venerdì 27 dicembre 2019

Il genitore deve vigilare ed educare il figlio al corretto utilizzo di Whatsapp

I pericoli cui è esposto il minore nell’uso della rete telematica rendono necessaria una sua tutela, che comporta un dovere di vigilanza e controllo da parte dei genitori al fine di evitare che tali strumenti possano essere utilizzati in modo non adeguato. Sul tema il Tribunale per i minorenni di Caltanissetta con l’ordinanza dell’8 ottobre 2019.

Il fatto. Un minore, utilizzando la chat istantanea di Whatsapp, minacciava una sua coetanea con messaggi continui tanto da generarle uno stato di ansia e di preoccupazione e indurla di conseguenza a modificare le sue abitudini di vita.
Le osservazioni dei Giudici. Premesso che l’uso di internet e degli strumenti di comunicazione è sempre più diffuso tra gli adolescenti al fine di acquisire notizie ed esprimere opinioni, allo stesso tempo noti sono anche i pericoli cui sono esposti i minori a causa di un uso non corretto degli stessi. Se infatti è vero da un lato che il minore attraverso l’uso dei social esercita il proprio diritto all’informazione e alla comunicazione, tutelato dall’art. 11 della carta dei diritti fondamentali dell’Ue e dalla Costituzione che sancisce il diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero, è anche vero che tale diritto va contemperato con la tutela della dignità del minore di età.
A tal proposito, osservano i giudici, è intervenuta anche la Cassazione (sentenza n. 19069/2006) che ha affermato la necessità di tutela del minore nel cyberspazio, facendo riferimento all’art. 16 della Convenzione di New York che sancisce il diritto del minore a non subire interferenze arbitrarie o illegali nella propria vita privata, corrispondenza o domicilio, e altresì a non subire lesioni alla sua reputazione e al suo onore. Pertanto, anche di fronte eventuali diritti costituzionalmente garantiti, quali l’informazione e la libertà di espressione, tutelare il minore nell’uso della rete telematica è un obiettivo prioritario indipendentemente dalle competenze digitali maturate.
Vigilanza dei genitori. Riguardo la responsabilità genitoriale, visti i pericoli connessi all’utilizzo della rete telematica, i genitori sono tenuti ad educare i minori al corretto utilizzo di tali mezzi di comunicazione mediante una limitazione sia quantitativa che qualitativa all’accesso e condivisione di contenuti.
Pertanto, l’anomalo utilizzo degli strumenti telematici potrebbe essere sintomatico di una scarsa vigilanza ed educazione da parte dei genitori, i quali, sono tenuti a garantire un’educazione consona alle proprie condizioni socio-economiche e, ad adempiere un’attività di verifica e controllo sul sano sviluppo psicofisico del minore.
Alla luce di tali osservazioni il Tribunale conclude stabilendo che nel caso di specie l’anomala condotta attuata dal minore, avuto riguardo anche alla pericolosità del mezzo utilizzato per perpetrarla, hanno reso necessaria un’attività di monitoraggio e supporto del giovane e della madre al fine di verificare le effettive capacità educative e di vigilanza da parte della stessa.

Fonte: www.ilfamiliarista.it

lunedì 23 dicembre 2019

La spesa per la completa sostituzione dell'ascensore deve essere ripartita fra tutti i condomini

Si segnala la sentenza della Corte di cassazione civile 22 settembre 2018, n. 22157, per cui a differenza dell'installazione "ex novo" di un ascensore in un edificio condominiale sprovvistone (le cui spese vanno suddivise ex art. 1123 c.c. proporzionalmente al valore della proprietà di ciascun condòmino), quelle relative alla completa sostituzione dell'impianto già esistente vanno ripartite ex art. 1124 c.c., dettato in tema di manutenzione e ricostruzione delle scale. Stante l'identità di ratio di tali spese, al pari delle scale l'impianto di ascensore, in quanto mezzo indispensabile per accedere al tetto ed al terrazzo di copertura, riveste la qualità di parte comune anche relativamente ai condòmini proprietari di negozi o locali terranei con accesso dalla strada, poiché pure tali condòmini ne fruiscono, quanto meno in ordine alla conservazione e manutenzione della copertura dell'edificio. Ne consegue l'obbligo gravante anche su detti partecipanti - in assenza di diversa convenzione espressa, contenuta in regolamento contrattuale o delibera unanime, che deroghi alla disciplina codicistica - di concorrere ai lavori di manutenzione straordinaria ed eventualmente di sostituzione dell'ascensore, in rapporto ed in proporzione all'utilità che possono in ipotesi trarne (Fattispecie decisa nel vigore della disciplina antecedente alla riformulazione degli artt. 1117 e 1124 c.c., introdotta dalla L. n. 220/2012).

Furto di automobile nel parcheggio a pagamento: nessun risarcimento dovuto dal gestore

Con l’ordinanza n. 31979 del 6 dicembre 2019, la Corte di cassazione ha confermato che in caso di furto di automobile avvenuto in un’area di sosta a pagamento, non deriva in ogni caso l'assunzione dell'obbligo del gestore di custodire i veicoli su di esse parcheggiati se l'avviso "parcheggio incustodito" è esposto in modo adeguatamente percepibile prima della conclusione del contratto. Infatti, l'obbligo di custodia non può sorgere dalle modalità concrete di organizzazione della sosta (quali ad esempio l'adozione di recinzioni, di speciali modalità di accesso ed uscita, o dispositivi di controllo o la presenza di un piano interrato chiuso) con la conseguenza che deve escludersi la responsabilità del gestore per la custodia dei veicoli parcheggiati nell'area di sosta a ciò predisposta qualora vi sia l’avviso di “parcheggio non custodito”.
Svolgimento del processo
1. F. C. conveniva in giudizio dinanzi il tribunale di Milano l'azienda trasporti milanesi (di seguito ATM), lamentando che la sua autovettura marca VW parcheggiata presso il parcheggio a pagamento della convenuta, fosse stata oggetto di furto da parte di ignoti, chiedendo, pertanto, la condanna dell'ente al risarcimento del danno.
2. Il Tribunale di Milano accoglieva la domanda e condannava la convenuta al risarcimento del danno liquidato in euro 10.000.
3. L'A. proponeva appello avverso la suddetta sentenza.
4. La Corte d'Appello di Milano accoglieva l'impugnazione riformava la sentenza del Tribunale di Milano e respingeva la domanda proposta da F. C. nei confronti dell'ATM. In particolare, la Corte d'Appello rilevava che l'orientamento interpretativo espresso dalla sentenza impugnata era stato superato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con la sentenza numero 14319 del 2011 che aveva affermato che il gestore, concessionario del Comune, di un'area di parcheggio senza custodia non è responsabile del furto del veicolo in sosta. Anche la successiva giurisprudenza aveva sposato il suddetto orientamento. Secondo la Corte d'Appello le considerazioni espresse nella citata sentenza erano da condividersi e dovevano applicarsi anche alla fattispecie in oggetto.
Doveva richiamarsi in primo luogo il quadro legislativo costituito dalla legge n. 122 del 1989 volta a favorire la circolazione e il decongestionamento dei centri urbani mediante la creazione di parcheggi finalizzati all'interscambio con sistemi di trasporto collettivo, con facoltà per i comuni di stabilire aree destinate a parcheggio a pagamento con riscossione mediante dispositivi di controllo della durata e dell'accesso senza custodia del veicolo, fissando le relative tariffe. La volontà del legislatore, pertanto, era di rimandare all'ente locale il potere di regolamentare la sosta dei veicoli privati nelle aree in questione e doveva riconoscersi in capo al singolo utente l'opzione se affidare il veicolo durante la sosta con garanzie di custodia ovvero utilizzare l'aria di interscambio postagli a disposizione con modalità di accesso e di pagamento semplificato e a costi più contenuti rispetto al parcheggio con custodia.
Secondo il suddetto indirizzo, peraltro, l'utente deve essere posto in condizione di una scelta consapevole della natura della propria opzione, dunque, l'offerta al pubblico deve essere chiara e ben connotata nella sua entità.
Tali requisiti dell'offerta al pubblico sussistevano nel caso in esame, non essendo contestato che all'esterno del parcheggio era affisso un avviso dal quale risultava che l'ATM. non rispondeva del furto del veicolo.
Nella specie, dunque, non poteva trovare applicazione la disciplina di cui all'articolo 1341 c.c. perché l'avviso integrava l'oggetto stesso della proposta contrattuale e non una semplice clausola.
In conclusione, la Corte d'Appello qualificava il contratto intercorso tra l'utente assicurato e l'ATM come contratto atipico di parcheggio non custodito caratterizzato da adeguato sinallagma tra le rispettive prestazioni di corrispettivo per la locazione o comodato del cosiddetto posto auto e responsabilità limitata alla struttura dell'area.
5. F. C. ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza sulla base di due motivi di ricorso.
6. L'Azienda Trasporti Milanesi S.p.A. si è costituita con controricorso e ha proposto ricorso incidentale sulla base di un motivo.
7. Con memoria depositata in prossimità dell'udienza l'Azienda Trasporti Milanese s.p.a. ha insistito nella richiesta di inammissibilità o rigetto del ricorso.
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: violazione di legge e contraddittorietà della motivazione in ordine all'accertamento di un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex articolo 360, n. 3 e 5, c.p.c. - errata applicazione dell'articolo 1766 c.c. e seguenti, articolo 7, comma 1, del d. Igs. n. 285 del 1992.
A parere della ricorrente nella fattispecie, trattandosi di un'area di un parcheggio interrato dotato di strutture edilizie e di un'organizzazione, doveva escludersi il riferimento all'area recintata di cui alla giurisprudenza richiamata dalla Corte d'Appello. Altrimenti si introdurrebbe una deroga ai principi relativi alla custodia di un bene, in virtù di esigenze urbanistiche. Il caso di specie costituirebbe un contratto atipico di parcheggio e dovrebbe trovare applicazione la disciplina di cui agli artt. 1766 e ss. c.c., con particolare riferimento al deposito oneroso, in relazione alla circostanza che la consegna dell'autovettura del C. al gestore del parcheggio, avvenne mediante immissione nell'area all'uopo destinata e delimitata previo superamento di una sbarra, accessibile dopo il rilascio di una scheda magnetica, mentre lo stesso conducente poteva uscire dal parcheggio solo dopo aver effettuato il pagamento mediante l'introduzione in un altro apparecchio della scheda e della somma e poi introducendo all'uscita la scheda contrassegnata dal pagamento.
All'esterno del parcheggio non risultava affisso alcun avviso di qualunque genere dal quale risultava che l'ATM non rispondesse del furto totale o parziale del veicolo.
Per la configurabilità del contratto atipico di parcheggio come assimilabile al deposito e, quindi, con l'obbligo di custodia da parte del depositario ai sensi dell'art. 1766 c.c. non è necessario l'affidamento del veicolo ad una persona fisica, poiché la consegna può materialmente realizzarsi attraverso la sua immissione nell'area a ciò predisposta, previo perfezionamento del contratto mediante introduzione di denaro nell'apposito meccanismo.
In caso di perdita della cosa depositata in seguito a furto il depositario non si libera della responsabilità ex recepto, provando di aver usato nella custodia la diligenza del buon padre di famiglia come prescritto dall'articolo 1768 c.c. ma deve provare che l'inadempimento sia derivato da causa a lui non imputabile ex art.1218 c.c..
2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: violazione di legge, contraddittorietà della motivazione in ordine all'accertamento di un fatto controverso decisivo per il giudizio ex articolo 360, nn. 3 e 5, c.p.c., errata applicazione degli artt. 1322, 1341, comma 2, c.c. nonché del d.Igs. n. 205 del 2006 (codice del consumatore).
A parere del ricorrente la limitazione di responsabilità è inefficace se non approvata specificamente per iscritto, ai sensi e per gli effetti di cui all'articolo 1341, secondo comma, c.c., dovendosi essa ritenere quale condizione generale di contratto ed essendo il suddetto avviso assimilabile a tutti gli effetti ad un'offerta pubblica ex articolo 1336 c.c.
Dunque, la clausola che esclude la responsabilità del gestore del parcheggio per il furto di un'autovettura ha carattere vessatorio ed è inefficace se non approvata specificamente per iscritto.
2.1 I due motivi del ricorso principale, che possono essere decisi congiuntamente stante la loro evidente connessione, sono infondati.
Questa Corte a Sezioni Unite ha già affermato il seguente principio di diritto: «L'istituzione da parte dei Comuni, previa deliberazione della Giunta, di aree di sosta a pagamento ai sensi dell'art. 7, comma 1, lettera f), del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (codice della strada), non comporta l'assunzione dell'obbligo del gestore di custodire i veicoli su di esse parcheggiati se l'avviso "parcheggio incustodito" è esposto in modo adeguatamente percepibile prima della conclusione del contratto (artt. 1326, primo comma, e 1327 c.c.), perché l'esclusione attiene all'oggetto dell'offerta al pubblico ex art. 1336 c.c. (senza che sia necessaria l'approvazione per iscritto della relativa clausola, ai sensi dell'art. 1341, secondo comma, c.c., non potendo presumersene la vessatorietà), e l'univoca qualificazione contrattuale del servizio, reso per finalità di pubblico interesse, normativamente disciplinate, non consente, al fine di costituire l'obbligo di custodia, il ricorso al sussidiario criterio della buona fede ovvero al principio della tutela dell'affidamento incolpevole sulle modalità di offerta del servizio stesso (quali, ad esempio, l'adozione di recinzioni, di speciali modalità di accesso ed uscita, di dispositivi o di personale di controllo), potendo queste ascriversi all'organizzazione della sosta. Ne consegue che il gestore concessionario del Comune di un parcheggio senza custodia non è responsabile del furto del veicolo in sosta nell'area all'uopo predisposta» (sez. U, Sentenza n. 14319 del 2011).
L'orientamento ora riportato, vincolante le sezioni ex art. 374 c.p.c. a meno di una nuova rimessione alle sezioni Unite, è stato ribadito in altre sentenze tra le quali si segnala sez. 3, Sent. n. 11931 del 2013 che ha nuovamente affermato che: «L'istituzione da parte dei Comuni di aree di sosta a pagamento, ai sensi dell'art. 7, primo comma, lett. f), del codice della strada, non comporta l'assunzione dell'obbligo del gestore dell'area di custodire i veicoli su di esse parcheggiati, se l'avviso "parcheggio incustodito" sia esposto in modo adeguatamente percepibile prima della conclusione del contratto (artt. 1326, primo comma, e 1327 c.c.). Ne consegue che il gestore, concessionario del Comune di un parcheggio senza custodia, non è responsabile del furto del veicolo in sosta nell'area all'uopo predisposta».
Nella specie, la Corte d'Appello ha accertato sulla base delle risultanze istruttorie la presenza del cartello che avvisava l'utenza che le automobili parcheggiate non sarebbero state custodite e, come si è detto, deve ribadirsi che l'obbligo di custodia non può sorgere dalle modalità concrete di organizzazione della sosta (quali ad esempio l'adozione di recinzioni, di speciali modalità di accesso ed uscita, o dispositivi di controllo o la presenza di un piano interratto chiuso) con la conseguenza che deve escludersi la responsabilità del gestore per la custodia dei veicoli parcheggiati nell'area di sosta a ciò predisposta.
3. L'Azienda Trasporti Milanesi ha proposto ricorso incidentale per violazione dell'articolo 112 c.p.c. e omessa pronuncia.
La Corte d'Appello avrebbe omesso di pronunciarsi sulla richiesta di condanna di F. C. alla restituzione della somma di euro 18.929,44 ricevute in esecuzione della sentenza riformata oltre interessi e rivalutazione dalla data del pagamento al saldo trattasi di circostanza provata documentalmente non contestata dalla controparte, pertanto, risulterebbe violato il disposto dell'articolo 112 c.p.c. che obbliga il giudice a pronunciarsi su tale domanda.
3.1 Il motivo proposto con il ricorso incidentale è fondato.
Nel giudizio di appello, non soltanto la richiesta di restituzione delle somme pagate alla controparte in esecuzione della sentenza di primo grado non configura una domanda nuova - essendo conseguente alla richiesta di modifica della decisione impugnata - e può dunque essere proposta per la prima volta in sede di precisazione delle conclusioni, ma detta restituzione può, altresì, essere disposta di ufficio dal giudice, atteso che l'art. 336 c.p.c. (nel testo novellato dall'art. 38 della legge 26 novembre 1990, n. 353), secondo cui la riforma o la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimenti ed agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata, comporta che a seguito della sentenza di riforma vengono meno immediatamente - al fine di scoraggiare successive impugnazioni proposte a scopo dilatorio - sia l'efficacia esecutiva della sentenza di primo grado, sia l'efficacia degli atti o provvedimenti di esecuzione spontanea o coattiva della stessa, conseguentemente rimasti privi di qualsiasi giustificazione, con la ulteriore conseguenza che il giudice di appello ha il potere di adottare direttamente i provvedimenti capaci di ripristinare la situazione precedente, non diversamente da quanto accade nella situazione disciplinata dall'art. 669 novies c.p.c., in cui il giudice, nel dichiarare l'inefficacia del provvedimento cautelare, deve dare direttamente le disposizioni necessarie a ripristinare la situazione precedente (sez. 3, Sent. n. 16170 del 2001).
5. In conclusione la Corte rigetta il ricorso principale, accoglie il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte d'Appello di Milano che provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

Niente diffamazione quando il destinatario non è identificabile

Con la sentenza n. 49435 del 5 dicembre 2019, la Corte di Cassazione ha precisato che relativamente al reato di diffamazione, a norma dell’art. 595 c.p., e, nel caso di specie, trattandosi di aver offeso la reputazione di un vicino, attraverso l’affissione di scritti, posti di fronte alla finestra della persona offesa, contenenti espressioni offensive rivolte alla medesima, affinché la condotta divulgativa integri il reato di diffamazione è necessario che quanto divulgato abbia carattere diffamatorio e possa essere come tale percepito, e possa altresì essere attribuito a un soggetto determinato, da parte di chiunque entri in contatto con esso, e non solo dal destinatario. L’individuazione del soggetto passivo del reato di diffamazione, in mancanza di indicazione specifica e nominativa o di riferimenti inequivoci a fatti attribuibili ad un determinato soggetto, deve essere deducibile dalla stessa prospettazione oggettiva dell'offesa, quale si desume anche dal contesto in cui è inserita, con la conseguenza che ove non sia possibile tale deduzione il reato di diffamazione non può ritenersi integrato.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 16 luglio 2018 La Corte di Appello di Messina ha confermato la pronuncia emessa dal Tribunale della medesima città nei confronti di L. E. e C. S., assolti dal reato di cui all'art. 595 c.p. per la particolare tenuità del fatto (loro ascritto per avere offeso la reputazione di C. S. affiggendo diversi scritti, alla finestra della propria abitazione situata di fronte a quella della persona offesa, contenenti espressioni ingiuriose rivolte alla medesima).
2. Avverso l'anzidetta sentenza propongono ricorso per Cassazione, tramite il difensore di fiducia, entrambi gli imputati, articolandolo in cinque motivi.
2.1. Col primo e secondo motivo - trattati unitariamente in ricorso - deducono, rispettivamente la contraddittorietà ed illogicità della motivazione e l'inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in particolare degli artt. 110, 595 c.p. e 125 comma 3, 192, 546 lett. e) codice di rito e 11 Cost, 530 commi 1 e 2 c.p.p..
In buona sostanza lamentano che la Corte di Appello, al pari del primo giudice, ha reso una motivazione del tutto carente ed insufficiente a giustificare l'affermazione di responsabilità degli imputati in ordine al reato di diffamazione, non avendo essa nemmeno indicato le fonti di prova, limitandosi ad affermare apoditticamente che risultasse provato il fatto, ovvero che gli imputati avessero affisso degli scritti diffamatori in cui vi erano riferimenti espliciti alla persona offesa o al suo nucleo familiare, e, ciò, nonostante si fossero sollevate già in appello diverse questioni in ordine all'individuazione dell'effettivo destinatario delle offese - da individuarsi nel padre della attuale persona offesa, C. G., essendo stato egli a mandare la missiva con la quale tramite il legale si richiedeva a C. S. il rilascio dell'immobile - e alla risalenza dei fatti al 2008, come ammesso dallo stesso C. S. in dibattimento. In ogni caso non sono da ritenersi offensive le frasi presenti negli scritti tant'è che i testi escussi ricordavano solo una di quelle espressioni ovvero quella definita come la più pesante "chi nasce colono non muore padrone", con la precisazione che essa dovesse comunque intendersi rivolta non a C. S., ma a C. G. che era anche rimasto male a causa della stessa; di talchè la Corte avrebbe dovuto spiegare su quale presupposto C. S. era stato ritenuto legittimato a proporre la querela.
2.2. Col terzo motivo deducono violazione dell'art. 124 c.p., inosservanza dell'art. 129 c.p.p. nonché dell'art. 529 c.p.p. e degli artt. 157, 158 e 160 c.p..
Risultando diverso il destinatario della diffamazione, in mancanza di querela da parte di quest'ultimo, si sarebbe dovuto dichiarare l'improcedibilità dell'azione penale laddove la Corte ha del tutto omesso di valutare tale circostanza; in ogni caso la querela è tardiva risultando i fatti commessi nel 2008; i reati erano peraltro anche già prescritti al momento della pronuncia della sentenza di primo grado ( risalente al 26.10.2015 ), in ogni caso a quello della sentenza di appello - ove si tenga conto della diversa data delle querele.
2.3. Col quarto motivo deducono erronea applicazione dell'art. 594 c.p. lamentando che la Corte di Appello avrebbe dovuto dichiarare non doversi procedere per il reato di ingiuria di cui al capo a) per intervenuta depenalizzazione (e non l'assorbimento).
2.4. Col quinto motivo lamentano violazione di legge, in particolare delle norme del D.Igs.
28/2015 che ha introdotto l'art. 131 bis c.p. nonché erronea applicazione dell' art. 541 codice di rito con riferimento all'art. 538 codice di rito, e mancanza di motivazione. Lamentano che la Corte di Appello ha condannato al pagamento delle spese in favore della parte civile nonostante la mancanza di richiesta della stessa, che peraltro non aveva neppure titolo ad intervenire, in assenza di una sentenza di condanna, sia in primo grado che in secondo grado.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è fondato.
Innanzitutto a fronte dell'intervenuta abrogazione del reato di ingiuria non si sarebbe dovuto ravvisare l'assorbimento del fatto ingiurioso nel reato di diffamazione ma piuttosto dichiarare non doversi procedere perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, con la conseguenza che compete ora a questa Corte giungere a tale declaratoria, annullando la sentenza impugnata in ordine al capo A) per tale motivo.
Quanto al capo B), occorre premettere che in materia di diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare l'offensività della frase che si assume lesiva della altrui reputazione perché è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, dovendo, in caso di esclusione di questa, pronunciare sentenza di assoluzione dell'imputato. (sez. 5, n. 48698 del 19/09/2014 - dep. 24/11/2014, P.G., P.C. in proc. Demofonti, Rv. 26128401).
Ciò posto, si osserva che per quanto emerge dalla stessa ricostruzione contenuta nella sentenza impugnata - che richiama quella di primo grado, che a sua volta evidenzia la particolare tenuità del fatto e quindi dell'offesa - come integrata in ricorso alla luce delle emergenze processuali indicate anche proprio al fine di evidenziarsi le carenze motivazionali - l'unica vera affermazione indicata come offensiva, perché è da essa che il C. si sarebbe sentito particolarmente offeso, deve ritersi la seguente : «chi nasce colono non muore padrone».
Ebbene, ritiene questo Collegio che di là delle implicazioni soggettive di colui che ebbe a recepire come offensiva tale affermazione, essa non abbia un'effettiva portata lesiva dell'altrui reputazione, non potendosi attribuire valenza negativa, dispregiativa, in sé, al termine colono, che si limita ad esprime piuttosto il concetto del lavoro che rappresenta, né di contro valenza positiva al termine 'padrone' che anzi sotto certi aspetti rimanda a fenomenologie non del tutto ortodosse, evocando piuttosto pratiche non sempre legittime derivanti dall'essere e sentirsi 'padrone' ( inteso in senso neppure troppo lato come colui che detiene una sorta di potere assoluto sul bene e non solo ). Né il concetto che la frase esprime, peraltro, non di immediata ed univoca significanza, reca necessariamente una intrinseca valenza negativa, di offesa. Così posta la questione in termini oggettivi, pure a volersi rapportare il concetto al caso concreto in cui esso si inserisce ( di là della genericità della contestazione che fa riferimento a scritti offensivi, il collegamento con la famiglia di C. S. si evincerebbe in particolare da una lettera con cui C. G. e il suo legale chiedevano a C. S. - figlia del primo - il rilascio dell'immobile, lettera parimenti affissa alla finestra dell'abitazione dell'imputata ) va subito detto che pure inserito nella fattispecie concreta è difficile coglierne il senso compiuto da parte di chi legge, sottintendendo, piuttosto, la frase una determinata vicenda privata specifica, evidentemente non nota ai più, implicante questioni di proprietà e di eredità di non facile districazione per gli stessi interessati ( tant'è che intercorreva vertenza civile tra essi); con la conseguenza che sebbene tale frase abbia potuto suscitare una qualche reazione emotiva in chi l'ha reputata indirizzata alla propria persona o alla propria famiglia, essa rispetto ai terzi è rimasta verosimilmente priva di valenza specifica e di un chiaro collegamento con la persona a cui era indirizzata.
Ed invero, affinchè la condotta divulgativa - nel caso di specie sussistente trattandosi di scritto affisso sulla parete di uno stabile - integri il reato di diffamazione rimane pur sempre necessario che quanto divulgato abbia carattere diffamatorio e possa essere come tale percepito, e possa altresì essere attribuito a un soggetto determinato, da parte di chiunque entri in contatto con esso, e non solo dal destinatario.
Deve trattarsi innanzitutto di divulgazione di comportamenti che, quanto meno alla luce dei canoni etici condivisi dalla generalità dei consociati, siano suscettibili di incontrare la riprovazione della "communis opinio", riprovazione che non può esaurirsi nell'essersi reso noto un fatto privato di per sé non di univoca valenza negativa neppure sotto il profilo morale ( non potendosi attribuire una siffatta valenza nemmeno alla mera circostanza che un soggetto abbia richiesto il rilascio di un immobile ad un congiunto tramite un legale, che potrebbe sotto certi aspetti essere riguardata anche in senso opposto a quello che si è inteso prospettare; né tanto meno come detto alle espressioni 'colono' e 'padrone' ); (sez. 5, n. 18982 del 31/01/2014 - dep. 08/05/2014, Mauro e altro, Rv. 26316701, sez. 5, n. 8348 del 25/10/2012, dep. 2013, sez. 5, n. 40539 del 23/09/2008, Cibelli, Rv. 241739).
Deve trattarsi, in ogni caso, pur sempre di offesa a soggetto quanto meno individuabile da parte del lettore-terzo, laddove nel caso di specie è insorta o poteva comunque insorgere confusione in ordine all'effettivo destinatario, avendo la stessa persona offesa, C. S., affermato che in realtà gli scritti non indicavano direttamente il suo nome - la stessa lettera pure affissa alla finestra dell'imputata C. S. con cui si chiedeva alla stessa il rilascio dell'immobile era a firma di C. G. e del suo legale - e che era più dal loro contenuto che trapelava il riferimento alla sua persona (tant'è che un altro testimone avrebbe riferito l'espressione del 'colono e del padrone' a diverso soggetto, ovvero al suocero C. G. che sarebbe "rimasto male" per essa).
Il fatto che una persona, o anche più di una, possa sentirsi offesa e destinataria di un'offesa non esclude che sotto il profilo della integrazione oggettiva del reato necessiti pur sempre che sia identificabile anche per i terzi - oltre che la pregnanza offensiva - il destinatario dello scritto perché altrimenti difetterebbe la attitudine dello stesso alla diffusione dell'offesa, propria del reato di diffamazione. In una siffatta valutazione non si può prescindere, a parere di questo collegio, dalla univocità, non ambiguità dell'espressione sia rispetto alla sua portata e al suo significato lesivo, sia rispetto alla sua destinazione a un soggetto o a più soggetti determinati o quanto meno oggettivamente determinabili.
L'interpretazione giurisprudenziale sul punto è rigorosa, richiedendo che l'individuazione del soggetto passivo del reato di diffamazione, in mancanza di indicazione specifica e nominativa ovvero di riferimenti inequivoci a fatti e circostanze di notoria conoscenza, attribuibili ad un determinato soggetto, deve essere deducibile, in termini di affidabile certezza, dalla stessa prospettazione oggettiva dell'offesa, quale si desume anche dal contesto in cui è inserita (sez. 5, sentenza n. 2135 del 07/12/1999 Rv. 215476 ); con la conseguenza che ove non sia possibile tale deduzione il reato di diffamazione non può ritenersi integrato.
Ed invero, ai fini dell'integrazione del reato di diffamazione, che è un reato formale ed istantaneo che si consuma con l'adozione di mezzi che rendano accessibili a più persone le affermazioni lesive dell'altrui reputazione, non è sufficiente l'esplicita volontà del soggetto attivo di destinare alla divulgazione il contenuto della comunicazione, essendo anche necessario che le affermazioni abbiano una effettiva e chiara portata lesiva e siano riferibili a una persona almeno individuabile da parte dei soggetti terzi che possono entrare in contatto con esse.
Il reato di diffamazione è costituito dalla comunicazione dell'offesa alla reputazione di una persona determinata, non circoscritta al destinatario, essendo l'evento costituito dalla comunicazione e dalla correlata percezione o percepibilità, da parte di almeno due consociati, di un segno ( parola, disegno ) lesivo, che sia diretto, non in astratto, ma concretamente, a incidere sulla reputazione di uno specifico cittadino ( sez. 5 n. 5654 del 19/10/2012; sez. 5 n. 34178 del 10/02/2015, Rv. 264982); esso implica quindi l'evento non fisico, ma psicologico, consistente nella percezione sensoriale e intellettiva da parte dei terzi della espressione offensiva ( sez. 5 n. 47175 del 04/07/2013, Rv. 257704).
Alla stregua di tutto quanto sopra esposto residua quanto meno il dubbio sulla effettiva percezione della portata lesiva dello scritto da parte dei terzi e sull'esatta individuazione dello stesso destinatario dell'espressione indicata (con conseguenti ripercussioni sulla condizione di procedibilità oltre che sull'integrazione del reato) dubbio che non può che comportare l'annullamento della sentenza impugnata anche in relazione al reato di diffamazione di cui al capo B perché il fatto non sussiste, senza necessità di ulteriori accertamenti, trattandosi di circostanze evincibili, ed evinte, dallo stesso tenore del provvedimento impugnato e di considerazioni di ordine logico-ricostruttivo legate alla valutazione in diritto della fattispecie - sollecitate dai corretti rilievi contenuti in ricorso. All'annullamento consegue la revoca delle statuizioni civili.

venerdì 6 dicembre 2019

Ospedale, legittimo divieto di ingresso con il burqa

È legittima l'adozione, ad opera delle strutture sanitarie, di cartelli che, per motivi di sicurezza, impongono il divieto di ingresso con il volto coperto da casco, passamontagna o burqa.
Lo ha stabilito la Corte d’Appello di Milano con la sentenza 28 ottobre 2019 

La vicenda in primo grado
Alcune Associazioni proponevano azione contro la discriminazione nei confronti della Regione Lombardia. Nel 2015 la Giunta Regionale aveva infatti approvato una deliberazione avente ad oggetto il “rafforzamento delle misure di accesso e permanenza nelle sedi della giunta regionale e degli enti società facenti parte del sistema regionale” vietando “l’uso di caschi protettivi o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona” presso gli enti individuati dall’art. 1 della l.r. 30/2006, tra i quali anche le strutture sanitarie. Conseguiva che, all’ingresso di numerosi uffici pubblici ed ospedali della regione Lombardia erano stati affissi dei cartelli riportanti la scritta “per ragioni di sicurezza è vietato l’ingresso con volto coperto”, accompagnati da tre immagini con persone con casco, passamontagna e burqa, ognuno all’interno di un cerchio rosso sbarrato, messaggio tradotto anche in inglese, francese e arabo. Il Tribunale di Milano rigettava il ricorso e condannava le Associazioni al pagamento delle spese di lite in favore della Regione Lombardia.
Le ragioni dell’appello
Le soccombenti hanno proposto appello chiedendo di accertare e dichiarare il carattere discriminatorio del comportamento tenuto dalla Regione Lombardia consistente nell’aver adottato la deliberazione di Giunta del 10.12.2015:
a) nella parte ove esclude che i costumi religiosi possano rappresentare giustificato motivo di eccezione ai sensi dell’art. 5 L. 152/75 rispetto alle esigenze di sicurezza all’interno delle strutture regionali;
b) nella parte ove impone alle competenti strutture regionali o autorizza le stesse a disporre un divieto generalizzato di ingresso negli edifici del Servizio Sanitario Regionale alle persone con velo integrale (burqa o niqab) indipendentemente dalla disponibilità di dette persone a consentire la propria identificazione mediante rimozione temporanea della velazione.
Per l’effetto, chiedevano di ordinare alla Regione Lombardia, oltre a modificare la deliberazione impugnata, anche di impartire disposizioni agli enti che hanno affisso i cartelli in questione, affinché ne disponessero la rimozione, nonché di adottare un piano di rimozione della discriminazione ex art. 28 D.Lgs. 150/2011, comma V, che comprendesse ogni provvedimento ritenuto utile a evitare il reiterarsi della discriminazione.
Il rigetto dell’appello
La Corte d’appello ha confermato l’ordinanza impugnata, condividendo l’impostazione del Tribunale che ha valutato come proporzionato e ragionevole lo “svantaggio” imposto dal cartello alle donne che indossano il velo integrale per motivi religiosi, poiché limitato nel tempo e circoscritto nel luogo (strutture sanitarie regionali) e giustificato da ragioni di pubblica sicurezza.
La carenza del carattere discriminatorio
Per il giudice territoriale non può essere attribuito alla delibera impugnata un carattere discriminatorio, sia per la sua genericità che per avere correttamente messo in relazione la impossibilità di identificare una persona, in quanto con volto coperto, in determinati luoghi pubblici con problemi di ordine pubblico e sicurezza, senza che vi sia stata alcuna violazione di riserva di legge, avendo la delibera richiamato espressamente la Legge 152/75 (c.d. legge Reale).
L’esigenza di ordine pubblico
I giudici hanno osservato che, ai fini della identificazione di chi entra nelle strutture sanitarie, nei grandi ospedali vi sono postazioni delle Forze dell’Ordine, ma non in tutte le strutture sanitarie. Altresì il direttore sanitario è sì responsabile anche della organizzazione della struttura, tuttavia non anche dell’ordine pubblico nella struttura. La Corte ha rilevato inoltre che, anche con riferimento ai cartelli, può valere quanto evidenziato nell’allegato A al decreto n. 11921 del 29.12.2015, relativo ai criteri di accesso a Palazzo Lombardia, ove nella premessa si afferma che “un buon livello di sicurezza non può tuttavia prescindere dal “fattore umano” garantita dalla partecipazione attiva di tutti, chiamati a mettere in atto comportamenti efficaci per la tutela personale e collettiva”. Anche il Tribunale aveva evidenziato l’impossibilità di identificare le persone che fanno ingresso nei luoghi pubblici individuati e la difficoltà di procedure di identificazione che richiedono la collaborazione anche delle persone che entrano a volto scoperto.
La difficoltà di prevedere forme di identificazioni
Le associazioni appellanti si sono dolute della circostanza che il Tribunale abbia “erroneamente considerato in modo congiunto e sovrapposto l’esigenza di identificazione e l’esigenza di mantenere il volto scoperto, come pure l’ammissibilità di un divieto “istantaneo” finalizzato alla identificazione e la ammissibilità di un divieto permanente (se pure circoscritto a un luogo)…”. In altre parole, secondo le associazioni appellanti, i cartelli contestati pongono proprio un divieto di ingresso assoluto e non un obbligo regolamentato di identificazione, con la conseguenza che l’onere posto al portatore della “identità religiosa” non è circoscritto all’obbligo di identificazione (come invece accade nel decreto 11921) ma si estende al divieto assoluto di fruire di un servizio fondamentale conservando il segno distintivo di detta identità. I giudici territoriali osservano che per le caratteristiche dei luoghi e la grande frequentazione di utenti risulta difficile prevedere forme di identificazione quali quelle negli aeroporti e negli uffici pubblici e, in ogni caso, non vi sono atti amministrativi che li prevedano. Inoltre, la domanda avanzata dalle parti appellanti relativa all’immediata rimozione dei cartelli non appare, secondo i giudici, una soluzione proporzionata, poiché lascia irrisolto il problema della sicurezza pubblica che ha ispirato la delibera impugnata.

fonte: www.altalex.com

Borsello sottratto al passeggero del treno: pena più severa per il ladro

Riconosciuta l’aggravante della “sottrazione del bagaglio al viaggiatore”. Decisiva l’osservazione che il concetto di bagaglio include anche una semplice borsa o un marsupio che contiene documenti o valori e che la persona può portare con sé.
Ampio il concetto di bagaglio: esso può includere anche un semplice marsupio. E proprio applicando questa visione è stata riconosciuta la maggiore gravità di un ladro che su un treno ha preso di mira un viaggiatore, sottraendogli il borsello (Cassazione, sentenza n. 48069/19, sez. V Penale, depositata il 26 novembre).

Bagaglio. Ricostruito l’episodio, i Giudici di merito ritengono evidente la colpevolezza dell’uomo sotto processo che ha messo a segno su un treno un furto ai danni di un passeggero, sottraendogli un marsupio. A rendere più severa la pena, poi, il riconoscimento dell’aggravante prevista quando oggetto del latrocinio è «il bagaglio».
Su quest’ultimo punto si sofferma il legale dell’uomo, spiegando che «il borsello (o marsupio) per l’uomo va indossato, come gli occhiali o un cappotto». Impossibile, quindi, seguendo questa logica, parlare di sottrazione di bagaglio.

A questa osservazione ribattono i giudici della Cassazione, chiarendo che «per bagaglio del viaggiatore deve intendersi tutto ciò che questi porta con sé, senza custodirlo sulla propria persona, quale una borsa – come il marsupio, che può essere portato con sé in più modi – che contenga documenti o valori».
Fonte: www.dirittoegiustizia.it

Gioco dei “tre campanelli” e falsa vincita: non si può parlare di truffa

Con la sentenza n. 48159 del 27 novembre 2019, la Corte di cassazione si è espressa in merito ad un caso relativo al gioco dei tre campanelli, precisando che, di per sé, tale gioco, e quelli similari delle tre tavolette o delle tre carte, non concretano il reato di truffa posto che la condotta di chi dirige il gioco non realizza alcun raggiro, bensì "una realtà" ed una regolare continuità di movimenti, che, per l'effetto della estrema abilità di chi dirige il gioco, inducono il giocatore a confidare nel "caso". Pertanto, la presenza di una induzione della persona offesa a giocare con il miraggio di una facile vincita risulta essere una caratteristica del gioco stesso e, quindi, non costituisce né artificio né raggiro.
Svolgimento del processo
1. Con il provvedimento impugnato, la Corte di appello di Bologna, in riforma della sentenza 19 ottobre 2016 del Tribunale di Bologna, ha riqualificato il delitto ascritto agli odierni ricorrenti in termini di truffa in concorso e ha determinato la pena ritenuta di giustizia.
A fondamento della decisione, le dichiarazioni della parte offesa, ritenute solo in parte attendibili, e una ricostruzione degli accadimenti su base deduttiva.
2.1. Propongono ricorso per cassazione gli imputati articolando i seguenti motivi.
Ricorso N.
2.1.1. - 2.1.2. Violazione di legge penale e processuale e vizio di motivazione in ordine alla affermata responsabilità penale a titolo di truffa in quanto la vicenda per come ricostruita, sarebbe consistita nell'indurre la parte offesa a giocare al c.d. gioco dei tre campanelli tramite una falsa vincita e profittare del carattere del tutto aleatorio del gioco stesso per farlo sperdere e non potrebbe essere qualificata in termini di truffa. In tale "gioco" difetterebbero infatti artifici e raggiri trattandosi di attività di per sé lecita e difettando la prova di artifizi e raggiri o manovre truffaldine .
2.1.3. Vizi di motivazione in ordine al contributo causale ascrivibile alla N. in quanto dalle dichiarazioni della parte offesa (pag. 11 del verbale di udienza) risulterebbe che la ricorrente né ha gestito il gioco né ha preso il denaro della parte offesa.
2.2 Ricorso P.
2.2.1. Violazione di legge e vizio di motivazione affermando il ricorrente non sussistere gli elementi costitutivi della truffa in coerenza con quanto affermato dalla ricorrente N. nel primo motivo ricorso.
2.2.2. Violazione di legge in relazione alla negazione delle circostanze attenuanti generiche prendendo la Corte territoriale in considerazione i precedenti penali dell'imputato ma non, le sue problematiche di salute, le sue precarie condizioni socio economiche, il ruolo marginale avuto nella vicenda.
Motivi della decisione
1. I ricorsi sono fondati.
2. Va osservato come la giurisprudenza di questa Corte (sez. 3, Sentenza n. 11666 del 23/09/1985 Rv. 171261 - 01 ) abbia osservato che il giuoco dei tre campanelli - e quelli similari delle tre tavolette o delle tre carte - di per sé non concretano il reato di truffa posto che la condotta di chi dirige il giuoco non realizza alcun artificio o raggiro, bensì "una realtà" ed una regolare continuità di movimenti, che, per essere l'effetto della estrema abilità di chi dirige il giuoco, inducono, da ultimo, il giocatore a confidare nel "caso". Naturalmente, a diversa soluzione si deve giungere nel caso in cui all'abilità ed alla destrezza di chi esegue il giuoco si aggiunga una fraudolenta attività del medesimo.
2.1. Nel caso di specie, tuttavia, la ricostruzione della Corte di appello non permette di identificare la presenza di tale ulteriore attività posto che risulterebbe essere stata la parte offesa a determinarsi a giocare (cfr. pag. 6 del provvedimento impugnato in cui deve darsi atto che il riferimento all'imputato che "si determinò a giocare" risulta frutto di un palese refuso).
2.2. La presenza di una induzione della persona offesa a giocare con il miraggio di una facile vincita risulta elemento dedotto sulla base di un giudizio meramente ipotetico e non costituisce inoltre - di per sé - né artifizio né raggiro perché tale l'affermato inganno riguardava una caratteristica del gioco (la sproporzione a favore del "banco" in conseguenza dell'uso da parte dei "tenutari del gioco" di abilità o destrezza che potrebbero e possono essere rese inefficaci solo dall'eventuale superiorità della prontezza di riflessi e dello spirito di osservazione di chi vi partecipa) che rientra nell'ambito dei fatti notori (cfr. sez. 3, sent. n. 1566 del 13/11/1985 - dep. 20/02/1986 - Rv. 171944 - 01) e perché - sulla base di tali presupposti - la parte offesa rimaneva libera di partecipare o meno al gioco medesimo.
2.3. Ancora, del tutto improprio è il richiamo alla pronuncia delle sezioni unite (sez. U, Sentenza n. 14 del 18/06/1991 Rv. 187863 - 01) posto che tale decisione riteneva rilevante - ai fini della ipotizzabilità degli elementi costitutivi della truffa - il fatto che il soggetto raggirato fosse indotto a credere di avere spirito di osservazione e abilità tale da poter controllare i propri "avversari". Non risulta invece indicata dai giudici del merito alcuna situazione che abbia potuto portare la persona offesa a ritenere di potere fare affidamento su una abilità o capacità di controllo superiore o pari a quella dei tenutari del gioco.
2.4. Tra l'altro - ai fini di un corretto inquadramento della fattispecie nei limiti della doverosa osservanza del divieto di reformatio in peius - dovrebbe tenersi anche conto del fatto che - stando alla ricostruzione del giudice di primo grado - nemmeno vi sarebbe stato lo svolgimento di alcun gioco in quanto il danaro sarebbe stato preso dalle mani della persona offesa senza che costui avesse materialmente "puntato" nemmeno parte di tale somma. Non può certo dimenticarsi - sul punto - che l'approfittamento di circostanze create ad arte per giungere alla sottrazione della cosa mobile altrui costituisce presupposto di altra fattispecie criminosa rispetto alla truffa.
2.5. Le sopra esposte considerazioni impongono l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di Bologna per nuovo giudizio.

Eccesso di velocità: verbale annullato perché autovelox nel senso opposto alla marcia

Con la sentenza n. 31411 del 2 dicembre 2019, è stato precisato che la sanzione amministrativa conseguente all'eccesso di velocità rilevata da un autovelox installato nel senso opposto di marcia, è illegittima. Infatti, nel caso di specie, l'apposizione dell’autovelox era stata autorizzata per entrambi i sensi di marcia ma veniva realizzata per un solo senso di marcia apponendo il prefabbricato di rilevazione in una carreggiata opposta al senso di marcia indicato nel provvedimento di autorizzazione. Infatti, il comune lo considerava, erroneamente, operativo per entrambi i sensi di marcia, senza tenere conto che il prefabbricato installato era legittimato a rilevare la velocità dei soli veicoli provenienti in quel senso di marcia ma non anche, come è avvenuto, nel caso in esame, per le autovetture che provenivano dalla direzione opposta.
Svolgimento del processo
S. G., con ricorso del 24.05.2013, interponeva opposizione dinanzi al Giudice di Pace di Isernia, avverso il processo verbale di contravvenzione n. (omissis) elevato dalla Polizia Municipale del Comune di Macchia d'Isernia, per violazione dell'art. 142/8 del C. d. S.
Il Comune di Macchia di Isernia si costituiva ritualmente in giudizio contestando la domanda, producendo documentazione a sostegno della propria tesi difensiva, formulando, altresì, richieste istruttorie e concludeva per il rigetto della opposizione con vittoria di spese e competenze del giudizio.
Il Giudice di Pace, con ordinanza resa fuori udienza disattendeva, la richiesta di prova testimoniale articolata dall'Ente Comunale e con sentenza n. 624 del 2013 accoglieva l'opposizione e annullava il verbale di contravvenzione impugnato.
Avverso questa sentenza interponeva appello il Comune di Macchia di Isernia ribadendo la legittimità del verbale di contestazione e chiedendo la riforma integrale della sentenza del Giudice di Pace.
Si costituiva G. S. chiedendo il rigetto del gravame.
Il Tribunale di Isernia con sentenza n. 759 del 2016 rigettava l'appello e confermava la sentenza impugnata. Secondo il Tribunale di Isernia era illegittima l'apposizione dell'autovelox "sul lato destro" della carreggiata nella direzione di marcia Isernia - Venafro (ossia da Isernia in Direzione Venafro SS della n. 85 Venafra), anziché sul lato sinistro come invece autorizzato dall'Ente proprietario della strada.
La cassazione di questa sentenza è stata chiesta dal Comune di Macchia di Isernia con ricorso affidato a due motivi. S. G. in questa fase non ha svolto attività giudiziale.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso il Comune di Macchia di Isernia lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in relazione all'art. 2697 c.c. omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, ex art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. ed in relazione all'art. 245 c.p.c.
Secondo il ricorrente sia il Giudice di Pace che il Tribunale avrebbero ritenuto di non ammettere la prova testimoniale tempestivamente richiesta senza alcuna motivazione.
1.1. Il motivo è inammissibile sia perché il Tribunale ha motivato il rigetto della richiesta della prova testimoniale e, comunque, perché generico, posto che il ricorrente nel denunciare la mancata ammissione della prova testimoniale tempestivamente richiesta non indica il contenuto della dedotta prova e, soprattutto, non indica in che modo il capitolato della prova testimoniale, se espletato, avrebbe comportato una decisione, sicuramente, diversa da quella impugnata.
2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta "violazione e falsa applicazione dell'art. 360, comma1, n. 3 c.p.c.
violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in relazione all'art. 2697 c.c. omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, ex art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. nonché in relazione all'art. 4 del D.L. n. 121 del 2002, convertito in legge n. 168 del 2002 e dell'art. 2 del D.M.15 agosto 2007, nonché in relazione al Dlgs n. 231 del 2001 e successive modifiche ed integrazioni". Secondo il ricorrente il Tribunale avrebbe errato nel ritenere illegittimo il posizionamento dell'apparecchiatura sul lato destro anziché sul lato sinistro dir. di marcia Isernia Venafro non tenendo presente che l'art. 4 del D.L. n. 121 del 2002 convertito con legge n. 168 del 2002, conferisce al Prefetto la competenza di individuare le strade o i tratti di strada in cui possono essere installati i dispositivi di controllo della velocità senza che sia specificato il senso di marcia. Nel caso specifico, poi, il Prefetto aveva autorizzato l'installazione di due manufatti prefabbricati contenenti strumenti fissi per la rilevazione della velocità degli autoveicoli in transito lungo il tratto di strada Statale n. 85 Venafrana ricadente nel Comune di Macchia di Isernia e precisamente al Km. 36+777 lato sinistro direzione di marcia Venafro e Km. 37+434 lato destro direzione di marcia Isernia.
2.1. Il motivo è infondato perché, come lo stesso ricorrente riconosce, l'apposizione del prefabbricato contenente uno strumento per la rilevazione della velocità degli autoveicoli in transito, era stata autorizzata per entrambi i sensi di marcia ma veniva realizzata per un solo senso di marcia apponendo il prefabbricato di rilevazione in una carreggiata opposta al senso di marcia indicato nel provvedimento di autorizzazione. Il Comune di Macchia di Isernia, insomma, ha ritenuto di collocare un semplice prefabbricato considerandolo, e non lo avrebbe potuto fare, operativo per entrambi i sensi di marcia, senza tenere conto che il prefabbricato installato, per il senso stesso dell'autorizzazione, era legittimato a rilevare la velocità dei soli veicoli provenienti in quel senso di marcia ma non anche, come è avvenuto, nel caso in esame, per le autovetture che provenivano dalla direzione opposta.
Piuttosto, era necessario che fosse installato altro rilevatore per il contrapposto senso di marcia corredato da ogni elemento di identificazione e preventivamente segnalato, con appositi cartelli, opportunamente collocati nello stesso senso di marcia.
La sentenza impugnata, pertanto, non merita la censura che le è stata rivolta, anzi correttamente afferma che l'autovelox in questione posto sul lato destro della careggiata nella direzione di marcia Isernia - Venafro non era idoneo a rilevare la velocità degli autoveicoli che percorrevano l'altro senso di marcia. Il che determina l'illegittimità derivata dall'impugnato verbale di contestazione essendovi (...) un rapporto di presupposizione - consequenzialità immediata tra l'atto autorizzato dall'A.N.A.S. illegittimamente seguito ed il verbale di accertamento de quo (....)".
In definitiva, il ricorso va rigettato. Non occorre liquidare le spese del presente giudizio di cassazione dato che S., intimato, non ha svolto alcuna attività giudiziale. Sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato.

mercoledì 4 dicembre 2019

Colpo di frustra, micro-danni risarcibili anche senza esami strumentali

Il risarcimento di qualsiasi danno, compreso quello alla salute, postula che chi lo invochi, ne dia una dimostrazione ragionevole (Cass. Ord. 26249/2019)

L’art. 139 c. 2 Codice assicurazioni private stabilisce che le lesioni di lieve entità (si pensi al colpo di frusta) siano irrisarcibili, se non suscettibili di un accertamento medico-legale. Pertanto, il pregiudizio patito deve essere dimostrato non sulla base delle dichiarazioni soggettive della vittima, ma seguendo una corretta criteriologia medico-legale. Tuttavia, l'esistenza di un danno permanente alla salute può ammettersi anche in assenza di esami strumentali (come radiografia, risonanza magnetica, TAC), purché ricorrano indizi gravi, precisi e concordanti della sua sussistenza e della sua genesi causale. La ratio della norma consiste nell’evitare le truffe assicurative e nel richiamare gli addetti ai lavori (medici legali, avvocati, magistrati) al dovere di zelo nella liquidazione del danno alla salute. Infatti, le richieste di risarcimento per lesioni di lieve entità (pari o inferiori al 9%) sono statisticamente le più numerose; ne consegue che, nonostante il loro modesto contenuto economico, comportino ingenti costi per la collettività.
Così ha deciso la Corte di Cassazione con l’ordinanza del 16 ottobre 2019, n. 26249 .
La vicenda
A seguito di un tamponamento, causato da una vettura pirata poi fuggita, il terzo trasportato del veicolo incidentato subiva delle lesioni (cosiddetto “colpo di frusta”). Il danneggiato agiva in giudizio contro il vettore e la sua compagnia assicurativa per ottenere il risarcimento del danno patito, in quanto lamentava un perdurare dei dolori al collo. Nel corso del giudizio veniva chiamata in causa anche l’impresa assicuratrice designata dal Fondo di garanzia vittime della strada. Il giudice di pace accoglieva la domanda del trasportato, liquidava il pregiudizio da questi subito in cento euro, riconoscendogli solo i due giorni di invalidità temporanea (e non quella permanente). L’uomo ricorreva in appello, ove il gravame veniva rigettato. Infatti, secondo il Tribunale, il danno addotto dall’attore non era risarcibile, poiché i postumi permanenti lamentati dall’appellante, ossia il protrarsi di un’algia al collo, non erano suscettibili di un accertamento strumentale obiettivo, come richiesto dalla legge. Si giunge così in Cassazione.
Riferimenti normativi
Nel caso oggetto di scrutinio, vengono in rilievo:
il d.l. 1/2012 (convertito con Legge 27/2012), in particolare l’art. 32 in materia di “Ispezione del veicolo, scatola nera, attestato di rischio, liquidazione dei danni”; si tratta di una norma che, ai commi 3 ter (e 3 quater ora abrogato – vedi nota 1 in calce), ha modificato l’art. 139 c. 2 del Codice delle assicurazioni private (d.lgs. 209/2005), inserendo il seguente inciso: «in ogni caso le lesioni di lieve entità che non siano suscettibili di accertamento clinico strumentale obiettivo, non possono dar luogo a risarcimento per danno biologico permanente»;
il Codice delle assicurazioni private (d.lgs. 209/2005), art. 139, in materia di “Danno non patrimoniale per lesioni di lieve entità”, ove nel comma 2, come novellato l'art. 1 comma 19 della legge 124/2017,  si prevede che «[…] In ogni caso, le lesioni di lieve entità, che non siano suscettibili di accertamento clinico strumentale obiettivo, ovvero visivo, con riferimento alle lesioni, quali le cicatrici, oggettivamente riscontrabili senza l'ausilio di strumentazioni, non possono dar luogo a risarcimento per danno biologico permanente» 
Danno permanente non risarcibile se non dimostrato
Il ricorrente lamenta la lesione dell’art. 32 Cost., giacché la disciplina normativa impedirebbe il risarcimento del danno permanente alla salute causato da sinistri stradali, se di lieve entità e non suscettibile di "accertamento clinico strumentale obiettivo" (art. 139 c. 2 d.lgs. 209/2005). La Suprema Corte considera la censura inammissibile; infatti, la sentenza gravata:
non ha negato l’esistenza di un danno alla salute,
ha considerato il danno non risarcibile, in quanto non attestato da alcun esame,
e ha ritenuto insussistente il danno permanente alla salute, perché era impossibile determinare l’esistenza di postumi permanenti.
I giudici di legittimità affermano che «un danno di cui sia impossibile stabilire non già il suo esatto ammontare, ma la sua stessa esistenza, è per ciò solo un danno irrisarcibile. Rectius, non è nemmeno un danno in senso giuridico».
Legittimità costituzionale delle norme sulla liquidazione del danno
Vista la doglianza di incostituzionalità sollevata dal ricorrente, la Suprema Corte precisa che l’art. 32 c. 3 ter d.l. 1/2012 (che ha aggiunto un paragrafo all’art. 139 c. 2 d.lgs. 209/2005, poi ulteriormente modificato dalla Legge 124/2017) non presenta profili di illegittimità costituzionale. Inoltre, nel denegato caso in cui così fosse, è possibile un’interpretazione coerente con il dettato costituzionale, senza forzarne la lettera, come confermato dalla giurisprudenza di legittimità in varie occasioni (Cass. 18773/2016; Cass. 1272/2018; Cass. 5820/2019). Infatti, l'art. 32, comma 3 ter[1] è una norma che:
non pone limiti ai mezzi di prova; pertanto, non impedisce di dimostrare l'esistenza di un danno alla salute, impiegando fonti di prova diverse dai referti di esami strumentali; dunque, non necessariamente occorrono radiografie, risonanze magnetiche o TAC per dimostrare una micro-permanente;
non pone limiti alla risarcibilità del danno; quindi, non lascia senza ristoro i danni che non superino una certa soglia minima di gravità.
In buona sostanza, la norma oggetto di scrutinio si limita a ribadire un principio generale, ossia chi invoca un risarcimento, deve dimostrare il danno patito. Nel caso in esame, si trattava di una lesione alla salute (i postumi di un colpo di frusta) e l’attore avrebbe dovuto dimostrarne l’esistenza, atteso che «non è pensabile che possa pretendersi il risarcimento di danni semplicemente ipotizzati, temuti, eventuali, supposti, possibili ma non probabili».
Accertamento dei micro-danni anche senza esami strumentali
Con la decisione in commento, la Corte conferma il proprio orientamento, che riassume così:
a) l'art. 32, d.l. 1/2012 non è una norma di carattere precettivo, ma una "norma in senso lato"; ossia si tratta di una disposizione priva di comandi o divieti, ma funzionalmente connessa a comandi o divieti contenuti in altre norme;
b) l'accertamento del danno alla persona – richiesto dalla norma - deve avvenire in base ai tradizionali criteri medico-legali, ossia:
l'esame obiettivo (criterio visivo);
l'esame clinico;
gli esami strumentali;
c) i suddetti criteri sono fungibili ed alternativi tra loro, e non cumulativi; inoltre, «non gerarchicamente ordinati tra loro, né unitariamente intesi, ma da utilizzarsi secondo le leges artis, siccome conducenti ad una "obiettività" dell'accertamento stesso, che riguardi sia le lesioni, che i relativi postumi» (Cass. 5820/2019).
Al lume di quanto esposto, quindi, l'accertamento dei micro-danni alla salute causati da sinistri stradali deve avvenire con l'applicazione dei criteri della medicina legale, essendo inidonee allo scopo sia le “appercezioni intuitive” del medico-legale che le dichiarazioni soggettive della vittima. Pertanto, una corretta criteriologia accertativa medico-legale deve:
valutare la storia clinica documentata della vittima;
analizzare la vis lesiva,
considerare la sintomatologia,
eseguire l'esame obiettivo,
tenere conto della statistica clinica.
Così potrebbe accadere di escludere una lesione permanente, pur in presenza di esami strumentali dall'esito positivo; o, viceversa, si può ammettere l'esistenza d'un danno permanente alla salute anche in assenza di esami strumentali, se ricorrono indizi gravi, precisi e concordanti dell'esistenza del danno e della sua genesi causale.
Riassumendo:
lo stabilire se una persona abbia o non abbia patito postumi permanenti non è una questione di diritto, ma è un accertamento di un fatto, insindacabile in sede di legittimità;
la motivazione della sentenza impugnata non può dirsi omessa, avendo il tribunale affermato essere "impossibile" accertare l'esistenza di un danno permanente, e costituendo tale affermazione una motivazione chiara ed inequivoca.
Conclusioni
In definitiva, con la pronuncia il commento la Suprema Corte ribadisce il proprio orientamento circa la liquidazione delle lesioni di lieve entità, così come previsto dall’art. 32 c. 3 ter d.l. 1/2012 (che ha modificato l’art. 139 c. 2 codice assicurazioni private, successivamente modificato dalla Legge 124/2017). Lo scopo della norma consiste nell’evitare le truffe assicurative in ambito di sinistri stradali e nel richiamare gli addetti ai lavori (medici legali, avvocati, magistrati) al dovere di zelo nella liquidazione del danno alla salute.  Per questa ragione, le lesioni di lieve entità (si pensi al colpo di frusta) sono irrisarcibili, se non sono suscettibili di un accertamento medico-legale. Nondimeno, la Cassazione si spinge oltre ed ammette che possa risarcirsi un danno permanente alla salute anche in assenza di esami strumentali (come TAC, lastre, risonanze e così via), purché ricorrano indizi gravi, precisi e concordanti dell'esistenza del danno e della sua genesi causale. Infatti, «l'accertamento clinico strumentale obiettivo non potrà in ogni caso ritenersi l'unico mezzo probatorio che consenta di riconoscere tale lesione a fini risarcitori, a meno che non si tratti di una patologia, difficilmente verificabile sulla base della sola visita del medico legale, che sia suscettibile di riscontro oggettivo soltanto attraverso l'esame clinico strumentale» (Cass. 5820/2019). Inoltre, si ribadisce che il pregiudizio patito deve essere dimostrato non già sulla base di mere intuizioni o delle dichiarazioni soggettive della vittima, ma seguendo una corretta criteriologia accertativa medico-legale.

fonte: www.altalex.com

Danno da errore medico subìto da congiunta: ristoro anche ai familiari

Anche ai familiari della vittima va risarcito il danno non patrimoniale da errore medico invalidante.
È quanto sancito dalla Corte di Cassazione, Sezione Terza Civile, nella sentenza 2 luglio - 4 novembre 2019, n. 28220.

La pronuncia in esame trae origine da una richiesta di risarcimento danni da errore medico, proposta iure proprio, dal marito ed i figli di una donna, alla quale non era stata diagnosticata una grave malattia al momento delle dimissioni dal Policlinico, dopo un intervento chirurgico.
La tardiva diagnosi aveva causato un progressivo peggioramento delle condizioni di salute della paziente, con necessità di numerosi ricoveri ospedalieri, nel corso dei quali la stessa aveva subìto un intervento invasivo a cuore aperto; inoltre aveva avuto bisogno di assistenza costante, sia domiciliare che presso le strutture sanitarie in cui era stata ricoverata, e che la malattia e l'invalidità della congiunta, avevano determinato un gravissimo turbamento ed un peggioramento delle abitudini di vita dell’intero nucleo familiare.
Accertata la responsabilità del primario e quella della struttura ospedaliera, il Giudice di prime cure aveva accolto la domanda svolta iure hereditatis, ma aveva respinto, invece, le richieste presentate dai familiari iure proprio.
La Corte territoriale, confermato l'accertamento di responsabilità, aveva riconosciuto ai parenti della vittima, una ulteriore somma a titolo di rimborso di spese mediche, ma aveva rigettato le altre domande.
Proposto ricorso per cassazione, i ricorrenti  hanno, tra i motivi sollevati, censurato la sentenza impugnata nella parte in cui, il giudice di merito aveva respinto la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale richiesto dai congiunti, in ragione dello sconvolgimento delle loro abitudini di vita conseguente alla necessità di assistere la donna, sia durante la malattia che nel periodo successivo, in cui la stessa era risultata affetta da postumi gravemente invalidanti. Inoltre, i ricorrenti hanno evidenziato come la Corte territoriale abbia contraddittoriamente escluso il risarcimento del danno anche in riferimento alla assistenza prestata durante i ricoveri ospedalieri, avendo ritenuto che "in ogni caso, si tratta di un'assistenza familiare, per quanto faticosa sul piano psicologico, evidentemente condivisa ed avvenuta principalmente durante i ricoveri ospedalieri".
La Cassazione ha accolto detta censura e, riportandosi ai principi consolidati già espressi dai giudici di legittimità, ha rilevato che, il risarcimento del danno non patrimoniale può spettare anche ai prossimi congiunti della vittima di lesioni personali invalidanti, "non essendo ostativo il disposto dell'art. 1223 c.c., in quanto anche tale danno trova causa immediata e diretta nel fatto dannoso (Cass., S.U. n. 9556/2002; conformi, ex multis, Cass. n. 8827/2003 e Cass. n. 11001/2003).
Pertanto,la Corte di merito ha errato escludendo il danno patito dai parenti, per il fatto che la donna non fosse risultata "del tutto dipendente dai familiari" ovvero quando ha considerato ritenere che l'assistenza prestata non giustificasse il risarcimento del danno per il fatto di rivestire natura "familiare"; al contrario, ha evidenziato la Cassazione,  anche un'invalidità parzialmente invalidante può comportare anche la necessità di un impegno di assistenza a carico degli stretti congiunti e, dunque, un peggioramento delle abitudini di vita di chi la presti.
Orbene, la circostanza che il familiare di una persona lesa dall'altrui condotta illecita può subire uno stato di sofferenza soggettiva ed un cambiamento peggiorativo delle abitudini di vita, costituiscono  dei pregiudizi che devono essere risarciti, ove presentino caratteri della serietà del danno e della gravità della lesione; non è motivo di esclusione del pregiudizio la circostanza che l'invalidità del congiunto non sia totale o che l'assistenza possa essere stata suddivisa fra più congiunti.
Alla luce delle suesposte considerazioni che precedono, la Suprema Corte ha cassato la sentenza sul punto, con rinvio alla Corte territoriale per un nuovo esame.

fonte:www.altalex.com

martedì 3 dicembre 2019

Insulti su chat privata: illegittimo il licenziamento

Il licenziamento disciplinare del dipendente che utilizza una chat di Whatsapp per insultare un superiore gerarchico è illegittimo, in quanto il contenuto privato della chat è destinato ad un numero chiuso di partecipanti. Lo ha affermato il Tribunale di Firenze con sentenza del 16 ottobre scorso-

Il fatto. Nel caso di specie, un lavoratore viene licenziato per aver diffuso svariati messaggi vocali con contenuti “offensivi, denigratori, minatori e razzisti” in una chat privata condivisa con i colleghi.
Il Tribunale di Firenze, richiamando le più recenti sentenze della Corte di Cassazione, ha analizzato la rilevanza disciplinare del comportamento del lavoratore, distinguendo tra:
- messaggi diffusi attraverso bacheche digitali pubbliche, accessibili ad una moltitudine indistinta di persone;
- messaggi diffusi attraverso social network ad accesso limitato, ai quali possono partecipare solo alcuni utenti.
Nel primo caso, il contenuto offensivo di un messaggio può essere considerato diffamatorio e quindi contestato al lavoratore come motivo di licenziamento.
Nel secondo caso, invece, l'offesa è condivisa in un ambiente chiuso, che esclude "qualsiasi intento o idonea modalità di diffusione denigratoria”.
Pertanto, il giudice ha condannato il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore e al versamento delle retribuzioni maturate.

Fonte: www.mementopiu.it

Il contratto a termine non sospende necessariamente l’indennità di disoccupazione

Con la sentenza n. 27506 del 28 ottobre 2019, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso presentato dell’INPS che puntava a recuperare il denaro versato ad un uomo a titolo di indennità di disoccupazione. In particolare, secondo l’INPS, in caso di accettazione di un'offerta di lavoro a tempo determinato si ha sospensione dello stato di disoccupazione, con conseguente venir meno del diritto alla relativa indennità. L’uomo aveva lavorato per dieci settimane, durante il periodo in cui usufruiva di tale indennità, percependo un reddito minimo personale. Secondo la Corte, quindi, percepire un reddito minimo personale consente sempre il mantenimento della condizione di disoccupazione, a prescindere dalla tipologia contrattuale dalla quale tale reddito annuale sia conseguito. Solo in caso di superamento di detta soglia può ritenersi venuta meno la necessità di sostegno pubblico del reddito in favore del lavoratore. Pertanto, la condizione di disoccupazione viene conservata.
Svolgimento del processo
1. La Corte d'Appello di Catanzaro, in riforma della decisione resa dal Tribunale di Crotone, accoglieva l'opposizione proposta da P. G. avverso il decreto ingiuntivo con il quale l'INPS aveva agito per il recupero della somma che l'istituto asseriva indebitamente percepita dal G. a titolo di indennità di disoccupazione per il periodo dal luglio al dicembre del 2005, revocando il predetto decreto ingiuntivo.
2. La decisione della Corte territoriale discende dall'aver questa ritenuto non ostativa alla percezione della suddetta indennità la circostanza che il G. nel periodo di riferimento avesse prestato attività lavorativa a tempo determinato per un periodo di dieci settimane, avendo egli percepito una retribuzione inferiore alla soglia prevista dall' art. 4 primo comma, lett. a) del d.lgs. n. 181/2000 (nel testo modificato dall'art. 5, d.lgs. n. 297/2002, operante ratione temporis).
3. Per la cassazione di tale decisione ricorre l'INPS, affidando l'impugnazione ad un unico motivo, in relazione al quale l'intimato non ha svolto alcuna attività difensiva.
4. La VI Sezione di questa Corte, valutata la novità della questione posta ed il suo rilievo nomofilattico, ha rimesso la causa a questa IV Sezione per la trattazione in pubblica udienza.
5. L'Inps ha depositato anche memoria ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
6. L' istituto ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 4, lett. a) e d) e 5, primo comma, d.lgs. n. 181/2000 e successive modificazioni, con riferimento agli artt. 45 e 77 del r.d.l n. 1827/1935, conv. in I. n. 1155/1936 e 52 lett. b), 54, primo comma , lett. a) e secondo comma e art. 55, lett. b) del r.d. n. 2270/1924. Sostiene la non conformità a diritto della pronunzia resa dalla Corte territoriale per risultare nella specie applicabile non la norma contenuta nella lett. a) dell'art. 4 d.lgs n. 181/2000, bensì la successiva lett. d) del medesimo articolo nella versione vigente ratione temporis (luglio/agosto 2005), secondo cui in caso di accettazione di un'offerta di lavoro a tempo determinato o di lavoro temporaneo inferiore a otto mesi, ovvero di quattro mesi se si tratta di giovani, si ha sospensione dello stato di disoccupazione, con conseguente venir meno dei diritto alla relativa indennità.
L'interpretazione del giudice di merito striderebbe anche con l'art. 45 III comma del R.D.L. n. 1827 del 1935, in quanto durante lo svolgimento di attività di lavoro subordinato difetta la condizione di "mancanza di lavoro" e viene meno la funzione della provvidenza in questione. Aggiunge che il d.lgs n. 181 del 2000 non avrebbe modificato nel senso individuato dalla Corte territoriale il regime dell'assicurazione contro la disoccupazione, ancora disciplinato per l'aspetto che qui viene in rilievo dall'art. 55 lettera b) del R.D. n. 2270 del 1924.
7. La questione oggetto di causa attiene all'interpretazione dell'art. dell'art. 4 del d.lgs n. 181/2000 , nel testo come sostituito dall'art. 5, D.Lgs. 19 dicembre 2002, n. 297, ed in particolare del rapporto sussistente tra la lettera a) e la lettera d), e dunque la sussistenza o meno del diritto all'indennità ordinaria di disoccupazione anche nel periodo di svolgimento di attività lavorativa a tempo determinato nel quale l'assicurato abbia conseguito un reddito annuale inferiore alla soglia per mantenere lo stato di disoccupazione.
8. La normativa del d.lgs n. 181 del 2000 e successive modificazioni non ha ridisegnato l'intera disciplina dei trattamenti previdenziali per il caso di disoccupazione, espressamente fatta salva dall'art. 5 comma 1, ma, in attuazione della delega conferita con l'art. 45 comma 1 lettera a) della I. n. L. 17/05/1999, n. 144, che aveva ad oggetto anche la riforma degli incentivi all'occupazione e degli ammortizzatori sociali, ha individuato quando sussista lo stato di disoccupazione, rilevante anche al fine del loro intervento, in tal senso ridisegnandone i caratteri. Soccorre in tal senso anche la premessa del suddetto d.lgs, che fa riferimento a detta delega, esplicitando "che, al fine di realizzare il riordino del sistema degli incentivi all'occupazione e degli ammortizzatori sociali, prescrive di procedere alla revisione dei criteri per l'accertamento dei requisiti individuali di appartenenza dei soggetti alle diverse categorie, allo scopo di renderli più adeguati alla valutazione ed al controllo dell'effettiva situazione di disagio".
9. L'art. 4, rubricato "perdita dello stato di disoccupazione, al comma 1 prevede quanto segue: "Le Regioni stabiliscono i criteri per l'adozione da parte dei servizi competenti di procedure uniformi in materia di accertamento dello stato di disoccupazione sulla base dei seguenti princìpi:
a) conservazione dello stato di disoccupazione a seguito di svolgimento di attività lavorativa tale da assicurare un reddito annuale non superiore al reddito minimo personale escluso da imposizione. Tale soglia di reddito non si applica ai soggetti di cui all'articolo 8, commi 2 e 3, del decreto legislativo 1° dicembre 1997, n. 468;
b) perdita dello stato di disoccupazione in caso di mancata presentazione senza giustificato motivo alla convocazione del servizio competente nell'àmbito delle misure di prevenzione di cui all'articolo 3;
c) perdita dello stato di disoccupazione in caso di rifiuto senza giustificato motivo di una congrua offerta di lavoro a tempo pieno ed indeterminato o determinato o di lavoro temporaneo ai sensi della legge 24 giugno 1997, n. 196, con durata del contratto a termine o, rispettivamente, della missione, in entrambi i casi superiore almeno a otto mesi, ovvero a quattro mesi se si tratta di giovani, nell'àmbito dei bacini, distanza dal domicilio e tempi di trasporto con mezzi pubblici, stabiliti dalle Regioni;
d) sospensione dello stato di disoccupazione in caso di accettazione di un'offerta di lavoro a tempo determinato o di lavoro temporaneo di durata inferiore a otto mesi, ovvero di quattro mesi se si tratta di giovani"
10. L'opzione interpretativa adottata dal giudice di merito è corretta e dev'essere confermata.
11. La norma ha infatti individuato alla lettera a) del comma 1 la soglia di reddito annuale che determina la conservazione dello stato di disoccupazione. Essa è costituita dal reddito minimo personale escluso da imposizione, e consente sempre il mantenimento della condizione di disoccupazione, a prescindere dalla tipologia contrattuale dalla quale tale reddito annuale sia conseguito, a tempo determinato o determinato. Solo in caso di superamento di detta soglia può ritenersi venuta meno la necessità di sostegno pubblico del reddito in favore del lavoratore (e dei suoi famigliari).
12. Ai sensi poi della successiva lettera d), il superamento della soglia di reddito annuale come individuata alla lettera a) non dà luogo a perdita dello stato di disoccupazione, ma solo a sospensione dello stesso, qualora il rapporto sia a tempo determinato della durata fino a otto mesi o a quattro mesi per i giovani. Ciò significa che in tal caso la situazione di disoccupazione potrà essere nuovamente fatta valere dopo la scadenza del termine contrattuale.
13. Diversamente, se il rapporto di lavoro a tempo determinato non abbia determinato il superamento della soglia annuale di reddito prevista dalla lettera a), la condizione di disoccupazione secondo la previsione di carattere generale viene conservata.
14. L'interpretazione qui avallata si rende necessaria al fine di non creare un'ingiustificata disparità di trattamento tra lavoro a tempo determinato e indeterminato, in quanto nella prospettazione dell'Inps, disattesa dal giudice di merito, nel caso di lavoro a tempo determinato che in un anno abbia consentito la percezione di un reddito inferiore alla soglia imponibile si avrebbe, al contrario di la quanto avviene in caso di lavoro a tempo indeterminato, sospensione integrale del trattamento di sostegno. La soluzione normativa è in tal modo idonea a valorizzare la precarietà del rapporto di lavoro a tempo determinato, che non consente per definizione una previsione di continuità dell'occupazione al di là della sua durata.
15. Segue coerente il rigetto del ricorso.
16. Non vi è luogo a pronuncia sulle spese, in assenza di attività difensiva della parte intimata.
17. L'esito del giudizio determina la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall'art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228.

In caso di inabilità lavorativa il figlio maggiorenne ha diritto alla pensione di reversibilità

Con l’ordinanza n. 30859 del 26 novembre 2019, la Corte ha specificato che spetta al figlio maggiorenne il diritto alla pensione di reversibilità della dante causa nel caso di inabilità al lavoro. L’ accertamento del requisito della inabilità deve essere operato sulla base di un criterio concreto avendo riguardo al possibile impiego delle eventuali energie lavorative residue in relazione al tipo di infermità e alle generali attitudini del soggetto, in modo da verificare, anche nel caso del mancato raggiungimento di una riduzione del cento per cento della astratta capacità di lavoro, la permanenza di una capacità dello stesso di svolgere attività tali da procurare una fonte di guadagno non simbolico.

Svolgimento del processo
1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte di Appello di Napoli ha riformato la sentenza impugnata e riconosciuto il diritto di P. C. alla reversibilità della pensione della dante causa, P. C., con decorrenza dal 1 marzo 1995 (primo giorno del mese successivo al decesso della P.);
2. la Corte di merito, premesso non essere in contestazione il requisito dell'inabilità dell'assistito, riteneva sussistente il requisito della vivenza a carico in considerazione del possesso, da parte del P., del solo reddito derivante dalla pensione di inabilità di cui godeva e delle condizioni reddituali per beneficiare di quest'ultimo beneficio;
3. avverso tale sentenza l'Inps ha proposto ricorso affidato ad un motivo, al quale ha opposto difese P. C., con controricorso;
Motivi della decisione
4. con il motivo di censura, deducendo violazione di legge (artt. 21, 22 legge n. 903 del 1965, art. 8 legge n. 222 del 1984), l'INPS assume che la questione del requisito dell'inabilità al momento del decesso della congiunta del P., tempestivamente introdotta nei gradi di merito, non era stata correttamente definita dalla Corte di merito, trattandosi di stabilire non solo se il soggetto avesse una generica capacità lavorativa) ma se potesse utilizzare proficuamente la residua efficienza psico-fisica e, quindi, se conservasse una pur minima capacità di guadagno;
5. il ricorso è da accogliere;
6. costituisce principio consolidato di questa Corte che l'accertamento del requisito della inabilità (di cui all'art. 8 della legge n. 222 del 1984), richiesto ai fini del riconoscimento del diritto alla pensione di riversibilità ai figli superstiti del lavoratore o del pensionato, deve essere operato secondo un criterio concreto, ossia avendo riguardo al possibile impiego delle eventuali energie lavorative residue in relazione al tipo di infermità e alle generali attitudini del soggetto, in modo da verificare, anche nel caso del mancato raggiungimento di una riduzione del cento per cento della astratta capacità di lavoro, la permanenza di una capacità dello stesso di svolgere attività idonee nel quadro dell'art. 36 Cost. e tali da procurare una fonte di guadagno non simbolico (v., fra le altre, Cass. n. 26181 del 2016 che ha confermato la decisione di merito che aveva accolto la domanda di pensione di reversibilità, quale orfano maggiorenne inabile di entrambi i genitori, presentata da un invalido le cui residue capacità lavorative erano state riconosciute talmente esigue da consentire solo lo svolgimento di operazioni elementari, che dovevano comunque essere completate da un altro operatore e si risolvevano nello svolgimento di un'attività del tutto priva di produttività, oltre che in perdita economica, esercitata esclusivamente all'interno di strutture protette, con esclusione di qualsiasi apprezzabile fonte di guadagno; v., da ultimo, Cass. n. 682 del 2019 e i numerosi precedenti ivi richiamati);
7. va anche ribadito che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, l'inabilità al lavoro rappresenta un presupposto del diritto alla pensione di reversibilità del figlio maggiorenne e, quindi, un elemento costitutivo dell'azione diretta ad ottenerne il riconoscimento, con la conseguenza che la sussistenza di esso deve essere accertata anche d'ufficio dal giudice (v., fra le altre, Cass. n. 1367 del 1998 e successive conformi);
8. la Corte d'appello ha ricavato, in via inferenziale, una presunzione di inabilità dalla titolarità della pensione di inabilità senza espletare alcun accertamento sulle residue capacità lavorative e, dunque, senza compiere alcuna verifica, in concreto, sulla permanenza o meno di una residua capacità del soggetto maggiorenne, benché titolare della pensione di inabilità, di svolgere un'attività tale da procurargli una fonte di guadagno che non fosse meramente simbolica e da farlo ritenere non totalmente inabile al lavoro;
9. la sentenza impugnata va, pertanto, cassata e, per essere necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa va rinviata alla Corte d'appello di Napoli, in diversa composizione, perché proceda a nuovo esame

Responsabilità professionale medica, stop alle "liti temerarie" contro i medici

 Stop alle "liti temerarie" contro i medici: su 100 cause per responsabilità professionale, nel penale, solo il 5% porta a una con...