domenica 23 giugno 2019

Addio vecchie carte d’identità, l’Ue le rottama per ridurre il rischio di frodi

Addio vecchie carte d’identità. Per ridurre il rischio di frodi, l’Unione europea ha approvato un regolamento che garantirà documenti più sicuri introducendo requisiti minimi comuni che uniformano anche la quantità e il tipo di informazioni che servono per identificare una persona.
In base alle nuove norme, le carte d’identità dovranno essere prodotte utilizzando un modello uniforme tipo carta di credito (ID-1), dovranno comprendere «una zona funzionale a lettura ottica ed essere conformi alle norme minime di sicurezza stabilite dall’Organizzazione per l’aviazione civile internazionale (ICAO)», scrive il Consiglio Ue. Dovranno inoltre includere una foto e due impronte del titolare, conservate in formato digitale, «su un microchip senza contatto». Sulla carta d’identità figurerà, all’interno di una bandiera dell’Ue, il codice Paese dello Stato membro che ha emesso la carta.
Le carte d’identità avranno una validità minima di cinque anni e una massima di 10. Gli Stati membri potranno rilasciare carte d’identità con un periodo di validità più lungo alle persone oltre i 70 anni. Le carte d’identità rilasciate ai minori possono invece avere una validità inferiore a cinque anni.
Le nuove norme entreranno in vigore due anni dopo l’adozione del regolamento da parte dei Governi, il che significa che entro tale data tutti i nuovi documenti dovranno soddisfare i nuovi criteri. Le carte d’identità esistenti che non soddisfano i requisiti cesseranno di essere valide 10 anni dopo la data di applicazione delle nuove norme oppure alla scadenza, se anteriore. Le carte meno sicure, che non soddisfano le norme minime di sicurezza o non comprendono una zona funzionale a lettura ottica, scadranno entro cinque anni.
Per assicurare che i dati forniti in maniera elettronica siano protetti, e non vangano trafugati, le autorità nazionali dovranno garantire la sicurezza del microchip senza contatto e dei dati in esso contenuti, in modo che non possano essere oggetto di violazione o di accesso non autorizzato.

fonte: www.lastampa.it

Il passeggero non risponde di omissione di soccorso in caso di incidente con feriti

Si segnala la pronuncia Cass. Pen. del 18 giugno 2019, n. 26888 la quale dispone che - in caso di incidente stradale con feriti – non può essere richiesto al “trasportato” (in quanto soggetto che non fa uso attivo della strada) di imporre al guidatore l’obbligo di fermare il veicolo e prestare assistenza.

Tuttavia, qualora dalle indagini emerga che il passeggero abbia sollecitazione la fuga e l'omissione di soccorso del conducente o ne abbia rafforzato la volontà di fuggire o di omettere di prestare assistenza o ponga volontariamente in atto qualunque altra condotta che tenda a quel risultato, risponderà a titolo di concorso con il guidatore per i reati previsti dall’art. 189 c.d.s., commi 6 (omissione dell’obbligo di fermarsi) e 7 (omissione di soccorso).

Automobilista ubriaco è punibile con veicolo fermo o in movimento

La Corte di legittimità, con la pronuncia Cass. Pen. 6 maggio 2019, n. 25140, ha disatteso la tesi della difesa che escludeva la responsabilità dell’automobilista per difetto della qualità di "conducente" quale requisito necessario per la configurabilità del reato ex art. 186 cod. strada: per essere ritenuti responsabili non è sufficiente essere al posto di guida ma occorre altresì circolare.
La predetta Corte afferma invece che la "fermata" costituisce una fase della circolazione e, per questo motivo, conferma la sanzione per l’automobilista ubriaco fermato "perché zigzagava con la macchina", lungo il rettilineo dove il carabiniere si trovava ad eseguire un posto di blocco. Se fermati ad un controllo, dunque, si può parlare di “conducente” anche con veicolo fermo.
Svolgimento del processo e motivi della decisione
1. La Corte di appello di Roma ha confermato la sentenza del Tribunale di Cassino che - ritenuto L. M. responsabile del reato di guida in stato di ebbrezza (accertato in Gaeta il 04/08/2013) - lo condannava, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, alla pena di mesi 4 di arresto ed euro 1.000 di ammenda, pena sospesa e non menzione. Disposta altresì la sanzione accessoria della sospensione della patente di guida per anni due.
2. Avverso la menzionata sentenza, l'imputato interpone ricorso per Cassazione, a mezzo del difensore, sollevando due motivi. Con il primo, deduce errata applicazione della legge, mancanza dello status di conducente e manifesta illogicità della motivazione. La Corte distrettuale si è appiattita sulle motivazioni del primo giudice, raffigurando la vicenda diversamente da quanto realmente accaduto.
Manca in capo al M. la qualità di "conducente" e quindi del necessario requisito richiesto dall'art. 186 cod. strada che contempla un reato proprio, poiché si deve essere alla guida per venire reputati responsabili. Di più: non è sufficiente essere al posto di guida ma occorre altresì circolare. Erroneamente, dunque, la Corte di appello ritiene che la "fermata" costituisce una fase della circolazione.
Con il secondo motivo, si lamenta l'errata interpretazione delle prove assunte in violazione dell'art. 192 c.p.p. Si chiede pertanto a questa Corte Suprema una diversa interpretazione delle prove. Al riguardo, si riportano stralci delle dichiarazioni dell'imputato, dalla teste M. R., dell'appuntato G. S.. Si sottolinea, poi, che l'appuntato M. non è mai stato sentito al processo di primo grado nonostante fosse il verbalizzante.
3. Il ricorso è inammissibile.
4. Il primo motivo è manifestamente infondato a fronte di una motivazione che ha fatto corretta applicazione dtaleAdge e che si appalesa altresì adeguata, congrua e completa. Ricorda, in particolare, come G. S. - facente parte insieme ad A. M. della pattuglia dei Carabinieri che aveva proceduto al controllo dell'autovettura condotta dal M. - abbia riferito, senza incorrere in alcun equivoco, di aver fermato il prevenuto "perché zigzagava con la macchina", lungo il rettilineo dove l'operante si trovava ad eseguire un posto di blocco. La circostanza, continua l'impugnata sentenza, è coerente con le annotazioni presenti nel verbale di accertamenti urgenti e nel verbale di elezione di domicilio che l'imputato aveva sottoscritto senza sollevare alcuna obiezione. La Corte di appello, a tutto voler concedere, sostiene che comunque la tesi difensiva è inidonea ad escludere la sussistenza del reato atteso il costante orientamento di questa Corte di legittimità secondo il quale la "fermata" costituisce una fase della circolazione (sez. 4, n. 21057 del 25/01/2018, F., Rv. 272742; sez. 4, n. 45514 del 07/03/2013, Pin, Rv. 257695).
5. Il secondo motivo è inammissibile perché il ricorrente sviluppa considerazioni di merito che dovrebbero indurre questa Corte a sovrapporre le proprie valutazioni a quelle della Corte territoriale. Una siffatta incursione "nel fatto" non è, tuttavia, consentita in questa sede, tanto più a fronte di una motivazione adeguata ed immune da vizi logici. Il compito della Corte di cassazione non consiste nell'accertare la plausibilità e l'intrinseca adeguatezza dei risultati dell'interpretazione delle prove, coessenziale al giudizio di merito, ma quello, ben diverso, di stabilire se i giudici di merito abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano dato esauriente risposta alle deduzioni delle parti e se nell'interpretazione delle prove abbiano esattamente applicato le regole della logica, le massime di comune esperienza e i criteri legali dettati in tema di valutazione delle prove, in modo da fornire la giustificazione razionale della scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre.
Non può pertanto opporsi alla valutazione dei fatti contenuta nel provvedimento impugnato una diversa ricostruzione, quand'anche fosse altrettanto logica, dato che in quest'ultima ipotesi verrebbe inevitabilmente invasa l'area degli apprezzamenti riservati al giudice di merito (sez. 1, n. 12496 del 21/09/1999, G. e altri, Rv. 214567).
6. In conclusione, il ricorso é inammissibile. Alla declaratoria di inammissibilità segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila in favore della Cassa delle ammende.

Gatti infastidiscono la vicina di casa: proprietaria degli animali condannata per stalking

Si segnala la sentenza Cass. pen. 5giugno 2019, n. 25097 secondo la quale la proprietaria degli animali non solo è ritenuta responsabile per incuria colposa nel governo dei gatti ma – ritiene questa Corte - abbia volontariamente continuato a liberare gli animali nelle parti comuni dell'edificio abitato anche dalla vicina, consapevole delle conseguenze sul piano igienico che ciò comportava e della molestia che in tal modo arrecava ogni giorno alla propria vicina a causa della presenza di escrementi e del persistente olezzo delle loro deiezioni.
Tale comportamento tenuto volontariamente e deliberatamente dalla proprietaria dei gatti, nonostante le ripetute lamentele della dirimpettaia, configura secondo la Corte un comportamento certamente riconducibile a quello tipizzato dall'art. 612 bis c.p.
Svolgimento del processo
1. Con la sentenza impugnata la Corte d'appello di Trento ha confermato, anche agli effetti civili, la condanna di T. A. per il reato di atti persecutori commesso ai danni di S. L..
2. Avverso la sentenza ricorre l'imputata articolando cinque motivi. Con il primo ed il secondo deduce violazione di legge e vizi della motivazione in merito alla configurabilità del reato. In proposito viene evidenziato come dalle risultanze processuali emerga._che gli episodi relativi alle deiezioni dei gatti della T. siano stati occasionali e comunque dovuti ad incuria nella loro custodia, difettando dunque tanto il requisito dell'abitualità della condotta, quanto il dolo richiesto per la sussistenza del reato.
Quanto invece all'esposizione all'interno del condominio di scritte e cartelli riportanti minacce ed insulti nei confronti della persona offesa alcuna prova sarebbe emersa in merito alla loro attribuibilità all'imputata. Analoghi vizi vengono denunziati con il terzo motivo, con il quale si lamenta il difetto di una tempestiva querela, posto che non ricorrono le condizioni per la procedibilità d'ufficio del reato, mentre con il quarto ed il quinto la ricorrente lamenta difetto di motivazione in merito alla commisurazione del danno liquidato in favore della S. e della pena irrogata all'imputata.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è infondato e per certi versi inammissibile.
2. Contrariamente a quanto eccepito dalla ricorrente, i giudici del merito non hanno sostanzialmente addebitato alla T. una mera incuria colposa nel governo dei propri animali, evidenziando invece come, nonostante le ripetute lamentele, ella abbia volontariamente continuato a liberarli nelle parti comuni dell'edificio abitato anche dalla persona offesa, nell'evidente consapevolezza delle conseguenze sul piano igienico che ciò comportava e della molestia che in tal modo arrecava alla propria vicina.
Comportamento questo certamente riconducibile a quello tipizzato dall'art. 612-bis c.p., tanto più che lo stesso non può essere considerato disgiuntamente dagli ulteriori atti contestati, soprattutto ai fini della prova dell'elemento soggettivo del reato e dell'abitualità della condotta, requisiti entrambi motivatamente ritenuti sussistenti dalla Corte territoriale. Quanto alla asserita occasionalità degli episodi imputati, il ricorso si rivela invece generico, non essendosi confrontato con l'articolata motivazione della sentenza, la quale, oltre che su quanto affermato dalla persona offesa, ha fondato le proprie conclusioni basandosi anche sulle dichiarazioni dei numerosi testi - compresi gli agenti della polizia municipale allertati dalla persona offesa - che avevano avuto modo a vario titolo di frequentare l'edificio e che tutti unanimemente hanno riferito circa la presenza di escrementi animali ovvero del persistente olezzo delle loro deiezioni. In tal senso è poi inconferente che la figlia della persona offesa non convivesse con la medesima, atteso che espressamente la sua testimonianza, per come valorizzata in sentenza, fa riferimento alle occasioni in cui la stessa si recava a far visita alla madre.
Per quanto riguarda, poi, l'attribuibilità all'imputata delle scritte e dei cartelli contenenti insulti e minacce, questa è stata logicamente desunta dal giudice dell'appello dal contesto della vicenda, ma, soprattutto, dal fatto che l'edificio teatro dei fatti era una villetta bifamiliare, le cui parti comuni servivano esclusivamente, oltre che l'abitazione della vittima, quella dell'imputata, ritenendo dunque escluso che altri potessero essere stato protagonista di tali comportamenti o avere interesse a porli in essere. Quanto infine all'evento del reato, generica e manifestamente infondata è l'obiezione circa l'inconferenza della certificazione rilasciata dalla psicologa che ha visitato la persona offesa, posto che la ricorrente non evidenzia i motivi di tale assertiva affermazione, peraltro sorvolando sul fatto che lo stato di prostrazione e di ansia in cui versava la vittima è stato provato in sentenza anche facendo riferimento al contenuto delle dichiarazioni di alcuni dei testimoni, rimaste dunque incontestate.
3. Manifestamente infondato è poi il terzo motivo, posto che agli atti è presenta valida querela proposta dalla persona offesa il 26 novembre 2013 e successivamente integrata il 14 maggio 2014. Del tutto generiche sono infine le doglianze avanzate con il quarto ed il quinto motivo in merito alla determinazione del risarcimento, effettuato in via equitativa, ed alla commisurazione della pena, profili sui quali la sentenza impugnata ha adeguatamente giustificato la conferma delle statuizioni adottate in primo grado con motivazione solo assertivamente confutata.
4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato e la ricorrente condannata al pagamento delle spese del procedimento, nonché alla refusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, liquidate in euro 2.000, oltre accessori di legge.

giovedì 6 giugno 2019

Guida ubriaco la bici con pedalata assistita: revoca della patente dipende dalla potenza

Il Tribunale, in sede di patteggiamento, aveva applicato la pena concordata fra le parti, per il reato di guida in stato di ebbrezza (tasso accertato 2,98 g/l) commesso a bordo di un velocipede a pedalata assistita, conducibile con patente di guida AM (cd. patentino) ai sensi del Reg. UE n. 168/2013, così provocando un incidente. Il giudice, al contempo, aveva ordinato la revoca della patente di guida.
La vicenda approda a Roma, in Piazza Cavour (sentenza 22 maggio 2019, n. 22228).
Nell’accogliere la tesi difensiva, il collegio della IV Sezione Penale, dispone l’annullamento della pronuncia nel punto concernente la revoca della patente di guida, quindi rinviando la decisione al Tribunale. In particolare, il giudice di merito aveva identificato il veicolo condotto dal prevenuto nella “bicicletta a pedalata assistita” e, per l’effetto, aveva disposto la sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida. Ciò in considerazione della circostanza che, alla data del 1° gennaio 2017, ha avuto vigore il Regolamento U.E. n. 168/2013, conformemente al quale i veicoli dotati di motore elettrico azionabile da un acceleratore devono essere muniti di certificato di circolazione e di targa, e il conducente aver conseguito la patente di guida AM.
Potenza del veicolo
Ancor più in dettaglio, lo stesso giudice di merito non aveva valutato che detto Regolamento Europeo non trova applicazione per ogni veicolo a pedalata assistita, bensì riguarda unicamente quelli dotati di potenza superiore a 250 W (c.d. “cicli a propulsione”, con targa e per i quali è richiesta patente AM), al contrario, quelli di potenza pari o inferiore sono considerati velocipedi ai sensi dell’art. 50 C.d.S.
Tipologia di veicolo
La pronuncia del Tribunale e annullata dalla Cassazione, tramite il pronunciamento del 22 maggio, non aveva riportato analisi alcuna in merito alla tipologia, come pure alle caratteristiche del veicolo guidato dal prevenuto, nonostante la questione avesse rivestito importanza determinante ai fini dell’applicazione, o meno, della sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida.
Nessuna revoca se la patente non occorreva. A supporto della tesi argomentativa seguita, il collegio richiama un consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo il quale la revoca della patente di guida non può essere disposta verso chi abbia guidato un veicolo, per condurre il quale non era necessaria abilitazione alcuna, come nella specie (Corte di Cassazione, Sezione IV Penale, sentenza n. 19413 del 29 marzo 2013).
fonte: www.altalex.com

Cassazione: padre “assente” per 40 anni deve risarcire la figlia

Quaranta anni fa, quando quella bambina era nata da una relazione con la sua compagna di allora, lui Francesco C., un siciliano che oggi ha 72 anni, l’aveva riconosciuta e le aveva dato il suo cognome ma poi, per quattro decenni, pur avendo accettato la paternità, era stato un padre «assente» - come lui stesso si è definito - per la figlia Annalaura, dal punto di vista sia economico che morale non facendosi carico nemmeno dei malesseri comportamentali della ragazza. Contava che il `grosso´ lo avrebbe fatto la mamma, con la quale la ragazza viveva.
Adesso la Cassazione, ha stabilito che il padre «assente» - come deciso dalla Corte di Appello di Messina nel 2017 - deve risarcire la figlia `dimenticata´ con quasi 67mila euro per danni morali e patrimoniali, compresa la perdita di chance perché Annalaura, poco supportata, aveva finito per lasciare l’università.
Spiega la Suprema Corte, che Francesco C. non è `accusato´ di «avere negato alla figlia il sostegno economico da lei richiesto al fine di proseguire gli studi universitari ma, in linea più generale, di non avere correttamente adempiuto ai propri obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione della stessa». «Il che - spiega il verdetto 14382 - ha determinato difficoltà di vario genere nella serenità personale della ragazza e, complessivamente, nello sviluppo della sua personalità, tra le cui ulteriori conseguenze vi è stato anche quello della sua scelta di una anticipata interruzione degli studi». Secondo i giudici, dal «disagio» morale e materiale vissuto da Annalaura, «sono derivate una serie di ulteriori conseguenze pregiudizievoli, di carattere patrimoniale e non, tra cui la scelta di interrompere anzitempo gli studi». Cosa che le ha «certamente precluso delle possibilità di realizzazione professionale, con rilievo anche economico». Il calcolo del `risarcimento´ è stato fatto in via equitativa dagli stessi magistrati, non essendo possibile «dimostrare la sua precisa entità».
Senza successo, il padre “inabissato” si è difeso dicendo che era compito della madre di Annalaura informarlo dei problemi della ragazza, dato che ci viveva insieme. «La responsabilità e gli obblighi derivanti dal rapporto di filiazione (tra cui quello di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli) gravano su entrambi i genitori, non certo solo su quello convivente e, tanto meno, addirittura, solo su quello più `attivamente´ presente», hanno replicato gli `ermellini´.
Cestinata la tesi per cui, in caso di genitore «assente», l’altro genitore dovrebbe «diventare l’unico» ad avere l’obbligo di «intervenire tempestivamente» di fronte alle difficoltà dei figli «per porre in essere i rimedi adeguati» ed «evitare» che possano «risentire» dei danni.

fonte: www.lastampa.it

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