previste dalle linee guida” : la nuova norma, all'art. 5 prevede che le stesse siano indicate dalle società scientifiche e dagli istituti di ricerca individuati con decreto ministeriale ed iscritti in un apposito elenco, anch'esso istituito con il medesimo decreto, da emanare entro un anno.
E' previsto inoltre che le linee guida debbano essere pubblicate contestualmente, per i singoli settori di specializzazione, entro due anni dall'entrata in vigore della legge e che debbano essere periodicamente aggiornate.
Poichè la medicina è una scienza in continua evoluzione si prospetterà il problema della tempestiva pubblicazione delle nuove linee guida: ci si domanda sin d'ora quale potrebbe essere la sorte di un operatore sanitario che si dovesse trovare ad applicare una raccomandazione sperimentale o comunque accreditata dalla comunità scientifica ma non ancora pubblicata nell'elenco previsto dalla legge e facesse un errore che causi una lesione o la morte. La norma, così come formulata, pare lasciare aperto l'interrogativo a cui gli interpreti della legge dovranno cercare di dare una risposta.

Fonte: www.quotidianogiuridico.it//Responsabilità medica: le novità del ddl Gelli | Quotidiano Giuridico

lunedì 13 giugno 2016

Unioni civili: prime riflessioni sull’applicazione in campo penale della legge 76/2016

La legge n. 76 del 2016, nell’introdurre nel nostro ordinamento le unioni civili fra persone dello stesso sesso, ha evitato accuratamente di utilizzare termini propri dell’istituto del matrimonio per ragioni di opportunità politica. Tuttavia, il legislatore era evidentemente mosso dall’intento di riconoscere ai componenti l’unione civile una tutela e uno status nella sostanza non dissimili da quelli coniugali. Infatti, il comma 20 dell’unico articolo di cui la legge si compone recita “Al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi…si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”.
Si può, dunque, sostenere che le norme del codice penale e del codice di procedura penale che contengono le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti o che si riferiscono, in ogni caso, al matrimonio si applicano automaticamente anche alle unioni civili?
Nel codice penale diverse fattispecie incriminatrici, così come diverse norme che prevedono aggravanti o attenuanti o cause di non punibilità contengono le parole indicate dal comma 20. In particolare contengono la parola “coniuge”:
- l’art. 556 c.p. (Bigamia);
- l’art. 558 c.p. (Induzione al matrimonio mediante inganno);
- l’art. 570 c.p. (Violazione degli obblighi di assistenza familiare);
- l’art. 577 c.p. (Altre circostanze aggravanti [dell’omicidio]. Ergastolo);
- l’art. 591 c.p. (Abbandono di persone minori o incapaci);
- l’art. 602 ter c.p. (Circostanze aggravanti [dei reati di cui agli artt. 600, 601, 602 c.p.]);
- l’art. 605 c.p. (Sequestro di persona);
- l’art. 609 ter c.p. (Circostanze aggravanti [della violenza sessuale]);
- l’art. 612 bis c.p. (Atti persecutori);
- l’art. 649 c.p. (Non punibilità e querela della persona offesa per fatti commessi a danno di congiunti).
Anche nel codice di procedura penale troviamo riferimenti al coniuge:
- nell’art. 199 (Facoltà di astensione dei prossimi congiunti);
- nell’art. 282 bis (Allontanamento dalla casa familiare).
Problemi di tecnica legislativa e riflessi di costituzionalità
Secondo le indicazioni contenute nella legge sulle unioni civili tutte le norme sopra elencate dovrebbero trovare applicazione anche alle persone unite civilmente a condizione che così facendo si assicuri “l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso”.
Prima di valutare se la finalità sopra riportata ricorre in ciascuna delle norme elencate, è necessario affrontare un’altra questione. E’ necessario, infatti, verificare se una tecnica legislativa quale quella utilizzata nel comma 20 dell’art. 1 soddisfi il requisito della tassatività, della precisione e della sufficiente determinatezza della fattispecie penale, corollari dell’art. 25 della Costituzione. A tale proposito è superfluo ricordare che la norma penale non è suscettibile di interpretazione analogica. Il divieto di analogia nella materia penale contenuto espressamente nell’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale – Le leggi penali … non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati – ed espresso, in via implicita, anche nell’art. 1 del codice penale – Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge – viene considerato costituzionalizzato dall’art. 25 Cost.
Sulla base di queste premesse, si può sostenere che la condotta descritta in una norma incriminatrice è imputabile alla persona unita civilmente, e non solo alla persona coniugata, sulla base del generico richiamo operato “ad ogni altra legge… che contenga le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti”?
Non solo. E’ sufficientemente determinata una fattispecie incriminatrice che, per le persone unite civilmente, trova applicazione solo se finalizzata a garantire l’effettiva tutela dei diritti e il pieno adempimento dei doveri derivanti dall’unione civile?
Il giudice penale, infatti, potrà applicare determinate fattispecie incriminatrici o determinate aggravanti alle persone unite civilmente solo dopo aver valutato se l’applicazione della norma ottiene l’effetto di tutelare i diritti o rendere effettivi i doveri nascenti dall’unione civile. Una fattispecie penale che delega all’interprete un simile compito e un simile potere è ancora rispettosa del principio di legalità?
Esula dalla scopo di queste brevi note approfondire queste tematiche. La risposta verrà dall’applicazione pratica, ma già è possibile prevedere che la Corte costituzionale sarà chiamata a decidere se una simile tecnica legislativa sia compatibile con l’art. 25 della Carta fondamentale.
Effettività della tutela dei diritti e pieno adempimento degli obblighi: fattispecie incriminatrici e aggravanti
Tralasciando la questione di costituzionalità appena tratteggiata, resta da verificare se e in quali casi l’applicazione delle fattispecie penali elencatesupra anche alle persone unite civilmente realizzi l’effettività dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dalle unioni civili.
La fattispecie meno problematica è quella prevista dall’art. 570 c.p. sulla violazione degli obblighi di assistenza familiare. In questo caso sembra difficile sostenere che la possibilità di applicare la sanzione penale anche alla persona unita civilmente, oltre che al coniuge, non abbia a che fare con l’effettiva tutela delle posizioni giuridiche nascenti dall’unione civile. Il comma 11 dell’articolo 1 della legge 76 del 2016 fa, infatti, derivare dall’unione civile “l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale” e l’art. 570 c.p. punisce chi “abbandonando il domicilio domestico o comunque serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie si sottrae agli obblighi derivante dalla qualità di coniuge”.
Lo stesso può dirsi per l’abbandono di persone incapaci previsto dall’art. 591 c.p. che contempla un aumento di pena se l’autore dell’abbandono è il coniuge. Appare evidente che l’inasprimento della sanzione a carico del coniuge tende proprio a stigmatizzare la violazione di quegli obblighi di assistenza che sono connaturati al matrimonio. L’aggravante risulta, per tanto, applicabile anche per la violazione degli obblighi di assistenza derivanti dall’unione civile.
Le letture giornalistiche della legge 76 del 2016 tendono ad escludere, invece, che la persona unita civilmente possa rispondere del reato di bigamia perché l’applicazione dell’art. 556 c.p. non realizzerebbe il fine di rendere effettivi diritti e doveri nascenti dall’unione civile. La ratio dell’incriminazione, infatti, è tradizionalmente ravvisata dalla dottrina nella “tutela dell’ordinamento monogamico del matrimonio”. Ci si può domandare se tale ratio non abbia a che fare con la volontà di assicurare effettiva applicazione ai diritti e ai doveri nascenti dal matrimonio e, quindi, dall’unione civile. Torna a riproporsi, dunque, il problema della tecnica legislativa, dal momento che all’interprete è demandato decidere se una condotta sia penalmente rilevante, o meno, sulla base di una finalità quale quella posta dal comma 20 dell’articolo 1.
Esistono, infine, numerose fattispecie incriminatrici quali gli atti persecutori, l’omicidio, la violenza sessuale, il sequestro di persona in cui al reo viene applicata un’aggravante se coniugato con la persona offesa. Anche in queste ipotesi è, quanto meno, dubbio che la ratio della responsabilità aggravata vada rinvenuta nella finalità di accordare effettiva tutela ai diritti e applicazione ai doveri nascenti dal matrimonio e che la norma possa essere, conseguentemente, estesa anche alle persone unite civilmente. Si può sostenere, infatti, che la ratio dell’aggravante vada, invece, ricercata nella volontà di punire più gravemente chi abbia approfittato della propria vicinanza alla persona offesa per commettere con maggiore facilità il crimine. Si tratta di una ratio che certamente ricorre anche nel caso dell’unione civile, ma che è chiaramente diversa da quella indicata nel comma 20 dell’art. 1.
Segue: attenuanti e cause di non punibilità
I codici penale e di procedura penale contengono disposizioni in favore del coniuge che, in tale sua veste, non risponde di determinati reati. Egli non è punibile exart. 649 c.p. per la maggior parte dei reati contro il patrimonio commessi a danno del coniuge. In base all’art 299 c.p.p., il coniuge ha la facoltà di astenersi dal deporre contro il marito o la moglie.
Anche in queste ipotesi non sembra si possa dubitare che lo scopo della norma è tutelare la solidarietà coniugale alla quale, nel caso previsto dall’art. 299 c.p. p. è dato rilievo maggiore rispetto all’interesse della collettività all’amministrazione della giustizia. Dunque, la norma sembra applicabile anche alle persone unite civilmente allo scopo di dare effettiva tutela ai diritti derivanti dall’unione.
A proposito di tali disposizioni, va rilevato che, trattandosi di norme di favore, si può sostenere che esse si sottraggano ad una rigida applicazione del divieto di analogia.
La persona unita civilmente come “prossimo congiunto”
Nel codice penale esistono, infine, numerose norme che si riferiscono ai “prossimi congiunti”. Esse, dunque, non contengono la parola “coniuge” o “coniugi”, ma contengono un termine che può dirsi “equivalente” per usare la formula utilizzata dal comma 20.
Le norme a cui ci si riferisce sono:
- l’art. 307 (Assistenza ai partecipi di cospirazione o banda armata);
- l’art. 323 (Abuso d’ufficio);
- l’art. 384 (Casi di non punibilità [nei reati contro l’amministrazione della giustizia]);
- l’art. 386 (Procurata evasione);
- l’art. 390 (Procurata inosservanza di pena);
- l’art. 418 (Assistenza agli associati);
- l’art. 597 (Querela della persona offesa [nel delitto di diffamazione]).
Proprio per evitare problemi interpretativi incompatibili con i principi di legalità e tassatività della disciplina penale, l’art. 307 c.p. stabilisce che “agli effetti della legge penale si intendono per prossimi congiunti, gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli e le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti”. La Corte costituzionale, chiamata in passato a pronunciarsi sulla legittimità dell’esclusione del convivente dal novero dei prossimi congiunti, aveva dichiarato inammissibile la questione affermando che rientra nella sfera di discrezionalità del legislatore ogni intervento diretto ad uniformare la disciplina della convivenza con quella del matrimonio (Corte cost. 20 aprile 2004, n. 121). Dopo l’approvazione della legge 76 del 2016 bisognerà accertare, ancora una volta, se l’applicazione di tali norme alle unioni civili soddisfa la finalità più volte richiamata. Tale finalità sembra potersi ravvisare nelle norme che considerano il vincolo come causa di non punibilità o come attenuante o che attribuiscono al prossimo congiunto il diritto di proporre querela nei casi di cui all’art. 597 c.p..
Sembra, invece, escluso che l’abuso di ufficio possa essere contestato al pubblico ufficiale che abbia omesso di astenersi in caso di interesse della persona a cui è unito civilmente perché in questa ipotesi l’applicazione della fattispecie penale non ha lo scopo di realizzare i diritti e i doveri nascenti dall’unione, ma quello di tutelare il buon funzionamento della pubblica amministrazione. Tale conclusione si sottrae ad ogni ragionevolezza, ma appare conclusione obbligata alla luce della legge 76 del 2016.

Fonte: www.quotidianogiuridico.it//Unioni civili: prime riflessioni sull’applicazione in campo penale della legge 76/2016 | Quotidiano Giuridico

Violenza sessuale: costituisce ''induzione'' qualsiasi forma di sopraffazione della vittima

 L’induzione necessaria ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale non si identifica solo con la persuasione subdola ma si...