sabato 20 agosto 2016

Tradisce il marito online: separazione non addebitabile alla moglie

Relazione ‘virtuale’ per la moglie. Ciò, però, non è sufficiente per addebitarle la crisi coniugale. Inutili le proteste del marito.
Relazione. Nessun dubbio, sia chiaro, sul fatto che la donna «ha intrapreso una relazione, via internet, con un altro uomo», a matrimonio ancora in piedi. Nonostante tutto, però, quel comportamento, pur censurabile, non è valutabile come causa della «rottura coniugale».
Per i giudici, quindi, sia in Tribunale che in Appello, è impossibile «addebitare la separazione» alla donna.
Confermato, invece, l’obbligo dell’uomo di provvedere al «mantenimento della moglie», versandole 500 euro al mese, e a quello «dei due figli», con un assegno mensile da 1.000 euro. A suo carico, peraltro, anche «il 70 per cento delle spese straordinarie», cioè «mediche, scolastiche e ludico-sportive», necessarie per la prole.
Rottura. A chiudere la vicenda provvedono ora i magistrati della Cassazione (ordinanza n. 14414 del 14 luglio 2016). E anche il loro pronunciamento è sfavorevole all’uomo.
A loro avviso «la relazione via internet» della moglie non è da considerare come causa principale della «crisi coniugale». Di conseguenza, la rottura del matrimonio non è addebitabile al comportamento della donna. Ciò perché il tradimento online si è concretizzato «quando era già maturata», evidenziano i magistrati, «una situazione di intollerabilità della convivenza, dovuta anche a episodi di violenza posti in essere dal marito» tra le mura domestiche e «documentati da certificati medici».
Per quanto concerne i rapporti economici, infine, appare evidente la posizione di forza del marito. Significativo anche il «comportamento processuale» da lui tenuto e consistito nella «omessa presentazione della denuncia dei redditi».
Logico, quindi, confermare gli obblighi dell’uomo nei confronti della moglie e dei figli.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Tradisce il marito online: separazione non addebitabile alla moglie - La Stampa

martedì 16 agosto 2016

Tfr, se l’impresa è insolvente lo paga l’Inps

Nel caso in cui il datore di lavoro sia insolvente e non soggetto alle disposizioni della legge fallimentare, il lavoratore potrà ottenere la liquidazione del Tfr, dal Fondo di garanzia dell’Inps. Presupposti perché ciò sia possibile sono: l'esistenza e la consistenza del credito risultante da un titolo, anche giudiziale e l'insufficienza del patrimonio ereditario. E’ quanto disposto dalla Corte di Cassazione, sezione lavoro, nella sentenza n. 8072/16, del 21 aprile 2016.
Nella vicenda in oggetto, alcune dipendenti di una Sas, avevano convenuto in giudizio, il Fondo di garanzia dell'Inps chiedendone la condanna al pagamento, in favore di ognuna, del trattamento di fine rapporto e delle ultime tre mensilità di retribuzione a loro dovute per via della cessazione del rapporto di lavoro e dell'inadempimento di tali obbligazioni da parte della società datrice di lavoro.
Il ricorso proposto, è stato respinto e la sentenza appellata dalle ricorrenti.
La Corte d'appello ha rigettato l'impugnazione ritenendo, con riferimento al trattamento di fine rapporto, non sussistenti i presupposti previsti dal D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 80, art. 2, per il riconoscimento del relativo diritto.
Avverso tale pronuncia, le lavoratrici hanno proposto ricorso per cassazione.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso limitatamente ai primi tre motivi, previo esame delle censure mosse. In particolare, la Cassazione ha fornito un'esatta interpretazione della L. n. 297 del 1982, art. 2, comma 5, che prevede: "Qualora il datore di lavoro, non soggetto alle disposizioni del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, non adempia, in caso di risoluzione del rapporto di lavoro, alla corresponsione del trattamento dovuto o vi adempia in misura parziale, il lavoratore o i suoi aventi diritto possono chiedere al fondo il pagamento del trattamento di fine rapporto, semprechè, a seguito dell'esperimento dell'esecuzione forzata per la realizzazione del credito relativo a detto trattamento, le garanzie patrimoniali siano risultate in tutto o in parte insufficienti. Il fondo, ove non sussista contestazione in materia, esegue il pagamento del trattamento insoluto".
Inoltre, come confermato da recenti pronunce (v. Cass., 29 maggio 2012, n. 8529, che richiama Cass., 1 aprile 2011, n. 7585; Cass., 1 luglio 2010, n. 15662; Cass. 19 gennaio 2009, n. 1178, non massimata, e Cass., 27 marzo 2007, n. 7466), secondo l’ interpretazione fornita nel senso indicato dalla direttiva CE n. 987 del 1980, la Corte di legittimità ha ritenuto possibile  l'ingresso ad un'azione nei confronti del Fondo di garanzia quando l'imprenditore non sia in concreto assoggettato al fallimento e l'esecuzione forzata si riveli infruttuosa. L'espressione "non soggetto alle disposizioni del R.D. n. 267 del 1942" va quindi interpretata nel senso che l'azione della citata L. n. 297 del 1982, ex art. 2, comma 5, trova ingresso quante volte il datore di lavoro non sia assoggettato a fallimento, vuoi per le sue condizioni soggettive vuoi per ragioni ostative di carattere oggettivo.
Nel caso in esame,  la procedura fallimentare era stata chiusa per insufficienza dell'attivo ed in cui il credito non era stato accertato in sede fallimentare per essere stata dichiarata improseguibile l'opposizione proposta dal creditore, L. Fall., ex art. 98, avverso il provvedimento con cui era stata rigettata la sua domanda di ammissione al passivo.
L'interpretazione data alla norma dalla Cassazione, deriva dalla facoltà, indicata dalla direttiva comunitaria ai legislatori nazionali, di assicurare la tutela dei lavoratori anche nei casi di insolvenza accertati con modalità e in sedi diverse da quelle tipiche delle procedure concorsuali. Tale interpretazione assicura una copertura assicurativa al lavoratore qualora non sia stato possibile accertare il credito in sede fallimentare per la chiusura anticipata del fallimento.
Inoltre, l’esigenza di tutelare il lavoratore, si concilia con la finalità del legislatore del 1982, che, mediante l'istituzione di un Fondo di garanzia dell’Inps, ha inteso compensare la peculiarità della disciplina del t.f.r. - in cui il sistema degli accantonamenti fa sì che gli importi del lavoratore vengano trattenuti e utilizzati dal datore di lavoro - con la previsione di una tutela certa del credito, realizzata attraverso modalità garantistiche e non soggetta alle limitazioni e difficoltà procedurali previste, invece, per la tutela delle ultime retribuzioni (ai sensi del D.Lgs. n. 80 del 1992).
Dunque, Il lavoratore potrà attivarsi per come previsto dalla L. n. 297 del 1982, art. 2, comma 5, dimostrando di avere esperito infruttuosamente una procedura di esecuzione e, nel caso in cui sussista la possibilità di altre azioni esecutive, di avere esperito tutte quelle che, secondo l'ordinaria diligenza, si prospettino fruttuose. Pertanto, ai fini della tutela prevista dalla L. n. 297 del 1982 in favore del lavoratore, per il pagamento del t.f.r. in caso di insolvenza del datore di lavoro, nel caso in cui l'accertamento del credito in sede fallimentare sia stato impedito a causa della chiusura anticipata della procedura per insufficienza dell'attivo, il credito stesso può essere accertato anche in sede diversa da quella fallimentare e il lavoratore può conseguire le prestazioni del Fondo di garanzia costituito presso l'Inps alle condizioni previste dalla L. n. 297 del 1982, art. 2, comma 5, essendo sufficiente, in particolare, che egli abbia esperito infruttuosamente una procedura di esecuzione - salvo che risultino in atti altre circostanze le quali dimostrino che esistono altri beni aggredibili con l'azione esecutiva - sempre che l'esperimento dell'esecuzione forzata non ecceda i limiti dell'ordinaria diligenza ovvero che la mancanza o l'insufficienza delle garanzie patrimoniali del debitore non debbano ritenersi provate in relazione alle particolari circostanze del caso concreto (Cass., 8529/2012, cit.).
Ciò riguarda anche il caso del datore di lavoro non soggetto all'applicazione della legge fallimentare.
Nella vicenda in oggetto, i crediti vantati sono stati accertati in sede giudiziale attraverso la concessione dei decreti ingiuntivi non opposti, e la società datrice di lavoro, in quanto iscritta tra le imprese artigiane, non era soggetta alle procedure fallimentari.
Dalla documentazione prodotta in giudizio, risultava che i beni caduti in successione, sia quelli personali dell'unico socio accomandatario sia quelli della società, erano costituiti solo da beni mobili valutati poco più di tremila euro, e che, a causa dell'incapienza dell'attivo e dell'eccessiva onerosità di una procedura di liquidazione a fronte di tale attivo, la stessa curatrice aveva invitato tutti i creditori della società ad "una rinuncia espressa ed irrevocabile dei loro crediti, possibilmente nel minor tempo possibile".
Inoltre, la dichiarazione del curatore di non poter procedere alla liquidazione concorsuale dei creditori ereditari per mancanza di liquidità e per la sua eccessiva onerosità integra l'ulteriore presupposto previsto per il sorgere del diritto del lavoratore al trattamento di fine rapporto. Per contro, la tesi della Corte, fondata sulla necessità dello stato di graduazione quale unico mezzo di prova dell'insufficienza dell'eredità, è in contrasto con la giurisprudenza comunitaria ovvero, e con i principi generali di effettività, eguaglianza e non discriminazione, rispetto all'analoga posizione dei lavoratori in caso di chiusura del fallimento senza l'esaurimento della fase di verifica del passivo.
Per tali motivi,  la sentenza è stata cassata con l'affermazione del seguente principio di diritto: " In caso di insolvenza del datore di lavoro non soggetto alle disposizioni della legge fallimentare, qualora il lavoratore agisca, ai sensi della L. 29 maggio 1982, n. 297, art. 2, nei confronti del fondo di garanzia per ottenere il pagamento del trattamento di fine rapporto gravante sull'eredità giacente, presupposto per l'obbligo di intervento del fondo sono a) l'esistenza e la consistenza del credito risultante da un titolo anche giudiziale, che il lavoratore ha l'onere di precostituire, e b) l'insufficienza del patrimonio ereditario, che può considerasi provata, oltre che con l'esperimento infruttuoso dell'esecuzione o con lo stato di graduazione dei crediti predisposto dal curatore dell'eredità giacente, anche con la dichiarazione del curatore dell'insufficienza delle garanzie patrimoniali del debitore e dell'impossibilità di procedere alla liquidazione concorsuale per incapienza dell'attivo".

Fonte: www.altalex.com//Tfr, se l’impresa è insolvente lo paga l’Inps | Altalex

Fisco, l'Agenzia delle Entrate lancia l'allarme su possibili truffe nel Lazio

Nuovi tentativi di truffa ai danni dei contribuenti. Nei giorni scorsi, fa sapere l'Agenzia delle Entrate, alcuni cittadini residenti nel Lazio hanno ricevuto una falsa lettera di richiesta di chiarimenti sulla base di presunti controlli automatizzati delle dichiarazioni e redditometro. Nella lettera, che ricalca quelle ufficiali dell'Agenzia delle Entrate con il logo e la riproduzione della firma di un dirigente, si chiede ai contribuenti di regolarizzare la propria posizione versando una somma superiore a 4.000 euro tramite conto corrente postale o bonifico bancario ad una societa' denominata GE.RI. L'Agenzia precisa che non si tratta di comunicazioni ufficiali da parte dell'Amministrazione e ricorda che non chiede mai pagamenti tramite conto corrente postale o bonifico bancario, ma solo con l'utilizzo dei modelli di pagamento F23 o F24. L'Agenzia invita, inoltre, a non dare seguito alle richieste della falsa lettera e invita i destinatari a denunciare il tentativo di truffa, rivolgendosi quanto prima a qualsiasi ufficio delle Entrate e alle forze di polizia.

Fonte: www.italioggi.it//Fisco, l'Agenzia delle entrate lancia l'allarme su possibili truffe nel Lazio - News - Italiaoggi

Per essere imprenditore commerciale (e fallire) non è necessario lo scopo di lucro

Per la Corte di Cassazione, il dettato dell’art. 2545-terdecies del Codice Civile che dispone che le società cooperative possono essere soggette a procedura fallimentare qualora “svolgano attività commerciale”, deve essere inteso in senso oggettivo, essendo necessario ricercare il carattere dell’economicità in parametri concreti e obiettivi, vale a dire la proporzionalità tra costi e benefici (cd. lucro oggettivo). Non è invece presupposto indispensabile ai fini di tale qualifica l’operare spinti da uno scopo di lucro, di conseguenza il fine mutualistico può considerarsi totalmente compatibile con questa forma oggettiva di economicità, anche quando l’attività della cooperativa sia destinata esclusivamente ai soci. Così ha deciso la Cassazione nell’ordinanza n. 14250/2016.
La vicenda. A seguito del rigetto del reclamo proposto alla Corte d’appello di Perugia avverso la dichiarazione di fallimento pronunciata dal Tribunale di Terni, la società cooperativa protagonista della vicenda ricorre in Cassazione contestando la violazione e falsa applicazione della normativa fallimentare (articoli 5 e 15 della Legge fallimentare) e del menzionato articolo 2545-terdecies del Codice Civile.
In particolare, veniva messo in evidenza dalla ricorrente come la società cooperativa, in ragione del suo carattere di mutualità prevalente risultante dai verbali d’ispezione, non potesse essere sottoposta alla procedura fallimentare poiché mancante di uno dei presupposti indispensabili per essere soggetta alla procedura, ovvero la qualità di imprenditore commerciale richiesta sia dalla normativa civilistica (art. 2545-terdecies c.c.) sia da quella fallimentare (art. 1 l. fall).
Non è rilevante lo scopo di lucro. La Cassazione dichiara il ricorso manifestamente infondato rilevando che per il riconoscimento della qualità di imprenditore commerciale non risulta essere essenziale lo scopo di lucro (cd. lucro soggettivo), ma è sufficiente una obiettiva economicità dell’attività esercitata, da intendersi nel senso di proporzionalità tra costi e benefici (cd. lucro oggettivo), requisito quest’ultimo che, non essendo inconciliabile con il fine mutualistico, può ben essere presente nella società cooperativa, anche quando essa operi solo nei confronti dei propri soci.
In conclusione, la cooperativa a finalità prevalentemente mutualistica, qualora svolga un’attività da intendersi commerciale alla luce dei principi affermati dai Giudici di legittimità, può essere soggetta alla procedura fallimentare qualora si trovi in uno stato d’insolvenza, ravvisabile in una sproporzione tra l’attivo e il passivo.

Fonte: www.ilfallimentarista.it/Per essere imprenditore commerciale (e fallire) non è necessario lo scopo di lucro - La Stampa

sabato 13 agosto 2016

Moglie succube e prestazioni sessuali dovute: marito condannato

Soggezione totale, fisica e morale: moglie completamente succube del marito. E l’uomo considera i rapporti sessuali come una prestazione obbligata da parte della consorte. Il rifiuto opposto in un’occasione dalla donna, però, lo inchioda: per la Cassazione è legittima la condanna per violenza sessuale (sentenza n. 28492 del 12 luglio scorso).
Soggezione. Ricostruita nei dettagli la vita coniugale della coppia. Inimmaginabile l’incubo vissuto per anni dalla donna, costretta a sopportare le angherie e i maltrattamenti del marito, spesso ubriaco.
Tutti gli elementi a disposizione portano alla condanna dell’uomo, che dovrà scontare quasi quattro anni di reclusione.
A inchiodarlo, ovviamente, sono i racconti fatti dalla moglie. Ella ha portato alla luce il «problematico rapporto coniugale». E significativo è stato anche il richiamo a precedenti «denunce» nei confronti del marito, già condannato in passato per «maltrattamenti in famiglia».
Per i Giudici, in sostanza, è evidente «lo stato di completa soggezione fisica e morale» della donna, frutto del «comportamento aggressivo» tenuto dal coniuge.
Violenza. In questo contesto si inseriscono anche «le prestazioni sessuali» pretese dall’uomo.
Su questo fronte anche i Magistrati della Cassazione ritengono evidente il «reato di violenza sessuale».
Certo, si è trattato di un solo episodio, ma la dinamica è inequivocabile: «quella notte la donna era a dormire in un’altra stanza della casa coniugale» quando «è stata letteralmente prelevata» dal marito che poi l’ha sottoposta ai propri istinti sessuali senza fare ricorso «a particolari mezzi di costrizione». La terribile violenza fisica è stata anch’essa frutto della «vita coniugale», in cui la donna era la ‘schiava’ e l’uomo il ‘padrone’, che riteneva «l’attività sessuale una prestazione dovuta dalla moglie».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Moglie succube e prestazioni sessuali dovute: marito condannato - La Stampa

La Cassazione: è reato fingersi single per ingannare l’amante

Talvolta si crede tanto nella famiglia da averne due. Ora però, sentenzia la Cassazione, far credere all’amante di essere single o divorziato quando non è vero è un fatto punibile penalmente. Si tratta di «sostituzione della persona»: non basta però illudere il secondo partner di essere liberi da altri legami, si deve anche cercare un’utilità, come una convenienza economica o il semplice mantenimento di un rapporto sentimentale che altrimenti verrebbe perduto.
Gli ermellini si sono trovati di fronte alla storia di un tradimento dai risvolti grotteschi. Lui, già sposato, aveva portato avanti a lungo una seconda relazione. All’inizio, il teatrino seguiva ancora il copione dei grandi classici dell’infedeltà: far credere all’amante di voler stare con lei, di essere separato e di avere concrete possibilità di ottenere un annullamento del precedente matrimonio.
Con il tempo, però, la liaison diventa una cosa seria e la trama della storia si ingarbuglia. Lei lo presenta alla sua famiglia, viene concepito un figlio e si intavolano i primi discorsi di matrimonio. Eppure, dalla Sacra Rota ancora non arrivano notizie. Piuttosto, iniziano a insorgere i primi dubbi sulle sue buone intenzioni. Messo spalle al muro e a riprova della sua onestà, si presenta dall’amante con l’agognato documento di divorzio. Peccato si tratti di un certificato posticcio creato al computer. La sua fortuna, in questo caso, è quella di non avere particolari abilità nella contraffazione di documenti, evitando così il reato di falso in atto pubblico. Per la Cassazione, infatti, si tratta di «falso grossolano». Lei nel frattempo, già insospettita, inizia a indagare. Scopre così che l’uomo non solo non è separato ma continua a vivere con la moglie dalla quale, tra l’altro, aspetta anche un figlio. E si finisce in tribunale.
Non è la prima volta che la Cassazione interviene in materia di tradimenti. Negli anni è diventato reato spiare il cellulare della moglie o del marito, perché lesivo della privacy. Punibile poi chi informa il coniuge del proprio amante del tradimento che ha subito, con l’intento di recare un danno alla loro relazione: si tratta di molestie. E se si è stati infedeli – sentenzia ancora la Cassazione – al momento della separazione si devono quasi sempre pagare gli alimenti, anche se l’amore clandestino è stato solo platonico. Unica eccezione? Si può essere infedeli se il partner è troppo «mammone».

Fonte: www.lastampa.it/La Cassazione: è reato fingersi single per ingannare l’amante - La Stampa

lunedì 8 agosto 2016

Giustizia: in vigore la Convenzione sull'assistenza penale tra gli Stati Ue

Entra in vigore oggi, dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 181 di ieri, la legge 21 luglio 2016, n. 149 in materia di “Ratifica ed esecuzione della Convenzione relativa all'assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri dell'Unione europea, fatta a Bruxelles il 29 maggio 2000”. Il Governo è delegato ad adottare, entro sei mesi, uno o più decreti legislativi recanti la compiuta attuazione della Convenzione. La norma mira ad una complessiva semplificazione delle rogatorie ed in generale della collaborazione tra Stati. Regolata in dettaglio anche la richiesta di trasmissione delle intercettazioni presso un altro paese. Il Governo è anche delegato ad adottare uno o più decreti legislativi per la riforma del libro XI del codice di procedura penale con una differente regolamentazione delle estradizioni, delle domande di assistenza giudiziaria, ecc. tra stati Ue ed extra Ue.

Fonte: www.ilsole24ore.com/www.diritto24.ilsole24ore.com/art/guidaAlDiritto/dirittoPenale/2016-08-05/giustizia-vigore-convenzione-assistenza-penale-gli-stati-ue-145821.php

Canone Rai, rimborsa il fisco

Se un contribuente cambia società elettrica e ha fatto richiesta di rimborso del canone Rai, perché erroneamente addebitato sulla bolletta, non sarà l’impresa elettrica a restituire l’importo non dovuto ma l’Agenzia delle entrate stessa. Questo è quanto prevede il provvedimento dell’Agenzia delle entrate sul rimborso (n. 125604/2016 pubblicato il 2 agosto 2016). Nel caso in cui, quindi, si cambi operatore elettrico (e il «vecchio» operatore non deve emettere più alcuna fattura a nome del soggetto in questione) o la stessa società elettrica fallisce, sarà compito delle Entrate stesse occuparsi del rimborso (per il mese di luglio pari a 70 euro). Se si è fornito un Iban, gestito dal circuito Sepa, allora l’erogazione avverrà con accredito sul conto corrente bancario o postale che è stato comunicato dal beneficiario.

Fonte: Canone, rimborsa il fisco - News - Italiaoggi

venerdì 5 agosto 2016

Guard-rail divelto, motociclista lo centra e muore. Esclusa la responsabilità della società autostradale

Sono discutibili le condizioni del guard-rail: dopo un incidente, difatti, la struttura non è stata riparata. E purtroppo essa è causa della morte di un motociclista: una ‘due ruote’ si scontra col piantone divelto del guard-rail, e il conducente riporta lesioni gravissime. Nonostante la dinamica del drammatico episodio, però, per la Corte di Cassazione non è addebitabile nessuna responsabilità ad ‘Autostrade per l’Italia’ (sentenza n. 13948 del 7 luglio 2016).
Dinamica. Già in Tribunale e in Corte d’appello sono state ritenute non plausibili le «richieste di risarcimento» avanzate dai familiari del motociclista.
Respinta la tesi secondo cui il conducente della ‘due ruote’ abbia perso la vita a causa delle condizioni precarie del «guard-rail, divelto a causa di un vecchio incidente» e non riparato.
Tale visione è condivisa ora dai magistrati della Cassazione. Anche a loro avviso, difatti, «la perdita di controllo della moto è avvenuta prima e a prescindere dall’impatto con il guard-rail», la cui «deformazione» peraltro «era segnalata e visibile». Ciò significa che, alla luce del «rapporto della Polizia stradale» e della «testimonianza dell’automobilista che seguiva a breve distanza la vittima», è evidente la responsabilità dell’uomo alla guida della moto, la cui «condotta», sottolineano i giudici, «ha avuto efficienza causale esclusiva e autonoma nella produzione dell’incidente».
Escluso, quindi, ogni addebito nei confronti della società autostradale. Anche perché, viene aggiunto dai giudici, «la funzione assorbente propria del guard-rail ben poco avrebbe potuto contro la violenza dell’impatto».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Guard-rail divelto, motociclista lo centra e muore. Esclusa la responsabilità della società autostradale - La Stampa

Mantenimento a moglie e figli: l’uomo venda i propri immobili

Rapporto conflittuale con la moglie, con liti e rappacificamenti. Una volta sancita però la rottura definitiva, l’uomo provvede solo parzialmente ai propri “obblighi di mantenimento” in favore della coniuge e dei figli.
Inevitabile la condanna. Anche perché la tesi difensiva, centrata sulle presunte difficoltà economiche dell’uomo, è clamorosamente smentita dalle sue proprietà immobiliari.
Immobili. Ricostruita, documenti alla mano, la condotta tenuta dall’uomo. Egli ha «solo parzialmente versato l’importo dovuto per il mantenimento della coniuge e dei tre figli minori», facendo loro mancare «i mezzi di sussistenza» per «oltre sei anni». Non caso, vista la situazione familiare complicata, è dovuto intervenire «il Comune» in aiuto del «nucleo familiare», osservano i giudici.
Logica è l’accusa di “violazione degli obblighi di assistenza familiare”, e consequenziale è la condanna dell’uomo.
Su questo fronte concordano ora anche i magistrati della Cassazione che, nella sentenza n. 34211 di ieri, condividono le valutazioni compiute prima in Tribunale e poi in Corte d’appello.
Poco plausibile, difatti, l’obiezione difensiva secondo cui l’uomo «versava in una situazione di notevole incapacità economica». Egli, difatti, risulta «proprietario, tra l’altro, di beni immobili», dalla cui «vendita», osservano i magistrati, «avrebbe potuto ricavare quanto necessario per il mantenimento dei figli minori».
Resta, quindi, assolutamente non comprensibile il versamento ‘a singhiozzo’ delle somme destinate alla moglie.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Mantenimento a moglie e figli: l’uomo venda i propri immobili - La Stampa

giovedì 4 agosto 2016

Intercettazioni telefoniche: pubblicate le linee guida del Csm

Nel documento si sottolinea la centralità della figura del P.M. «nella gestione e direzione delle indagini, nella selezione delle intercettazioni e nella attivazione delle procedure di stralcio e distruzione, con conseguente necessità di fare affidamento innanzitutto sulla professionalità dei magistrati procedenti e sulla correttezza nella concreta gestione del rapporto che la legge delinea fra pubblico ministero e polizia giudiziaria».
No secco, da parte del CSM, a qualsivoglia forma di delega “in bianco” alla polizia giudiziaria, pratica cui si oppongono «ragioni di ordine sistematico e normativo, che individuano nel P.M. l’unico organo, in quanto magistrato, in possesso degli imprescindibili strumenti conoscitivi, spesso di non facile applicazione rispetto al caso concreto, atti a consentire un appropriato vaglio delle conversazioni».
E’ il pubblico ministero che, nel trattamento dei dati sensibili, «potrà operare una prima selezione delle conversazioni, dando direttive sul punto alla polizia giudiziaria, affinché proceda alla trascrizione di un sunto o ne annoti solo la mera indicazione dei dati estrinseci. Potrebbe costituire ulteriore ausilio alla riservatezza del dato, come in precedenza illustrato, la redazione di un indice a cura della polizia giudiziaria in fase di ascolto, contenente solo il numero progressivo delle conversazioni non trascritte e meramente indicate nel brogliaccio. Il PM, nell’ulteriore e successivo vaglio degli atti da porre a base della richiesta di misura cautelare e nella medesima richiesta potrà selezionare le conversazioni da utilizzare, nell’ambito di una delibazione che resta di esclusiva pertinenza dell’autorità giudiziaria, in ordine alla rilevanza probatoria delle conversazioni contenenti dati sensibili».
«E’ auspicabile che i magistrati si attengano ad un onere di sobrietà contenutistica, eventualmente valutando se omissare, nelle conversazioni comunque rilevanti, i riferimenti a cose o persone, se non strettamente necessari, dandone conto con adeguata motivazione».
Va ribadito con decisione – si legge nel documento – «che il rimedio alla divulgazione non può essere rappresentato dalla riduzione dell’area operativa del mezzo di ricerca della prova in esame, che è indispensabile per le investigazioni. Né tantomeno dall’opzione di riportare per riassunto e non in forma integrale le conversazioni nei provvedimenti giudiziari, con il rischio di ridurre la genuinità della prova scaturita dalla conversazione intercettata. La mera raccolta di dati personali, infatti, non provoca una lesione del diritto alla riservatezza, che invece deriva dall’eventuale patologica violazione delle regole di gestione di simili dati. L’opzione operata attraverso la presente risoluzione muove dunque su di una direttrice tesa alla maggiore limitazione possibile della divulgazione dei dati sensibili».
Tale operazione – conclude il CSM – «dovrà essere compiuta tenendo conto che in tali casi ci si troverà di fronte alla inevitabile necessità di operare un contemperamento di interessi parimenti garantiti e tutelati, con l’esigenza di ricercare il giusto equilibrio tra valori costituzionali, nessuno dei quali è tanto prevalente da imporre automaticamente il sacrificio dell’altro. Una attenta e responsabile applicazione di tali presidi ovvero di alcuni di essi potra consentire di assicurare in via generale un livello avanzato di tutela ai soggetti coinvolti nonché ai magistrati responsabili del trattamento del dato, di operare, nell’ambito della legislazione vigente, in un quadro di regole e di standards operativi condiviso dall’organo di governo autonomo».

Per leggere la Guida cliccare qui: Intercettazioni-285-VV-2016.pdf

Fonte: www.giurisprudenzapenale.com

Assenze ingiustificate e nessuna comunicazione all’azienda: eccessivo il licenziamento

Assente da lavoro per tre giorni consecutivi. Nessuna giustificazione da parte del dipendente. Nessuna comunicazione all’azienda.
Condotta discutibile, quella del lavoratore, ma non così grave da spingere la società ad optare per il licenziamento.
Assente. Decisione drastica da parte dell’azienda, operativa nel settore delle “arti grafiche”: dipendente «licenziato in tronco». Decisiva «l’assenza» dell’uomo – non presentatosi «per tre giorni» in ufficio –, «assenza ingiustificata» e «non comunicata» alla società.
Per i giudici, sia di Tribunale che di Corte d’appello, però, il ragionamento aziendale è viziato: «la condotta addebitata al dipendente», difatti, è sì «contemplata dal contratto collettivo» – quello delle «aziende grafiche» – ma valutata solo come «infrazione disciplinare» punibile con una «sanzione conservativa».
Irrilevante, peraltro, aggiungono i giudici, anche il fatto che l’«assenza ingiustificata» era stata accompagnata anche dalla «mancata comunicazione» all’azienda.
Ciò significa che il «licenziamento disciplinare» è da considerare un abuso.
Contratto. A porre il ‘sigillo’ definitivo sulla vittoria del lavoratore provvedono i magistrati della Cassazione con la sentenza n. 13787 dello scorso 6 luglio. Anche loro, come già i giudici in Tribunale in Appello, utilizzano il «contratto collettivo» come strumento fondamentale per fare chiarezza sull’intera vicenda. E anche loro ritengono eccessivo il «licenziamento».
Nessun dubbio sull’irregolare condotta tenuta dal lavoratore. Egli è «risultato assente dal servizio per tre giorni». Ma, sottolineano i giudici, il contratto stabilisce che «può essere licenziato con preavviso il dipendente che abbia effettuato assenze ingiustificate oltre cinque giorni consecutivi». Invece, per le «assenze» relative a un periodo massimo di cinque giorni, sono previste «sanzioni» meno dure, come «rimprovero, multa, sospensione».
E la omessa «comunicazione» all’azienda non rende più grave la posizione del lavoratore.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Assenze ingiustificate e nessuna comunicazione all’azienda: eccessivo il licenziamento - La Stampa

Canone tv, tre vie per i rimborsi

Tre strade per il rimborso del canone Rai non dovuto: oltre all’accredito (una sorta di compensazione) in bolletta, anche il bonifico bancario o l’assegno. E’ quanto trapela dalle società elettriche in assenza di precise indicazioni da parte dell’Agenzia delle entrate. L’amministrazione martedì scorso ha pubblicato il provvedimento n.125604/2016 inerente al rimborso del canone tv erroneamente addebitato. Ma non ha fornito indicazioni su alcuni punti che restano quindi ancora oscuri. Ad esempio:  nel caso in cui il contribuente abbia deciso di non eseguire il pagamento di 70 euro (ritenuti non dovuti) sulla bolletta di luglio, cosa succede? La strada, va detto, è stata ritenuta percorribile dalle stesse Entrate il 25 luglio scorso in un post sulla propria pagina Facebook, tralasciando tuttavia un’analisi della sanzione in cui si incapperebbe nel caso in cui la pratica  del “non pagamento” non presentasse tutti i requisiti necessari.

Fonte: www.italiaoggi.it/Canone tv, tre vie per i rimborsi - News - Italiaoggi

mercoledì 3 agosto 2016

Pokemon Go: prima disamina dei problemi legali

Il 15 luglio anche l'Italia ha visto l'uscita dell'attesissimo e molto discusso Pokemon Go, un'applicazione per smartphone in cui ogni utente deve materialmente spostarsi per il mondo reale alla ricerca di pokemon da catturare, i quali vengono visualizzati sullo schermo del proprio dispositivo attraverso un sistema che sfrutta la fotocamera dello smartphone e la geolocalizzazione.
Rispetto a questa nuova applicazione si presentano però dei possibili profili problematici dal punto di vista legale, sotto diversi aspetti.
Un primo profilo critico riguarda la possibile violazione della proprietà privata che il meccanismo di gioco potrebbe comportare. I pokemon che i singoli utenti cercano di catturare sono virtualmente posti in varie località, generalmente luoghi pubblici come ad esempio monumenti; tuttavia, si è già registrato negli Stati Uniti un caso in cui un'area privata è stata indicata come palestra del gioco, e cioè luogo di incontro in cui i pokemon possono combattere tra loro e allenarsi.
Ci si chiede quindi se in questo modo non si contribuisca in qualche modo alla violazione della proprietà privata, che è un diritto assoluto di cui il titolare può godere in modo pieno, escludendone gli altri. Innanzitutto ci si chiede se sia possibile apporre su proprietà materiali degli elementi che siano solo virtuali e se il diritto di proprietà del singolo si estenda in qualche modo anche allo spazio virtuale. In secondo luogo, qualora vi fosse una responsabilità penale dei singoli giocatori che, pur di raggiungere gli obiettivi di gioco, violino la proprietà privata, ci si chiede se qualche forma di responsabilità possa essere riconosciuta anche ai designers dell'App e quindi alla società sviluppatrice, la Niantic, per aver indotto gli utenti a violare la proprietà privata.
Un altro profilo problematico riguarda i problemi di sicurezza e di conseguenti possibili sinistri legati al gioco.
Pokemon Go sta raggiungendo tali livelli di frenesia che spesso i singoli utenti sono così concentrati da non prestare la dovuta attenzione al mondo che li circonda, giungendo persino a utilizzare il cellulare mentre sono alla guida. Non si tratta di un problema da sottovalutare, dal momento che già si è verificato negli stati Uniti il caso di un ragazzo che, assorto nel gioco, ha diretto la propria autovettura contro un albero. Il codice della strada prevede all'art. 173 comma 2 uno specifico divieto all'uso di apparecchi radiotelefonici mentre alla guida, dovendosi estendere tale divieto non solo alle comunicazioni telefoniche ma anche a tutte le operazioni che siano idonee a distrarre il conducente in modo tale che non abbia il controllo sul veicolo.
È chiaro che in caso di sinistro stradale la responsabilità cadrebbe unicamente sull'utilizzatore che liberamente scelga di usare l'applicazione al volante; tuttavia, la possibilità che si verifichino sinistri non si ferma qui. Si pensi ad esempio al caso in cui venga designata come luogo in cui trovare pokemon un'area potenzialmente pericolosa per gli utenti. Nel caso in cui il giocatore, nel tentare di raggiungere tale luogo pericoloso, effettivamente si procuri un danno, ci si chiede se qualche forma di responsabilità possa ricadere sul designer che ha scelto quel luogo e quindi sulla società. In particolare, la domanda che suscita un tale scenario è se forse non esista un dovere di diligenza a carico della società per evitare che gli utenti incorrano in possibili eventi dannosi.
Tali questioni non sono poi così astratte e lontane. Nella pagina web dedicata ai termini di utilizzo del gioco viene ricordato agli utenti di "restare consapevoli dell'ambiente circostante e giocare in tutta sicurezza", così come viene raccomandato di non violare o tentare di violare la proprietà privata senza autorizzazione. E non solo. È prevista la condizione per cui il singolo utente, accettando i termini di utilizzo, rinunci al proprio diritto ad essere attore principale in cause o parte in azioni collettive contro la Niantic, rimettendo la questione ad un arbitrato individuale e vincolante, fatta eccezione soltanto per alcuni tipi di controversie e per il caso in cui rinunci espressamente a tale condizione entri trenta giorni dall'accettazione. Risulta spontaneo chiedersi se tali clausole siano idonee ad escludere qualsiasi forma di responsabilità della società, che, in questo modo, sembra riconoscere implicitamente le possibili problematiche dell'applicazione.
Non si devono infine dimenticare i problemi di privacy legati in generale al mondo delle applicazioni, che nel caso di Pokemon Go sono sembrati ancora più critici. Nei giorni scorsi si sono sollevate diverse voci di preoccupazione legate alla violazione della privacy degli utenti, dal momento che il download richiedeva tra le varie modalità per registrarsi l'accesso completo all'account Google del singolo utente. In realtà la Niantic ha presto risposto alle paure di intrusione nella sfera privata dei singoli users, attivandosi per far si che Pokemon Go richieda solo l'accesso a informazioni basilari come il nome utente e l'indirizzo mail e affermando che si era trattato di un mero errore.
Tuttavia, anche se la problematica sembra risolta, restano i dubbi in materia di tutela della privacy che riguardano le applicazioni in generale, ma ancor più Pokemon Go, che viene spesso utilizzata da minori e che sfrutta il meccanismo della geolocalizzazione, tracciando il giocatore in ogni momento.

Fonte: www.ilsole24ore.com/Pokemon Go: prima disamina dei problemi legali

“Ti faccio fare un ‘Tso’!”: lo sfogo del medico può diventare una minaccia

Parole frutto, in apparenza, di un momento di rabbia. Esse, però, sono pronunciate da un medico e rivolte a una paziente. Tale legame tra le due persone coinvolte cambia la valutazione della frase.
Rapporto. Per il Giudice di pace l’espressione utilizzata dall’uomo, per quanto «minacciosa» in apparenza, non è comunque «idonea a produrre effetti intimidatori». Le parole pronunciate, cioè «Io chiamo la polizia e ti faccio fare un ‘Tso’», non potevano avere ripercussioni sulla persona a cui essa erano rivolte.
Ciò ha giustificato «l’archiviazione del procedimento penale» nei confronti del medico.
Decisione messa ora in discussione, però, dai magistrati della Cassazione con la sentenza n. 27915 depositata lo scorso 6 luglio. A loro dire, difatti, è stato trascurato il contesto della vicenda, ossia il rapporto esistente tra le persone coinvolte: lui «medico» e lei «paziente». Questo elemento, secondo i giudici, deve far riconsiderare il peso delle parole impiegate dall’uomo. Lui, da «medico», «poteva attivare le procedure prospettate», ossia il ricorso al ‘Tso’, e la donna era consapevole della propria posizione di debolezza…
Rimane in piedi, quindi, l’ipotesi del «reato di minaccia», su cui dovrà nuovamente pronunciarsi il Giudice di Pace, valutando con attenzione le posizioni delle due persone coinvolte.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/“Ti faccio fare un ‘Tso’!”: lo sfogo del medico può diventare una minaccia - La Stampa

Unioni civili e convivenze assumono rilievo anche per la vita in condominio

La legge n. 76/2016, c.d. Cirinnà, introduce due nuove forme di unione quali specifiche formazioni sociali ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione, che rilevano anche nell’ambito del condominio. L’amministratore del condominio dovrà considerare anche le coppie legate da unione civile e quelle regolate da rapporto di convivenza ai fini della tenuta del registro di anagrafe condominiale e per la convocazione alle assemblee.
Tra le numerose incombenze dell’amministratore condominiale vi è anche quella di avere piena conoscenza dell’identità dei condomini: tra i nuovi compiti che il novellato art. 1130 n. 6) c.c. attribuisce all’amministratore vi è quello di curare la tenuta del registro di anagrafe condominiale, che deve contenere le generalità dei singoli proprietari e dei titolari di diritti reale o di diritti personali di godimento, comprensive del codice fiscale e della residenza o domicilio, i dati catastali di ciascuna unità immobiliare, nonché ogni dato relativo alle condizioni di sicurezza delle parti comuni dell’edificio. La citata norma pone a carico del condomino l’onere di comunicare all’amministratore ogni variazione, in forma scritta ed ante entro sessanta giorni: in caso di inerzia, in mancanza o in presenza di dati incompleti, l’amministratore deve richiedere con raccomandata le informazioni necessarie alla tenuta del registro di anagrafe. Ove nonostante ciò, la risposta del condomino non pervenga o sia incompleta, l’amministratore è legittimato ad acquisire le informazioni necessarie addebitandone il costo ai responsabili.
Il contenuto della citata disposizione si pone nel solco di quel gruppo di norme che hanno disciplinato in modo preciso gli obblighi di informativa e di reperimento, aggiornamento e conservazione attribuiti all’amministratore in funzione del rafforzamento della trasparenza e della completezza di informazioni che devono caratterizzare secondo la riforma della disciplina condominiale, introdotta con la legge 220/2012, non solo i rapporti tra i condomini e l’amministratore, ma anche i rapporti tra il condominio ed i terzi: da qui l’espressa previsione dell’obbligo di tenuta e aggiornamento del registro di anagrafe condominiale ove annotare le generalità e i dati dei condomini proprietari, nonché titolari di diritti reali, nonché le generalità dei titolari di diritti personali di godimento quali i conduttori o i comodatari di unità immobiliari ubitace ne condominio.
Individuare i soggetti che dimorano nell’edificio condominiale in qualità di proprietari o di titolari di diritti personali di godimento è indispensabile per la regolare convocazione dell’assemblea: ai sensi dell’art. 1136, comma 6, c.c. tutti gli aventi diritto devono essere convocati alla riunione, pena l’annullabilità delle delibere, con avviso da comunicare a ciascuno di essi almeno cinque giorni prima della data fissata per l’adunanza. Presupposto per avere diritto ad essere convocato all’assemblea condominiale, compito a cui è tenuto istituzionalmente l’amministratore, ex art. 66 disp. att. c.c., ma che in sua mancanza può essere svolto da ciascun condomino, e pur in sua presenza può essere assunto da almeno due condomini che rappresentino un senso del valore millesimale, è dunque essere un avente diritto, per tale intendendosi non solo il proprietario di una unità immobiliare sita in condominio, ma anche il titolare di un diverso diritto reale, quale è il nudo proprietario e l’usufruttuario, nonché colui che proprietario in comunione indivisa.
Questi aspetti della organizzazione e della vita condominiale devono ora tener conto delle nuove situazioni personali che implicano necessariamente una relazione con il bene casa quale luogo di realizzazione e svolgimento della vita famigliare.
La recente disciplina sulle unioni civili, costituite da due persone maggiorenni delle stesso sesso, che viene in essere con la dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni, ricalca le disposizioni previste in materia di matrimonio, con un limite generale espressamente indicato al comma 20 dell’art 1 della legge 76/2016 ed uno particolare in relazione alle disposizioni di cui alla legge in materia di adozione (la c.d. stepchild adoption). Il regime patrimoniale dell’unione civile, in mancanza di diversa convenzione, è costituito dalla comunione dei beni: ove la casa famigliare consista in un alloggio in condominio, l’amministratore dovrà provvedere a convocare tutti i comproprietari, dunque i soggetti uniti civilmente, informandoli che solo uno di loro potrà partecipare con diritto di voto che sarà vincolante anche per l’altro comproprietario. In sostanza, l’avviso di convocazione dovrà essere indirizzato ad entrambi i componenti dell’unione civile (al pari dei coniugi in regime di comunione), anche se solo uno dei due potrà partecipare ed esprimere il proprio voto.
Per la validità dell’assemblea è necessario che siano convocati tutti gli aventi diritto, perciò la prova della valida convocazione può essere fornita con ogni mezzo, anche attraverso la presunzione che l’avviso inviato ad uno dei componenti della coppia, coniugi o uniti civili, sia giunto a conoscenza dell’altro: ciò vale salvo l’ipotesi in cui sia stato reso noto all’amministratore dell’intervenuta separazione tra i coniugi o dell’intervenuta scioglimento dell’unione civile.
Ove la coppia unita civilmente conduca in locazione un’unità abitativa ubicata in condominio, occorrerà verificare chi sia il soggetto conduttore, il quale ha diritto di partecipare all’assemblea condominiale, ma solo in relazione ad alcuni determinati argomenti rispetto ai quali ha diritto di esprimere il voto in sostituzione del proprietario/locatore: l’avviso di convocazione, però, deve pur sempre essere inviato al proprietario condomino/locatore che è tenuto ad informare il conduttore, senza che le conseguenze della mancata convocazione del conduttore si possano far ricadere sul condominio, che rimane estraneo al rapporto di locazione. In sintesi, il conduttore ha diritto di partecipare con diritto di voto nelle delibere concernenti le spese e le modalità di gestione dei servizi di riscaldamento e di condizionamento d’aria; di partecipare, senza diritto di voto, nelle delibere concernenti la modificazione degli altri servizi comuni.
Un’altra unione con rilevanza legale è ora anche la convivenza di fatto, definita dalla legge Cirinnà, come quella situazione di due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da unione civile.
La recente disciplina prevede che in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni. Ove nella stessa coabitino figli minori o figli disabili del convivente superstite, il medesimo ha diritto di continuare ad abitare nella casa comune per un periodo non inferiore a tre anni. In sostanza, il legislatore ha garantito al convivente non proprietario un diritto di abitazione a tempo determinato nelle ipotesi in cui l’alloggio adibito a residenza dei partner fosse di proprietà del solo defunto e non vi siano figli. Il convivente, infatti, non matura alcun diritto sulla casa di residenza comune se essa è di proprietà del partner: il convivente non rientra tra i successibili ex lege e potrà maturare diritti sulla casa, come sugli altri beni del partner, solo ove venga indicato quale erede testamentario e sempre che in presenza di eredi legittimari, tale disposizione sia nei limiti della quota disponibile.
Nei casi di morte del conduttore o di suo recesso dal contratto di locazione della casa di comune residenza, il convivente di fatto ha facoltà di succedergli nel contratto: tale facoltà era per altro già stata per altro riconosciuta dalla Corte costituzionale, 31 marzo 1988, n. 377, che aveva esteso il novero dei soggetti aventi diritti a succedere al conduttore in caso di sua morte previsto dall’art. 6 della legge 392/1978 anche al convivente more uxorio.
Va poi evidenziato che i conviventi di fatto possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza che può contenere: l’indicazione della residenza; le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo; il regime patrimoniale della comunione dei beni.
Il contratto deve essere redatto in forma scritta a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che ne attestano la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico. Per essere opponibile ai terzi – e dunque anche all’amministratore del condominio – il contratto di convivenza deve essere, a cura del professionista che ha autenticato le sottoscrizioni, entro dieci giorni trasmesso al comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe.
Nuove famiglie e nuovi soggetti devono dunque essere considerati dall’amministratore di condominio diligente per evitare l’insorgere di contestazioni.

Fonte: www.quotidianogiuridico.it/Unioni civili e convivenze assumono rilievo anche per la vita in condominio | Quotidiano Giuridico

Come chiedere il rimborso del Canone Rai

Il cittadino può chiedere il rimborso del canone tv, nel caso in cui lui stesso o un altro componente della sua famiglia anagrafica sia in possesso dei requisiti di esenzione (anche per effetto di convenzioni internazionali) e sia stata presentata l’apposita dichiarazione sostitutiva. Il documento di prassi ricorda che sono esenti i contribuenti over 75 con reddito complessivo familiare non superiore a 6.713,98 euro.
E’, inoltre, possibile presentare la domanda di rimborso, se il contribuente ha pagato il canone tramite addebito sulle fatture di energia elettrica e lui stesso o un altro componente della famiglia anagrafica ha versato il canone anche con modalità diverse dall’addebito.
Infine, la richiesta di rimborso è ammissibile quando il cittadino ha pagato il canone inserito nelle fatture di energia elettrica e lo stesso canone risulta corrisposto anche mediante addebito sulle fatture relative a un’utenza elettrica intestata ad altro componente della famiglia anagrafica. In questo caso, la domanda vale anche come dichiarazione sostitutiva per richiedere il non addebito sulla propria utenza elettrica e comunicare il codice fiscale del familiare che già paga il canone mediante la sua fornitura elettrica. L’istanza di rimborso può essere presentata anche da un erede in relazione al canone tv addebitato sulla bolletta elettrica intestata ad un soggetto deceduto.
Come presentare l’istanza di rimborso del canone Rai
La richiesta di rimborso può essere inviata, insieme ad una copia di un documento di riconoscimento, con raccomandata al seguente indirizzo: Agenzia delle Entrate, Direzione Provinciale 1 di Torino, Ufficio di Torino 1, S.A.T. – Sportello abbonamenti TV – Casella Postale 22 – 10121 Torino.
Il titolare del contratto per la fornitura di energia elettrica, gli eredi o gli intermediari abilitati delegati dal contribuente potranno presentare l’istanza anche in via telematica attraverso l’applicazione web disponibile a partire dal 15 settembre 2016 sul sito dell’Agenzia delle Entrate, utilizzando le credenziali dei servizi telematici.
Sono considerate valide anche le istanze inviate prima della pubblicazione del provvedimento di oggi, purché contengano i dati necessari per la verifica dei presupposti del rimborso.
Come avviene la restituzione dei soldi: l’accredito dei rimborsi
I rimborsi sono effettuati dalle imprese elettriche mediante accredito sulla prima fattura utile, oppure con altre modalità, sempre che le stesse assicurino l’effettiva erogazione entro 45 giorni dalla ricezione, da parte delle stesse imprese elettriche, delle informazioni utili all’effettuazione del rimborso, trasmesse dall’Agenzia delle Entrate. Nel caso in cui il rimborso da erogare a cura delle imprese elettriche non vada a buon fine, il rimborso sarà pagato direttamente dall’Agenzia delle entrate.
Come compilare il modulo per il rimborso canone Rai
Dati del dichiarante
In questa sezione vanno indicati i dati anagrafici (Cognome, Nome, data e luogo di nascita, codice fiscale) e l’indirizzo e-mail del soggetto che richiede il rimborso.
Richiesta in qualità di erede di
Se il rimborso è richiesto da un erede in relazione all’utenza elettrica intestata a un soggetto deceduto, nella relativa sezione vanno indicati i dati anagrafici e il codice fiscale del soggetto deceduto.
Impegno alla presentazione telematica
Questo riquadro deve essere compilato e firmato soltanto se la richiesta di rimborso è trasmessa tramite un intermediario abilitato, che inserirà il proprio codice fiscale e la data (giorno, mese e anno) di assunzione dell’impegno a trasmettere.
Richiesta di rimborso
In questo riquadro vanno indicati:
– l’anno d’imposta cui si riferisce il canone tv. L’anno non può essere il 2015 o un altro anno precedente, in quanto questo modello è utilizzabile solo per il rimborso del canone addebitato nelle fatture per la fornitura di energia elettrica;
– l’importo totale del rimborso richiesto;
– il codice del POD (punto di prelievo – informazione presente nella fattura/bolletta). Se il POD è il medesimo per tutte le fatture è sufficiente indicarlo una sola volta nella prima riga;
– il numero identificativo delle fatture/bollette in cui è stato addebitato il canone di cui si richiede il rimborso (informazione presente nella fattura/bolletta);
– l’importo del canone di cui si richiede il rimborso per ciascuna fattura.
L’importo totale richiesto deve coincidere con la somma degli importi del canone richiesti a rimborso per ciascuna fattura.
Inoltre, va specificato il motivo per cui si richiede il rimborso del canone pagato a seguito di addebito nella fattura per la fornitura di energia elettrica ma non dovuto, indicando nella richiesta il codice appropriato tra quelli di seguito elencati:
1) il richiedente o un altro componente della sua famiglia anagrafica è in possesso dei requisiti di esenzione di cui all’art. 1, comma 132, della legge n. 244/2007 (cittadino ultra 75enne con reddito complessivo familiare non superiore a 6.713,98 euro) ed è stata presentata l’apposita dichiarazione sostitutiva;
2) il richiedente o un altro componente della sua famiglia anagrafica è in possesso dei requisiti di esenzione per effetto di convenzioni internazionali (ad esempio, diplomatici e militari stranieri) ed è stata presentata l’apposita dichiarazione sostitutiva;
3) il richiedente ha pagato il canone mediante addebito sulle fatture per energia elettrica, e lui stesso o un altro componente della sua famiglia anagrafica ha pagato il canone anche con modalità diverse dall’addebito (ad esempio mediante addebito sulla pensione);
4) il richiedente ha pagato il canone mediante addebito sulle fatture per energia elettrica e lo stesso canone è stato pagato anche mediante addebito sulle fatture relative a un’utenza elettrica intestata ad altro componente della stessa famiglia anagrafica.
N.B. In questo caso indicare:
il codice fiscale del familiare a cui è stato addebitato il canone.
Tale indicazione vale come dichiarazione sostitutiva ai sensi dell’articolo 47 del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 e produce gli effetti derivanti dalla presentazione della dichiarazione sostitutiva di cui al punto 1.1, lettera c), del provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate del 24 marzo 2016, e sue successive modifiche;
il periodo in cui sussistono i presupposti della richiesta. In particolare, nel campo “data inizio”, deve essere indicata la data da cui ricorrono i presupposti che si stanno attestando (appartenenza alla stessa famiglia anagrafica). Il campo “data fine” deve essere compilato esclusivamente se, alla data di presentazione dell’istanza, è cessata la sussistenza dei presupposti attestati. Pertanto, in tale campo va indicata la data in cui è avvenuta tale cessazione (ad esempio nel caso in cui il richiedente, alla data di presentazione dell’istanza di rimborso, non appartiene più alla famiglia anagrafica del soggetto il cui codice fiscale è stato indicato nell’apposito campo). Se, invece, alla data di presentazione dell’istanza di rimborso, il presupposto sussiste ancora, il campo “data fine” non deve essere compilato.
Se il campo “data fine” non è compilato, la richiesta di rimborso presentata con motivazione codice 4 vale come dichiarazione sostitutiva per dichiarare che il canone di abbonamento alla televisione per uso privato non deve essere addebitato in alcuna delle utenze elettriche intestate al richiedente del rimborso in quanto il canone è dovuto in relazione all’utenza elettrica intestata ad altro componente della stessa famiglia anagrafica.
Per famiglia anagrafica si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune (articolo 4 del D.P.R. n. 223/1989).
L’erede può compilare questa sezione per dichiarare che il canone è dovuto in relazione all’utenza elettrica intestata a se stesso o ad altro soggetto, anche se l’intestatario dell’utenza elettrica non fa parte della stessa famiglia anagrafica del deceduto.
Se successivamente alla presentazione dell’istanza di rimborso si verifica una variazione dei presupposti, va compilata l’apposita sezione “Dichiarazione di variazione dei presupposti” del modello di dichiarazione sostitutiva relativa al canone di abbonamento alla televisione per uso privato approvato con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate del 24 marzo 2016, e successive modifiche, disponibile sul sito www.agenziaentrate.gov.it.
5) il richiedente ha presentato la dichiarazione sostitutiva di non detenzione di apparecchi televisivi da parte propria e dei componenti della sua famiglia anagrafica.
6) altri motivi diversi dai precedenti.
Nell’apposito spazio può essere inserita una sintetica descrizione del motivo per cui si richiede il rimborso del canone di abbonamento.
Firma del richiedente
Indicare la data e apporre la firma del richiedente.
La richiesta di rimborso è presentata:
– direttamente dal titolare del contratto per la fornitura di energia elettrica, o dagli eredi, mediante una specifica applicazione web disponibile sul sito internet dell’Agenzia delle entrate, utilizzando le credenziali Entratel o Fisconline, in relazione ai requisiti posseduti per la presentazione delle dichiarazioni fiscali di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 luglio 1998, n. 322;
– tramite gli intermediari abilitati di cui all’articolo 3, comma 3, del predetto d.P.R. n. 322 del 1998, appositamente delegati dal contribuente, che a tal fine utilizzano l’applicazione web disponibile sul sito internet dell’Agenzia delle entrate di cui al precedente punto.
Come va presentata la richiesta di rimborso
La richiesta di rimborso si considera presentata nella data risultante dalla ricevuta rilasciata in via telematica dall’Agenzia delle entrate.
Nei casi in cui non sia possibile la trasmissione telematica, la richiesta di rimborso può anche essere spedita a mezzo del servizio postale mediante raccomandata al seguente indirizzo:
Agenzia delle entrate – Direzione Provinciale 1 di Torino – Ufficio Torino 1 – Sportello abbonamenti TV – Casella postale 22 – 10121 Torino.
La richiesta di rimborso si considera presentata nella data di spedizione risultante dal timbro postale. ATTENZIONE: in quest’ultima ipotesi il modello deve essere presentato unitamente alla copia di un valido documento di riconoscimento.

Per scaricare il modello cliccare quiRic_RIMB_RAI_mod.pdf

Fonte: www.laleggepertutti.it

martedì 2 agosto 2016

Sovraffollamento carcerario: anche i condannati all'ergastolo hanno titolo al risarcimento del danno

Con la sentenza n. 204 del 21 luglio 2016, la Corte costituzionale, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 35 ter ord. penit. nella parte in cui « non prevede, nel caso di condannati alla pena dell'ergastolo che abbiano già scontato una frazione di pena che renda ammissibile la liberazione condizionale, il ristoro economico previsto dal comma 2 », sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 3 della CEDU, ha affermato che: "sarebbe... fuori da ogni logica di sistema, oltre che... in contrasto con i principi costituzionali, immaginare che durante la detenzione il magistrato di sorveglianza debba negare alla persona condannata all'ergastolo il ristoro economico, dovuto per una pena espiata in condizioni disumane, per la sola ragione che non vi è alcuna riduzione di pena da operare".

Per leggere la sentenza cliccare qui: Consulta OnLine - Sentenza n. 204 del 2016

Fonte: www.penalecontemporaneo.it

Diritti dell'uomo, boom di indennizzi

Oltre 77 milioni di euro. È la cifra che l'Italia ha dovuto versare nel 2015 per gli indennizzi dovuti a violazioni della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. L'importo più alto in assoluto liquidato dal Governo per risarcire le vittime di violazioni accertate o attraverso una sentenza di condanna della Corte europea o a seguito di regolamenti amichevoli e dichiarazioni unilaterali. Segno evidente che, anche se diminuiscono le sentenze di condanna a Strasburgo, non diminuiscono le violazioni dei diritti dell'uomo, che pesano per di più come un macigno sulle casse dello Stato. La cifra monstre è messa nero su bianco nella relazione annuale sull'esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell'uomo nei confronti dell'Italia. presentata dal dipartimento per gli Affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio (ufficio del contenzioso) con riferimento al 2015.

Fonte: www.ilsole24ore.com/Diritti dell'uomo, boom di indennizzi

Punti della patente finiti, revisione immediata

Il conducente che esaurisce i punti della patente deve richiedere tempestivamente alla motorizzazione di poter sostenere l'esame di revisione della licenza di guida, con tanto di rilascio di foglio rosa. Ma per chi non si presenta poi alle prove scatterà la sospensione della patente oppure la revoca per i più negligenti. Lo hanno chiarito i Trasporti con circolare n. 16729 del 22/7/2016, in vigore dal 3 novembre 2016. Il 1° luglio 2016 sono entrati in vigore i nuovi programmi d'esame per gli esami di teoria per la revisione delle patenti di guida e della carta di qualificazione del conducente. Per sostenere l'esame di revisione, specifica la nota, il candidato dovrà presentare una domanda, redatta su un modello ad hoc, con allegata una copia del provvedimento di revisione e il certificato medico, se richiesto. La richiesta ha validità annuale, specifica il ministero. Alla scadenza l'interessato dovrà presentare una nuova istanza se non ha ancora superato entrambe le prove. La domanda dovrà essere presentata entro 30 giorni dal ricevimento del provvedimento di revisione della licenza di guida, prosegue la circolare. Pena la sospensione della patente di guida fino al superamento delle prove. Gli esami di revisione della licenza di guida si svolgeranno in due giorni diversi. Prima quello teorico, con revoca della patente in caso di mancato superamento. La prova pratica, conseguente al superamento di quella teorica, verrà invece disposta successivamente, previo rilascio del foglio rosa per consentire al conducente di esercitarsi alla guida con un istruttore a fianco. Se il candidato non riuscirà a superare la prova pratica scatterà la revoca della licenza e il conducente potrà eventualmente tentare di conseguire nuovamente tutte le categorie, o solo alcune. La revisione della carta di qualificazione del conducente, infine, scatterà all'esaurimento totale del punteggio speciale a disposizione dei conducenti professionali. Se il conducente risulta titolare sia della cqc trasporto cose che persone scatterà il programma d'esame attinente alla materia in cui il trasgressore ha commesso più violazioni.

Fonte: www.italiaoggi.it//Punti finiti Revisione immediata - News - Italiaoggi

Si sente vessato dal carabiniere: lo filma e gli promette una denuncia. Condotta non punibile

Armato di telefono cellulare. Obiettivo puntato sul carabiniere, in procinto di redigere un “verbale”. Esplicita l’intenzione dell’uomo: filmare il militare – all’interno della caserma, per giunta – e poi utilizzare il video a corredo di una denuncia.
Condotta sicuramente poco ortodossa, ma non catalogabile per la Corte di Cassazione come “minaccia a pubblico ufficiale”.
Telefonino. A dare il ‘la’ alla vicenda un controllo in strada effettuato dai Carabinieri, anzi, più precisamente, la «contravvenzione» nei confronti del «conducente di un’autovettura». Pochi giorni dopo il «proprietario del veicolo» si presenta «in caserma», munito di «carta di circolazione», per chiarire la propria posizione.
Di fronte alla irregolarità – «mancata revisione» dell’automobile – contestatagli dal militare, però, l’uomo reagisce in maniera scomposta: prende il telefono e intima al carabiniere «di stare attento, perché lo stava filmando» e di «non fargli il verbale», preannunciandogli poi una «denuncia».
Per i giudici d’Appello, contrariamente a quanto stabilito in Tribunale, l’uomo è responsabile di «minaccia a pubblico ufficiale». Conseguente la condanna a «2 mesi e 20 giorni di reclusione».
Minaccia. Di avviso completamente opposto, invece, i magistrati della Cassazione, ovviamente per la gioia dell’uomo finito sotto accusa (sentenza n. 27955 depositata il 6 luglio).
Per i giudici è fondamentale valutare il contenuto dello scontro col militare, frutto della presunta illegittimità della «sanzione amministrativa» applicata al proprietario dell’automobile. Ciò consente di stabilire, secondo i giudici, che «la minaccia di riprendere con il telefono quanto stava accadendo e di sporgere denuncia» non è idonea a «coartare il pubblico ufficiale». Manca, difatti, la «potenzialità costrittiva» in «una minaccia generica, reattiva e dettata dalla percezione di sentirsi vessato dai militari».
Cadono, quindi, definitivamente le accuse nei confronti dell’uomo.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Si sente vessato dal carabiniere: lo filma e gli promette una denuncia. Condotta non punibile - La Stampa

Violenza sessuale: costituisce ''induzione'' qualsiasi forma di sopraffazione della vittima

 L’induzione necessaria ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale non si identifica solo con la persuasione subdola ma si...