domenica 25 marzo 2018

Il Comune Napoli vieta alle macellerie di esporre animali morti in vetrine

A Napoli sarà vietato esporre animali macellati parzialmente o interi nelle vetrine e per strada, pena la rimozione e una multa di 500,00 euro. Una decisione che punta a fare scuola perché, secondo il Servizio Promozione e Tutela della Salute e degli Animali del Comune partenopeo, non esistono precedenti in Italia di questo tipo. L’ordinanza, spiega l’assessore alle Politiche Sociali con delega alla Tutela della Salute degli Animali Roberta Gaeta, non vuole essere un semplice divieto, ma un atto di civiltà che punta soprattutto alla tutela dei bambini. «Vedere oggi capretti e agnelli scuoiati, con occhi vitrei, appesi a testa in giù nelle vetrine delle macellerie è uno spettacolo che a molti fa male, soprattutto ai più piccoli» commenta l’assessore, che aggiunge: «La Pasqua porta con sé questa tradizione alimentare che comporta la macabra usanza dell’esibizione dei corpi degli animali. Una modalità crudele. È nei piccoli gesti che si misura la sensibilità di una collettività».
L’ordinanza vieta anche solo l’esposizione di parti di animali, obbligando i commercianti a conservarli nelle celle frigorifere, secondo le prescrizioni normative di igiene alimentare vigenti. Una scelta che potrebbe risultare ipocrita o integralista ad alcuni ma, come commenta il garante degli animali del Comune di Napoli Stella Cervasio, potrebbe invece rappresentare un’opportunità anche per le altre città italiane.
«Ho accolto con grandissimo favore questa iniziativa e spero che presto qualcuno faccia altrettanto in Italia. Non si vuole nascondere questi animali, è solo un primo passo per una modifica della civiltà», racconta Cervasio, che questa mattina ha postato sui social la foto di una carcassa esposta nella vetrina di una macelleria suscitando lo sdegno di molti per l’immagine cruda. «Questi animali, continua, sono esposti per vendere e finiscono per ferire soprattutto i bambini».
Ma l’obiettivo non è la sola tutela dei passanti, piccoli o grandi che siano. Ma anche e soprattutto il rispetto nei confronti degli animali. “Nell’immaginario collettivo infantile, si legge nell’ordinanza, alcuni animali hanno i caratteri della familiarità, con importanti ricadute nell’ambito della sfera affettiva e quindi di un equilibrato sviluppo psichico”. Napoli anche in passato ha mostrato particolare attenzione alla tutela del mondo animale. Lo scorso Capodanno, fu proprio l’assessore Gaeta a lanciare la campagna social “No ai botti”, per proteggere soprattutto i migliori amici dell’uomo: i cani. La scelta napoletana di vietare da oggi l’esposizione di carcasse nelle macellerie potrebbe, però, suscitare delle proteste da parte dei commercianti, che hanno tuttavia 60 giorni di tempo per presentare regolare ricorso al TAR della Campania.

fonte: Il Comune Napoli vieta alle macellerie di esporre animali morti in vetrine e per strada - La Stampa

sabato 24 marzo 2018

Bolletta da capogiro: spetta all’utente “smentire” i dati rilevati dal contatore

In tema di contratti di somministrazione, la rilevazione dei consumi mediante contatore è assistita da una mera presunzione semplice di veridicità e dunque, in caso di contestazione, grava sul fruitore l’onere di dimostrare che l’eccessività dei consumi è dovuta a fattori esterni al suo controllo. Così la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 7045/18, depositata il 21 marzo.
Il caso. Il Tribunale di Termini Imerese riformava solo parzialmente la sentenza del Giudice di Pace, confermando la condanna del convenuto al pagamento a favore di Enel Energia S.p.a. del corrispettivo equitativamente determinato per il consumo di energia elettrica fornitagli in circa 2 anni e mezzo.
L’utente ricorre dunque in Cassazione impugnando la predetta sentenza dolendosi, per quanto d’interesse, per la violazione dell’onere della prova in quanto il Tribunale avrebbe considerato assolto l’onere probatorio a carico del fornitore di energia elettrica sulla base di fatture oggetto di contestazione.
Onere della prova. La Corte esclude l’ammissibilità del motivo poiché la sentenza impugnata ha correttamente ritenuto provati i consumi effettivi di energia come indicati in una fattura prodotta in giudizio dallo stesso utente e non oggetto di specifica e congrua contestazione da parte sua. Tale importo risultava inoltre confermato sia dai dati relativi ai consumi, sia dal funzionamento della relativa rilevazione da parte del misuratore posizionato sul contatore e regolarmente funzionante (essendo guasto solo il dispaly che avrebbe consentito l’immediata lettura dei consumi).
Il Giudice d’Appello ha dunque fatto corretta applicazione del principio secondo cui «in tema di contratti di somministrazione, la rilevazione dei consumi mediante contatore è assistita da una mera presunzione semplice di veridicità, sicché, in caso di contestazione, grava sul somministratore l’onere di provare che il contatore era perfettamente funzionante, mentre il fruitore deve dimostrare che l’eccessività dei consumi è dovuta a fattori esterni al suo controllo e che non avrebbe potuto evitare con un’attenta custodia dell’impianto, ovvero di aver diligentemente vigilato affinché eventuali intrusioni di terzi non potessero alterare il normale funzionamento del misuratore o determinare un incremento dei consumi».
In conclusione, la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Bolletta da capogiro: spetta all’utente “smentire” i dati rilevati dal contatore - La Stampa

Niente carcere fino a 4 anni di pena

Si allarga per i detenuti la possibilità di accedere alla misure alternative al carcere. Potrà fruire di questa opportunità anche chi ha un residuo di pena fino a quattro anni, sempre tramite la valutazione del magistrato di sorveglianza. E in ogni caso questa possibilità non si estende ai detenuti al 41bis per reati di mafia e quelli per reati di terrorismo. E’ la principale previsione contenuta nel decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario approvato lo scorso 16 marzo in secondo esame preliminare dal consiglio dei ministri. «Il provvedimento che abbiamo approvato non è uno svuotacarceri né un salvaladri”, ha detto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, spiegando che il testo è stato varato senza le modifiche sostanziali chieste in commissione al Senato, ma con modifiche di piccola entità. Per questo il testo dovrà avere un altro passaggio presso le commissioni parlamentari prima di essere definitivamente varato. A occuparsene potrebbero essere le commissioni speciali che saranno istituite per vagliare i provvedimenti urgenti in attesa della formazione di quelle definitive, ma su questo deciderà, ha detto Orlando, il ministro per i rapporti con il parlamento. «Qualcuno”, ha aggiunto il guardasigilli, “tenterà di cavalcare paure. Ma da domani non uscirà nessuno dal carcere, da domani un giudice potrà valutare il comportamento del detenuto e ammetterlo a misure che gli consentono di restituire qualcosa di quello che ha tolto alla società». Il dlgs di “Riforma dell’ordinamento penitenziario in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 82, 83 e 85, lettere a), b), c), d), e), f), h), i), l), m), o), r), s), t), e u) della legge 23 giugno 2017, n. 103”, questo il titolo per esteso, introduce disposizioni volte a riformare l’ordinamento penitenziario. Ha principalmente l’obiettivo di renderlo più attuale (la disciplina è del 1975) per adeguarlo ai successivi orientamenti della giurisprudenza di Corte costituzionale, Cassazione e Corti europee, e mira, in particolare, a: ridurre il ricorso al carcere in favore di soluzioni che riportino al centro del sistema la finalità rieducativa della pena indicata dall’art. 27 della Costituzione; razionalizzare le attività degli uffici preposti alla gestione del settore penitenziario; diminuire il sovraffollamento, sia assegnando formalmente la priorità del sistema penitenziario italiano alle misure alternative al carcere, sia potenziando il trattamento del detenuto e il suo reinserimento sociale in modo da arginare il fenomeno della recidiva; valorizzare il ruolo della Polizia Penitenziaria, ampliando lo spettro delle sue competenze. Il decreto è suddiviso in 6 parti, corrispondenti ad altrettanti capi, dedicate alla riforma dell’assistenza sanitaria, alla semplificazione dei procedimenti, all’eliminazione di automatismi e preclusioni nel trattamento penitenziario, alle misure alternative, al volontariato e alla vita penitenziaria. La riforma dell’ordinamento penitenziario «serve ad abbattere la recidiva», ha dichiarato Orlando. «Attualmente vengono spesi ogni anno quasi tre miliardi di euro per l’esecuzione penale, eppure abbiamo il tasso di recidiva più alto d’Europa». Per chi espia la pena in carcere vi è recidiva nel 60,4% dei casi, mentre per coloro che hanno fruito di misure alternative alla detenzione il tasso di recidiva è del 19%, ridotto all’l% per quelli che sono stati inseriti nel circuito produttivo.

fonte: Niente carcere fino a 4 anni di pena - ItaliaOggi.it

giovedì 22 marzo 2018

Corte dei Conti: Se nevica, l’assenza dei dipendenti la paga lo Stato

Paghi lo Stato se nevica e i dipendenti pubblici non possono raggiungere il posto di lavoro. Così la segreteria generale della Corte dei conti (cioè la direzione amministrativa, non i giudici) ritiene corretto regolare un evento come la recente nevicata del 26 febbraio scorso, che paralizzò Roma, chiedendo all’Aran di condividere la tesi con la richiesta di parere 2179 dello scorso 5 marzo. Tesi che, se accolta, porterebbe all’ennesima fortissima divaricazione tra mondo del lavoro privato e pubblico.
La nevicata del 26 febbraio scorso impedì a molti dipendenti della Corte dei conti di raggiungere gli uffici. Secondo la segreteria generale della Corte, la mancata resa della prestazione lavorativa non dovrebbe incidere negativamente sulla sfera giuridica dei lavoratori, ma va considerata imputabile al “rischio di impresa” dell’amministrazione pubblica, prendendo atto che l’evento atmosferico crea un danno erariale non imputabile ai lavoratori.
In sostanza, dunque, nei confronti dei lavoratori che non sono riusciti a raggiungere il posto di lavoro, secondo la richiesta di parere, non si dovrebbe disporre d’ufficio una riduzione delle ore di permesso personale o dei giorni di ferie; di conseguenza, per ragioni di equità, ai dipendenti che invece hanno comunque preso servizio andrebbe riconosciuto un turno di riposo compensativo.
Secondo la segreteria generale della Corte dei conti non si potrebbero estendere al lavoro pubblico le modalità di regolazione del rapporto proprie del privato. In questo ambito, come del resto evidenziato dal Ministero del Lavoro nel parere 7 giugno 2012, n. 37/0010676 reso proprio in merito alle conseguenze del mancato svolgimento della prestazione lavorativa a causa di una nevicata. Nel caso del rapporto di lavoro privatistico, rileva il Ministero “l’impossibilità sopravvenuta liberi entrambi i contraenti: il lavoratore dall’obbligo di effettuare la prestazione e il datore dall’obbligo di erogare la corrispondente retribuzione. Restano ferme, tuttavia, le disposizioni dei contratti collettivi di lavoro che, generalmente, contemplano la possibilità per il lavoratore di fruire di titoli di assenza retribuiti connessi al verificarsi di eventi eccezionali”.
Nel caso del lavoro pubblico e, specificamente per il comparto Ministeri, qualora intervenga un “factum principis”, come un’ordinanza di chiusura degli uffici pubblici, questo “impedisce modo oggettivo ed assoluto l’adempimento della prestazione, ossia l’espletamento dell’attività lavorativa, fermo restando l’obbligo datoriale di corrispondere la retribuzione nelle giornate indicate”.
Nel caso della nevicata del 26 febbraio, tuttavia, non vi sono stati provvedimenti autoritativi di chiusura degli uffici. Mancherebbe, quindi, una “forza maggiore” che abbia impedito in modo oggettivo ed assoluto la prestazione lavorativa. Tuttavia, secondo la richiesta di parere, tale causa di forza maggiore potrebbe essere ravvisata nella carenza, da parte della PA nel suo complesso “di un dispositivo organizzativo idoneo a fronteggiare gli stessi gravi eventi atmosferici, per consentire la percorribilità delle strade pubbliche (a chi si reca al lavoro con i propri mezzi di trasporto) ovvero la fruizione dei mezzi di trasporto pubblico)”.
Insomma, poiché la PA non ha potuto garantire la percorribilità delle strade o la fruizione completa di mezzi di trasporto, si assisterebbe ad un’ipotesi di “danno che resta a carico del pubblico erario”. Lo Stato e le altre amministrazioni, in conseguenza della carenza di rimedi all’evento climatico, in sostanza, dovrebbero accollarsi il costo da un lato del riconoscimento delle assenze dei dipendenti senza ridurre loro ferie o permessi e con diritto alla retribuzione; dall’altro il costo di un turno – remunerato – di riposo (ovviamente in giornata lavorativa) per i dipendenti presenti in servizio.
Secondo il parere sarebbe da “ritenere equo” che le difficoltà a fronteggiare l’emergenza dovuta alla nevicata, tali da rendere estremamente difficoltosa, se non impossibile, la puntuale prestazione lavorativa, producano a carico del datore di lavoro pubblico il danno erariale, non attribuibile alla responsabilità da inadempimento del lavoratore.
Nell’attesa che l’Aran si esprima sulla richiesta di parere, vi è da osservare che l’assenza di misure organizzative utili per consentire il regolare transito nelle strade con mezzi privati o pubblici colpisce in maniera del tutto identica lavoratori pubblici e privati. L’eventuale accoglimento della tesi della segreteria generale della Corte dei conti pone un non irrilevante problema di equità nei confronti del sistema privato, colpito anch’esso dalle conseguenze delle medesime disfunzioni.

fonte: Se nevica, l’assenza dei dipendenti la paga lo Stato - ItaliaOggi.it

Studi di settore, conclusioni della Corte Ue: la norma è legittima

Gli studi di settore italiani non vìolano la normativa europea. A condizione, però, «che siano rispettati gli articoli 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali, ciò che spetta al giudice nazionale di verificare. Articoli che riguardano, rispettivamente, il diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale nonché la presunzione di innocenza e i diritti della difesa». È stato l'avvocato generale della Corte di giustizia Ue, lo svedese Nils Wahl, a giudicare "conforme al diritto dell'Unione" la normativa fiscale italiana, nelle conclusioni a cui è giunto nella causa intentata davanti alla commissione tributaria di Reggio Calabria da un contribuente che aveva contestato l'accertamento, in materia di Iva, effettuato dell'Agenzia delle entrate. Secondo le conclusioni dell'avvocato generale, la scelta di usare uno strumento quale gli studi di settore al fine di individuare i contribuenti che potrebbero non aver dichiarato la totalità dell'IVA e di valutare gli importi eventualmente esigibili appare rientrare nel margine di discrezionalità che la direttiva Iva riconosce agli Stati membri nell'individuare le misure e le sanzioni appropriate per assicurare la riscossione dell'IVA per intero e prevenire l'evasione. Tuttavia, nelle conclusioni si precisa che qualsiasi rettifica effettuata dall'amministrazione fiscale"deve essere in grado di condurre a risultati veritieri" sull'ammontare dell'IVA spettante allo Stato (dovendosi tenere ben distinto il recupero dell'IVA in sé dalla sanzione per l'omesso o il ritardato pagamento). Pertanto, gli studi di settore, in quanto strumenti per il recupero dell'IVA, "devono essere accurati, attendibili e aggiornati". Inoltre, tale meccanismo di accertamento induttivo deve prevedere, allo scopo di raggiungere un risultato veritiero, "un contraddittorio con il contribuente e la possibilità per quest'ultimo di offrire la prova contraria alle presunzioni utilizzate dall'amministrazione".

fonte: Studi di settore, conclusioni della Corte Ue: la norma è legittima - ItaliaOggi.it

Scadenze penali: il sabato non va considerato festivo

Il codice di procedura penale non prevede all'art. 172 la parificazione del sabato alla domenica nel caso di scadenza dei termini nelle rispettive giornate.
E' quanto emerge dalla sentenza della Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione del 28 febbraio 2018, n. 9171.
La giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di ribadire recentemente che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 172 c.p.p., in relazione alla diversa disciplina dettata dall'art. 155 c.p.c., in base alla quale il termine stabilito a giorni che scade il sabato è prorogato al primo giorno non festivo, essendo rimessa alla discrezionalità del legislatore ogni valutazione in ordine alla necessità di una disciplina processuale dei termini differenziata, in considerazione dei beni e degli interessi in rilievo nel processo penale, primo fra tutti quello della libertà personale (Cass. pen., Sez. IV, 7 settembre 2015, n. 36046).
La norma introdotta nel codice di procedura civile all'art. 155, quinto comma, inerente la proroga del termine scadente nella giornata di sabato per il compimento degli atti processuali svolti fuori udienza, è norma che pur applicandosi al processo civile a tutti i termini anche perentori, riguarda in modo esclusivo il processo civile, non potendosi analogicamente estendere una simile scelta ad un sistema processuale, quale quello penale, che ha peculiarità diverse e proprie, inerenti fra l'altro non solo i beni che ne formano oggetto, ma altresì l'efficacia esecutiva delle sentenze di condanna, che nel processo penale divengono esecutive solo laddove irrevocabili, contrariamente a quelle civili, cui appartiene un regime di immediata esecutività e rispetto alle quali la scelta della postergazione del termine cadente nella giornata di sabato non riveste alcuna incidenza.
Secondo gli ermellini, la mancata previsione, nell'art. 172 c.p.p., di una regola che parifichi il sabato alla domenica, sotto il profilo del differimento dei termini scandenti nelle rispettive giornate, al primo giorno successivo non festivo, non corrisponde affatto ad un vuoto normativo, che possa colmarsi con una lettura analogica, né ad una scelta diseguale del legislatore che assicura tutele diverse a situazioni identiche, ma alla precisa volontà legislativa di assicurare una disciplina diversa per situazioni processuali del tutto diverse e non sovrapponibili, quali sono il processo civile e quello penale, anche in relazione al computo dei termini.

fonte: Scadenze penali: il sabato non va considerato festivo | Altalex

Cassazione: automobilisti bloccati dalla neve, niente risarcimento

Quando la nevicata è veramente abbondante e costringe gli automobilisti a rimanere per ore bloccati sulle strade nelle loro auto, senza alcuna assistenza, ad aspettare l’arrivo dello spazzaneve, è inutile chiedere il risarcimento dei danni patiti a chi ha la responsabilità della circolazione stradale - ad esempio le province - facendo riferimento al fatto che le cattive previsioni meteo era note con anticipo e si sapeva che avrebbe nevicato. Lo sottolinea la Cassazione respingendo il ricorso di alcuni automobilisti rimasti imprigionati a lungo a bordo dei loro veicoli, a causa della nevicata del 17 dicembre 2010, verificatasi sulla strada provinciale 65 della Provincia di Lucca.
Nel ricorso alla Suprema Corte, gli automobilisti hanno sottolineato che «ai sensi dell’articolo 14 del Codice della strada, gli enti proprietari erano tenuti a garantire la sicurezza, la manutenzione e l’efficienza delle strade e che nei giorni precedenti la nevicata i servizi meteo avevano lanciato ripetuti segnali di allerta, ignorati dall’amministrazione provinciale, che non aveva adottato alcuna forma di intervento preventivo». Sia il Tribunale di Lucca nel 2015, che la Corte di Appello di Firenze nel 2016, avevano detto “no” ai risarcimenti.
Ad avviso della Cassazione, «la valutazione in ordine alla straordinarietà o meno dell’intensità del fenomeno atmosferico costituisce profilo di fatto che non può essere valutato in questo sede se non per evidenziare che i giudici di merito hanno precisato che non si poteva pretendere il mantenimento di un apparato di uomini e mezzi per fronteggiare un evento rarissimo, se riferito alle straordinarie condizioni del fenomeno». Quel giorno, infatti, ricorda il verdetto 5859 depositato dalla Sesta sezione civile, a causa della neve «in Toscana e in quasi tutto il centro-nord tutte le arterie stradali e ferroviarie erano andate in crisi».
Per quanto riguarda la nevicata, si rileva che la sua imprevedibilità «riguarda l’eccezionalità e non il fenomeno in sé». Per questo, la Suprema Corte non ha avuto nulla da obiettare alla conclusione raggiunta dai giudici toscani per i quali «data l’estensione della perturbazione, il blocco stradale» preteso dagli automobilisti «avrebbe dovuto essere totale e quindi impossibile a disporsi e mantenersi già soltanto per ragioni evidenti di numero spropositato di persone che avrebbero dovuto provvedervi».
Gli automobilisti, oltre a perdere il ricorso, sono stati condannati anche a pagare 3200 euro di spese legali.

fonte: Cassazione: automobilisti bloccati dalla neve, niente risarcimento - La Stampa

Sì alla convalida dell'arresto in flagranza fatto da privati

ll giudice deve convalidare l'arresto, in flagranza, fatto dai privati che inseguono l'autore di un reato del quale sono stati testimoni oculari e lo fermano fino all'arrivo dei carabinieri. Con la sentenza 13094, la Cassazione accoglie il ricorso del Pubblico ministero, che contestava la decisione con la quale il tribunale aveva detto no alla convalida dell'arresto di una cittadina straniera, che aveva sottratto il bancomat ad una cliente all'interno dell'ufficio postale. La vittima aveva inseguito la donna per riavere il bancomat ma era riuscita solo a farsi malmenare, mentre meglio era andata agli altri inseguitori, anche loro presenti nell'ufficio postale, che erano riusciti a bloccare l'autrice del furto, prima dell'arrivo dei militari che l'avevano arrestata. Un'operazione che il tribunale si era rifiutato di considerare valida perché le forze dell'ordine, ad avviso dei giudici, non avevano agito in flagranza, ma sulla scia di informazioni ricevute dai soggetti presenti alle Poste. Inoltre i militari non avevano trovato la “refurtiva” addosso all'arrestata perché il bancomat era stato prontamente recuperato da uno dei dipendenti dell'ufficio postale prima del loro arrivo. Il tribunale aveva sottolineato come non sia possibile, secondo le Sezioni unite (sentenza 39131/2016) procedere all'arresto in flagranza sulla base di informazioni della vittima o di terzi fornite nell'immediatezza dei fatti. La Suprema corte ricorda però che il caso sul quale si è espresso il supremo collegio riguardava un episodio di lesioni personali e l'arresto era avvenuto dopo un inseguimento “investigativo” avvenuto grazie alle indicazioni fornite dalla vittima. Diversa la situazione in esame in cui ad arrestare non erano stati i carabinieri, arrivati solo alla fine, ma direttamente le persone che avevano colto in flagranza l'autore di un reato perseguibile d'ufficio. L'arresto fatto dai privati, secondo la Cassazione, è dunque in linea con il codice di rito penale (articoli 383 e 380)

fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

martedì 20 marzo 2018

Cassazione:“Gli adottati hanno il diritto di conoscere fratelli e sorelle naturali”

Dopo il via libera alla possibilità di risalire e anche conoscere la madre biologica, previo consenso della donna, la Cassazione apre oggi alla possibilità - per i figli adottivi alla ricerca dei loro legami di sangue - di sapere che fine hanno fatto gli eventuali altri fratellini o sorelline dati anche loro in adozione e cresciuti da altre famiglie. Con questa decisione, la Suprema Corte ha accolto il ricorso di un uomo ormai adulto, adottato da piccolo da una famiglia piemontese, che vuole avere notizie delle due sorelline date in adozione, decenni fa come lui, a due famiglie diverse.
Già per due volte, l’ultima nel 2013, Pierluigi Z. si è sentito rispondere «no» dalla Corte di Appello di Torino che gli ha detto che il diritto alla riservatezza sull’identità delle sue sorelle prevale sul suo diritto a recuperare i legami biologici.
La Suprema Corte - con un verdetto depositato oggi - ha invece accolto la richiesta di Pierluigi e ha incaricato la Corte torinese di tornare sui suoi passi e dare una chance alla sete di verità e affetto di questo fratello maggiore che non ha dimenticato le due piccole sorelle dalle quali è stato separato, e finite separate anche loro.
«L’adottato ha diritto di conoscere le proprie origini - ha stabilito la Cassazione - accedendo alle informazioni concernenti, non solo l’identità dei propri genitori biologici, ma anche quella delle sorelle e fratelli biologici adulti, previo interpello di questi ultimi mediante procedimento giurisdizionale idoneo ad assicurare la massima riservatezza ed il massimo rispetto della dignità dei soggetti da interpellare, al fine di acquisirne il consenso all’accesso alle informazioni richieste o di constatarne il diniego, da ritenersi impeditivo all’esercizio del diritto». Ora per Pierluigi, e per tante altre persone che non si arrendono alla cappa di segretezza - non più inespugnabile - delle adozioni, la strada è aperta e per percorrerla basta il `sì´ di chi si sta cercando.

fonte: “Chi è stato adottato ha il diritto di conoscere fratelli e sorelle naturali” - La Stampa

lunedì 19 marzo 2018

Ristrutturazioni edilizie, online la Guida delle Entrate

L’Agenzia delle Entrate ha aggiornato il manuale dedicato ai bonus legati agli interventi di ristrutturazione, inserendo le ultime novità introdotte dalla Legge di Bilancio 2018.
La nuova guida. È stata pubblicata lo scorso 16 marzo la versione aggiornata della Guida ai bonus ristrutturazioni edilizie dell’Agenzia delle Entrate. La nuova edizione recepisce le novità, relative alle agevolazioni, introdotte dalla Legge di Bilancio 2018: dalla proroga di un altro anno dello sconto elevato al 50% fino alla comunicazione all’Enea riguardo la tipologia degli interventi effettuati.
Primo fra i bonus, la detrazione fiscale del 50% delle spese sostenute dal 1° gennaio 2018 e fino al prossimo 31 dicembre, entro il limite di 96mila euro. «La proroga (della detrazione, ndr)», si legge in una nota delle Entrate, «è valida sia per i lavori sulle singole unità immobiliari che per la ristrutturazione delle parti comuni degli edifici condominiali. La Manovra per il 2018, analogamente a quanto già previsto per la riqualificazione energetica degli edifici, ha previsto anche che chi usufruisce del bonus, dovrà inviare all’Enea, per via telematica, alcuni dati relativi alla tipologia di interventi effettuati; si tratta di informazioni che serviranno all’Agenzia per monitorare e valutare il risparmio energetico conseguito in seguito alla realizzazione degli interventi di ristrutturazione».
Altro bonus riconosciuto per gli interventi di recupero del patrimonio edilizio, illustrato nella Guida, è l’aliquota ridotta in tema di IVA. «A seconda del tipo di intervento», spiegano dall’Agenzia, «l’agevolazione si applica sulle prestazioni dei servizi resi dall’impresa che esegue i lavori e, in alcuni casi, sulla cessione dei beni».

Fonte: www.fiscopiu.it/Ristrutturazioni edilizie, online la Guida delle Entrate - La Stampa

L'assegno «una tantum» richiede il controllo del giudice del divorzio

Solo l'assegno divorzile può essere una tantum in quanto l'accordo sulla sua corresponsione richiede sempre una verifica di natura giudiziale. È questo il principio ribadito dall'ordinanza della Cassazione 4764 del 28 febbraio 2018 (prima sezione civile, relatore Tricomi). La Corte d'appello Genova aveva confermato il giudizio del Tribunale per il quale l'impegno all'acquisto di un immobile deciso in sede di separazione a favore della moglie poteva essere letto come “capitalizzazione una tantum” ex articolo 5 della legge sul divorzio. La Cassazione, invece, ha rinviato il caso all'appello per il riesame sulla base del principio di cui sopra: le pattuizioni del momento separativo devono considerarsi assolutamente diverse e autonome rispetto a quelle del divorzio.
La duplicità dell’assegno di divorzio
Secondo la prima sezione, infatti, non può che considerarsi come costituisca «approdo indiscusso la differente natura giuridica che connota l'assegno divorzile periodico – previsto dal comma 6 dell'articolo 5 della legge sul divorzio – rispetto all'assegno divorzile corrisposto in una unica soluzione – previsto al comma 8 della medesima legge». Sul tema , inoltre, è intervenuta più volte la Corte costituzionale con le ordinanze 383 del 2001 e 113, del 2007, per le quali «le due suddette forme di adempimento (assegno periodico e una tantum, ndr) pur avendo entrambe la funzione di regolare i rapporti patrimoniali derivanti dallo scioglimento o dalla cessazione del vincolo matrimoniale, hanno connotazioni giuridiche e di fatto diverse, tali da legittimare il legislatore a provvedere, nella sua discrezionalità, diversi regimi fiscali».
La natura transattiva dell’assegno
Sempre la Consulta ha poi affermato come l'assegno versato una tantum sia «liberamente concordato dalle parti, sia pure con soggezione al controllo di equità da parte del giudice e ciò al fine di fissare un definitivo e complessivo assetto degli interessi personali familiari e patrimoniali dei coniugi, tale da precludere ogni successiva domanda di contenuto economico». L'assegno una tantum ha, dunque, una peculiare natura “transattiva” o “novativa” oltre che aleatoria e per la sua valenza deve ottenere il placet giurisdizionale.
Di conseguenza, conclude la Cassazione in commento, «l'accordo in questione (una tantum, ndr) non può collocarsi al di fuori del giudizio di divorzio in quanto una preventiva pattuizione, anche in sede di separazione, potrebbe condizionare il consenso alla dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di guisa che la stessa risulta invalida per illiceità della causa, perché stipulata in violazione del principio fondamentale di radicale indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale di cui all'articolo 160 del Codice civile».
Non potrà quindi mai trovare conferma alcuna sentenza che vada ad attribuire «alla previsione contenuta negli accordi di separazione consensuale omologati, il valore di una preventiva pattuizione anche sul quantum della obbligazione divorzile».

fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

domenica 18 marzo 2018

Giudici di pace: dal 9 aprile un mese di sciopero

Le organizzazioni rappresentative dei giudici di pace hanno proclamato l”ennesimo sciopero di quattro settimane consecutive a partire dal 9 aprile 2018 e sino al 6 maggio 2018.
Lo sciopero consisterà nell”astensione dalle udienze e da tutte le altre attività giudiziarie (emissione di decreti, ordinanza e sentenze).
Saranno garantite solo la tenuta di un”udienza a settimana e gli atti indifferibili e urgenti.
I giudici di pace contestano “”l”incostituzionale riforma della magistratura di pace ed onoraria voluta dal Ministro Orlando, che precarizza ulteriormente la categoria, limitando l”impiego dei giudici a 2 giorni la settimana, abbattendone gli emolumenti, ponendo i contributi previdenziali integralmente a loro carico, non riconoscendo tutela alcuna per maternità, paternità, malattia”.Le forze politiche “”che hanno largamente vinto le elezioni hanno già manifestato la volontà di cancellare e riscrivere integralmente la riforma, e di tutta risposta il Ministro Orlando ne sta accelerando l”attuazione, pubblicando bandi di concorso ed avviando l”ufficio del processo nei Tribunali, dove i giudici di pace, che oggi ricomprendono anche gli ex giudici onorari di tribunale, dovrebbero lavorare addirittura gratuitamente, predisponendo tutti gli atti dei magistrati di carriera, che esaurirebbero la loro funzione nel far proprio, sottoscrivendolo, il lavoro altrui.
Chiediamo che il Governo attualmente in carica, delegittimato dalla sonora sconfitta elettorale, sospenda immediatamente ogni attività di attuazione della riforma Orlando e chiediamo sin d”ora al Governo che a breve ne prenderà il posto di abrogare la riforma medesima e procedere, con decreto legge, alla stabilizzazione dei 5.000 giudici di pace e magistrati onorari in servizio sulla falsariga della legge 217 del 1974, positivamente vagliata da Corte Costituzionale e Consiglio di Stato, che stabilizzò illo tempore i vice pretori onorari, riconoscendo loro lo stesso trattamento economico e previdenziale dei magistrati di Tribunale, peraltro in linea con il principio di non discriminazione fra categorie di lavoratori comparabili sancito dall”ordinamento comunitario”.

Fonte: Sciopero giudici di pace dal 9 aprile al 6 maggio 2018: agenzie stampa e proclamazione ‹ Unagipa – Unione Nazionale Giudici di Pace

La Corte Europea: le telecamere nascoste se non comunicate violano la privacy

La Corte Europea dei diritti umani ha recentemente dichiarato che l'installazione di telecamere di sorveglianza nascoste senza informare i dipendenti viola l'articolo 8 della Convenzione afferente il diritto alla privacy e alla dignità.
La Corte, nella fattispecie, ha stabilito con quali modalità può essere considerata lecita l'installazione di apparecchiature di videosorveglianza in un supermercato allo scopo di indagare in ordine ai furti ivi commessi.
Per porre fine alle ingenti perdite economiche subite il datore di lavoro spagnolo aveva installato telecamere di sorveglianza sia visibili che nascoste.
I dipendenti sono stati informati solo dell'installazione delle telecamere visibili.
A seguito delle registrazioni effettuate dalle telecamere nascoste la società ha licenziato cinque dipendenti in quanto colti nell'atto di appropriarsi illecitamente della merce.
La società ha proposto un accordo transattivo in base al quale i dipendenti avrebbero accettato di non avviare un procedimento per licenziamento ingiusto e il datore di non avviare azioni giudiziarie per furto.
Due dei cinque dipendenti non hanno aderito all'accordo e sono stati in ogni caso licenziati: provvedimento che è stato dichiarato lecito sia dal Tribunale del lavoro che dalla Corte d'Appello essenzialmente con la motivazione connessa al reato sul posto di lavoro .
I dipendenti che hanno aderito all'accordo hanno promosso giudizio contro la società sostenendo che erano stati indotti a firmare con una evidente minaccia del datore di avviare azioni legali.
Tali procedimenti sono stati archiviati poiché l'Autorità giudiziaria ha riconosciuto validità all'accordo nel suo complesso attesa la gravità delle violazioni poste in essere.
Tutti i dipendenti hanno proposto ricorso al Tribunale Europeo per i diritti umani sostenendo che la videosorveglianza segreta attuata dalla società senza averli informati in modo appropriato aveva violato il loro diritto alla privacy tutelato dall'articolo 8 della Convenzione sui diritti umani e le libertà fondamentali.
La Corte pur riconoscendo validità all'accordo ha ravvisato la violazione dell'articolo 8 della Convenzione ossia del diritto dei dipendenti alla privacy e alla dignità umana in conformità al disposto della suddetta norma.
L'azienda avrebbe dovuto informare i lavoratori prima dell'installazione delle telecamere di sorveglianza nascoste posto che tale condotta si pone di per sé in contrasto con i principi trasfusi nel trattato anche nel caso in cui l'adozione di tali misure sia indotta da fatti lesivi della legge penale.
Conclusioni
La Corte europea dei diritti dell'uomo assume un ruolo sempre più attivo entrando nel merito di temi che interessano le modalità con le quali le Corti nazionali hanno interpretato il diritto in essere nei loro paesi. Frequentemente investita di "riesaminare " le decisioni locali la Corte sta dimostrando di dare concerta applicazione agli assiomi ivi consacrati con evidenti effetti negli equilibri sociali ed economici degli Stati aderenti.

fonte: La Corte Europea: le telecamere nascoste se non comunicate violano la privacy anche se adottate per reprimere reati

Immigrazione, autorizzazione alla permanenza del familiare del minore per gravi motivi

L'esame che il giudice di merito è chiamato a compiere a fronte dell'istanza di autorizzazione ex articolo 31, c.3 DLgs 286/1998, è diretto all'accertamento della sussistenza di “gravi motivi” basati su una situazione oggettiva attuale oppure su una situazione futura dedotta, attraverso un giudizio prognostico, quale conseguenza dell'allontanamento improvviso del familiare del minore. La valutazione del danno, conseguente all'allontanamento dei genitori o dallo sradicamento del minore, deve essere fondata su un giudizio prognostico che non trascuri in primo luogo la sua età, il grado di radicamento del nostro Paese, e le prospettive, riferite agli anni immediatamente successivi (trattandosi di misura temporanea, revocabile o rinnovabile), di concrete possibilità di rapporto con i genitori nell'ipotesi del rimpatrio dei medesimi. Tra questi indici, quello dell'età, se prescolare, costituisce un elemento significativo che non può essere trascurato (• Corte di Cassazione, sezione VI-1, ordinanza 5 marzo 2018 n. 5084).

Ai fini dell'autorizzazione temporanea all'ingresso od alla permanenza del familiare straniero del minore che si trovi nel territorio italiano, le condizioni previste nell'articolo 31 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, consistenti nei gravi motivi connessi allo sviluppo-psico-fisico del minore stesso, tenuto conto delle condizioni di salute e di età, sono positivamente riscontrabili solo quando sia accertata l'esistenza di una situazione d'emergenza, rappresentata come conseguenza della mancanza o dell'allontanamento improvviso del genitore, a carattere eccezionale o contingente, che ponga in grave pericolo lo sviluppo normale della personalità del minore, mentre non possono essere ravvisate nelle ordinarie necessità di accompagnarne il processo d'integrazione ed il percorso educativo, formativo e scolastico, trattandosi di esigenze incompatibili con la natura temporanea ed eccezionale dell'autorizzazione, che viene concessa in deroga all'ordinario regime giuridico dell'ingresso e del soggiorno degli stranieri.
La “ratio” dell'istituto previsto dall'articolo 31, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, è la tutela del minore globalmente considerata, comprensiva tanto della salute fisica quanto di quella psichica. Ne consegue che la madre, straniera e priva del permesso di soggiorno, di un bambina di due anni già abbandonata dal padre, ha diritto alla temporanea autorizzazione al soggiorno, in quanto lo sradicamento dalla situazione di vita attuale e l'allontanamento anche della figura materna possono essere causa di pregiudizio e di grave disagio psico-fisico per la minore, sebbene quest'ultima possa rimanere sul territorio nazionale con gli altri parenti.

fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

venerdì 16 marzo 2018

Successioni: al via la nuova dichiarazione telematica

Da ieri è possibile trasmettere il nuovo modello, che potrà essere utilizzato per le successioni aperte a partire dal 3 ottobre 2006.
Dichiarazione di successione, il cartaceo cede il passo al digitale. Da ieri è possibile inviare il nuovo modello per la dichiarazione di successione telematica, che potrà essere utilizzato per le successioni aperte a partire dal 3 ottobre 2006. Sino a fine anno sarà comunque ancora possibile utilizzare, in alternativa, il vecchio modello in formato cartaceo (Modello 4), presentandolo presso l’ufficio territoriale competente dell’Agenzia. Il formato cartaceo resterà la strada obbligata per le successioni che si sono aperte prima del 3 ottobre 2006 e per le dichiarazioni integrative, sostitutive o modificative di un modello a suo tempo presentato in formato cartaceo.
Al debutto del nuovo modello di dichiarazione di successione telematica è stato dato risalto da una nota delle Entrate che ricorda che con la nuova versione sarà sufficiente pagare l’imposta di bollo e i tributi speciali per richiedere il rilascio dell’attestazione di avvenuta presentazione della dichiarazione. «L’attestazione, in formato Pdf, è munita» spiegano dalle Entrate «di un apposito contrassegno (cosiddetto glifo), di un codice identificativo del documento e di un codice di verifica del documento (cvd), che consentiranno di verificarne l’originalità direttamente sul sito delle Entrate. In questo modo, non sarà più necessario recarsi presso gli uffici dell’Agenzia per richiedere una copia conforme alla dichiarazione di successione presentata telematicamente. Il modello con le relative istruzioni è disponibile sul sito internet dell’Agenzia, nella sezione dedicata alla dichiarazione di successione, dove trovano spazio anche le “Risposte alle domande più frequenti” dei cittadini».

Fonte: www.fiscopiu.it/Successioni: al via la nuova dichiarazione telematica - La Stampa

giovedì 15 marzo 2018

Mancato godimento delle ferie e indennità sostitutiva

Al momento della cessazione del rapporto di lavoro, il pensionato ha diritto alla retribuzione delle ferie maturate e senza sua colpa non godute, laddove il datore di lavoro non riesca a dimostrare di aver concesso adeguato tempo al lavoratore per goderne, di cui egli non abbia usufruito per propria scelta (Corte di Cassazione, sentenza n. 2496, del 1° febbraio 2018).
La vicenda. Un pensionato, ex dipendente dirigenziale di una Pubblica amministrazione, agisce in giudizio nei confronti di quest’ultima per ottenere la monetizzazione dei 52 giorni di ferie a lui spettanti e non godute entro il termine del rapporto di lavoro. Se il Tribunale di Roma nega la richiesta al ricorrente, la Corte d’Appello gli riconosce il diritto all’indennità sostitutiva delle ferie condannando al pagamento la Pubblica amministrazione. Quest’ultima ricorre in Cassazione adducendo di non aver ricevuto richieste di ferie da parte del lavoratore e tantomeno di averle negate per esigenze di servizio.
Diritto all’indennità sostitutiva. La Corte, nel decidere sulla questione, conferma l’orientamento già espresso dalla Cassazione secondo cui «dal mancato godimento delle ferie deriva – una volta divenuto impossibile per l’imprenditore, anche senza sua colpa, adempiere l’obbligazione di consentire la loro fruizione – il diritto del lavoratore al pagamento dell’indennità sostitutiva, che ha natura retributiva, in quanto rappresenta la corresponsione, a norma degli artt. 1463 e 2037 c.c., del valore di prestazioni non dovute e non restituibili in forma specifica».
Proseguendo con il ragionamento, la Cassazione afferma così il principio, estendibile alla generalità dei lavoratori, secondo cui «l’assenza di un’espressa previsione contrattuale non esclude l’esistenza del diritto a detta indennità sostitutiva, che peraltro non sussiste se il datore di lavoro dimostra di aver offerto adeguato tempo per il godimento delle ferie, di cui il lavoratore non abbia usufruito (venendo ad incorrere così nella ‘mora del creditore’)».
Nel caso concreto, poiché il lavoratore collocato in riposo d’ufficio non si era rifiutato di goderne ma nonostante ciò non aveva esaurito i giorni di ferie disponibili, la Cassazione rigetta il ricorso.

Fonte: www.ilgiuslavorista.it/Mancato godimento delle ferie e indennità sostitutiva - La Stampa

Stalking : aggravante della relazione affettiva anche senza convivenza

L'aggravante della relazione affettiva nel reato di stalking scatta a prescindere dalla convivenza. La Corte di cassazione, con la sentenza 11604, pur annullando con rinvio la condanna per stalking a causa della mancata prova dell'ansia e della paura generata nella vittima, considera infondata la tesi sostenuta dal ricorrente, secondo il quale nel reato di stalking non poteva essere contestata l'aggravante della relazione affettiva, se non c'era mai stata una convivenza. Una convinzione che derivava alla difesa dalla lettura della norma relativa all'aggravante della relazione affettiva nel reato di violenza sessuale (articolo 609-bis del Codice penale) con la quale viene specificato che la pena lievita “anche senza convivenza”.
L'assenza della stessa precisazione nell'articolo 612-bis comma 2 aveva portato il ricorrente a concludere per la necessità della convivenza. La Cassazione spiega che non è così. Per i giudici il legislatore nel caso della violenza sessuale è stato esplicito proprio per la particolare struttura di quel reato, consapevole della necessità di evitare che possa essere messa in dubbio la configurabilità dell'aggravante. Secondo la suprema corte senza le parole evidenziate si poteva ritenere, per l'attinenza della condotta con la sfera sessuale, che solo in caso di relazione affettiva caratterizzata dalla convivenza potesse essere applicata la pena più severa.
La stessa esigenza – spiega la Corte – non c'è per lo stalking, che prevede l'aggravante (articolo 612-bis comma 2) se l'atto è stato commesso da persona che è o è stata legata da una relazione affettiva con la persona offesa. Anche senza la precisazione normativa sulla configurabilità dell'aggravante “anche senza convivenza” emerge – conclude il collegio – l'indifferenza della situazione di convivenza rispetto ad un reato che riguarda una sfera diversa da quella sessuale

fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

domenica 11 marzo 2018

Trattamenti estetici per la figlia: il papà deve pagare

Accolta definitivamente la richiesta della donna, che otterrà ora oltre 5mila euro dall’ex compagno. Legittimi gli esborsi da lei sostenuti. In particolare, i trattamenti estetici erano necessari per consentire alla figlia di affrontare un fastidioso e imbarazzante problema.
Inutili le proteste del papà: dovrà rimborsare all’ex compagna metà delle spese straordinarie da lei sostenute per la loro figlia e relative ad alcuni trattamenti estetici e all’iscrizione a una scuola privata. Provata in entrambi i casi la rilevanza e la necessità degli esborsi economici (Cassazione, ordinanza n. 5490/2018, Sezione Prima Civile, depositata oggi).
Spese. Terreno di scontro è la pretesa della donna di ottenere la condanna dell’ex compagna al «rimborso della metà delle spese straordinarie da lei affrontate per la figlia», nata dalla loro «relazione more uxorio». In ballo, nello specifico, gli esborsi relativi ad alcuni «trattamenti estetici» e all’«iscrizione a una scuola media privata».
In Tribunale la richiesta è respinta. Di parere opposto sono invece i Giudici della Corte d’Appello, i quali obbligano l’uomo a versare all’ex compagna oltre 5mila euro, ritenendo giustificate le spese sostenute dalla donna. Più precisamente, i trattamenti estetici erano necessari per consentire alla figlia di affrontare un fastidio problema – peluria eccessiva sul viso –, mentre «l’iscrizione in una scuola privata» era dovuta agli «orari dell’istituto, maggiormente compatibili con le esigenze lavorative» della madre a cui la ragazzina era stata affidata.
Rimborso. A chiudere la questione definitivamente provvedono i Giudici della Cassazione, respingendo anche le ultime obiezioni proposte dal legale del padre. Confermato quindi il suo obbligo di versare all’ex compagna oltre 5mila euro.
Nessun dubbio sul fatto che ci si trovi di fronte a «spese straordinarie» motivate dall’«interesse della figlia». Consequenziale, quindi, l’impegno per il «genitore non affidatario» di provvedere al «rimborso» della quota che avrebbe dovuto sostenere personalmente.
In particolare, i magistrati escludono l’ipotesi della «futilità» degli esborsi economici sostenuti dalla donna. Ciò perché, innanzitutto, «i trattamenti estetici» si erano resi necessari per «rimuovere la peluria sul viso della ragazza, peluria anomala per un soggetto di sesso femminile e fonte di notevole imbarazzo».
Per quanto concerne poi l’iscrizione alla scuola privata, viene condivisa la visione tracciata in Appello: la scelta compiuta dalla donna era razionalmente poggiata sugli «orari dell’istituto scolastico, orari maggiormente compatibili con le sue esigenze lavorative».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Trattamenti estetici per la figlia: il papà deve pagare - La Stampa

sabato 10 marzo 2018

L’urgenza non giustifica la guida spericolata del veterinario

Confermate le sanzioni decise dalla Polstrada, che aveva fermato l’automobilista. Impossibile parlare di “stato di necessità”, che, spiegano i Giudici, non è applicabile quando la situazione di pericolo riguarda un animale.
Chiamata d’urgenza per un veterinario, che corre – in automobile – per provvedere alle cure di un cane in precarie condizioni di salute. Ciò nonostante, è legittima la sanzione per le ripetute violazione al Codice della strada commesse dal medico (Cassazione, ordinanza n. 4834/18, sez. VI Civile, depositata il 1° marzo)
Stato di necessità. Molteplici le contestazioni mosse all’automobilista, fermato dalla Polstrada: «sorpasso di vetture ferme ad un semaforo rosso; invasione dell’opposta corsia di marcia; violazione dello stesso semaforo rosso; velocità pericolosa in centro abitato». L’uomo alla guida prova a giustificarsi, spiegando di essere un veterinario e di «avere agito per la necessità di provvedere a delle cure urgenti su di un cane affetto da osteosarcoma in fase terminale». E questo dato convince prima il Giudice di Pace e poi i Giudici del Tribunale, anche tenendo presente che proprio gli agenti della Polstrada «avevano scortato il medico» così da consentirgli di «raggiungere al più presto» il paziente a quattro zampe.
Azzerate quindi le sanzioni operate dalla Polstrada, respinte le obiezioni mosse dal Ministero dell’Interno e della Prefettura, che viene anche obbligata a pagare «le spese» e «condannata al pagamento di 1.000 euro per avere resistito in giudizio con malafede».
Pericolo. Di parere opposto, invece, i Giudici della Cassazione, che accolgono i ricorsi proposti da Ministero e Prefettura ed escludono ogni possibile giustificazione per le violazioni compiute dal veterinario alla guida della propria vettura.
In particolare, i magistrati spiegano che «l’esimente dello stato di necessità non è invocabile quando la situazione di pericolo riguardi un animale». Poi, ampliando l’orizzonte, viene anche sottolineato che «il dovere professionale di prestare le cure richieste non autorizza il veterinario a violare le norme sulla circolazione stradale».
Tutto ciò conduce alla conferma definitiva delle sanzioni applicate dalla Polstrada.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/L’urgenza non giustifica la guida spericolata del veterinario - La Stampa

domenica 4 marzo 2018

Patente sospesa perché omosessuale: ministeri Difesa e Trasporti condannati

I ministeri della Difesa e dei Trasporti dovranno versare centomila euro, quale risarcimento dei danni a favore di un uomo, oggi trentacinquenne, per essersi visto sospendere la patente di guida nel 2005, a seguito della visita di leva, in quanto aveva dichiarato la propria omosessualità. Quindi la motorizzazione di Catania sospese la patente di guida per "disturbo dell'identità sessuale".
L’episodio trovò un primo verdetto dieci anni fa, sui banchi del Tribunale di Catania, che condannò lo Stato Italiano, ed in particolare i Ministeri della Difesa e dei Trasporti, a risarcire l’uomo riconosciuto vittima di discriminazione, quantificando l’esborso in centomila euro, ridotto nel 2011 a ventimila, ad opera della corte territoriale.
In  terza battuta la Corte di Cassazione annullava, con rinvio, la pronuncia in merito all'entità del risarcimento, evidenziando la gravità della condotta dei due ministeri, sulla considerazione che l'identità sessuale è da ascrivere al diritto, costituzionale ed involabile della persona, al contempo riconoscendo che l’uomo è stato effettivamente vittima di un grave comportamento di omofobia.
Nel giudizio di rinvio la Corte d’Appello di Palermo ha liquidato una somma pari a centomila euro, a titolo di ristoro per i pregiudizi subiti, altresì condannando i due dicasteri coinvolti, Difesa e Trasporti, al pagamento di tutte le spese processuali finora sostenute dalla vittima dell’assurdo episodio di omofobia.

fonte: Patente sospesa perché omosessuale: ministeri Difesa e Trasporti condannati | Altalex

sabato 3 marzo 2018

Medico segue le linee-guida: va assolto in caso di colpa lieve da imperizia

Deve essere assolto il medico che segue correttamente le linee guida ma sbaglia ad attuarle per imperizia dovuta a colpa lieve. E' quanto emerge dalla sentenza delle Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione del 22 febbraio 2018, n. 8770.
La questione sottoposta alle Sezioni Unite era “Quale sia, in tema di responsabilità colposa dell'esercente la professione sanitaria per morte o lesioni, l'ambito applicativo della previsione di non punibilità prevista dall'art. 590-sexies c.p., introdotta dalla legge 9 marzo 2017, n. 24, c.d. legge “Gelli-Bianco” (Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie).
L'art. 6 della legge in commento ha introdotto una particolare causa di non punibilità sulla responsabilità colposa per morte o lesioni personali da parte degli esercenti la professione sanitaria, con limitazione agli eventi verificatisi a causa di imperizia e sul presupposto che siano state rispettate le raccomandazioni previste dalle linee-guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee-guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto.
Come risaputo, le linee-guida costituiscono un condensato delle acquisizioni scientifiche, tecnologiche e metodologiche concernenti i singoli ambiti operativi, reputate tali dopo una accurata selezione e distillazione dei diversi contributi, senza alcuna pretesa di immobilismo e senza idoneità ad assurgere al livello di regole vincolanti.
Secondo gli ermellini, l'esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall'esercizio dell'attività medico-chirurgica: a) se l'evento si è verificato per colpa (anche lieve) da negligenza o imprudenza; b) se l'evento si è verificato per colpa (anche lieve) da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali; c) se l'evento si è verificato per colpa (anche lieve) da imperizia nella individuazione e nella scelta delle linee-guida o di buone pratiche clinico-assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto; d) se l'evento si è verificato per colpa grave da imperizia nell'esecuzione di raccomandazioni di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell'atto medico.
La Suprema Corte fa buon uso dei principi di cui alla novella 24/2017, risultando escluso che l'errore non punibile possa riguardare la selezione da parte del medico delle buone pratiche da applicare al caso concreto; l'applicazione della causa di non punibilità di cui all'art. 590-sexies c.p., riguarda la fase di attuazione delle linee guida, escludendo la responsabilità del medico che, per colpa sotto forma di imperizia, si sia discostato dagli standard in maniera solo marginale.

Fonte: Medico segue le linee-guida: va assolto in caso di colpa lieve da imperizia | Altalex

Rischi e denunce sottovalutati. Quei femminicidi che si potevano evitare

Dopo un femminicidio annunciato c’è sempre chi prova a dare lezioni su come bisognerebbe denunciare, quando, a chi, con quali parole. Si prova a offrire una giustificazione a quello che viene definito un gesto folle. «Nessuna follia, quando accadono episodi come questi ci troviamo di fronte sempre a gesti molto lucidi, frutto di una sottovalutazione del rischio corso dalla donna e della incapacità di capire le ragioni della sua paura», commenta Maria Monteleone, procuratore aggiunto, alla guida del gruppo di pm che si occupa dei reati contro le vittime vulnerabili come i minori e le donne che subiscono violenze.
Invece di follia meglio usare la parola «sottovalutazioni» come fa anche il ministro dell’Interno Marco Minniti, e evitare lezioni su come e che cosa denunciare. «Il problema non è la terminologia, e quindi l’uso dell’esposto o di una denuncia formale né se la donna racconta di aver già subito violenze o semplici minacce», prosegue Maria Monteleone.
Quello che conta, secondo il magistrato e tutti quelli che si occupano di lotta contro la violenza sulle donne, è attivare una protezione quando esistono alcuni presupposti: una denuncia di maltrattamenti subiti a vario livello, un processo di separazione di coppia, il possesso di armi da parte del partner che non si rassegna alla fine del rapporto.
La tragedia di Cisterna di Latina aveva tutti i presupposti che avrebbero dovuto far scattare un campanello d’allarme eppure a scattare è stato soltanto il grilletto di una pistola creando l’ennesimo femminicidio annunciato. «È un errore continuare a dire che le donne non denunciano. Le donne denunciano, eccome». afferma Lella Palladino, presidente dell’associazione Dire-Donne in rete contro la violenza, che riunisce 77 associazioni che nel 2016 gestivano 83 centri antiviolenza presenti in tutta Italia. «Ma che cosa accade dopo? Questo è il problema. Le parole delle donne vengono sottovalutate, pensano che stiano esagerando. Non solo. Se anche vengono credute e disposti provvedimenti, le misure che permettono di limitare i contatti, allontanare gli uomini violenti e proteggere le donne e i figli sono ancora troppo deboli e complesse da applicare, al punto che spesso è troppo tardi. Servono efficaci misure di prevenzione e un percorso di liberazione che permetta alle donne di rendersi autonome sia da un punto di vista psicologico che economico. E serve immediatamente, nel momento stesso in cui una donna avvia una separazione legale da un uomo violento, o nel caso in cui il marito o ex compagno cominci a perseguitarla».
«Il vero limite è la lentezza della giustizia che spesso non ha pene certe», avverte Gabriella Moscatelli, presidente di Telefono Rosa
Invece sono complessivamente 6,788 milioni, le donne che in Italia hanno subito, almeno una volta nella loro vita, un atto di violenza fisica o sessuale. E dei quasi 7 milioni di donne che hanno incontrato un uomo violento, in base ai dati Istat del 2016 il 20% ha subito violenza fisica (il 21% violenza sessuale. Su 149 omicidi di donne, in quasi la metà dei casi i responsabili i sono i partner. Secondo la relazione della Commissione parlamentare sul femminicidio approvata lo scorso 6 febbraio nell’ultimo quadriennio i femminicidi rappresentano oltre un quarto degli omicidi commessi. Lo scorso anno, da gennaio a dicembre 2017, sono state 113 le donne che hanno perso la vita, sostiene Sos Stalking. Quasi tutte - prosegue - uccise da mariti, compagni o ex.

Fonte: Rischi e denunce sottovalutati. Quei campanelli d’allarme che non impediscono i femminicidi - La Stampa

venerdì 2 marzo 2018

Niente ergastolo per l'omicidio del figlio adottivo

Niente ergastolo per l'uccisione del figlio se adottivo. La Cassazione ha depositato ieri le motivazioni della sentenza con la quale aveva escluso il carcere a vita per Andrei Talpis che nel 2013 aveva accoltellato a morte il figlio adottivo ventenne e tentato di uccidere la moglie. I giudici hanno applicato il Codice penale che mantiene la distinzione con i figli legittimi, negando così la possibilità di contestare l'aggravante prevista dal primo comma dell'articolo 577 che scatta in caso di omicidio del discendente. La Suprema corte precisa che nel caso esaminato andava invece considerato il comma secondo in base al quale «la pena è della reclusione da 24 a 30 anni, se il fatto è commesso contro il coniuge, il fratello o la sorella, il padre o la madre adottivi, o il figlio adottivo, o contro un affine in linea retta». Per i giudici non c'è dubbio che l'ergastolo non è in linea con il diritto. Tuttavia la pena che la corte d'Assise d'appello dovrà comminare non dovrà essere inferiore ai 16 anni, con lo sconto effetto del rito abbreviato. I giudici con la sentenza 9427 affrontano anche un aspetto procedurale, considerato rilevante: la questione dell'aggravante, non era, infatti, stata sollevata di fronte alla Corte d'Assiste d'Appello, ma riportata soltanto nei motivi di ricorso. Un problema risolto in via interpretativa sulla base dei due principi fondamentali dell'articolo 597 del codice di rito penale: quello devolutivo e quello del divieto di reformatio in peius. La Suprema corte ricorda che la facoltà del giudice d'appello di dare il corretto inquadramento giuridico al fatto sottoposto alla sua attenzione non rappresenta una violazione del principio devolutivo. Questo a maggior ragione quando la decisione sia migliorativa e non si ponga neppure astrattamente il problema della violazione del divieto di reformatio in peius, che in ogni modo, non vale per la semplice riqualificazione giuridica. Il caso di Andrei Talpis era costato all'Italia una condanna a 30 mila euro inflitte dalla Corte europea dei diritti dell'Uomo. Per i giudici di Strasburgo le autorità non avevano fatto abbastanza per proteggere la donna e i figli dalla violenze dell'uomo, malgrado la signora e il ragazzo avessero segnalato le violenze domestiche. “le autorità italiane avevano scritto i giudici – hanno privato la denuncia di qualsiasi effetto, creando una situazione di impunità che ha contribuito al ripetersi di atti di violenza che alla fine hanno condotto al tentato omicidio della donna e alla morte di suo figlio”. Solo il ragazzo infatti aveva cercato di difendere la madre, perdendo così la vita.

fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

Violenza sessuale: costituisce ''induzione'' qualsiasi forma di sopraffazione della vittima

 L’induzione necessaria ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale non si identifica solo con la persuasione subdola ma si...