mercoledì 30 aprile 2014

Respinto il ricorso del contribuente che negava l’accordo e sfruttava le lungaggini del processo

Soccombe in tutti e tre i gradi di giudizio la società contribuente che si difendeva dall’avviso di accertamento emesso dall’Amministrazione a seguito dello scostamento dagli studi di settore, non essendo risultata congrua per almeno due periodi di imposta su tre. Il motivo su cui continuava a presentare (senza successo) i ricorsi verteva sull’inesistenza di un accordo, circa la consistenza dell’obbligazione tributaria, raggiunto dalle parti in sede di contradditorio e ritenuto avvenuto a tutti gli effetti dalla CTR, ove il Giudice salvava l’avviso proprio in virtù (anche) della trasfusione nell’accertamento della proposta intervenuta e soprattutto accettata dalla contribuente. Ma negando l’accordo, la ricorrente, che riteneva la semplice emissione dell’avviso già prova dell’inesistenza di una previa pattuizione, lamentava l’assenza di motivazione della sentenza di Appello, che si fondava perciò solo, a suo dire, sull’applicazione degli esiti dello studio di settore di categoria, non avendo il giudice neppure considerato le giustificazioni addotte in merito allo scostamento. La Cassazione, intervenuta nei fatti di causa, con l’ordinanza del 28 aprile scorso, n. 9326, non lascia spazio ad equivoci: gli “evidenti problemi di liquidità” della contribuente, autodichiarati nel verbale di contradditorio trascritto nella sentenza di merito, rappresentano una ragione che “chiaramente la induceva a preferire l’emissione di un avviso da poter impugnare piuttosto che di un’adesione dotata di immediata efficacia esecutiva”. Ovvero, per gli Ermellini, l’accordo, che esiste eccome, non è affatto scongiurato dal successivo avviso, potendolo evincere da altre “frasi salienti” del verbale, come quelle che riportano che è avvenuto proprio in “ordine all’accertamento da notificare”. Ben ha agito, dunque, secondo la Corte, il Giudice dell’Appello nel riconoscere all’accordo “valenza di elemento motivazionale aggiunto” rispetto allo scostamento e a confermare, così, l’avviso dell’Amministrazione.

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Nubifragio choc, casa allagata. La ‘follia’ atmosferica salva il Comune da ogni responsabilità

Bilancio pesantissimo per una famiglia, ritrovatasi con la propria abitazione invasa dall’acqua a seguito di un terribile nubifragio. Ma i danni subiti non possono essere addebitati alla responsabilità dell’ente comunale per ipotetiche carenze nella realizzazione e nella manutenzione delle opere di convogliamento dell’acqua. Decisiva la valutazione della straordinarietà del fenomeno atmosferico (Cassazione, ordinanza 3767/14).

Il caso

Follia meteorologica, però, sia chiaro, il riferimento non è la stretta attualità; si parla, bensì, di quasi trent’anni fa, quando un nubifragio colpì, in maniera drammatica, alcune zone della Calabria, mettendo in gravissime difficoltà interi paesi: ebbene, quella ‘follia’ libera il Comune dalla responsabilità per i danni subiti dai propri cittadini. Durissimo, difatti, il bilancio, con moltissime famiglie che si ritrovarono la casa allagata, letteralmente. Ma il ‘peso’ dei danni, come detto, non può essere scaricato sulle ‘spalle’ del Comune, salvato proprio dalla assoluta eccezionalità del fenomeno atmosferico. Difficile da immaginare la situazione vissuta da molte famiglie, messe in ginocchio dal clamoroso nubifragio abbattutosi sulla Calabria «nella notte tra il 27 e il 28 novembre 1984»: intere zone abitate ‘invase’ dall’acqua caduta in poche ore, con relativi appartamenti distrutti. Proprio per questo, una delle famiglie colpite dal «nubifragio» cita in giudizio il Comune, chiedendo un risarcimento per «i danni provocati dall’allagamento nell’abitazione di loro proprietà e nell’annesso giardino». A sostegno di questa richiesta la sottolineatura delle carenze del Comune nella realizzazione e nella manutenzione delle «opere di canalizzazione e convogliamento delle acque piovane». Tale domanda, però, viene rispedita al mittente, sia in primo che in secondo grado: decisiva, per i giudici, la «valutazione del carattere eccezionale ed imprevedibile del nubifragio, di vaste dimensioni». Meteo folle. Ma tale visione è davvero corretta? A domandarlo, ovviamente, ancora la famiglia colpita dal nubifragio, la quale contesta, soprattutto, la «mancata ammissione di una consulenza tecnica d’ufficio, volta ad accertare lo stato delle opere di convogliamento effettuate dal Comune e se opere idonee avrebbero potuto quantomeno attenuare la portata dei danni». Anche questa obiezione risulta assolutamente inutile. Tranchant la decisione dei giudici del ‘Palazzaccio’, i quali condividono in pieno l’ottica adottata nei giudizi di merito: è acclarata – anche «attraverso pertinente documentazione» sugli «effetti devastanti del nubifragio, arrecati all’intero comprensorio territoriale colpito» – la «assoluta eccezionalità dei fenomeni di precipitazione atmosferica» che, all’epoca, colpirono alcuni zone della Calabria, provocando anche «eventi di straripamento di corsi d’acqua e movimenti franosi». Alla luce della «eccezionalità del fenomeno atmosferico», concludono i giudici, è da considerare ‘bruciata’ l’ipotesi di una connessione tra «pretese condotte colpose imputabili all’ente comunale» e i «danni» lamentati dalla famiglia che ha citato in giudizio il Comune.

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Rimborso spese al genitore che ha mantenuto il figlio: se ha natura indennitaria è giusta la determinazione equitativa

In materia di dichiarazione giudiziale di paternità e maternità naturale, il rimborso delle spese spettanti al genitore che ha mantenuto il figlio fin dalla nascita ha natura indennitaria. Pertanto, il giudice di merito può usare il criterio equitativo per determinare le somme dovute a titolo di rimborso. Lo ha stabilito la Cassazione nella sentenza 3559/14.

Il caso

Il Tribunale dei Minorenni di Napoli dichiarava non luogo a provvedere in merito alla richiesta di dichiarazione di paternità proposta da una madre nei confronti di un uomo e disponeva, a carico di quest’ultimo, il versamento, in via equitativa, di un assegno mensile a titolo di contributo per il mantenimento della figlia, condannandolo, inoltre, al pagamento di cinquemila euro a titolo di contributo al mantenimento per il periodo precedente. La donna ricorre per Cassazione, lamentando l’esiguità della somma e il mancato riconoscimento del diritto al rimborso di una quota delle spese straordinarie da lei anticipate. Natura equitativa della valutazione dell’indennizzo. La ricorrente non contesta il ricorso all’equità come criterio per la valutazione dell’indennizzo: ella tiene conto, cioè, di quanto affermato dalla Suprema Corte, secondo cui, in materia di dichiarazione giudiziale di paternità e maternità naturale, il rimborso delle spese spettanti al genitore che ha mantenuto il figlio fin dalla nascita ha natura indennitaria, essendo diretta ad indennizzare il genitore che ha riconosciuto il figlio a causa degli esborsi sostenuti da solo per il mantenimento della prole. Pertanto, il giudice di merito può usare il criterio equitativo per determinare le somme dovute a titolo di rimborso, costituendo quest’ultimo parametro di valutazione del pregiudizio non solo in ipotesi di responsabilità extracontrattuale. La ricorrente, contesta, invece, le sentenze di merito perché, nell’applicare il criterio equitativo, nella determinazione delle somme pregresse non motivano il criterio di quantificazione e non consentono un controllo giurisdizionale delle decisioni. Gli Ermellini respingono la censura, facendo notare che i criteri utilizzati dal giudice di merito – le esigenze della minore e la condizione economica dei genitori – sono stati ben evidenziati. Gli indici ISTAT utilizzati per la determinazione sono corretti, tenendo conto del tenore di vita medio dei genitori e del fatto che l’uomo doveva anche provvedere al mantenimento di due figli nati da un precedente matrimonio. Il ricorso, alla luce di ciò, va respinto.

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martedì 29 aprile 2014

Per limitare la corrispondenza di un detenuto occorre una motivazione specifica e un pericolo concreto

Dalla motivazione del provvedimento di trattenimento della corrispondenza da parte del Giudice, deve emergere un’adeguata disamina del caso concreto da cui derivi un pericolo specifico, non bastando un semplice richiamo ad un pericolo generico per l’ordine e la sicurezza dell’istituto. È quanto emerge dalla sentenza 7286/14 della Cassazione.

Il caso

Nel novembre 2012, il Magistrato di Sorveglianza di Novara ha emesso un decreto di nulla osta al trattenimento di una missiva in arrivo ad un detenuto, sottoposto al regime differenziato di cui all’art.41-bis ord. pen., giustificando tale decisione per la dubbia interpretazione del contenuto della lettera, potenzialmente capace di nascondere delle comunicazioni lesive per l’ordine e la sicurezza. Il tribunale di Sorveglianza di Torino, nel febbraio 2013, conferma la decisione del Magistrato di sorveglianza, comprese le motivazioni. Il difensore del detenuto propone ricorso per cassazione accusando un vizio di violazione di legge ed un vizio di motivazione, causato da un contenuto generico dell’ordinanza, in cui mancano riferimenti specifici a quanto scritto nella lettera o al comportamento del detenuto. La motivazione deve essere estremamente specifica. L’art.15 Cost. stabilisce che la libertà di corrispondenza possa essere limitata soltanto da un provvedimento giudiziario specificamente motivato. Ciò vale anche per i detenuti in regime speciale, per cui, in questo ambito, valgono le regole previste dai commi da 1 a 4 dell’art.18 ter legge n. 354/1975, da cui si ricava che i provvedimenti di trattenimento possano essere adottati soltanto per esigenze attinenti alle indagini, di prevenzione di reati, oppure per ragioni di sicurezza dell’istituto penitenziario. Per questo motivo il Giudice non potrà limitarsi ad esporre un generico pericolo se manca qualsiasi indicazione di alcun elemento di fatto, da cui desumere tale rischio. Alla luce di queste ragioni, la Cassazione ha accolto il ricorso presentato dal difensore del detenuto e lo ha rinviato al Tribunale di Sorveglianza, in quanto il Magistrato di Sorveglianza ha motivato la sua decisione soltanto con dei pericoli generici, non legati ai presupposti di legge. Il Tribunale di Sorveglianza, invece, nella conferma dell’ordinanza, ha recepito acriticamente gli stessi motivi, qualificando come «criptico» il contenuto della lettera. In questo modo, il Tribunale ha compiuto lo stesso errore, evitando di esplicitare alcun dato fattuale che permettesse di comprendere il percorso valutativo seguito.



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Guerra tra giornali online: il collegamento ipertestuale non viola il diritto d’autore se il documento è liberamente accessibile

L’art. 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 maggio 2001, sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione, deve essere interpretato nel senso che non costituisce un atto di comunicazione al pubblico, ai sensi di tale disposizione, la messa a disposizione su un sito Internet di collegamenti cliccabili verso opere liberamente disponibili su un altro sito Internet( Corte di Giustizia UE, Quarta Sezione, sentenza su causa C-466/12). Nulla vieta che lo Stato membro possa stabilire una maggiore tutela dei titolari del diritto d’autore, includendo nella nozione di comunicazione al pubblico più forme di messa a disposizione di quelle disposte da tale articolo. Sono queste le conclusioni cui è giunta la Corte di Giustizia UE, con la sentenza C-466/12 depositata recentemente, nel risolvere una lite tra due giornali svedesi online.

Il caso

Una testata offriva ai propri clienti, «secondo le loro necessità, liste di collegamenti Internet cliccabili verso articoli pubblicati da altri siti Internet». I ricorrenti, redattori di detti articoli sulla rivista rivale, contestavano la violazione del loro diritto d’autore, perché il collegamento ipertestuale non era tale da far percepire all’utente il rinvio ad un altro sito web e perché non lo avevano autorizzato. I ricorrenti agirono penalmente per il rispetto dei loro diritti e per la refusione dei danni, pur ammettendo che le opere erano di libero accesso al pubblico. È questo il punto focale della vicenda fatto valere dal convenuto quale scriminante del suo comportamento, ribadendo che il link era una mera segnalazione «ai suoi clienti dei siti Internet in cui si trovano le opere di loro interesse», perciò lecita. La Corte, competente a dirimere la lite, ha, quindi, sollevato queste pregiudiziali: «1) se il fatto che un soggetto diverso dal titolare del diritto d’autore su una determinata opera fornisca un collegamento cliccabile alla stessa sul proprio sito Internet si configuri come comunicazione al pubblico dell’opera ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della [direttiva 2001/29]. 2) Se sia rilevante, ai fini della soluzione della prima questione, il fatto che l’opera alla quale rimanda il collegamento si trovi su un sito Internet accessibile a chiunque senza limitazioni oppure che l’accesso sia in qualche modo limitato. 3) Se, ai fini della soluzione della prima questione, si debba distinguere il caso in cui l’opera, dopo che l’utente abbia cliccato il collegamento, sia presentata su un altro sito Internet da quello in cui l’opera sia presentata con modalità tali da offrire al cliente l’impressione di restare nello stesso sito Internet. 4) Se uno Stato membro possa stabilire una maggiore tutela del diritto esclusivo dell’autore includendo nella nozione di comunicazione al pubblico più forme di messa a disposizione di quante stabilite all’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29». La CGUE ha risolto come sopra. La materia è regolata dal Trattato OMPI (organizzazione mondiale della proprietà intellettuale) del 16/12/96, recepito dalla decisione 2000/278/CE del Consiglio del 16/3/00. «L’articolo 1, paragrafo 4, del Trattato dell’OMPI sul diritto d’autore prevede che le parti contraenti devono conformarsi agli articoli da 1 a 21 della Convenzione per la protezione delle opere artistiche e letterarie, firmata a Berna il 9 settembre 1886 (Atto di Parigi del 24 luglio 1971), nel testo risultante dalla modifica del 28 settembre 1979 (in prosieguo: la «Convenzione di Berna»)». Inoltre i Considerando 1, 4, 6, 7, 9 e 19 della Direttiva 2001/29 auspicano un’armonizzazione, a livello comunitario ed internazionale, delle norme sulla tutela del diritto di autore finalizzato a proteggere lo stesso, i diritti connessi ed a creare un libero mercato volto a favorire la libera concorrenza ed a contribuire «alla salvaguardia e allo sviluppo della creatività nell’interesse di autori, interpreti o esecutori, produttori e consumatori, nonché della cultura, dell’industria e del pubblico in generale». L’art. 3, in questione, sancisce che «1. gli Stati membri riconoscono agli autori il diritto esclusivo di autorizzare o vietare qualsiasi comunicazione al pubblico, su filo o senza filo, delle loro opere, compresa la messa a disposizione del pubblico delle loro opere in maniera tale che ciascuno possa avervi accesso dal luogo e nel momento scelti individualmente. (…)3. I diritti di cui ai paragrafi 1 e 2 non si esauriscono con alcun atto di comunicazione al pubblico o con la loro messa a disposizione del pubblico, come indicato nel presente articolo». Ogni comunicazione al pubblico di un’opera coperta da copyright deve essere autorizzata dall’autore e/o dal titolare dei diritti di sfruttamento. La nozione in esame «consta di due elementi cumulativi, vale a dire «un atto di comunicazione» di un’opera e la comunicazione di quest’ultima a un «pubblico» ( ITV Broadcasting e a., C-607/11, del 7/3/13, inedita)». Il primo deve essere inteso «in senso ampio (v. Football Association Premier League e a., C-403/08 e C-429/08,del 4/10/11) e ciò allo scopo di garantire, come risulta segnatamente dai considerando 4 e 9 della direttiva 2001/29, un elevato livello di protezione ai titolari del diritto d’autore». La «messa a disposizione del pubblico» deve essere potenziale: gli utenti devono poter accedere alle opere protette, senza che rilevi se si avvarranno di tale facoltà o meno. Nella fattispecie i documenti erano accessibili senza alcun limite, perché disponibili gratuitamente sul giornale online con cui collaborano i ricorrenti (SGAE, C-306/05 del 7/12/06). Inoltre la comunicazione deve essere rivolta ad un pubblico nuovo, non considerato dagli autori e sia quella iniziale che finale deve avvenire con le stesse tecniche di diffusione. Orbene non vi è dubbio che la fattispecie sia sussumibile sotto questa definizione, perché il servizio è offerto «tramite collegamento ipertestuale cliccabile». L’autorizzazione non era necessaria. Infatti difetta la condizione di «pubblico nuovo», poiché il link rinviava direttamente al materiale consultabile su un altro sito consultabile senza alcuna restrizione: tutti gli internauti potevano leggerlo. Non potendosi, quindi, invocare tale protezione, non era necessaria alcuna autorizzazione degli autori per crearlo. Ampliamento della tutela. Per raggiungere i fini prefissi da questa normativa, stante l’obbligo di ciascun Stato membro di non adottare decisioni e/o leggi ad essa contrarie (Luksan, C-277/10 del 9/2/12), nulla vieta che «possa stabilire una maggiore tutela dei titolari del diritto d’autore, includendo nella nozione di comunicazione al pubblico più forme di messa a disposizione di quelle disposte da tale articolo» o che possa stipulare convenzioni con altri stati per implementarla.

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La posta elettronica certificata nel processo telematico: un caso pratico

La PEC e i depositi telematici. Saranno omessi, in questa sede, riferimenti puntuali al caso di specie e ai singoli passaggi argomentativi effettuati dal giudice, per i quali si rimanda, appunto, al relativo articolo.

Nella motivazione, il Tribunale di Milano si occupa del problema dell’individuazione del momento in cui si perfeziona il deposito telematico, per il quale si deve fare riferimento, secondo quanto previsto dall’art. 13, commi 2 e 3, delle regole tecniche (d.m. n. 44/2011) e dall’art. 16-bis, comma 7, del decreto “sviluppo” (d.l. n. 179/2012), alla ricevuta di avvenuta consegna rilasciata dal gestore di posta elettronica certificata del Ministero della giustizia. Si tratta proprio della ricevuta di avvenuta consegna che, nell’ambito del sistema della posta elettronica certificata, viene rilasciata dal gestore di PEC del destinatario: essa costituisce la prova che il messaggio gli è effettivamente pervenuto e certifica il momento della consegna. In caso di depositi telematici di atti processuali la peculiarità consiste nel fatto che tale ricevuta è rilasciata dal gestore di PEC del Ministero del giustizia. Tuttavia, mentre l’art. 16-bis, comma 7, d.l. n. 179/2012 si limita a considerare perfezionato il deposito semplicemente nel momento in cui la ricevuta viene generata, l’art 13, comma 3, delle regole tecniche precisa che se tale ricevuta «è rilasciata dopo le ore 14 il deposito si considera effettuato il giorno feriale immediatamente successivo».

La soluzione del Tribunale di Milano e le impostazioni alternative. Nella pronuncia in esame, dove trovano spazio considerazioni generali sulla disciplina dei termini processuali e sulla stessa ratio del processo telematico, l’apparente antinomia fra le due disposizioni è risolta ritenendo prevalente la norma di legge su quella tecnica, essendo la prima gerarchicamente superiore e temporalmente successiva rispetto alla seconda. Nonostante la conclusione cui giunge il Tribunale di Milano – che ritiene tempestivo il deposito telematico anche quando la ricevuta di avvenuta consegna viene rilasciata dopo le ore 14 – abbia trovato ampia condivisione, stante l’irragionevolezza di una simile limitazione in un sistema informatico per definizione sempre attivo e disponibile, occorre rilevare che fin dai primi commenti sono stati evidenziati alcuni punti critici nell’impostazione adottata nel provvedimento.

Si è infatti sostenuto da parte di alcuni che, in realtà, le due disposizioni non andrebbero a sovrapporsi, ma avrebbero un campo di applicazione differente: l’art. 16-bis, comma 7, d.l. n. 179/12 si limiterebbe ad individuare il criterio per stabilire il momento del deposito dell’atto telematico fra più soluzioni astrattamente ipotizzabili, quali, per esempio, la generazione della ricevuta di accettazione o l’accettazione della busta da parte del cancelliere; l’art. 13, comma 3, d.m. n. 44/11, al contrario, indicherebbe come applicare tale criterio e i suoi effetti concreti. In altre parole, una volta chiarito ex art. 16-bis, comma 7, che si deve far riferimento alla ricevuta di avvenuta consegna, le regole tecniche interverrebbero specificando esattamente il giorno in cui il deposito si considera perfezionato a seconda del momento in cui la ricevuta è generata. D’altra parte – affermano i sostenitori di tale opzione interpretativa – non potrebbe sussistere incompatibilità fra i due articoli, in quanto è lo stesso art. 16-bis che rinvia espressamente alla “normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici”, cui è senza dubbio riconducibile il d.m. n. 44/2011. Tuttavia, se da un lato non può ignorarsi l’esistenza del richiamo operato dall’art. 16-bis, dall’altro si può osservare come, sul punto, il settimo comma detti una regola specifica, prevalente, per le ragioni esposte in motivazione, rispetto alla norma tecnica e tale da limitare la portata di detto rinvio. In ogni caso anche lo stesso tenore letterale della disposizione sembra indicare, più che un criterio, direttamente l’istante in cui il deposito si perfeziona.

Sotto un diverso punto di vista ci si è addirittura chiesto se l’art. 16-bis sia applicabile al deposito telematico “facoltativo”, come quello su cui si è pronunciato il Tribunale di Milano: l’incipit del settimo comma, infatti, si riferisce espressamente al «deposito di cui ai commi da 1 a 4», vale a dire alle ipotesi in cui, a partire dal prossimo 30 giugno, è previsto l’obbligo di trasmissione per via telematica. Nel caso di specie, invece, la memoria conclusionale è stata depositata in base al decreto emesso ex art. 35, d.m. n. 44/2011 che autorizza l’invio telematico di atti con valore legale al Tribunale di Milano, rimettendo tuttavia al singolo difensore la decisione se utilizzare tale modalità o procedere con il tradizionale deposito cartaceo. Probabilmente il legislatore con tale espressione ha inteso semplicemente fare riferimento al deposito telematico tout court degli atti indicati dall’art. 16-bis, senza distinzioni in termini di obbligo o facoltà. E la comparsa conclusionale rientra senz’altro fra gli atti previsti dal primo comma.

La prova del momento del deposito telematico. La decisione in commento offre peraltro alcuni spunti interessanti in tema di prova del momento del deposito dell’atto telematico. Dalla lettura della motivazione risulta che tale istante è stato individuato in base ad un «estratto del sistema consolle dell’avvocato allegato alla memoria di replica» – da cui l’invio risultava effettuato nel primo pomeriggio del giorno di scadenza del termine – e ad un «estratto del sistema SICID certificato dalla cancelleria». Non è stata dunque ritenuta indispensabile la produzione della «prova regina» del perfezionamento del deposito, consistente nel messaggio di posta elettronica certificata contenente la ricevuta di avvenuta consegna, firmata digitalmente dal gestore di PEC ministeriale e contenente il messaggio originale comprensivo di atto e relativi allegati. Correttamente il giudice milanese osserva che se dai sistemi informatici di cancelleria la busta telematica risultava pervenuta nel tardo pomeriggio del giorno della scadenza, ciò implica necessariamente che la ricevuta di avvenuta consegna sia stata generata in un momento antecedente e dunque l’atto poteva considerarsi trasmesso nel giorno del termine, anche se la busta è stata effettivamente accettata dal personale di cancelleria solo la mattina successiva.

Il deposito della conclusionale e la restituzione del fascicolo di parte. Da ultimo la pronuncia si occupa di un’ulteriore questione, che comporta riflessi importanti specificamente sul deposito per via telematica della comparsa conclusionale. Ex art. 169, comma 2, c.p.c. ciascuna parte deve restituire il proprio fascicolo precedentemente ritirato «al più tardi al momento del deposito della comparsa conclusionale». Almeno fino a quando non si avrà a disposizione un fascicolo completamente informatico – ed un forte impulso in tal senso verrà dall’entrata in vigore dell’obbligatorietà – la parte che opta per il deposito telematico rimane comunque tenuta a recarsi in cancelleria per restituire il proprio fascicolo, vanificando in tal modo i vantaggi della trasmissione dell’atto via posta elettronica certificata. Si noti come, in relazione al termine per la restituzione del fascicolo di parte, l’art. 169, comma 2, c.p.c. non faccia riferimento alla scadenza dei «60 giorni dalla rimessione della causa al collegio», prevista per il deposito della comparsa conclusionale, ma proprio al momento del deposito della conclusionale stessa: stando alla lettera della norma la parte è così obbligata al deposito contestuale della memoria e del fascicolo, dovendosi ritenere non rispettosa della disposizione la restituzione del solo fascicolo in un momento successivo, ancorché entro la scadenza del termine per la conclusionale.

Che cosa succede, dunque, se il fascicolo viene restituito fuori termine, come si è verificato nella vicenda in esame? Il Tribunale, conformandosi ad un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 15672/2011 e le pronunce qui richiamate), ritiene innanzi tutto che tale termine non sia perentorio e che dalla sua inosservanza non conseguano preclusioni all’esame dei documenti ivi inseriti, a meno che la controparte non sollevi «eccezioni specifiche relative alla lesione del suo diritto di difesa». Nel caso di specie la convenuta si era limitata a contestazioni generiche, che il giudice ha ritenuto di poter agevolmente superare sulla base della considerazione che si trattava di materiale ritualmente prodotto nei termini e di cui la convenuta era a conoscenza. Peraltro il Tribunale richiama precedenti di legittimità (Cass. n. 5681/2006) che, nella più grave ipotesi di mancata restituzione del fascicolo, da un lato statuiscono che la decisione debba essere presa a prescindere dai documenti ivi contenuti, dall’altro ammettono la possibilità della loro produzione nel giudizio di appello, trattandosi di documenti già depositati in primo grado. Dunque il giudice, nei limiti del possibile, deve tenerne comunque conto, anche in un’ottica di economia processuale. I vantaggi di una simile impostazione sotto il profilo dei depositi telematici sono evidenti, consentendo alle parti di poter inviare telematicamente le proprie comparse conclusionali nel rispetto dei termini di legge e di poter procedere successivamente, in occasione del primo accesso all’ufficio giudiziario, alla restituzione del fascicolo.

Ancora una volta dunque, e sotto diversi punti di vista, la giurisprudenza colma in via interpretativa lacune e contraddizioni dell’impianto normativo: è tuttavia fortemente auspicabile, anche in ragione dell’imminente entrata in vigore dell’obbligatorietà e al fine di dare maggiore fiducia e certezze agli “utenti” del sistema, che sia lo stesso legislatore a chiarire i punti ancora oscuri della disciplina, per alcuni aspetti immatura, del processo telematico, tenendo in maggiore considerazione di quanto fatto finora le peculiarità e le potenzialità degli strumenti informatici utilizzati.

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lunedì 28 aprile 2014

Convivente con una donna italiana e padre di un minore: confermata comunque l’espulsione

Respinta l’ipotesi dell’applicazione della tutela prevista per gli stranieri conviventi con parenti o con il coniuge. Decisiva la constatazione che il rapporto para-familiare, sul suolo italico, non sia riconosciuto ufficialmente nell’ordinamento giuridico dello Stato di appartenenza del cittadino straniero (Cassazione, ordinanza 3373/14).

Il caso

Convivenza more uxorio con una donna italiana, e, a completare il quadro para-familiare, anche la presenza di un minore. Ciò, però, non può mettere in discussione l’espulsione dall’Italia del cittadino straniero – originario della Liberia –, privo di “titolo di soggiorno” e la cui domanda di protezione internazionale sia stata respinta. A dare il ‘la’ alla vicenda è la decisione del Prefetto di «espellere dal territorio nazionale un cittadino della Liberia», e consequenziale è l’azione del Questore che dispone «l’allontanamento dello straniero». E a chiudere il cerchio provvede il Giudice di pace, ritenendo corretta l’«espulsione» dell’uomo, soprattutto tenendo presente l’«assenza di titolo di soggiorno» e la risposta negativa, data dal Tribunale, alla «domanda di protezione internazionale». Per mettere in discussione tale decisione, però, l’uomo richiama, ancora una volta, la propria ‘famiglia’ in Italia: egli sostiene di convivere con una «cittadina italiana» e di essere «padre di un minore». Perché, domanda l’uomo, escludere, allora, l’applicazione della tutela ‘speciale’ prevista, nel ‘Testo unico sull’immigrazione’, per gli «stranieri conviventi con parenti o con il coniuge, di nazionalità italiana»? Ma l’obiezione mossa dall’uomo viene respinta dai giudici della Cassazione, i quali, difatti, confermano la legittimità dell’«espulsione». Alla base delle valutazioni dei giudici del ‘Palazzaccio’ due riferimenti fondamentali: la sentenza numero 376 del 2000 della Corte Costituzionale – che «ha esteso la protezione invocata dalla madre al marito convivente» – e la sentenza numero 192 del 2006, sempre della Corte Costituzionale – che ha sancito come corretta la «mancata estensione della protezione al mero convivente della donna in gravidanza o della puerpera». Andando nei dettagli, comunque, i giudici chiariscono che la «causa di esclusione dell’espulsione», prevista in caso di «sussistenza di un rapporto di coniugio, e di convivenza, dell’espellendo con una donna in stato di gravidanza», può essere operativa sì, però a patto che «tale rapporto trovi riconoscimento nell’ordinamento giuridico dello Stato di appartenenza dello straniero». Mancando questo elemento, è inappuntabile l’«espulsione» dello straniero, soprattutto tenendo presente «l’interesse nazionale al controllo dell’immigrazione».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Convivente con una donna italiana e padre di un minore: confermata comunque l’espulsione

Guida in stato di ebbrezza: imputato responsabile sulla base dell’accertamento del tasso alcolemico. Ma non sempre…

Se il conducente è stato coinvolto in un incidente stradale e sottoposto a cure mediche, l’accertamento del tasso alcolemico richiesto ai sanitari dagli organi di p.g., è utilizzabile ai fini dell’affermazione della responsabilità dell’interessato, indipendentemente dal consenso che costui abbia o meno prestato all’effettuazione dell’accertamento stesso. È quanto emerge dalla sentenza della Cassazione 6786/14.

Il caso

Il Tribunale di Chieti condannava un uomo a otto mesi di reclusione e a 4000 euro di ammenda, con annessa sospensione della patente di guida, per guida in stato di ebbrezza. L’uomo ricorre in Cassazione, censurando il fatto che la sua penale responsabilità fosse stata accertata solo sulla base di accertamenti ematochimici. Gli organi di polizia intervenuti a seguito dell’incidente, infatti, avevano richiesto agli operatori sanitari coinvolti il prelievo e l’analisi chimica del sangue dell’imputato senza che nessun protocollo medico di cura o di pronto soccorso si fosse espresso in tal senso e senza il consenso espresso dell’uomo. Le risultanze delle analisi, quindi, avrebbero dovuto ritenersi inutilizzabili. Richiamando sue precedenti pronunce, la Suprema Corte afferma che se il conducente è stato coinvolto in un incidente stradale e sottoposto a cure mediche, l’accertamento del tasso alcolemico richiesto ai sanitari dagli organi di p.g., è utilizzabile ai fini dell’affermazione della responsabilità dell’interessato, indipendentemente dal consenso che costui abbia o meno prestato all’effettuazione dell’accertamento stesso. Il primo presupposto di fatto, il coinvolgimento in un sinistro stradale, è un dato oggettivo, in quanto conta solo il pericolo causato alla circolazione. Per quanto concerne il secondo presupposto, il prelievo ematico deve essere eseguito dal personale sanitario della struttura presso cui è stato condotto l’interessato, nell’ambito di un protocollo medico di pronto soccorso. Se il conducente si oppone alle cure mediche e, quindi, al prelievo di sangue e all’accertamento del tasso alcolemico disposti dai sanitari, è punito con la pena ex art. 186, co. 2, lett. c), c.d.s., sempreché sia stato informato della richiesta in tal senso da parte della p.g. Se, invece, i sanitari non hanno ritenuto di sottoporre il conducente a cure mediche o a prelievo ematico, la richiesta in ordine al tasso alcolemico, in presenza di un dissenso espresso dell’interessato, è illegittima e l’accertamento, comunque effettuato, è inutilizzabile in ambito processuale. Gli Ermellini tengono a precisare che, in presenza di un dissenso espresso dell’interessato, la p.g. può richiedere il prelievo ematico anche se non sia stata ritenuta necessaria la sua sottoposizione a cure mediche, deducendo il consenso del conducente anche da un atteggiamento positivo, sebbene verbalmente non espresso. Mentre, se si richiede il consenso, questo non è ricavabile da fatti concludenti ma deve essere espresso. Ciò in base alla lettura dell’art. 186, co. 7, s.d.s. La stessa Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla materia, ha affermato che il legislatore ha cercato di bilanciare le esigenze probatorie di accertamento del reato e la garanzia costituzionale della libertà personale, dettando una disciplina specifica e settoriale dell’accertamento sul conducente in apparente stato di ebbrezza, prevedendo la possibilità di rifiutare tale accertamento ma con la comminatoria di una sanzione penale per tale indisponibilità. Ne consegue che è fuori discussione la legittimità della disciplina del c.d.s. laddove, nell’indicare le modalità degli accertamenti tecnici per rilevare lo stato di ebbrezza, non prevede alcun preventivo consenso dell’interessato al prelievo dei campioni. Lo stesso Giudice delle Leggi ha individuato quali sono i trattamenti sanitari, c.d. invasivi, consentiti, tra cui il prelievo ematico e ha ritenuto che le modalità previste dall’art. 186, co. 5, c.d.s. trovano il loro fondamento nell’art. 32, co. 2, Cost., ferma restando la possibilità di rifiutare il controllo. Nel caso di specie, il prelievo subito dal ricorrente è stato effettuato in assenza di un suo espresso dissenso e, quindi, infondate sono le censure relative alla inutilizzabilità degli esami ematochimici.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Guida in stato di ebbrezza: imputato responsabile sulla base dell’accertamento del tasso alcolemico. Ma non sempre…

Can che abbaia... è colpevole solo se disturba un numero indeterminato di persone

La rilevanza penale della condotta produttiva di rumori, censurati come fonte di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, richiede l’incidenza sulla tranquillità pubblica, pur se poi a lamentarsene sia solo una persona. E’ questo il principio ammesso dalla Cassazione nella sentenza 6685/14, in cui accoglie il ricorso di una coppia foggiana condannata per aver causato disturbo ai vicini di casa a causa dei latrati diurni e notturni del proprio cane.

Il caso

La coppia viene accusata, ai sensi dell’art. 659 c.p., di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone e congiuntamente, ex art. 672 c.p., di omessa custodia e malgoverno di animali, perché aveva disturbato ripetutamente la quiete dei vicini di casa. In Cassazione la coppia nega l’attitudine della condotta omissiva ad arrecare nocumento alla pubblica quiete, perché l’abitazione degli imputati e delle parti civili erano situate in aperta campagna, conseguentemente lamenta l’erronea applicazione della legge penale, nel caso di specie dell’art. 672 c.p., perché trattasi di fattispecie depenalizzata. Gli ermellini accolgono il ricorso, ritenendo che la rilevanza penale della condotta produttiva di rumori, censurati come fonte di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, richiede l’incidenza sulla tranquillità pubblica, in quanto l’interesse tutelato del legislatore è la pubblica quiete. Infatti, secondo precedente orientamento (vedi sentenza n. 47298/11) i rumori devono avere una diffusività tale che l’evento di disturbo sia potenzialmente idoneo ad essere risentito da un numero indeterminato di persone, pur se poi concretamente solo taluna se ne lamenti.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Can che abbaia... è colpevole solo se disturba un numero indeterminato di persone

Separazione, alimenti: no alla sospensione della prescrizione

La sospensione della prescrizione prevista dall'articolo 2941 del c.c. per i coniugi non opera in caso di separazione. Sulla base di questo principio che nasce non da una interpretazione letterale della norma ma che è dettata dall'«evoluzione del quadro normativo e della stessa coscienza sociale», la Corte di cassazione, con la sentenza 7981/2014, ha bocciato il ricorso contro la prescrizione quinquennale del diritto del coniuge beneficiario al pagamento dell'assegno di mantenimento.

La vicenda

La vicenda riguardava la richiesta rivolta da una donna al proprio coniuge separato di versarle circa 49mila euro a titolo di differenze tra quanto dovuto e quanto effettivamente corrisposto dal 1980 al 2002. Dopo aver avuto ragione in primo grado (secondo il giudice infatti il rapporto di coniugio sospendeva la prescrizione), la Corte d'Appello ha accolto l'eccezione del marito.

La sentenza di appello

La pronuncia si basava anche su alcuni precedenti della Cassazione (12333/1998 e 6975/2005) nei quali si era affermato - tanto in relazione al divorzio, quanto alla separazione personale dei coniugi - che la prescrizione del diritto alla corresponsione dell'assegno di mantenimento non decorre dalla data della sentenza di separazione o di divorzio, bensì dalle singole scadenze di pagamento. Per cui, ad avviso della Corte territoriale, «tali arresti pur non esaminando specificamente il problema della sospensione della prescrizione fra coniugi separati, avevano posto le premesse logiche per il superamento dell'indirizzo tradizionale secondo cui la separazione personale, creando soltanto un'attenuazione del vincolo, non osta alla sospensione della prescrizione».

Infatti, osservava la Corte, «la ratio della disposizione contenuta nell'articolo 2941 c.c., intesa ad evitare che la riluttanza a convenire in giudizio il coniuge debitore si risolva in un vantaggio per il medesimo, non ricorre nell'ipotesi del coniuge separato, in quanto in tal caso l'unità familiare è già entrata in crisi e si è già verificato un intervento giudiziale nel momento della pronuncia della separazione». Del resto, «i rapporti patrimoniali fra coniugi separati non si atteggiano in maniera diversa rispetto ai coniugi già divorziati, per i quali la prescrizione non viene sospesa: conseguentemente anche nel primo caso deve ritenersi inoperante la disposizione contenuta nell'art. 2941, n. 1, cc.». Da qui la dichiarazione della prescrizione fino al gennaio 1998.

La motivazione della Cassazione

Una posizione condivisa dalla Suprema corte secondo cui l'interpretazione della legge deve avere anche «una funzione evolutiva ed adeguatrice, nel cui ambito ben può realizzarsi un risultato di tipo restrittivo, nel senso di ritenere, con riferimento al caso in esame, che la norma contenuta nell'art. 2941, n. 1, c.c., si riferisca alla vincolo coniugale pienamente inteso, con esclusione del regime della separazione personale».

Correttamente, dunque, il giudice di merito si è rifatto a due pronunce di Piazza Cavour (2005/6975; 12333/1998) in cui si afferma che: «In tema di separazione dei coniugi e di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il diritto alla corresponsione dell'assegno di mantenimento, in quanto avente ad oggetto più prestazioni autonome, distinte e periodiche, si prescrive non a decorrere da un unico termine rappresentato dalla data della pronuncia della sentenza di separazione o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, bensì dalle singole scadenze di pagamento, in relazione alle quali sorge, di volta in volta, l'interesse del creditore a ciascun adempimento».

«In effetti - osservano gli ermellini -, il trattamento indifferenziato delle ipotesi concernenti la prescrizione di diritti di natura post-matrimoniale e di azioni esercitate fra coniugi separati trova la sua giustificazione nel fatto che in entrambi i casi i diritti e le azioni esercitate non solo scaturiscono dalla crisi coniugale, ma trovano di regola il loro fondamento in pronunce giurisdizionali conclusive di controversie già intercorse fra le stesse parti».

La valorizzazione delle posizioni individuali

«In generale - conclude la Corte - , deve rilevarsi che l'interpretazione che qui viene accolta della norma contenuta nell'art. 2941 n. 1 c.c. sia da inquadrarsi nel generale e progressivo fenomeno di valorizzazione delle posizioni individuali dei membri della famiglia rispetto al principio della conservazione dell'unità familiare che per lungo periodo si è imposta come elemento fondante dell'interpretazione delle norme e dell'individuazione dei principi posti a fondamento del diritto di famiglia».

fonte: ilsole24ore.com\\Separazione, alimenti: no alla sospensione della prescrizione

giovedì 24 aprile 2014

Promuovere e incrementare le attività turistiche e commerciali di una società aeroportuale non è reato

Non riveste la qualifica di pubblico ufficiale, ovvero quella di incaricato di un pubblico servizio, il componente del consiglio di amministrazione di un’azienda speciale aeroportuale, che abbia come scopo sociale quello di promuovere il completamento delle strutture dell’aeroporto ed incrementare le attività turistiche e commerciali ad esso collegate, stante la natura privatistica dell’ente privo di poteri autoritativi o certificativi e costituito per atto pubblico a norma dell’art. 12 c.c. (abrogato dall’art. 11, d.P.R. 10 febbraio 2000, n. 361), in epoca successiva all’entrata in vigore della L. n. 70/1975, il cui art. 4 dispone che nessun nuovo ente pubblico può essere istituito se non per legge. A ribadirlo è la Cassazione, nella sentenza 6145/14.

Il caso

Il GUP di Catania aveva dichiarato il non luogo a procedere per insussistenza del fatto, ex art.425 c.p.p., nei confronti di tre soggetti dipendenti della SAC Service, per avere nella loro qualità di incaricati di pubblico servizio effettuato la cessione del contratto di lavoro di uno dei tre imputati a favore di altra azienda la SAC spa, procurando così un intenzionale vantaggio patrimoniale. Nel ricorso è stato dedotto il vizio di legge e di motivazione, in quanto la cessione del contratto effettuata da una società ad un’altra sarebbe in contrasto con l’art. 18 d.l. 112/08, che non prevede alcuna forma di assunzione diretta, ma impone il rispetto dei principi di pubblicità, imparzialità e trasparenza, rendendo indispensabile per l’assunzione la predisposizione di bandi di gara o forme di pubblicità adeguata. La Corte, a fronte dei vizi dedotti, rigetta il ricorso tenendo conto di tre aspetti contenuti nella memoria difensiva: in primis la considerazione che la cessione del contratto di lavoro si configura come un trasferimento infragruppo e non come una nuova assunzione; in secondo luogo la fattispecie difetterebbe dell’elemento psicologico del reato; e da ultimo, ma non per importanza, si contesta la sussistenza della qualifica di incaricati di pubblico servizio in capo agli imputati, perché l’attività svolta di promozione e incremento delle attività turistiche e commerciali non è espressione di pubblica funzione. Pertanto, la Corte, richiamando anche una recente giurisprudenza delle Sezioni Unite n. 7958/1992 proprio in riferimento all’ASAC –Azienda speciale aeroporto di Catania, poi denominata SAC, conferma che l’attività svolta presso l’Ente in questione non è attività che esprime una pubblica funzione.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it \La Stampa - Promuovere e incrementare le attività turistiche e commerciali di una società aeroportuale non è reato

Cane senza pedigree, cinofilo beffato. Ma la responsabilità del venditore è solo contrattuale

Azzerata completamente la richiesta, avanzata dal compratore, per ottenere un risarcimento a seguito della scoperta che il cane cedutogli era senza pedigree. Fatale l’applicazione dell’ordinario termine prescrizionale, legato alla esclusione della responsabilità extracontrattuale del venditore (Cassazione, sentenza 3021/14).

Il caso

Bluff scoperto: il cane, appena acquistato da un appassionato cinofilo, è senza pedigree, a differenza di quanto garantito dal venditore. Ciò, però, nonostante tutto, nonostante il contratto riguardi un essere vivente e non un oggetto, non può legittimare l’idea che il compratore buggerato abbia subito un danno ingiusto. Di conseguenza, è impossibile parlare di responsabilità extracontrattuale del venditore. Per questo motivo, è da valutare come tardiva, in questa vicenda, la reazione dell’appassionato cinofilo, che vede sfumare così la possibilità di ottenere un risarcimento. Vittoria effimera, quella ottenuta in primo grado, laddove un uomo, difatti, vede accolta la domanda risarcitoria presentata nei confronti della persona che gli ha «venduto un cane senza ‘pedigree’», senza, cioè, la possibilità di ricostruire l’albero genealogico dell’animale. Vittoria effimera perché, in secondo grado, l’ottica viene mutata radicalmente: a carico del venditore è ipotizzabile «una mera responsabilità contrattuale», di conseguenza l’azione risarcitoria è «prescritta». Ciò alla luce della normativa, laddove si stabilisce che «il compratore decade dal diritto alla garanzia, se non denunzia i vizi al venditore entro otto giorni dalla scoperta» e che «l’azione si prescrive, in ogni caso, in un anno dalla consegna». A contestare la decisione di secondo grado è, ovviamente, il compratore, il quale, nel contesto della Cassazione, sostiene che, in questa vicenda, «sarebbe individuabile il concorso dell’azione contrattuale con quella extracontrattuale, con l’applicabilità, dunque, del più lungo termine prescrizionale riferito all’illecito aquiliano». Ciò, secondo l’uomo, porta a ritenere che «l’azione» non sia «prescritta, in quanto alla fattispecie sarebbe applicabile il termine prescrizionale quinquennale, relativo alla responsabilità da fatto illecito». Questa visione ‘alternativa’, però, viene respinta in maniera netta dai giudici del ‘Palazzaccio’, i quali, condividendo quanto deciso in secondo grado, ribadiscono l’esclusione «della responsabilità extracontrattuale», alla luce della «mancata doglianza della lesione di interessi sorti al di fuori del contratto ed aventi la consistenza di diritti assoluti». Di conseguenza, è da applicare, come hanno fatto correttamente i giudici di secondo grado, il «termine prescrizionale» ordinario, come fissato dall’articolo 1495 c.c. Tale decisione è fondata, chiariscono i giudici, sulla considerazione che «in materia di compravendita, in caso di inadempimento del venditore, oltre alla responsabilità contrattuale da inadempimento o da inesatto adempimento, è configurabile anche la responsabilità extracontrattuale del venditore stesso» però «qualora il pregiudizio arrecato al compratore abbia leso interessi, di quest’ultimo che, essendo sorti al di fuori del contratto, hanno la consistenza di diritti assoluti».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it \La Stampa - Cane senza pedigree, cinofilo beffato. Ma la responsabilità del venditore è solo contrattuale

La crisi salva l'imprenditore che omette le ritenute fiscali

La crisi economica ha ormai prodotto una vera e propria giurisprudenza a favore, si fa per dire, dell'imprenditore che non riesce a fare fronte ai propri obblighi tributari. In questa prospettiva, il giudice unico di Padova, con sentenza 18/14, ha assolto perché il fatto non costituisce reato un imprenditore accusato di omesso versamento di ritenute per 93mila euro

fonte: ilsole24ore.com\\La crisi salva l'imprenditore che omette le ritenute fiscali

mercoledì 23 aprile 2014

Cassetta di verdura in strada, esposta ai gas di scarico delle auto: ammenda al commerciante

Legittima la contestazione del cattivo stato di conservazione della merce. Nessun dubbio sulla collocazione della verdura, ‘offerta’ agli occhi dei passanti, potenziali compratori, ma ciò ha comportato anche l’esposizione agli agenti atmosferici e ai gas di scarico dei veicoli in transito lungo la strada (Cassazione, sentenza 6108/14).

Il caso

Bancarelle piazzate in strada, con frutta e verdura esposte agli occhi dei passanti, potenziali compratori. Ecco una esemplare concretizzazione dello ‘spirito’ del commercio, pronto, come giusto, a ‘catturare’ il consumatore. Ma questa scelta può rivelarsi un boomerang. Come testimoniato dalla vicenda vissuta da un commerciante della provincia di Napoli, vistosi sanzionato con un’ammenda per avere detenuto la propria merce – verdura, per la precisione – in cattivo stato di conservazione: fatale l’esposizione all’aperto, e, quindi, agli agenti atmosferici e ai gas di scarico. Chiarissima l’ottica adottata dai giudici del Tribunale: verdura collocata in alcune cassette, piazzate in strada all’esterno del negozio, e quindi «a contatto con agenti atmosferici e gas di scarico dei veicoli in transito» lungo la strada; logico, di conseguenza, contestare il reato di «cattivo stato di conservazione» dell’alimento in questione; inevitabile, perciò, l’«ammenda» nei confronti del commerciante. Ma è davvero corretta questa linea di pensiero? Assolutamente no, secondo il titolare del negozio. Quest’ultimo, in particolare, sostiene che i giudici hanno, erroneamente, valorizzato «la sola collocazione all’aperto», senza, ad esempio, «considerare la presenza di segni evidenti della cattiva conservazione». Tale obiezione, però, viene respinta in maniera netta dai giudici del ‘Palazzaccio’, i quali, richiamando come prioritaria la «protezione del consumatore» – ossia «assicurare che la sostanza alimentare giunga al consumo con le garanzie igieniche imposte per la sua natura» –, sanciscono la legittimità dell’«ammenda» nei confronti del commerciante. Ciò, peraltro, anche alla luce della considerazione che il «cattivo stato di conservazione» è configurabile pure in caso di «detenzione in condizioni igieniche precarie». Questa visione si attaglia perfettamente, secondo i giudici, alla vicenda: perché, come riconosciuto dal commerciante, «la verdura» era piazzata «per la vendita, sul marciapiede antistante l’esercizio commerciale», quindi essa era «esposta agli agenti inquinanti» come i «gas di scarico dei veicoli in transito» lungo la strada.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it \La Stampa - Cassetta di verdura in strada, esposta ai gas di scarico delle auto: ammenda al commerciante

Terreni non affittati, niente IRPEF se è dovuta la mini IMU

Il principio di sostituzione IMU-IRPEF per i redditi fondiari derivanti dalla componente dominicale dei terreni non affittati - secondo il quale l'Imu, nei casi in cui sia dovuta, sostituisce per la componente immobiliare l'Irpef e le relative addizionali - si applica anche in riferimento alle ipotesi in cui sia dovuta la c.d. "mini IMU". Lo ha chiarito l'Agenzia delle Entrate nella Risoluzione n. 41/E del 18 aprile 2014.

Principio di sostituzione IMU-IRPEF

Riepilogando il quadro normativo relativo alla fattispecie in questione, l'Agenzia ricorda che l'effetto sostitutivo di cui sopra è previsto in via generale dal D.Lgs. n. 23/2011, art. 8, comma 1, secondo cui l’Imu sostituisce, per la componente immobiliare, l’IRPEF e le relative addizionali dovute in relazione ai redditi fondiari relativi ai beni non locati. L’effetto di sostituzione, precisa l'Agenzia, opera anche qualora l’Imu risulti giuridicamente dovuta, ma non sia stata versata ad esempio per effetto del riconoscimento delle detrazioni. Per quanto riguarda specificamente i terreni, due circolari del 2012 (n. 3 del 18 maggio del Dipartimento delle Finanze e n. 5 dell’11 marzo dell’Agenzia delle Entrate) chiariscono che tale effetto sostitutivo si esplica sulla componente dominicale dei terreni non affittati.

Coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali

Secondo quanto disposto per l’anno d’imposta 2013 con i D.L.nn. 54, 102 e 133/2013, l’IMU non è dovuta con riferimento ai terreni agricoli - nonché quelli non coltivati, di cui all’articolo 13, comma 5, del decreto legge n. 201 del 2011 - posseduti e condotti dai coltivatori diretti e dagli imprenditori agricoli professionali iscritti nella previdenza agricola. Ma cosa accade al principio sostitutivo IMU-IRPEF se è comunque dovuta la mini Imu? Ricordiamo, infatti che l'art. 1, comma 5, del citato decreto n. 133, ha disposto che, in caso di differenza tra l’Imu risultante dall’applicazione dell’aliquota e della detrazione deliberate dal comune per l’anno 2013 e quella risultante dall’applicazione dell’aliquota e della detrazione di base previste dalle norme statali, il contribuente era tenuto a versare - entro il 24 gennaio 2014 - una quota (mini Imu), pari al 40% di detta differenza. Ebbene, l'Agenzia chiarisce che anche in questo caso, come nelle ipotesi di Imu dovuta, opera il principio sostitutivo IMU-IRPEF in esame: in tal senso, infatti, dispongono le istruzioni per la compilazione del 730/2014 come modificate dal provvedimento n. 34411 del 10 marzo scorso, che nel paragrafo "Terreni agricoli" precisano che l'IMU sostituisce l’IRPEF e le relative addizionali sul reddito dominicale del terreno anche se per il 2013 è dovuta esclusivamente la mini Imu.

In conclusione

Fermo restando che, nei casi di esenzione tanto da Imu quanto da mini IMU dei terreni non affittati anche se non coltivati (terreni posseduti da coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali e terreni ricadenti in aree montane o di collina, delimitate ai sensi dell’art. 15 della Legge n. 984/1977), il relativo reddito dominicale va assoggettato all'IRPEF e alle relative addizionali, il principio di sostituzione IMU-IRPEF descritto opera per i casi in cui per i terreni in esame posseduti da coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali sia comunque dovuta la mini Imu.

Fonte: http://fiscopiu.it/La Stampa - Terreni non affittati, niente IRPEF se è dovuta la mini IMU

Stalker vive nel condominio della vittima: scatta l'allontanamento

È legittima la misura cautelare che impone allo stalker di allontanarsi dall'edificio in cui vive la vittima anche quando tale edificio coincide con il condominio dove lo stesso stalker abita assieme alla propria famiglia, in quanto è irrilevante che la misura cautelare influisca negativamente sull'esercizio del diritto alla genitorialità.

Con la sentenza 9 aprile 2014, n. 15906 la Quinta Sezione della Corte di Cassazione interviene nello spinoso ambito delle misure cautelari recentemente introdotte per far fronte all’insidioso e terribile fenomeno delle condotte persecutorie, affermando che in presenza di conclamate e non altrimenti fronteggiabili esigenze di protezione della vittima recedono anche diritti pur astrattamente soppesabili nella commisurazione dello strumento cautelare.

La vicenda

Procedendosi per il reato di “stalking”, nei confronti del soggetto gravemente indiziato il giudice per le indagini preliminari emette un’ordinanza di allontanamento ai sensi dell’art. 282 ter del codice di rito, provvedimento poi confermato anche in sede di riesame.

La difesa dell’indagato propone ricorso per cassazione nel quale, oltre a dedurre motivi di impugnazione attinenti al quadro indiziario – deponenti per una lettura della vicenda non connotata da gravità e riconducibile nell’alveo di una semplice, ancorché aspra, lite condominiale – si contesta l’adeguatezza e proporzionalità della misura cautelare irrogata.

In particolare, la difesa osserva che il disposto allontanamento dell’indagato dall’edificio dove questi vive con la moglie e le figlie – edificio coincidente con lo stesso stabile condominiale dove ha domicilio la persona offesa – comporta, per effetto della conseguente separazione dal nucleo familiare, una insopportabile lesione del diritto alla genitorialità, in violazione dei principi costituzionali e internazionali sui diritti dell’uomo.

La risposta della Corte

Ricordato che ogni provvedimento in materia di misure cautelari personali può essere sindacato, in sede di legittimità, solo per violazione di specifiche norme di legge ovvero se risulta viziato da manifesta illogicità della motivazione, la Corte rigetta ogni doglianza relativa al quadro indiziario (il cui apprezzamento di fatto non può che essere – nel sistema – esclusivo appannaggio del giudice di merito), escludendo la presenza di illogicità evidenti nel tessuto motivazionale del provvedimento applicativo della misura e della sua conferma in sede di riesame.

Tanto premesso, i giudici della quinta sezione affrontano il “cuore” della impugnazione promossa, ritenendo manifestamente infondata la pretesa violazione del diritto alla genitorialità che deriverebbe dalla impossibilità di continuare a vivere sotto lo stesso tetto condominiale dove insistono sia l’abitazione dell’indagato che quella della vittima.

Gli Ermellini ricordano infatti che non esiste un “diritto alla genitorialità” che, ergendosi in qualche modo fra gli altri diritti fondamentali, possa impedire l’applicazione di misure coercitive personali.

Per definizione, infatti, ogni limitazione della libertà personale entra in conflitto con le plurime manifestazioni - private, personali, familiari, lavorative, sociali, etc. - in cui si estrinseca la vita di ogni persona: proprio per questo, la limitazione, secondo il preciso dettato costituzionale, può avvenire solo nei casi e secondo le rigorose forme previste dalla legge, che si preoccupa anche di disciplinare le situazioni nelle quali particolari condizioni personali (gravidanza, genitorialità di prole inferiore a tre anni) prevalgono, fatte salve situazioni di eccezionale necessità cautelare, sulla possibilità di applicazione della più grave misura carceraria.

In tale ordinato assetto, nessuno spazio vi può essere ovviamente per denunciare, a priori, l’incompatibilità di una misura come l’allontanamento dai luoghi della persona offesa con la condizione di “genitore”, trattandosi di compressione che può avverarsi in maniera del tutto identica anche nei casi di carcerazione.

Esclusa dunque una inconciliabilità “formale”, diverso è il discorso quando si scende sul terreno della singola fattispecie: dovendo comunque rispondere ai requisiti di adeguatezza e proporzionalità, potrebbe anche accadere che l’allontanamento dal proprio domicilio familiare, con il sacrificio che ne consegue, sia reputato non commisurato ai fatti; ipotesi, questa, peraltro totalmente esclusa nella fattispecie portata al giudizio degli Ermellini, in cui, proprio sulla base del complesso degli elementi raccolti, l’unica soluzione cautelare efficace e rispondente all’estrema gravità dei fatti è consistita nell’imporre la fisica estromissione del soggetto dal comune contesto abitativo.

Ulteriori problematiche in tema di allontanamento dello “stalker”

Sulla materia della misura cautelare prevista dall’art. 282 ter cod. pen. è tutt’ora persistente un contrasto interprativo tra di giudici di piazza Cavour, avente ad oggetto un aspetto diverso, e in certo qual modo specularmente opposto, rispetto alla tematica del “domicilio” comune.

Alcune sentenze (cfr. Sez. V, 16 gennaio 2013, n. 36887; Sez. V, 16 gennaio 2012, n. 13568; Sez. V, 26 marzo 2013, n. 19552) hanno infatti affermato che “la misura cautelare del divieto di avvicinamento può contenere anche prescrizioni riferite direttamente alla persona offesa ed ai luoghi in cui essa si trovi, aventi un contenuto coercitivo sufficientemente definito nell'imporre di evitare contatti ravvicinati con la vittima, la presenza della quale in un certo luogo è sufficiente ad indicare lo stesso come precluso all'accesso dell'indagato”.

Questo orientamento muove dal considerare che il divieto di avvicinamento è stata oggetto nel tempo di due interventi normativi.

In un primo momento, attraverso l’art. 1 della Legge 4 aprile 2001, n. 154, il legislatore ha introdotto l’art. 282 bis cod. proc. pen., che al comma 2, prevede la possibilità per il giudice di prescrivere all’indagato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa, in particolare il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia di origine o dei prossimi congiunti: già in questa prima disciplina, la tutela dell’incolumità della persona offesa è vista non solo su un piano statico, limitato cioè al luogo di abitazione della persona offesa, ma esteso invece a tutte le circostanze nelle quali possa rendersi concreto il pericolo di un’aggressione della stessa nel corso dello svolgimento della sua vita di relazione.

Successivamente, a seguito della scrittura del reato di cui all’art. 612 bis c.p. (per effetto del D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito con Legge 23 aprile 2009, n. 38), è stata introdotta la disposizione di cui all’art. 282-ter, comma 1, cod. proc. pen., per la quale il giudice prescrive all’imputato di non avvicinarsi a luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa.

Tale ultima disposizione si inserisce nel solco già tracciato dalla previsione di cui all’art. 282-bis, con il palese scopo di rendere detta tutela più efficace in determinate situazioni: prevedendo il riferimento non più solo ai luoghi frequentati dalla persona offesa, ma, altresì, alla persona offesa in quanto tale, il legislatore esprime una precisa scelta di privilegio della libertà di circolazione del soggetto passivo, garantendone l’incolumità anche quando la condotta dell’autore non sia legata a particolari ambiti locali.

Secondo questa posizione giurisprudenziale, dunque, mentre l’originaria indicazione dei luoghi determinati frequentati dalla persona offesa conserva significato nel caso in cui le modalità della condotta criminosa non manifestino un campo d’azione che esuli dai luoghi nei quali la vittima trascorra una parte apprezzabile del proprio tempo o costituiscano punti di riferimento della propria quotidianità di vita, laddove invece – come accade spesso nel reato di cui all’art. 612 bis cod. pen. - la condotta oggetto della temuta reiterazione abbia i connotati della persistente ed invasiva ricerca di contatto con la vittima in qualsiasi luogo in cui la stessa si trovi, la (nuova) disposizione di cui all’art. 282 ter c.p.p. consente di individuare non tanto i luoghi frequentati, quanto la stessa persona offesa, come riferimento centrale del divieto di avvicinamento.

Conseguenza pratica di tale approccio interpretativo è che, in tali frangenti, non occorrerebbe una puntuale individuazione e indicazione, nel provvedimento impositivo, dei luoghi di abituale frequentazione della vittima, potendosi anche fare semplice riferimento ad essa per imporre che il soggetto indagato non le si avvicini, lasciando che la “concretizzazione” dei luoghi si avveri contestualmente al dipanarsi della vita quotidiana della persona offesa, ovunque essa si svolga: imporre una predeterminazione dei luoghi nel caso in cui sussista una persistente e invasiva ricerca di contatto con la vittima, in qualsiasi luogo in cui essa si trovi, significherebbe porre un’inammissibile limitazione del libero svolgimento della vita sociale della persona offesa, che viceversa costituisce precipuo oggetto di tutela della norma.


A questa tesi si oppone peraltro un non isolato indirizzo (Sez. VI, 7 aprile 2011, n. 26819; Sez. V, 4 aprile 2013, n. 27798) per il quale l’approdo sopra descritto presta il fianco a critiche di eccessiva indeterminatezza.

Secondo questa divergente opinione, infatti, il provvedimento con cui il giudice dispone il divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa non può non indicare, necessariamente in maniera specifica e dettagliata, i luoghi oggetto del divieto, perché solo in tal modo il provvedimento assume una conformazione completa, che ne consente l’esecuzione ed il controllo delle prescrizioni funzionali al tipo di tutela che si vuole assicurare.

L'efficacia di questa misura (così come di quella di cui all’art. 282 bis c.p.p.), funzionale ad evitare il pericolo della reiterazione delle condotte illecite, è subordinata a come il giudice la riempie di contenuti attraverso le prescrizioni che le norme gli consentono; appare allora necessaria la completa comprensione delle dinamiche che sono alla base dell'illecito, nel senso che il giudice deve modellare la misura in relazione alla situazione di fatto.

Sul piano pratico, l’adesione a questo indirizzo reca con sé la necessità che il pubblico ministero nella sua richiesta (e ancor prima la polizia giudiziaria) rappresenti al giudice, oltre agli elementi essenziali per l'applicazione della misura, anche aspetti apparentemente di contorno, che invece possono assumere una importanza fondamentale perché utili per dare il migliore contenuto al provvedimento cautelare: un particolare rilievo assumeranno allora le informazioni circa i luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa o dai suoi parenti, proprio in quanto funzionali al tipo di tutela che si vuole assicurare attraverso l'allontanamento dell'autore del reato, che dovrebbe servire ad evitare il ripetersi di episodi delittuosi ai danni della persona offesa.

Come pare evidente, un contrasto interpretativo destinato probabilmente a ripetersi sino al probabile intervento delle Sezioni Unite, a fronte di una materia nella quale entrano in collisione istanze contrapposte: un’esigenza di tutela effettiva della vittima, che per essere tale non può che connotarsi in termini di “dinamicità” e dunque di estensione capillare a tutti i luoghi in cui si esplica il vivere quotidiano della persona offesa; un'altrettanto importante necessità di individuazione puntuale delle prescrizioni e dei divieti imposti al soggetto sottoposto, pena una indeterminatezza che lascia spazio a situazioni di abuso ovvero a zone grigie di impunità.

La decisione in sintesi

Esito del ricorso: Dichiara inammissibile il ricorso.

fonte: Altalex.com\Stalker vive nel condominio della vittima: scatta l'allontanamento

martedì 22 aprile 2014

Prende i soldi e scappa... e viene subito bloccato: furto comunque consumato

Nessuna possibilità di vedere ‘alleggerita’ la propria posizione per il ladro, resosi protagonista di un colpo da record, durato pochi secondi. Decisivo il possesso, seppur per pochissimo tempo, della res furtiva, ossia 15mila euro in contanti (Cassazione, sentenza 5843/14).

Il caso

Colpo da record per il ladro... non per il bottino, sia chiaro, ma per la brevissima fuga, terminata pochi secondi dopo aver arraffato i soldi! Nonostante ciò, però, si può parlare correttamente di “furto consumato”. Da film comico la dinamica dell’episodio sottoposto alla valutazione dei giudici: un uomo compie un blitz in un negozio cinese, portando via ben 15mila euro, ma la sua fuga dura pochissimo... perché, appena uscito dall’esercizio commerciale, viene «subito bloccato dai connazionali della persona derubata». Ciò, però, non rende il fatto meno grave: su questo punto concordano i giudici di primo e di secondo grado, i quali condannano l’uomo per «furto aggravato». Secondo il legale dell’uomo, però, la visione adottata è erronea. Per una semplice ragione: per parlare di «furto consumato» vi deve essere prima «la sottrazione della cosa» e poi «l’impossessamento da parte del ladro», e invece, in questo caso, l’uomo «non è riuscito a instaurare una signoria autonoma sulla res furtiva», a causa, come detto, dell’intervento dei connazionali della persona derubata. Ma tale ricostruzione dell’episodio non viene ritenuta corretta dai giudici del ‘Palazzaccio’, i quali ricordano che, per la «consumazione del delitto di furto», è «sufficiente che la cosa sottratta sia passata, anche per brevissimo tempo, sotto l’autonoma disponibilità» del ladro, essendo irrilevante il fatto che egli «abbia subito perso la disponibilità della cosa». Questa linea di pensiero si attaglia perfettamente alla vicenda in esame: l’uomo, difatti, «dopo aver sottratto la busta col denaro, era riuscito ad allontanarsi dal negozio», e quindi «era riuscito, sia pure per breve tempo, a far propria la res furtiva», prima di essere «bloccato dai conoscenti della vittima».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it\La Stampa - Prende i soldi e scappa... e viene subito bloccato: furto comunque consumato

Pedone ko, motociclo senza assicurazione. Conducente assolto penalmente, ma obbligato a ripagare la compagnia del Fondo di garanzia

Respinte tutte le obiezioni mosse dal conducente del veicolo. Confermato l’onere di pagare all’impresa designata dal ‘Fondo di garanzia per le vittime della strada’ la somma versata alla persona messa sotto dal motociclo. Assolutamente irrilevante il richiamo alla pronunzia assolutoria emessa in ambito penale (Cassazione, ordinanza 2690/14).

Il caso

Pedone investito da un motociclo. E a rendere più complessa la situazione anche la scoperta che sul veicolo manca la ‘copertura’ in materia di responsabilità civile. Conseguenziale l’intervento ‘riparatore’ della compagnia assicurativa designata dal ‘Fondo di garanzia per le vittime della strada’, che può rivalersi sia sul conducente che sulla proprietaria del motociclo. Assolutamente irrilevanti i richiami alla pronuncia assolutoria emessa in ambito penale e al presunto comportamento colposo del pedone. Nessun dubbio viene espresso dai giudici, di primo e di secondo grado, di fronte alla richiesta avanzata dalla compagnia assicurativa «designata dal ‘Fondo di garanzia per le vittime della strada’»: conducente e proprietaria del motociclo – «risultato privo di assicurazione per la responsabilità civile» – debbono corrispondere la «somma» versata alla persona «investita». A dare forza a questa decisione anche la valutazione del materiale probatorio preso in esame nell’ambito del procedimento penale, nonostante tale procedimento si sia concluso con l’assoluzione nei confronti del conducente del motociclo. Fronte penale. Ma proprio il ‘fronte penale’ viene utilizzato, dalla persona alla guida del motociclo in occasione del fattaccio, per sostenere la tesi della illegittimità della richiesta avanzata dalla compagnia assicurativa. Per l’uomo, difatti, è eccessiva la «rilevanza attribuita dal giudice di merito agli elementi di prova raccolti nel corso del giudizio penale», soprattutto tenendo presente che tali «prove» erano state «sconfessate dalla sentenza assolutoria emessa a chiusura di quel procedimento». Senza dimenticare, poi, il «comportamento colposo» attribuito al pedone... Nonostante tutto, però, le obiezioni mosse dall’uomo debbono essere reputate non legittime, secondo i giudici del ‘Palazzaccio’, i quali mostrano di condividere l’ottica adottata nei giudizi di merito. Più in particolare, viene osservato che la «sentenza assolutoria, pronunciata all’esito del giudizio penale» non era «opponibile alla società assicuratrice», anche perché «l’assoluzione era stata pronunciata con la formula “perché il fatto non costituisce reato”» – vista la «contraddittorietà del contesto probatorio di riferimento» – , e, quindi, «inerendo il dubbio all’elemento soggettivo del reato», era «consentito al giudice civile valutare i medesimi fatti, già considerati dal giudice penale». Peraltro, aggiungono ancora i giudici, è da considerare esclusa «qualsivoglia corresponsabilità» della persona investita dal motociclo: ciò soprattutto alla luce della semplice considerazione che «l’incidente era avvenuto in un contesto in cui, non esistendo attraversamenti pedonali, se non a distanza di oltre 100 metri, non poteva imputarsi al pedone di non averne usufruito, mentre doveva esigersi una condotta particolarmente accorta da parte del guidatore».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it \La Stampa - Pedone ko, motociclo senza assicurazione. Conducente assolto penalmente, ma obbligato a ripagare la compagnia del Fondo di garanzia

La P.A. risponde per insidia stradale solo se esistente in concreto

Il caso trae origine dalla citazione in giudizio di un'amministrazione locale da parte del proprietario di un veicolo che ne chiedeva il risarcimento danni per essere impattato sul guard rail a causa della presenza sul fondo stradale del distacco di asfalto sui giunti di collegamento, non segnalato né visibile e, indi, costituente ipotesi di insidia e trabocchetto per la quale l'ente proprietario della strada deve rispondere.

La questione

La prevalente giurisprudenza riconduce la responsabilità della pubblica amministrazione, proprietaria di una strada per i danni subiti dall'utente, al paradigma dell'art. 2043 c.c., sicchè la esclude quando il bene demaniale non presenti situazioni di pericolo occulto, cioè non visibile, né prevedibile, tale da integrare un'insidia o trabocchetto (ex multis: Corte di Cassazione n. 22592/2004, n. 10654/2004 , n. 6515/2004 , n. 11250/2002 , n. 16179/2001 e n. 3991/99 ).

Tale situazione, rileva, in una alla condotta dell'utente, ai fini dell'esclusione del nesso eziologico e della colpa dell'Ente pubblico (Corte di Cassazione 16 maggio 2013, n. 11946 ), pur quando la strada non sia perfettamente mantenuta, atteso che tanto più è concreta la possibilità per il danneggiato di percepire o prevedere con l'ordinaria diligenza il pericolo, tanto più deve escludersi la configurabilità stessa dell'insidia stradale e la correlata responsabilità dell'amministrazione proprietaria, pur quando non l'abbia correttamente mantenuta, per interruzione del nesso causale (cfr. Corte di Cassazione, 22 ottobre 2013, n. 23919 ).

Di norma la giurisprudenza tende ad escludere l'applicazione dell'art. 2051 c.c., almeno qualora il bene sia oggetto di un uso generale e diretto da parte di terzi e sia di notevole estensione, tale da rendere impossibile un controllo costante ed efficace, atto ad escludere l'insorgenza di situazioni di pericolo per i fruitori (Corte di Cassazione – Sezioni Unite Civili n. 10893/2001 , n. 8588/1997 . In termini, in via ermeneutica, anche Corte Costituzionale 10 maggio 1999, n. 156 ).

A tal proposito, peraltro, il Giudice di legittimità ha chiarito, infatti, che "il giudizio sulla pericolosità delle cose inerti non può prescindere da un modello relazionale, per cui la cosa deve essere vista nel suo normale interagire col contesto dato talché una cosa inerte può definirsi pericolosa quando determini un alto rischio di pregiudizio nel contesto di normale interazione con la realtà circostante. Pertanto se il contatto con la cosa provochi un danno per l'abnorme comportamento del danneggiato, difetta il presupposto per l'operare della presunzione di responsabilità di cui all'art. 2051 c.c., atteggiandosi in tal caso la cosa come mera occasione e non come causa del danno" (cfr. Corte di Cassazione 4 novembre 2003, n. 16527 ).

fonte: ilsole24ore.com\La P.A. risponde per insidia stradale solo se esistente in concreto

L'illecito utilizzo della '104' giustifica il licenziamento

La natura illecita dell'abuso del diritto a fruire dei permessi per l'assistenza dei congiunti, di cui all'art. 33, L. 104/1992, e il ragionevole sospetto che il lavoratore ne abbia abusato, legittimano il ricorso al controllo occulto c.d. "difensivo" ad opera del datore di lavoro. L'uso improprio del permesso per l'assistenza dei congiunti giustifica il licenziamento per giusta causa in quanto compromette irrimediabilmente il vincolo fiduciario indispensabile per la prosecuzione del rapporto di lavoro.

Un datore di lavoro si avvale di un'agenzia investigativa per "pedinare" un proprio dipendente, sospettato di utilizzare i permessi ottenuti per l'assistenza ai congiunti ai sensi dell'art 33 della L. 104/1992 al fine di recarsi in vacanza. Scoperto l'illegittimo uso del permesso, il datore licenzia il dipendente per giusta causa.

Il dipendente impugna il licenziamento contestando, in giudizio, la liceità del controllo operato dal datore e la conseguente utilizzabilità delle risultanze probatorie derivanti dall'attività investigativa. In particolare, secondo il lavoratore gli artt. 2 e 3 dello Statuto dei lavoratori legittimerebbero, in presenza di un ragionevole sospetto, solo i controlli c.d. "difensivi" ovvero finalizzati ad accertare gli illeciti perpetrati a danno del patrimonio aziendale. In nessun caso, invece, il controllo potrebbe avere ad oggetto l'attività lavorativa intesa quale adempimento dell'obbligazione di fornire la propria prestazione lavorativa cui, a dire del lavoratore, sarebbero riconducibili i controlli effettuati dal datore di lavoro nel caso in esame.

Il Tribunale in primo grado accoglie il ricorso del lavoratore mentre la Corte D'Appello riforma la sentenza, argomentando che l'abuso del diritto di cui all'art. 33 L. 104/92 costituisce condotta illecita, tanto nei confronti dell'Inps, che eroga la corrispondente indennità, quanto nei confronti del datore di lavoro, il quale dall'abuso subisce comunque un danno, sia in termini economici dovendo, comunque, accantonare anche per i giorni di assenza il TFR, che organizzativi, dovendo far fronte all'assenza del lavoratore. La Corte d'Appello ritiene, inoltre, che nel caso di specie sussista anche il secondo requisito per accedere ai controlli difensivi ovvero il ragionevole sospetto del comportamento illecito (difatti due colleghi avevano in sede testimoniale dichiarato di aver sentito il lavoratore mentre raccontava di essere stato in vacanza in giorni in cui lo sapevano in permesso).

Ad avviso del giudice di secondo grado, dalla liceità dell'accertamento difensivo consegue l'utilizzabilità in giudizio degli esiti dello stesso e, in definitiva, la legittimità del licenziamento per giusta causa.

La decisione è confermata dalla Corte di Cassazione (sentenza del 8 gennaio 2014, depositata in data 4 marzo 2014, n. 4984), la quale ribadisce la legittimità del controllo esercitato dal datore di lavoro attraverso l'impiego dell'agenzia investigativa e l'utilizzabilità delle relative prove. Il giudice di legittimità, ritenendo la natura illecita dell'abuso del diritto a beneficiare dei permessi per l'assistenza dei congiunti, esclude che il controllo esercitato dal datore di lavoro possa, nel caso di specie, considerarsi teso ad accertare l'adempimento della prestazione lavorativa, in quanto effettuato al di fuori dell'orario di lavoro e in fase di sospensione dell'obbligazione principale di rendere la prestazione lavorativa.

L'utilizzo da parte del dipendente di permessi con finalità assistenziale per scopi diversi, secondo la Suprema Corte costituisce poi comportamento idoneo a ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario, con conseguente legittimità del licenziamento per giusta causa, condividendo sul punto la decisione del Giudice d'Appello, adeguatamente motivata anche in relazione ai generali principi della "coscienza generale".

Su quest'ultimo punto, la Corte ha cura di ricordare come l'art. 2119 sia una norma c.d. elastica, tale per cui la giusta causa rappresenta un "modello generico", capace di adeguarsi a una realtà mutevole nel tempo e che necessita quindi di essere specificato in sede interpretativa.

fonte: ilsole24ore.com\L'illecito utilizzo della '104' giustifica il licenziamento

VADEMECUM DELL'AVVOCATO TELEMATICO E NOTIFICHE A MEZZO PEC

https://dl.dropboxusercontent.com/u/36120604/Vademecum Avvocato Telematico e Notifiche a mezzo PEC - versione 9.pdf

sabato 19 aprile 2014

Compagnia assicurativa snobba la mediazione, sanzione di 2mila euro

La compagnia di assicurazioni che non partecipa senza giustificato motivo al procedimento di mediazione, e poi nel processo resiste alla domanda attorea pur nella consapevolezza dell'infondatezza delle tesi sostenute e nel difetto della normale diligenza con cui era stata istruita la pratica assicurativa, può essere condannata oltre che al risarcimento del danno al pagamento di una ulteriore somma ai sensi dell'art. 96 c.p.c.

È questa la conclusione cui perviene il tribunale di Roma nella sentenza 4140/2014 in un giudizio avente ad oggetto la liquidazione di un danno sulla base di una polizza infortuni.

Nel caso di specie il giudice, nel condannare la compagnia convenuta al risarcimento del danno quantificato in poco più di 14mila euro (detratta la somma già versata e computati interessi e rivalutazione si giunge a circa 12mila euro) stigmatizza la condotta della stessa aggiungendo una ulteriore somma da versare pari a 2mila euro (ai sensi dell'art. 96 c.p.c.).

Nelle motivazioni si chiarisce che la condanna a questo ulteriore importo deriva dalla condotta tenuta dalla compagnia di assicurazioni dapprima in sede di mediazione, ove era stata invitata e non aveva partecipato senza addurre alcuna giustificazione (peraltro anche la proposta conciliativa del mediatore per euro 9.750 era rimasta inevasa), e poi nel giudizio ove aveva resistito nella consapevolezza della infondatezza delle tesi sostenute.

fonte: ilsole24ore.com\\Compagnia assicurativa snobba la mediazione, sanzione di 2mila euro - Il Sole 24 ORE

Droga: ok emendamento niente carcere per piccolo spaccio

Multe più basse e niente carcere per lo spaccio di lieve entità. Lo prevede un emendamento del Governo al dl Lorenzin su off label e droghe, approvato dalle Commissioni riunite Affari Sociali e Giustizia della Camera col solo voto contrario del M5S e l'astensione di Sel. In base al testo, che dovrebbe essere confermato anche nel passaggio in Aula, viene abbassata la pena massima da 6 a 4 anni evitando così la detenzione in carcere per i casi di piccolo spaccio. Ridotta anche la pena minima da un anno a sei mesi, mentre le multe calano drasticamente e passano da una somma compresa tra 3000 a 26.000 euro a una tra 1.000 a 15.000. Spetterà al giudice la gradazione di pene e multe in base alla qualità e alla quantità della sostanza spacciata. Nella discussione non sono passati gli emendamenti che autorizzavano la coltivazione di piante di cannabis per uso personale e quelli che inserivano la cannabis con elevata concentrazione di principio attivo nella tabella delle droghe pesanti. Per Vargiu, relatore del testo per la Commissione Affari Sociali e presidente della stessa "la Camera ha migliorato il testo presentato dal governo". "Abbiamo evitato il carcere per i pesci piccoli preoccupandoci più del loro recupero sociale che di ogni atteggiamento repressivo dimostratosi fallimentare". Già oggi le Commissioni riunite hanno terminato l'esame dei quasi duecento emendamenti. "Con la collega Ferranti, relatrice per la Commissione Giustizia, siamo soddisfatti del lavoro svolto, perché riteniamo abbia valorizzato il dibattito e il confronto tra le diverse posizioni su un tema che tocca da vicino le singole coscienze e sensibilità".

fonte: ilsole24ore.com\\Droga: ok emendamento niente carcere per piccolo spaccio

CODICE PENALE: Modifica dell'articolo 416-ter (Scambio elettorale politico-mafioso)

LEGGE 17 aprile 2014, n. 62 (G.U. n. 90 del 17-4-2014)

Modifica dell'articolo 416-ter del codice penale, in materia di scambio elettorale politico-mafioso.

Entrata in vigore del provvedimento: 18/04/2014

La Camera dei deputati ed il Senato della Repubblica hanno

approvato;

IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Promulga la seguente legge:

Art. 1

1. L'articolo 416-ter del codice penale e' sostituito dal

seguente:

«Art. 416-ter. - (Scambio elettorale politico-mafioso). - Chiunque

accetta la promessa di procurare voti mediante le modalita' di cui al

terzo comma dell'articolo 416-bis in cambio dell'erogazione o della

promessa di erogazione di denaro o di altra utilita' e' punito con la

reclusione da quattro a dieci anni.

La stessa pena si applica a chi promette di procurare voti con le

modalita' di cui al primo comma».

1. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello

della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.

La presente legge, munita del sigillo dello Stato, sara' inserita

nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica

italiana. E' fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla

osservare come legge dello Stato.

Data a Roma, addi' 17 aprile 2014

NAPOLITANO

Renzi, Presidente del Consiglio dei

ministri

Visto, il Guardasigilli: Orlando

fonte: ilsole24ore.com\\CODICE PENALE: Modifica dell'articolo 416-ter

venerdì 18 aprile 2014

Occhiali da sole e maglie griffate: quando prodotto fa rima con tarocco

Il reato previsto dall’art. 474 c.p. è configurabile qualora la falsificazione, anche imperfetta e parziale, sia idonea a trarre in inganno i terzi, ingenerando confusione tra contrassegno e prodotti originali e quelli non autentici e, quindi, errore circa l’origine e la provenienza. La contraffazione grossolana non punibile è soltanto quella riconoscibile ictu oculi, essendo una imitazione così ostentata e macroscopica per il grado di incompiutezza da non poter ingannare nessuno. È quanto affermato dalla Cassazione nella sentenza 5215/14.

Il caso

Un uomo veniva condannato dal Tribunale di Lecce per essere stato sorpreso mentre deteneva occhiali da sole e maglie con marchio di note griffe contraffatto. L’uomo ricorre in Cassazione, deducendo che la scarsa qualità dei prodotti, le modalità della vendita (la merce era esposta a terra su un lenzuolo), le caratteristiche dei disegni, l’assenza di etichette originali all’interno delle confezioni rendevano la contraffazione riconoscibile ictu oculi al consumatore medio, essendo tale da integrare il falso grossolano. Il ricorso non merita accoglimento: l’ipotesi di reato prevista dall’art. 474 c.p. (Introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi) è volta a tutelare la pubblica fede, intesa come affidamento dei consociati nei marchi o segni distintivi che individuano le opere dell’ingegno o i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione; si tratta, quindi, di un reato di pericolo che si configura anche quando la falsificazione, anche imperfetta e parziale, sia idonea a trarre in inganno terzi, ingenerando confusione tra contrassegno e prodotti originali e quelli non autentici e, quindi errore, circa l’origine e la provenienza del prodotto. La contraffazione grossolana non punibile è soltanto quella riconoscibile ictu oculi, senza necessità di particolari indagini, essendo l’imitazione così ostentata e macroscopica per il grado di incompiutezza da non poter ingannare nessuno. Le argomentazioni del ricorrente non tengono conto che il prodotto con marchio contraffatto è destinato alla circolazione e, quindi, alla visione da parte di un numero indeterminato e indeterminabile di soggetti, rispetto ai quali la potenzialità lesiva della contraffazione è enorme. La grossolanità del marchio, invece, richiede l’ulteriore prova di elementi sintomatici del grado di imperfezione e incompletezza, tali da escludere una imitazione ingannevole. Il ricorrente si duole dell’assenza di prova in ordine alla registrazione dei marchi. Tale registrazione è necessaria per affermare l’esistenza del delitto di cui si discute se si tratta di marchi di largo uso e di incontestata utilizzazione da parte delle società produttrici, come nel caso di specie. Quindi, l’onere di provare l’insussistenza della protezione del marchio ricade su chi lo assumeva. La Suprema Corte tiene, infine, a sottolineare che la contraffazione, intesa come abusiva riproduzione del marchio con caratteristiche coincidenti con quelle del marchio vero, non deve essere confusa con la fattispecie di cui all’art. 517 c.p. (Vendita di prodotti industriali con segni mendaci) che ha, invece, per oggetto la tutela dell’ordine economico e richiede la semplice imitazione del marchio, non necessariamente registrato o riconosciuto, che sia idonea a trarre in inganno l’acquirente sull’origine, la qualità o provenienza del prodotto da un determinato produttore.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it \La Stampa - Occhiali da sole e maglie griffate: quando prodotto fa rima con tarocco

Il ‘cane sciolto’ in cortile impedisce l’azione degli agenti: questo è già un reato

Il reato di resistenza a pubblico ufficiale può configurarsi anche con la condotta omissiva. Lo ha precisato la Cassazione con la sentenza 5147/14.

Il caso

Concorso nel reato di detenzione e cessione di sostanza stupefacente. Questo il reato contestato ad una donna, che viene condannata in entrambi i giudizi di merito, per aver collaborato con il coimputato nella soppressione delle tracce dell’illecito, gettando la sostanze nel water poco prima che gli agenti procedessero alla perquisizione domiciliare. Non solo. La donna viene condannata anche per resistenza a pubblico ufficiale, avendo liberato – o comunque lasciato libero – il proprio cane, un rottweiler, per impedire agli agenti l’accesso all’alloggio. La Corte di Cassazione, confermando la condanna per entrambi i reati, sottolinea la possibilità della consumazione della resistenza a pubblico ufficiale anche in forma omissiva, «ove tale omissione risulti scientemente volta a non rimuovere l’impedimento all’azione dei pubblici ufficiali caratterizzato dalla violenza o minaccia». Proprio nel caso in esame, infatti, la donna aveva lasciato il cane libero, costringendo i pubblici ufficiali a condividere gli stessi spazi. Ricorso rigettato dunque, e ricorrente condannata anche al pagamento delle spese.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it \La Stampa - Il ‘cane sciolto’ in cortile impedisce l’azione degli agenti: questo è già un reato

giovedì 17 aprile 2014

Facebook, linea dura della Cassazione “Insulti anonimi sono diffamazione”

Annullata l’assoluzione di un finanziere che aveva offeso un collega senza nominarlo: la reputazione è lesa se la vittima è riconoscibile anche da pochi.

Sul web - ed in particolare su Facebook - si può diffamare anche senza fare nomi: basta che la persona offesa sia in qualche modo identificabile e che gli insulti possano essere letti da una cerchia, anche se ristretta, di utenti. Lo sottolinea la Cassazione che ha rinviato a nuovo processo l’assoluzione di un maresciallo capo della Guardia di Finanza che aveva pubblicato nei sui «dati personali» su FB la frase «attualmente defenestrato a causa dell’arrivo di collega sommamente raccomandato e leccaculo...», aggiungendo quindi un’espressione volgare riferita alla moglie di quest’ultimo.

 Per la frase incriminata, che aveva offeso la reputazione del maresciallo designato al posto suo al comando della compagnia, l’imputato era stato condannato dal tribunale militare di Roma a tre mesi di reclusione militare per diffamazione pluriaggravata. In Appello era stato assolto per insussistenza del fatto, poiché l’identificazione della persona offesa risultava - aveva spiegato la Corte militare d’Appello di Roma - possibile soltanto da parte di una ristretta cerchia di soggetti rispetto alla generalità degli utenti del social network, non avendo l’imputato indicato il nome del suo successore, la funzione di comando in cui era stato sostituito, o dato alcun riferimento cronologico.

 Nel ricorso contro l’assoluzione, il procuratore generale militare ha evidenziato come, al contrario, la pubblicazione su Facebook abbia determinato la conoscenza delle frasi offensive da parte di più «soggetti indeterminati iscritti al social network e che chiunque, collega o conoscente dell’imputato, avrebbe potuto individuare la persona offesa». La prima sezione penale della Cassazione (sentenza 16712) ha riconosciuto come la frase fosse «ampiamente accessibile, essendo indicata sul cosiddetto “profilo”» e l’identificazione della persona offesa favorita dall’avverbio «attualmente» riferita alla funzione di comando rivestita. Tra l’altro «il reato di diffamazione non richiede il dolo specifico» ma la «consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell’altrui reputazione e la volontà che la frase venga a conoscenza anche soltanto di due persone». Ad avviso della Corte, «i giudici di secondo grado non hanno adeguatamente indicato le ragioni logico-giuridiche per le quali il limitato numero delle persone in grado di identificare il soggetto passivo della frase a contenuto diffamatorio determini l’esclusione della prova della volontà dell’imputato di comunicare con più persone in grado di individuare il soggetto interessato».

Fonte: La Stampa - Facebook, linea dura della Cassazione “Insulti anonimi sono diffamazione”

Rapina compiuta chiave in mano... anche quella è un’arma!

Confermata la condanna a oltre due anni di reclusione nei confronti di un uomo, resosi responsabile di alcune rapine ai danni di esercizi commerciali. Rilevante anche l’arma, seppur ‘insolita’, utilizzata: anche una chiave per serrature blindate può rientrare nella categoria delle armi improprie.

Il caso

“Fermi tutti, è una rapina!”. Ma a rendere ‘particolare’ l’assalto al negozio – di telefonia – è lo strumento utilizzato: una chiave. Che, comunque, è valutabile come ‘arma impropria’, utilizzabile, cioè, per l’offesa della persona. (Cassazione, sentenza 5537/14). Durissima la sanzione nei confronti di un uomo, ritenuto responsabile «dei delitti di rapina, tentata rapina e lesioni personali nei confronti delle addette» di «alcuni esercizi commerciali»: 600 euro di multa e, soprattutto, «due anni e quattro mesi di reclusione». Centrale, per i giudici – sia in Tribunale che in Corte d’Appello –, è soprattutto la «sussistenza della minaccia, aggravata dall’uso dell’arma». E proprio su questo punto si sofferma l’uomo, sostenendo che non si possa definire «arma» una semplice «chiave per serrature», come quella da lui utilizzata. Ma questa obiezione viene considerata non fondata dai giudici del ‘Palazzaccio’, i quali, anzi, sostengono sia pienamente corretta la qualificazione come «arma» della «chiave per serratura» con cui «è stata posta in essere la minaccia» ai danni delle addette dell’esercizio commerciale. Ciò perché, di fronte a «una chiave per serrature blindate, lunga 11 centimetri» – corrispondente a quella utilizzata in occasione delle rapine – e potenzialmente utilizzabile per «l’offesa della persona», si può, senza dubbio, parlare di «arma impropria». Nessun dubbio, quindi, sulla giustezza della visione adottata nei giudizi di merito. E nessun dubbio, di conseguenza, neanche sulla condanna, confermata in toto, emessa nei confronti dell’uomo.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it\La Stampa - Rapina compiuta chiave in mano... anche quella è un’arma!

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