mercoledì 28 febbraio 2018

I nuovi poteri dell’Agenzia delle entrate-Riscossione

L'Agenzia delle entrate – Riscossione è il nuovo agente della riscossione che, come previsto dal decreto legge n. 193/2016, dal 1° luglio 2017 è subentrata nei compiti oggi ricoperti da Equitalia, la quale, invece, è sparita dal nostro ordinamento lasciando il suo posto all'Agenzia delle Entrate – Riscossione.
Da predetta data, le società del gruppo Equitalia sono sciolte (tranne Equitalia Giustizia Spa, la quale continua a svolgere le funzioni diverse dalla riscossione) ed è nato l’ente pubblico economico, “Agenzia delle Entrate-Riscossione”.
Il nuovo ente assume la qualifica di agente della riscossione sul territorio nazionale (Sicilia esclusa) e, inoltre, può svolgere le attività di riscossione delle entrate tributarie o patrimoniali delle amministrazioni locali, come individuate dall'Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT), con esclusione delle società di riscossione e delle società da esse partecipate.
L’Agenzia delle entrate-Riscossione, ente strumentale dell'Agenzia delle Entrate, è sottoposta all'indirizzo e alla vigilanza del Ministro dell'Economia e delle Finanze; la sua attività è monitorata dall'Agenzia delle Entrate, secondo principi di trasparenza e pubblicità
Il nuovo ente, altresì, è sottoposto al controllo della Corte dei Conti sulla gestione finanziaria, ai sensi degli articoli 2 e 3 della L. 21.3.1958, n. 259.
Con DPCM 5.6.2017 è stato approvato lo Statuto del nuovo ente.
L’Agenzia delle Entrate e Riscossione subentra a titolo universale nei rapporti giuridici attivi, anche processuali, a tutte le società del gruppo Equitalia; ciò ha causato una serie di problematiche, in particolare, alcune aventi a oggetto la difesa in giudizio, di cui si tratterà in seguito.
La natura giuridica del nuovo Ente
La prima conseguenza del passaggio di consegne tra i due agenti della riscossione è strettamente connessa alla natura del nuovo ente, profondamente diversa da quella del precedente.
Equitalia, infatti, è una società di capitali e, quindi, ha una struttura privatistica. Sebbene l'Agenzia delle Entrate e l'Inps siano i suoi soci (rispettivamente al 51% e al 49%), essa è formalmente terza rispetto al fisco. Lo stesso non può dirsi, invece, con riferimento all'Agenzia delle entrate – Riscossione, che è un ente pubblico economico, parte integrante dell'amministrazione finanziaria dello Stato.
Gli organi di detto ente non coincidono esattamente con quelli dell’Agenzia delle Entrate, poiché, oltre al comitato di gestione e al collegio dei revisori dei conti, che ne fanno parte, è stato previsto che “il presidente è scelto tra i magistrati della Corte dei Conti”.
Secondo la dottrina più autorevole, la qualificazione quale ente strumentale dovrebbe comportare che l’ente in esame, pur perseguendo fini propri ed esclusivi, è strettamente collegato all’Agenzia delle Entrate dai vincoli di soggezione, la quale, a sua volta, è succeduta allo Stato nella gestione delle funzioni in precedenza esercitate dal dipartimento ministeriale delle entrate.
Il nuovo ente, pertanto, ha natura ibrida poiché, da un lato, ha la finalità di garantire la continuità e la funzionalità dell’attività di riscossione per conto dello Stato e, dall’altro, dovendo acquistare le azioni di Equitalia s.p.a. e di Equitalia Giustizia s.p.a., come previsto dal comma 11 del citato art.1 del D.L. n.193/2016 e dovendo stipulare un proprio atto aggiuntivo alla convenzione di cui all’art. 59 del Dlgs n. 300/1999, come previsto al successivo comma 13, ha rilevanti caratteristiche di natura non pubblicistica.
Predetto ente ha, infatti, una disciplina molto simile all’Agenzia del demanio che anch’essa,con il dlgs n. 173/2003, è stata trasformata in ente pubblico economico e, come tale, è stato dotata di autonomia organizzativa, patrimoniale, contabile e di gestione.
Le ragioni di tale organizzazione si ritrovano nel fatto che , come previsto dal comma 9 del suddetto art. 1 del D.L. n.193/2016,a tale ente è stato trasferito “il personale delle società del Gruppo Equitalia, in servizio alla data di entrata in vigore del presente decreto con contratto di lavoro a tempo indeterminato e determinato fino a scadenza, senza soluzione di continuità e con la garanzia di conservazione della posizione giuridica, economica e previdenziale maturata alla data del trasferimento, ferma restando la ricognizione delle competenze possedute, ai fini di una collocazione organizzativa coerente e funzionale alle esigenze dello stesso ente”; da tale articolo si evince che il personale ha mantenuto lo stesso trattamento economico e di carriera notevolmente più favorevole di quello dei dipendenti dell’Agenzia delle Entrate, proprio in virtù della sua provenienza al settore bancario.
Ai fini della difesa in giudizio, il comma 8 del predetto articolo 1 prevede che il nuovo ente “ è autorizzato ad avvalersi espressamente dell’avvocatura dello Stato[…]. Lo stesso ente può altresì avvalersi … di avvocati del libero foro, nel rispetto delle previsioni di cui agli articoli 4 e 17 del decreto legislativo 18 aprile 2016 n.50, ovvero può avvalersi di essere rappresentato , davanti al tribunale e al giudice di pace, da propri dipendenti delegati, che possono stare in giudizio personalmente; in ogni caso, ove vengano in rilievo questioni di massima o aventi notevoli riflessi economici,l’Avvocatura dello Stato, sentito l’ente, può assumere direttamente la trattazione della causa[…]” .
Tale formulazione è differente e più articolata rispetto a quella riguardante l’Agenzia delle Entrate, per la quale l’art. 72 del dlgs n. 300/1999 aveva stabilito che le “agenzie fiscali possono avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, ai sensi dell’art. 43 del testo unico approvato con regio decreto 30 ottobre 1933, n.1611, e successive modificazioni”.
Dal confronto dei suddetti articoli emerge che il nuovo ente, subentrante a Equitalia, è una sorta di ente strumentale dell’Agenzia delle Entrate, senza però esserne parte o essere inserito e immedesimato nell’Agenzia delle Entrate, quest’ultima istituita con Dlgs n.300/1999.
Ulteriore conferma della diversità dei summenzionati enti, è nell’art. 1 succitato, al comma 3, che qualifica l’Agenzia delle entrate-Riscossione, a differenza dell’Agenzia delle entrate, come ente pubblico “economico”, anch’esso sottoposto all’indirizzo e alla vigilanza del Ministero del’Economia e delle Finanze, munito di un proprio Statuto approvato con D.P.C.M. su proposta del Ministro stesso, ma sottoposto alle disposizioni del codice civile e delle altre leggi relative alle persone giuridiche”private”.
Pignoramenti sui conti correnti bancari più mirati
L’accorpamento delle funzioni di riscossione presso l’Agenzia delle Entrate ha consentito dal 1° luglio 2017 di accedere in maniera immediata alle banche dati dell’anagrafe tributaria e a quelle degli stessi enti previdenziali e assistenziali, quali l’INPS e le Direzioni del Lavoro, garantendo la massima efficacia alle azioni di pignoramento presso terzi.
Il pignoramento del conto corrente bancario e postale, insieme al pignoramento dello stipendio, pensione, TFR, rientra nel cd. pignoramento presso terzi che si attiva ai sensi dell’articolo 491 del codice civile, come misura di esecuzione per recuperare un credito vantato ne confronti di un debitore.
A partire dal 1° luglio del 2017, le disposizioni introdotte dal decreto n. 193/2016, hanno prodotto effetti non favorevoli per i contribuenti, in quanto, in caso di pignoramento del conto corrente 2018, possono essere immediatamente privati delle somme sul loro conto e trasferite al Fisco per saldare il debito.
Sulla base di quanto sopra esposto, per i debiti fiscali non è l’assenza di un procedimento giudiziario che cambia il pignoramento del conto corrente, perché era già così previsto prima del D.L. n. 193/2016, ma il fatto che le somme sul conto possono essere subito bloccate e utilizzate a saldo dei debiti, visto che è la stessa Agenzia delle entrate-Riscossione che verifica direttamente le informazioni ed attiva il procedimento, mentre Equitalia doveva prima richiedere le informazioni all’Agenzia, attendere il riscontro e poi attivare la procedura.
Dal 1° luglio 2017, gli Uffici dell’Agenzia delle entrate-Riscossione, sono in grado di verificare preventivamente la giacenza dei conti procedendo ad azioni mirate al pignoramento delle stesse.

Fonte: I nuovi poteri dell’Agenzia delle entrate-Riscossione | Altalex

Dichiarazione dei redditi va presentata anche da chi svolge attività illecita

La dichiarazione dei redditi deve essere presentata anche da chi svolge una attività illecita. E' quanto emerge dalla sentenza della Terza Sezione Penale del 22 novembre 2017, n. 53137.
Come confermato da costante giurisprudenza, l'omessa presentazione della dichiarazione dei redditi costituisce una violazione del D.Lgs. n. 74/2000, art. 5, anche quando abbia ad oggetto redditi di provenienza illecita (Cass. pen., Sez. III, 7 ottobre 2010, n. 42160; Cass. pen., Sez. V, 19 novembre 2009, n. 7411).
La giurisprudenza richiama il principio di diritto secondo il quale la circostanza che il possesso di redditi possa costituire reato e che l'autodenuncia possa violare il principio nemo tenetur se detergere, è sicuramente recessiva rispetto all'obbligo di concorrere alle spese pubbliche ex art. 53 Cost., dichiarando tutti i redditi prodotti, espressione di capacità contributiva (Cass. civ., Sez. V, n. 3580/2016).
La oramai incontestata e riconosciuta normativamente tassabilità dei proventi illeciti, anche delittuosi, comporta il necessario superamento di ogni remora anche in ordine alla dichiarazione, essendo connaturale al possesso di un reddito tassabile il relativo obbligo di dichiarazione (Cass. civ., Sez. V, 30 settembre 2011, n. 12697).
Nè tantomeno sussiste la violazione dell'art. 6 Cedu, il quale, nel riconoscere al soggetto il diritto a tacere e a non contribuire alla propria incriminazione, opera esclusivamente nell'ambito di un procedimento penale già attivato, stante la sua ratio consistente nella protezione dell'imputato da coercizioni abusive da parte dell'autorità, cosa che non sussisteva nella fattispecie.

Fonte: Dichiarazione dei redditi va presentata anche da chi svolge attività illecita | Altalex

Sovraindebitamento, più spazio al ricorso civile

Via libera al ricorso in Cassazione contro il no del tribunale al piano sul sovraindebitamento del consumatore. È questo il giudizio della stessa Cassazione con la sentenza n. 4451 del 2018 con la quale si afferma, allontanandosi da un precedente dell'anno scorso (ordinanza n. 19117 del 1° agosto 2017), che anche i provvedimenti camerali possono essere oggetto di ricorso. A patto che abbiamo carattere decisorio, sulla base di quanto peraltro delineato dall'articolo 111 della Costituzione.
E il provvedimento che ha per oggetto l'omologa del piano di risanamento è caratterizzato non solo dal requisito della definitività, ma anche da quello della decisorietà. A monte c'è poi la natura contenziosa del procedimento che in concreto viene considerato e l'idoneità del provvedimento che lo conclude a incidere su diritti soggettivi.
Per quanto riguarda l'omologa del piano di risanamento il profilo contenzioso è chiaro dalla previsione della legge sul fallimento della persona fisica che vede il giudice tenuto a informare, attraverso l'organismo di composizione, l'intera platea die creditori. L'incisione sui diritti soggettivi è poi evidente per effetto del blocco delle azioni esecutive.
Inoltre la sentenza delle Cassazione chiarisce due altri punti critici. Sottolinea innanzitutto che la moratoria fino a un anno per il pagamento dei creditori ha natura tassativa e non può essere derogato. Ha infatti un carattere sostanziale e non può essere dilazionato oltre quanto già previsto dalla legge senza il consenso espresso del creditore interessato.
L'altro punto è che, a giudizio della Cassazione, l'autorità giudiziaria conserva comunque un potere di valutazione sulla fattibilità del piano. Quest'ultima infatti, non è devoluta, come pretendeva il ricorso all'esclusiva competenza dell'organismo di composizione della crisi.

Fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

lunedì 26 febbraio 2018

Colpa medica: le Sezioni Unite indicano il perimetro applicativo della legge Gelli-Bianco

Con la sentenza n. 8770 del 21/12/17 (dep. 22/2/18) le Sezioni Unite della Suprema Corte sono state chiamate a dirimere il conflitto giurisprudenziale sorto all’interno della IV sezione penale in ordine alla applicazione della legge 8/3/17 n. 24 che, nell’abrogare la previgente disciplina della legge n. 189 del 2012, ha rimodulato i limiti della colpa medica a fronte del rispetto delle linee-guida dettate in materia, con conseguenze in punto di individuazione della legge più favorevole.
Il caso pratico di cui i giudici di legittimità si sono dovuti occupare - che merita di essere sia pur in estrema sintesi ricapitolato - è il seguente: il giudice di primo grado aveva condannato un neurochirurgo per i danni cagionati al paziente in seguito ad comportamento omissivo caratterizzato da negligenza, imprudenza e imperizia e consistito nel non avere effettuato tempestivamente la diagnosi della sindrome da compressione della cauda equina, con conseguente considerevole differimento nella esecuzione - avvenuta ad opera di altro medico specialista, successivamente interpellato dalla persona offesa - dell’intervento chirurgico per il quale vi era, invece, indicazione di urgenza, in base alle regole cautelari di settore.
La sentenza era stata confermata in appello.
Il Presidente del collegio della IV sezione penale, cui il ricorso della Difesa era stato assegnato, lo rimetteva al Primo Presidente, in considerazione del contrasto interno alla sezione in relazione alla applicazione della legge 8/3/17 n. 24 che, nell’abrogare la previgente disciplina della legge n. 189 del 2012, ha rimodulato i limiti della colpa medica a fronte del rispetto delle linee-guida dettate in materia, con conseguenze in punto di individuazione della legge più favorevole. Più precisamente, la questione di diritto sottoposta alle Sezioni Unite è la seguente: Quale sia, in tema di responsabilità colposa dell’esercente la professione sanitaria per morte o lesioni, l’ambito applicativo della previsione di "non punibilità" prevista dall’art. 590-sexies c.p., introdotta dalla legge 8 marzo 2017, n. 24.
Ebbene, la sentenza in commento preliminarmente si sofferma sulla natura, finalità e cogenza delle linee-guida, sostenendo che non vi è motivo per discostarsi dalle condivisibili conclusioni maturate in seno alla giurisprudenza delle sezioni semplici della Cassazione, secondo cui le linee-guida costituiscono un condensato delle acquisizioni scientifiche, tecnologiche e metodologiche concernenti i singoli ambiti operativi, reputate tali dopo un’accurata selezione e distillazione dei diversi contributi, senza alcuna pretesa di immobilismo e senza idoneità ad assurgere al livello di regole vincolanti. Esse costituiscono parametri tendenzialmente circoscritti per sperimentare l’osservanza degli obblighi di diligenza, prudenza, perizia. Ed è in relazione a quegli ambiti che il medico ha la legittima aspettativa di vedere giudicato il proprio operato, piuttosto che in base ad una norma cautelare legata alla scelta soggettiva, a volte anche estemporanea e scientificamente opinabile, del giudicante. Sempre avendo chiaro che non si tratta di veri e propri precetti cautelari, capaci di generare allo stato attuale della normativa, in caso di violazione rimproverabile, colpa specifica, data la necessaria elasticità del loro adattamento al caso concreto.
Venendo al cuore del problema, la sentenza passa in rassegna i due orientamenti maturati all’interno della IV sezione, che hanno dato luogo al contrasto: il primo è sostenuto da Cass. pen., sentenza 20/4/17 n. 28187 (P. C. Tarabori in proc. De Luca), che esclude in maniera tassativa l’interpretazione letterale della nuova fattispecie - secondo la quale il sanitario che si attiene alle linee guida accreditate, che risultino anche adeguate alla specificità del caso concreto, va esente da responsabilità - atteso che, così letta, sarebbe una norma del tutto inutile, che esprime l’ovvio. In particolare, in tale arresto - dopo la specificazione secondo la quale l’evocazione della punibilità va intesa come un atecnico riferimento al giudizio di responsabilità con riguardo alla parametrazione della colpa - si afferma che la disciplina della legge Gelli Bianco non può trovare applicazione: negli ambiti che, per qualunque ragione, non siano governati da linee-guida; nelle situazioni concrete nelle quali tali raccomandazioni debbano essere radicalmente disattese per via delle peculiarità della condizione del paziente o per qualunque altra ragione imposta da esigenze scientificamente qualificate; in relazione a quelle condotte che, sebbene poste in essere nell’ambito di approccio terapeutico regolato da linee guida pertinenti ed appropriate, non risultino per nulla disciplinate in quel contesto regolativo ovvero siano connotate da negligenza o imprudenza e non da imperizia.
Negli altri casi, secondo tale impostazione, il riferimento alle linee-guida è null’altro che il parametro per la individuazione-graduazione-esclusione della colpa secondo le regole generali, quando quella dipenda da imperizia.
Dal punto di vista del regime intertemporale, individua, poi, nel decreto Balduzzi la disciplina più favorevole.
Afferma, infine, che conserva attualità l’orientamento giurisprudenziale che accredita la possibile rilevanza, in ambito penale, dell’art. 2236 c. c., quale regola di esperienza cui attenersi nel valutare, in ambito penalistico, l’addebito di imperizia.
L’opposto orientamento trova esplicitazione in Cass. pen., sentenza 19/10/17 n. 50078 (Cavazza), che - sposando il criterio dell’interpretazione letterale della norma - afferma che la nuova legge introduce una causa di esclusione della punibilità, in quanto tale collocata al di fuori dell’area di operatività del principio di colpevolezza: secondo tale arresto, il secondo comma dell’art. 590 sexies c.p., come introdotto dalla legge Gelli-Bianco, prevede una causa di non punibilità dell’esercente la professione sanitaria operante - ricorrendo le condizioni previste dalla disposizione normativa (rispetto delle linee guida accreditate o, in mancanza, delle buone pratiche clinico-assistenziali, adeguate alla specificità del caso) - nel solo caso di imperizia, indipendentemente dal grado della colpa (dunque, anche nelle ipotesi di colpa grave), essendo compatibile il rispetto delle linee guide e delle buone pratiche con la condotta imperita nell’applicazione delle stesse.
Quanto al profilo intertemporale, ritiene che il decreto Balduzzi possa configurarsi come disposizione più favorevole solo per i reati consumatisi sotto la sua vigenza coinvolgenti profili di negligenza ed imprudenza qualificati da colpa lieve.
Affermano le Sezioni Unite che in ognuna delle due contrastanti sentenze siano espresse molteplici osservazioni condivisibili, in parte anche comuni, ma che manchi una sintesi interpretativa complessiva capace di restituire la effettiva portata della norma in considerazione.
Così, la sentenza De Luca-Tarabori ha il pregio di porre in luce gli evidenti limiti applicativi alla causa di non punibilità enunciati dall’art. 590 sexies, che non trovano applicazione nelle ipotesi di colpa per imprudenza o negligenza; né quando l’atto sanitario non sia per nulla governato da linee-guida o da buone pratiche; né quando queste siano individuate e dunque selezionate dall’esercente la professione sanitaria in maniera inadeguata con riferimento allo specifico caso. Ha, per contro, il difetto di non rinvenire alcun residuo spazio operativo per la causa di non punibilità, giungendo alla frettolosa conclusione circa l’impossibilità di applicare il precetto, negando addirittura la capacità semantica della espressione causa di non punibilità e così offrendo della norma una interpretazione abrogatrice, di fatto in collisione con il dato oggettivo della iniziativa legislativa e con la stessa intenzione innovatrice manifestata in sede parlamentare.
La sentenza Cavazza, dal canto suo, ha il pregio di non discostarsi in modo patente dalla lettera della legge, ma, per converso, nel valorizzarla in modo assoluto, cade nell’errore opposto perché attribuisce ad essa una portata applicativa impropriamente lata: quella di rendere non punibile qualsiasi condotta imperita del sanitario che abbia provocato la morte o le lesioni, pur se connotata da colpa grave. Invero, quanto al primo profilo, proprio partendo dalla interpretazione letterale, non può non riconoscersi che il legislatore abbia coniato una inedita causa di non punibilità per fatti da ritenersi inquadrabili - per la completezza dell’accertamento nel caso concreto - nel paradigma dell’art. 589 o di quello dell’art. 590 c.p., quando l’esercente una delle professioni sanitarie abbia dato causa ad uno dei citati eventi lesivi, versando in colpa da imperizia e pur avendo individuato e adottato, nonché, fino ad un certo punto, bene attualizzato le linee-guida adeguate al caso di specie. La previsione della causa di non punibilità, secondo le Sezioni Unite, è esplicita, innegabile e dogmaticamente ammissibile non essendovi ragione per escludere apoditticamente - come fa la sentenza De Luca-Tarabori - che il legislatore, nell’ottica di porre un freno alla medicina difensiva e quindi meglio tutelare il valore costituzionale del diritto del cittadino alla salute, abbia inteso ritagliare un perimetro di comportamenti del sanitario direttamente connessi a specifiche regole di comportamento a loro volta sollecitate dalla necessità di gestione del rischio professionale: comportamenti che, pur integrando gli estremi del reato, non richiedono, nel bilanciamento degli interessi in gioco, la sanzione penale, alle condizioni date.
Semmai, è da sottolineare che era il decreto Balduzzi, non messo in discussione dalla giurisprudenza passata sotto il profilo della tecnica legislativa, ad agire sul terreno della delimitazione della colpa che dà luogo a responsabilità, circoscrivendo la operatività dei principi posti dall’art. 43 c.p. e dunque derogando ad essa, tanto che il risultato è stato ritenuto quello della parziale abolitio criminis. Viceversa, la legge Gelli-Bianco non si muove in senso derogatorio ai detti principi generali, bensì sul terreno della specificazione, ricorrendo all’inquadramento nella non punibilità, sulla base di un bilanciamento ragionevole di interessi concorrenti.
L’intervento protettivo del legislatore appare direttamente connesso con la ragione ispiratrice della novella, che è quella di contrastare la c.d. medicina difensiva e con essa il pericolo per la sicurezza delle cure e dunque creare - in relazione ad un perimetro più circoscritto di operatori ed atti sanitari che si confrontano con la necessità della gestione di un rischio del tutto peculiare in quanto collegato alla mutevolezza e unicità di ognuna delle situazioni patologiche da affrontare - un’area di non punibilità che valga a restituire al sanitario la serenità dell’affidarsi alla propria autonomia professionale e, per l’effetto, ad agevolare il perseguimento di una garanzia effettiva del diritto costituzionale alla salute.
Del resto, ritengono le Sezioni Unite che la mancata evocazione esplicita della colpa lieve da parte del legislatore del 2017 non precluda una ricostruzione della norma che ne tenga conto, sempre che questa sia l’espressione di una ratio compatibile con l’esegesi letterale e sistematica del comando espresso. Ed in tale prospettiva appare utile giovarsi, in primo luogo, dell’indicazione proveniente dall'art. 2236 c. c., che ha la valenza di principio di razionalità e regola di esperienza cui attenersi nel valutare l’addebito di imperizia, qualora il caso concreto imponga la soluzione del genere di problemi sopra evocati ovvero qualora si versi in una situazione di emergenza. Ciò che del precetto merita di essere ancor oggi valorizzato è il fatto che, attraverso di esso, già prima della formulazione della norma che ha ancorato l’esonero da responsabilità al rispetto delle linee-guida e al grado della colpa, si fosse accreditato, anche in ambito penalistico, il principio secondo cui la condotta tenuta dal terapeuta non può non essere parametrata alla difficoltà tecnico-scientifica dell’intervento richiesto ed al contesto in cui esso si è svolto.
In conclusione dell’articolato percorso logico argomentativo, dunque, le Sezioni Unite hanno affermato i seguenti principi di diritto: l’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall'esercizio di attività medico-chirurgica: a) se l’evento si è verificato per colpa (anche "lieve") da negligenza o imprudenza; b) se l’evento si è verificato per colpa (anche "lieve") da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali; c) se l’evento si è verificato per colpa (anche "lieve") da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche clinico assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto; d) se l’evento si è verificato per colpa “grave” da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell’atto medico.
Quanto al regime più favorevole, le Sezioni Unite - raffrontando il contenuto precettivo delle due norme (art. 3 abrogato del decreto Balduzzi e l’art. 590 sexies c.p.) - hanno dichiaratamente enucleato i casi immediatamente apprezzabili ed hanno ritenuto più favorevole la norma abrogata: 1) in relazione alle contestazioni per comportamenti del sanitario - commessi prima della entrata in vigore della legge Gelli-Bianco - connotati da negligenza o imprudenza, con configurazione di colpa lieve; 2) nell’ambito della colpa da imperizia, in caso di errore determinato da colpa lieve, che sia caduto sul momento selettivo delle linee-guida e cioè su quello della valutazione della appropriatezza della linea-guida.
Rilevano poi che trattamento sostanzialmente analogo è invece riservato, sempre nell’ambito della colpa da imperizia, all’errore determinato da colpa lieve nella sola fase attuativa, che andava esente per il decreto Balduzzi ed è oggetto di causa di non punibilità in base all’art. 590 sexies, risultando in tale prospettiva, ininfluente, in relazione alla attività del giudice penale che si trovi a decidere nella vigenza della nuova legge su fatti verificatisi antecedentemente alla sua entrata in vigore, la qualificazione giuridica dello strumento tecnico attraverso il quale giungere al verdetto liberatorio.

Fonte: Colpa medica: le Sezioni Unite indicano il perimetro applicativo della legge Gelli-Bianco | Quotidiano Giuridico

venerdì 23 febbraio 2018

Mancata riforma dell’ordinamento penitenziario: astensione dalle udienze 13 e 14 marzo 2018

L’Unione Camere Penali Italiane, rilevato che il provvedimento adottato ieri dal Consiglio dei Ministri, rinvia la possibile entrata in vigore della riforma penitenziaria facendo di fatto prevalere timori in tema di consenso elettorale rispetto alla concreta  realizzazione delle condivise scelte valoriali, che occorre dare ulteriore appoggio e solidarietà alla lunga e civile protesta di Rita Bernardini e di oltre 10.000 detenuti che stanno attuando lo sciopero della fame, che è necessaria un’immediata presa di posizione dell’Avvocatura penale  che unifichi e coordini gli sforzi di tutti coloro che vogliono l’attuazione della Riforma, delibera l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria per i giorni 13 e 14 marzo 2018 nonché una giornata di mobilitazione nazionale ed una conferenza stampa da tenersi a Roma presso la sede dell’UCPI, il 27 febbraio, alle ore 11.00, sollecitando la fissazione del Consiglio dei Ministri e la approvazione immediata della riforma.

Fonte: Mancata riforma dell’ordinamento penitenziario: mobilitazione e astensione dalle udienze. - Camere Penali sito ufficiale

mercoledì 21 febbraio 2018

Collare anti-abbaio va bandito, utilizzarlo è reato

L'uso del collare antiabbaio integra il reato di cui all'art. 727 c.p. in quanto concretizza una forma di addestramento fondata esclusivamente su uno stimolo doloroso tale da incidere sensibilmente sull'integrità psicofisica dell'animale.
E' quanto affermato dalla Corte di cassazione nella sentenza resa sul caso sottoposto al suo esame, conclusosi con la condanna in primo grado del proprietario di alcuni cani setter detenuti all'interno di un recinto con indosso, in modo permanente, il collare antibbaio, avente la caratteristica di emanare scosse elettriche all'abbaiare del cane al fine di impedirglielo.
L'imputato aveva lamentato col ricorso che non fosse stata raggiunta la prova delle sofferenze arrecate dall'uso del collare antiabbaio e che non fosse stato dato conto in motivazione dell'eccezionalità con cui il suddetto collare veniva usato. Aveva altresì eccepito la prescrizione del reato, attesa la derubricazione della fattispecie di cui all'art. 544 ter c.p. nella contravvenzione di cui all'art. 727 c.p.
Tale fattispecie punisce come noto con la l'arresto fino ad un anno o con l'ammenda da 1000 a 10.000 euro chiunque abbandona animali domestici o che abbiano acquisito abitudini della cattività nonché chiunque detenga animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze.
Ricordando l'interpretazione consolidata della giurisprudenza di legittimità sugli elementi costitutivi della fattispecie appena richiamata (v. Cassazione penale, sez. III, sentenza 17 settembre 2013 n. 38034), la Corte di Cassazione ha precisato che, sotto il profilo oggettivo, costituiscono maltrattamenti idonei ad integrare il reato di abbandono non soltanto i comportamenti che offendono il comune sentimento di pietà e di mitezza verso gli animali per la loro manifesta crudeltà ma anche quelle condotte che incidono sulla sensibilità psicofisica dell'animale procurandogli dolore e afflizione, mentre sotto il profilo soggettivo, non è necessaria la volontà del soggetto agente di infierire sull'animale cagionandogli lesioni all'integrità fisica, potendo le lesioni o anche solo i patimenti essere cagionati da colpa dell'agente.
Facendo applicazione dei suddetti principi al caso in esame la Corte ha ritenuto la sentenza di condanna esente da censure di legittimità, avendo il giudice di prime cure logicamente motivato in ordine alla ricorrenza degli elementi costitutivi della fattispecie e alla raggiunta prova degli stessi: ciò in quanto era stato accertato che i cani fossero tenuti all'interno di un recinto, muniti collare antiabbaio, produttivo di sofferenze e permanentemente funzionante in quanto all'arrivo dei verbalizzanti non avevano abbaiato.
L'infondatezza dei motivi proposti e la conseguente inammissibilità degli stessi ha precluso il formarsi di un rapporto impugnatorio e quindi la rilevazione della prescrizione intervenuta dopo la sentenza di primo grado.
Di qui la condanna del ricorrente alle spese processuali e al pagamento di una somma alla cassa delle ammende.

Fonte: Collare anti-abbaio va bandito, utilizzarlo è reato | Altalex

Straining: non è mobbing, ma è comunque risarcibile

Lo stress forzato inflitto al lavoratore dal superiore gerarchico configura una «forma attenuata di mobbing» definita straining, che giustifica la pretesa risarcitoria ai sensi dell’art. 2087 c.c. (Tutela delle condizioni di lavoro).
Così ha affermato la Corte di Cassazione con ordinanza n. 3977/18, depositata il 19 febbraio.
Il caso. La Corte d’Appello di Brescia rigettava l’appello proposto dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca avverso la sentenza del Tribunale della medesima città con cui veniva parzialmente accolta la domanda di risarcimento avanzata da un’insegnante nei confronti del dirigente scolastico che l’aveva dichiarata inidonea all’insegnamento ed assegnata alla segreteria scolastica.
La Corte sottolineava infatti che le condotte poste in essere dal dirigente scolastico nei confronti della dipendente, tra cui la sottrazione degli strumenti di lavoro ed infine la privazione di ogni mansione, costituissero un’ipotesi di straining, ossia uno stress forzato ed inflitto alla vittima dal superiore gerarchico.
Avverso la sentenza della Corte d’Appello, il Ministero ricorre per cassazione denunciando che lo straining non costituisca una categoria giuridica, essendo un fenomeno controverso anche all’interno della medicina legale.
Lo straining. Il Supremo Collegio nega che il Giudice di merito errato nell’utilizzare la nozione di straining anziché quella di mobbing, «perché lo straining altro non è se non “una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie” azioni che, peraltro, ove si rivelino produttive di danno all’integrità psico-fisica del lavoratore, giustificano la pretesa risarcitoria fondata sull’art. 2087 c.c.».
Difatti la Corte d’Appello ha correttamente applicato tale principio, evidenziando altresì che «la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. sorge, pertanto, ogniqualvolta l’evento dannoso sia eziologicamente riconducibile ad un comportamento colposo, ossia o all’inadempimento di specifici obblighi legali o contrattuali imposti o al mancato rispetto dei principi generali di correttezza e buona fede, che devono costantemente essere osservati anche nell’esercizio dei diritti».
Pertanto la Corte rigetta il ricorso confermando così il diritto al risarcimento per l’insegnante.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Straining: non è mobbing, ma è comunque risarcibile - La Stampa

Saluto fascista non è reato se solo per commemorare

Non è reato il saluto romano se ha intento commemorativo e non violento: in questo senso, può essere considerato una libera «manifestazione del pensiero» e non un attentato concreto alla tenuta dell’ordine democratico.
La Cassazione ha così definitivamente assolto due manifestanti, che durante una commemorazione organizzata a Milano nel 2014 da esponenti di Fratelli d’Italia, rispondendo alla “chiamata del presente” avevano alzato il braccio destro facendo il saluto fascista.
Un gesto che gli era valsa un'imputazione per “concorso in manifestazione fascista”, reato previsto all’articolo 5 della legge Scelba.
La Cassazione (sentenza n. 8108) ha respinto il ricorso del Pg di Milano, confermando le decisioni del gup e della Corte d’appello di Milano (quest’ultima del 21 settembre 2016).
Condiviso il percorso che ha portato alle decisioni di merito: la legge non punisce “tutte le manifestazioni usuali del disciolto partito fascista, ma solo quelle che possono determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste”, e i gesti e le espressioni “idonei a provocare adesioni e consensi”.
Il saluto romano fatto dagli imputati non è stato ritenuto tale. Per i giudici di merito è stata dirimente la natura puramente commemorativa della manifestazione del corteo, organizzato in onore di tre militanti morti, senza “alcun intento restaurativo del regime fascista”.
La manifestazione - come contestava invece il pg di Milano - era stata sì regolarmente autorizzata dalla questura, ma nei giorni precedenti gli organizzatori erano stati diffidati dall'utilizzare bandiere simboli quali le croci celtiche.
Nonostante l'inosservanza del divieto, si era scelto di far proseguire il corteo solo per ragioni di ordine pubblico. Anche se vi era stata ostentazione di simboli, quindi, i giudici hanno escluso che la manifestazione avesse assunto connotati tali dasuggestionare e indurre “sentimenti nostalgici in cui ravvisare n serio pericolo di riorganizzazione del partito fascista”.
Nell'argomentare la propria decisione, la Cassazione fa degli esempi, in cui al contrario, vanno ravvisati gli estremi del reato di manifestazione fascista: è il caso di chi intona “all'armi siamo fascisti”, considerato una professione di fede e un incitamento alla violenza, o di chi compie il saluto romano armato di manganello durante un comizio elettorale.
La Suprema Corte ricorda inoltre, un precedente identico,riguardante i coimputati dei due manifestanti. In quell'occasione la stessa Cassazione aveva sottolineato che il reato previsto dalla legge Scelba “è reato in pericolo concreto, che non sanziona le manifestazioni del pensiero e dell'ideologia fascista in sé, attesa le libertà garantite dall'articolo 21 della Costituzione, ma soltanto ove le stesse possano determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste, in relazione al momento ed all'ambiente in cui sono compiute, attentando concretamente alla tenuta dell'ordine democratico e dei valori ad esso sottesi”.

Fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

martedì 20 febbraio 2018

Stupefacenti: illegittima la revoca automatica della patente

E' illegittimo l'art. 120, comma 2, del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come sostituito dall'art. 3, comma 52, lett. a), della legge 15 luglio 2009, n. 94, nella parte in cui, con riguardo alle ipotesi di condanna per reati di cui agli artt. 73 e 74 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo Unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), che intervenga in data successiva a quella di rilascio della patente di guida, dispone che il prefetto “provvede”, invece che “può provvedere”, alla revoca della patente.
E' quanto ha stabilito la Corte Costituzionale con la sentenza del 9 febbraio 2018, n. 22.
Secondo quanto disposto dall'art. 120 del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, sotto la rubrica “Requisiti morali per ottenere il rilascio dei titoli abilitativi all'art. 116”, dispone che non possono conseguire la patente di guida i delinquenti abituali, professionali o per tendenza e coloro che sono o sono stati sottoposti a misure di sicurezza personali, le persone condannate per i reati in materia di stupefacenti di cui agli artt. 73 e 75 del T.U. Sugli stupefacenti, fatti salvi gli effetti di provvedimenti riabilitativi.
Se le condizioni soggettive di cui sopra intervengono in data successiva al rilascio, il prefetto provvede alla revoca della patente di guida.
Secondo i giudici delle leggi la disposizione in commento, sul presupposto di una indifferenziata valutazione di sopravvivenza di una condizione ostativa al mantenimento del titolo di abilitazione alla guida, ricollega in via automatica il medesimo effetto, ovvero la revoca del titolo, ad una varietà di fattispecie, non sussumibili in termini di omogeneità, atteso che la condanna, cui la norma fa riferimento, può riguardare reati di diversa, se non addirittura di lieve entità.
Reati che possono essere assai risalenti nel tempo, rispetto alla data di definizione del giudizio. Inoltre, mentre il giudice penale ha la facoltà di disporre il ritiro della patente, qualora sia ritenuto opportuno, il prefetto ha il dovere di disporne la revoca.
Per tali motivi, la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 120, comma 2, cod. strad. nella parte in cui dispone che il prefetto “provvede” anziché “può provvedere” alla revoca della patente di guida in caso di sopravvenuta condanna del titolare per i reati di cui agli artt. 73 e 74 del D.P.R. n. 309/1990.

fonte: Stupefacenti: illegittima la revoca automatica della patente | Altalex

lunedì 19 febbraio 2018

Assegno familiare e di maternità: importo e requisiti 2018

Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 36/2018 il Comunicato del Dipartimento per le Politiche della Famiglia contenente la rivalutazione, per il 2018, di misura e requisiti economici dell’assegno familiare e di maternità, alla luce della variazione dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie.
Determinazione dell’assegno. Ha trovato pubblicazione, nella Gazzetta Ufficiale n. 36 del 13 febbraio scorso, il Comunicato Dipartimento per le Politiche della Famiglia della Presidenza del Consiglio dei Ministri, contenente la rivalutazione della misura dell’assegno al nucleo familiare numeroso e dell’assegno di maternità per il 2018, alla luce della variazione dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie che è pari all’1,1%. Illustrati anche i requisiti economici da possedere per accedere al beneficio.
Da tale dato, emerso dal Comunicato ISTAT del 16 gennaio, deriva che per quest’anno:
– l’assegno mensile per il nucleo familiare, se spettante interamente, è pari a 142,85 euro; per le domande, il valore dell’indicatore della situazione economica equivalente è pari a 8.650,11 euro;
– l’assegno mensile di maternità erogato per le nascite, gli affidamenti preadottivi e le adozioni senza affidamento, se spettante nella misura intera, è pari a  342,62 euro; per le domande il valore dell’indicatore della situazione economica equivalente è pari a 17.141,45 euro.

fonte: Assegno familiare e di maternità: importo e requisiti 2018 - La Stampa

domenica 18 febbraio 2018

Responsabilità della Pa per danni connessi alla manutenzione delle strade

L’Ente proprietario (o gestore) della strada si presume responsabile, ai sensi dell’art.2051 c.c., dei sinistri riconducibili alle situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada stessa, indipendentemente dalla sua estensione, salvo che dia la prova che l’evento dannoso era imprevedibile e non tempestivamente evitabile o segnalabile (C. Cass., Sez. III, 12/4/2013, n.8935; v. poi Cass. 18753/2017; Cass. 11526/2017; Cass. 7805/2017; Cass. 1677/2016; Cass. 9547/2015; Cass. 1896/2015).
Ai sensi dell’art.2051 c.c. «ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito».
Il caso fortuito atto ad escludere la responsabilità del custode è inteso quale evento interruttivo del nesso causale tra cosa in custodia ed evento dannoso: «In tema di responsabilità ex art. 2051 c.c., per ottenere l'esonero della stessa, il custode deve provare che il fatto presenti i requisiti dell'autonomia, dell'eccezionalità, dell'imprevedibilità e dell'inevitabilità e che sia, quindi, idoneo a interrompere il nesso causale tra cosa in custodia e danno e il rapporto di custodia fra il soggetto e la cosa stessa, concretando così gli estremi del caso fortuito» (C. Cass., Sez. VI, 30/9/2014, n. 20619).
L’amministrazione è liberata dalla responsabilità ex art.2051 c.c. laddove «dimostri che l'evento sia stato determinato da cause estrinseche ed estemporanee create da terzi, non conoscibili né eliminabili con immediatezza, neppure con la più diligente attività di manutenzione, ovvero da una situazione (nella specie, una macchia d'olio, presente sulla pavimentazione stradale, che aveva provocato un sinistro stradale) la quale imponga di qualificare come fortuito il fattore di pericolo, avendo esso esplicato la sua potenzialità offensiva prima che fosse ragionevolmente esigibile l'intervento riparatore dell'ente custode» (C. Cass., Sez. VI, 27/3/2017, n. 7805, in Arch. giur. circol. e sinistri 2017, 7-8, 630).
Ex art.2051 c.c. non è sufficiente la dimostrazione dell’assenza di colpa da parte del custode, ma si richiede la prova positiva della causa esterna (fatto materiale, fatto del terzo, fatto dello stesso danneggiato) che, per imprevedibilità, eccezionalità, inevitabilità, sia completamente estranea alla sfera di controllo del custode, restando così a carico di quest’ultimo anche il danno derivante da causa rimasta ignota.
L’art.2051 c.c., per altro verso, implica sì una presunzione di responsabilità in capo al custode, ma mantiene, in capo al danneggiato, l’onere di provare il verificarsi dell’evento dannoso e del suo rapporto di causalità con il bene in custodia; solo una volta provate queste circostanze, il custode, per escludere la sua responsabilità, avrà l’onere di provare il caso fortuito, ossia l’esistenza di un fattore estraneo che, per il suo carattere di imprevedibilità e di eccezionalità, sia idoneo ad interrompere il nesso causale (in tal senso C. Cass., Sez. III, 29/1/2016, n.1677).
Incidenza delle norme del codice della strada
Gli Enti proprietari (o gestori) delle strade, ai sensi dell’art.14, comma 1, lett. c), del Codice della Strada devono provvedere alla apposizione ed alla manutenzione della segnaletica stradale, la quale deve essere sempre mantenuta in efficienza, reintegrata o rimossa quando risulti anche parzialmente inefficiente o non più rispondente allo scopo per il quale è stata collocata (art.38, comma 7, CDS).
La relazione tra cura della strada e incidentalità stradale è presa in considerazione anche dalla Direttiva sulla segnaletica stradale del 24/10/2000: «Numerosi sinistri stradali, infatti, derivano dall’assenza di segnaletica, dall’inadeguatezza della stessa rispetto alle condizioni della strada e del traffico, da sua tardiva o insufficiente percepibilità, dalla collocazione irregolare, dall’usura dei materiali o dalla mancata manutenzione, ovvero dall’installazione in condizioni difformi dalle prescrizioni del regolamento». «(…) agli Enti proprietari spetta l’obbligo di controllare la presenza e l’efficienza dei segnali e di disporre il ripristino di quelli rimossi».
Il §7 della Direttiva è dedicato al controllo dell’efficienza e manutenzione della segnaletica: «Il controllo tecnico della segnaletica… consiste nella delicata e costante azione che l’ente deve assicurare per mantenere a livello ottimale le condizioni di manutenzione e di efficienza della segnaletica stradale nella sua più ampia accezione: verticale, orizzontale, luminosa e complementare», provvedendo in particolare alla ricognizione ed alla verifica delle condizioni di impiego. «E’ indispensabile che gli Enti proprietari delle strade porgano la massima cura nell’assicurare una continua e accurata ‘assistenza’ al cospicuo patrimonio di arredo stradale, che richiede, come qualunque installazione, una adeguata manutenzione e la verifica periodica delle condizioni di efficacia».
Non si ritiene, invece, utile allo scopo (risultando addirittura controproducente) l’esagerazione sull’imposizione dei limiti di velocità localizzati. «Non sembra superfluo ricordare che la presunzione di una maggiore sicurezza, che deriverebbe dall’imposizione di limiti massimi di velocità più bassi del normale, è puramente illusoria; l’esperienza insegna, infatti, che divieti non supportati da effettive esigenze vengono sistematicamente disattesi, dando luogo, altresì, ad una diseducativa sottovalutazione di tutta la segnaletica prescrittiva e, talvolta, all’irrogazione di sanzioni che non hanno reale fondamento. (…). E’ dimostrato che i provvedimenti, anche se restrittivi, vengono generalmente accettati e rispettati dagli utenti della strada se improntati a criteri ispirati alla logica ed alla razionalità delle soluzioni» (Direttiva sulla segnaletica stradale del 24/10/2000, § 5.1). «Limitazioni non supportate da effettiva necessità sottraggono anche dignità e validità al divieto imposto, riducono la fiducia degli utenti della strada nei confronti degli Enti gestori della stessa (…), determinando così una diseducativa perdita di credibilità su tutte le limitazioni imposte, con conseguente mancato rispetto del limite anche nei casi in cui esso è determinante ai fini della sicurezza» (c.d. Seconda Direttiva sulla segnaletica stradale del 27/4/2006, § 2.2).

Fonte: Responsabilità della Pa per danni connessi alla manutenzione delle strade | Altalex

sabato 17 febbraio 2018

Multe: in caso di ritardo nel pagamento si applica la maggiorazione del 10%

Se le multe vengono pagate in ritardo c’è una maggiorazione del 10 per cento per ogni semestre. E' quanto hanno confermato i giudici della III sezione vivile della Cassazione con la sentenza n. 27887 del 23 novembre 2017
Il caso - Un destinatario di cartella esattoriale afferente crediti vantati dal Comune di Bari per sanzioni amministrative relative a violazioni del codice della strada proponeva opposizione, dinanzi al Giudice di Pace, che accoglieva il ricorso annullando la cartella. Avverso la sentenza proponeva appello il Comune di Bari ed i giudici del Tribunale lo accoglievano pronunciando la nullità della cartella di pagamento, limitatamente agli importi in essa indicati a titolo di maggiorazioni ex articolo 27 della legge n. 689/1981, mentre dichiarava per il resto inammissibile l'opposizione. Anche questa sentenza veniva impugnata per cassazione dal Comune di Bari che la censurava per violazione o falsa applicazione dell'articolo 27 legge 24 novembre 1981, n. 689 e degli articoli 203, 204 e 206 del codice della strada, per avere il giudice di merito ritenuto illegittima la pretesa delle maggiorazioni previste dal comma sesto del citato articolo 27 («Salvo quanto previsto nell'art. 26, in caso di ritardo nel pagamento la somma dovuta è maggiorata di un decimo per ogni semestre a decorrere da quello in cui la sanzione è divenuta esigibile e fino a quello in cui il ruolo è trasmesso all'esattore. La maggiorazione assorbe gli interessi eventualmente previsti dalle disposizioni vigenti».), disposizione considerata inapplicabile alle sanzioni amministrative comminate per la trasgressione di norme del Codice della Strada.
La decisione - Gli Ermellini ritengono la censura fondata ed accogliendo il ricorso, cassa la sentenza, ritenendo che la decisione del Tribunale si basa sulla sentenza di questa Corte n. 3701 del 16 febbraio 2007, secondo la quale alle sanzioni, come nella specie stradali, si applica l'articolo 203 , terzo comma, del codice della strada che, in deroga all'articolo 27 della legge 689/81, in caso di ritardo nel pagamento della sanzione irrogata nell'ordinanza-ingiunzione, prevede, l'iscrizione a ruolo della sola metà del massimo edittale e non anche degli aumenti semestrali del 10%”, motivato esclusivamente da un'apodittica, affermazione di incompatibilità tra l'articolo 27, comma sesto, della legge n. 689 del 1981 e l'articolo 203 del codice della strada, superato da un più recente orientamento interpretativo. Infatti, la successiva giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto applicabile anche alle violazioni delle norme sulla circolazione stradale la maggiorazione del 10% per ogni semestre di ritardo a decorrere da quello in cui la sanzione è divenuta esigibile e ciò sino a quando il ruolo non viene trasmesso all'esattore. La previsione è compatibile con un sistema afflittivo di carattere sanzionatorio in caso di ulteriore ritardo nel pagamento e col chiaro disposto dell'articolo 27 della legge n. 689 del 1981 che, in caso di ritardo nel pagamento, prevede la maggiorazione di un decimo per ogni semestre.
I giudici della Corte richiamano anche l'ordinanza n. 308 del 14 luglio 1999 che nel dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale prospettata, ha statuito che la maggiorazione per ritardo del 10% semestrale a carico dell'autore dell'illecito amministrativo ha funzione, non già risarcitoria o corrispettiva, bensì di sanzione aggiuntiva, nascente al momento in cui diviene esigibile la sanzione principale.

Fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

giovedì 15 febbraio 2018

Guida in stato ebbrezza: esame del sangue si può rifiutare se richiesto da polizia ma non dai medici

Ai fini della guida in stato di ebbrezza di cui all'articolo 186 del Codice della Strada  l'automobilista può opporre un esplicito dissenso all'esame del sangue se non sono i sanitari che intendono sottoporre l'interessato al prelievo ma è la polizia a chiederlo per l'accertamento del tasso alcolemico. E' quanto emerge dalla sentenza della Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione del 1 febbraio 2018, n. 4943.
Secondo l'orientamento prevalente in giurisprudenza, per l'accertamento del reato contravvenzionale di guida in stato di ebbrezza sono utilizzabili i risultati del prelievo ematico che sia stato effettuato, secondo i criteri e gli ordinali protocolli sanitari di pronto soccorso, durante il ricovero presso una struttura ospedaliera pubblica a seguito di incidente stradale, trattandosi, in tal caso, di elementi di prova acquisiti attraverso la documentazione medica, con conseguente irrilevanza, a questi fini, della eventuale mancanza di consenso (Cass. pen., Sez. IV, 16 maggio 2012, n. 26108).
Va ribadito che è diritto del soggetto opporre il rifiuto al prelievo ematico laddove questo sia finalizzato chiaramente ed unicamente all'accertamento dell'eventuale presenza di alcol nel sangue, trattandosi di un esame invasivo, con violazione dei diritto della persona. Più nello specifico si è affermato che i risultati del prelievo ematico effettuato per le terapie di pronto soccorso successive ad incidente stradale e non preordinato a fini di prova della responsabilità penale, sono utilizzabili per l'accertamento del reato di guida in stato di ebbrezza senza che rilevi la mancanza di un preventivo consenso dell'interessato (Cass. pen., Sez. Fer., 25 agosto 2016, n. 52877).
La Corte di legittimità ha anche chiarito che, in tema di guida in stato di ebbrezza, il prelievo ematico compiuto autonomamente dai sanitari in esecuzione di ordinari protocolli di pronto soccorso, in assenza di indizi di reità a carico di un soggetto coinvolto in un incidente stradale e poi ricoverato, non rientra tra gli atti di polizia giudiziaria urgenti ed indifferibili ex art. 356 c.p.p., di talché non sussiste alcun obbligo di avviso all'indagato della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, ai sensi dell'art. 114 disp. Att. c.p.p. (Cass. pen., Sez. IV, 4 giugno 2013, n. 38458).
Tale attività, infatti, non è finalizzata alla ricerca delle prove di un reato, ma alla cura della persona e nulla ha a che vedere con l'esercizio del diritto di difesa da parte del soggetto sottoposto a quel trattamento o a quelle cure, cosicché non sussiste alcun obbligo di avviso. La successiva utilizzabilità dell'atto in processo va equiparata a quella di un documento e non può considerarsi atto di polizia giudiziaria anche ove l'acquisizione sia avvenuta ad iniziativa di questa, ma dopo che l'accertamento sanitario fosse già avviato nell'ambito di quel protocollo.
Ove, invece, l'esecuzione del prelievo da parte del personale medico non avvenga nell'ambito dei normali protocolli sanitari, ma sia espressamente richiesta dalla polizia al fine di acquisire la prova del reato nei confronti del soggetto già indiziato, il personale richiesto finisce per agire come una vera e propria longa manus della polizia giudiziaria e, anche rispetto a tale accertamento, scatteranno le garanzie difensive sottese all'avviso di cui all'art. 114.

Fonte: Guida in stato ebbrezza: esame del sangue si può rifiutare se richiesto da polizia ma non dai medici | Altalex

Genitori anziani di Mirabello Monferrato, la Cassazione ha detto sì all’adottabilità della bimba

La Cassazione ha confermato l’adottabilità della bimba nata da una coppia di genitori anziani di Mirabello Monferrato - Gabriella e Luigi Deambrosis -ritenendoli incapaci «di comprendere quali siano i bisogni emotivo affettivi e pratici» della bimba, e risultando il padre «totalmente dipendente» dai desideri della moglie «chiusa in un processo narcisistico».
Con il verdetto depositato oggi la Suprema Corte ha confermato la sentenza emessa dalla Corte di appello di Torino nel 2017 nel processo di secondo grado-bis.
La Cassazione inoltre sottolinea che padre e madre, che risiedono tuttora in provincia di Alessandria, pur non presentando «caratteristiche di emarginazione sociale, culturale ed economica» e pur avendo collaborato con le «indicazioni» dei servizi sociali, hanno riportato «valutazioni tecniche», emerse nei giudizi di merito, «univocamente negative in ordine all’idoneità genitoriale».
Gli ermellini aggiungono che la valutazione della vicenda, e la decisione finale di dichiarare l’adottabilità della bimba, non è stata centrata «esclusivamente» sull’episodio di abbandono in auto della piccola per qualche minuto, né solo sull’età di padre e madre, dal momento che le indagini svolte si sono arricchite di «numerosi ulteriori elementi».
Ad avviso della Cassazione la «complessiva valorizzazione e valutazione» di tutti gli elementi raccolti nei processi di merito costituisce un nucleo «incensurabile». Per la complessità della vicenda, la Suprema Corte ha compensato le spese di giudizio tra i genitori «anziani» e il tutore provvisorio della bimba.

Fonte: Genitori anziani di Mirabello Monferrato, la Cassazione ha detto sì all’adottabilità della bimba - La Stampa

Biotestamento: il vademecum dei notai

A seguito dell’entrata in vigore della l. n. 219/2017 (“Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”), pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 12 del 16 gennaio 2018, il Consiglio Nazionale del Notariato ha emanato un primo vademecum per informare il cittadino sulle novità introdotte in materia di DAT.
La l. n. 219/2017 ha introdotto nel nostro ordinamento la disciplina delle DAT (Disposizioni anticipate di trattamento), attraverso cui ognuno può dare indicazioni sui trattamenti sanitari da ricevere o da rifiutare nei casi in cui si trovasse in condizioni di incapacità.
Il Consiglio Nazionale del Notariato ha emanato un primo vademecum per segnalare ai cittadini le novità più importanti in tema di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento.
Le novità introdotte dalla l. n. 219/2017. Le DAT sono indicazioni che il soggetto può esprimere in merito all’accettazione o al rifiuto di un determinato accertamento diagnostico, scelta terapeutica o trattamento sanitario, in previsione di una eventuale e futura incapacità di determinarsi. Con l’introduzione della art. 1, comma 5, l. n. 219/2017, la nutrizione e l’idratazione artificiale sono definitivamente considerate “trattamenti sanitari”, che la persona, tramite le DAT, può anticipatamente escludere dal proprio futuro ed eventuale trattamento terapeutico.
Soggetti abilitati e forma. Possono disporre le DAT i soggetti maggiorenni capaci di intendere e di volere. Le DAT possono essere redatte tramite atto pubblico notarile, scrittura privata autenticata dal notaio o scrittura privata semplice consegnata dal disponente all’Ufficio dello Stato Civile del Comune di residenza. Il soggetto incapace di apporre la propria firma può stipulare l’atto contenente le DAT in presenza di due testimoni o manifestare le proprie intenzioni attraverso videoregistrazione o simile dispositivo di comunicazione. In ogni caso, la persona deve acquisire preventivamente adeguate informazioni circa le possibili conseguenze delle proprie scelte tramite consultazione con un medico.
Revoca o modifica. Le DAT possono essere revocate o modificate in qualunque momento utilizzando la stessa forma con cui sono state rilasciate (o mediante dichiarazione verbale o videoregistrazione raccolta da un medico e due testimoni, in caso d’urgenza o altra impossibilità). Le DAT rilasciate in un periodo di vuoto normativo, prima dell’entrata in vigore della l. n. 219/2017, conservano la loro validità se ed in quanto non risultino contrarie alle prescrizioni di legge.
Pubblicità. Le DAT sono pubblicizzate in un registro comunale (ove già istituito) o alternativamente in un registro sanitario elettronico su base regionale, nel caso in cui le Regioni abbiano previsto la gestione telematica della cartella clinica. La legge n. 219/2017 prevede solo registri regionali: mancando una banca dati a livello nazionale, se la persona è ricoverata in una Regione diversa da quella di residenza, vi è rischio concreto che non si possa conoscere le DAT del paziente. Nell’attesa dell’istituzione di un registro nazionale, per cui la legge di Bilancio 2018 ha stanziato dei fondi, il Notariato ha quasi ultimato un registro nazionale – non accessibile al pubblico per motivi di privacy – consultabile da parte di tutte le aziende sanitarie italiane.
Possibilità di nomina di un terzo fiduciario. La legge prevede la possibilità di nominare un soggetto fiduciario che si sostituisca al disponente, divenuto incapace, nella gestione dei rapporti con i medici e la struttura sanitaria. Di concerto con il medico, il fiduciario può disattendere le DAT nel caso in cui esse siano palesemente incongrue, non corrispondano alla condizione clinica in cui versi il paziente o in caso di terapie sopravvenute dopo la data di redazione delle DAT. Ai sensi dell’art. 3, comma 5, l. n. 219/2017, in caso di contrasto tra fiduciario e medico la decisione è rimessa al Giudice Tutelare, su ricorso del rappresentante legale della persona interessata, dei soggetti di cui all’art. 406 c.c. o del Direttore della struttura sanitaria. Al fine di prevenire possibili controversie fra più fiduciari, il Notariato consiglia di nominare un solo soggetto. Si ricordi che il fiduciario può anche non accettare l’incarico o rifiutarlo successivamente tramite atto scritto indirizzato al disponente. Il disponente può inoltre revocare o modificare il fiduciario in qualsiasi momento, senza obbligo di motivazione, nelle stesse forme con cui l’aveva nominato. In caso di revoca del fiduciario o di sua rinuncia all’incarico, le DAT conservano il loro valore prescrittivo sia nei confronti del medico che della struttura sanitaria. In mancanza del fiduciario, sarà cura del Giudice Tutelare di nominare un amministratore di sostegno che svolga i medesimi compiti.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Biotestamento: il vademecum dei notai - La Stampa

mercoledì 14 febbraio 2018

Stupefacenti: la diversità delle sostanze non esclude il “fatto lieve”

Ai fini del riconoscimento del fatto di lieve entità (articolo 73, comma 5, del D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309) la diversità delle sostanze trafficate è un dato di per sé inconsistente, perché non è idoneo da solo a scriminare il “livello” di collocamento del reo nell’ambito del traffico di droga (Cassazione penale, sezione VI, 6 febbraio 2018 n. 5517).
Il caso
La sentenza è di rilievo perché affronta con chiarezza la questione della rilevanza da attribuirsi alla diversa tipologia di sostanze detenute ai fini del riconoscimento/esclusione del fatto di lieve entità di cui all’articolo 73, comma 5, del D.P.R. n. 309 del 1990.
La Corte, nel rigettare il ricorso avverso la sentenza che aveva negata l’ipotesi “minore” di cui al comma 5 dell’articolo 73, proprio sul rilievo della detenzione di sostanze eterogenee [oltre che in ragione della suddivisione delle sostanze già in dosi pronte al commercio], ha ritenuto di “correggere” ex articolo 619, comma 1, c.p.p., quelli che ha ritenuto errori di diritto nella motivazione, pur “salvando” la tenuta della decisione, siccome basata assorbentemente sul quantitativo complessivo delle sostanze oggetto della condotta incriminata, tale da escludere tout court la lievità del fatto.
L’apprezzamento “congiunto”
Si tratta di decisione convincente ed in linea con i principi che devono presiedere l’apprezzamento giudiziale circa la sussistenza o no del fatto di lieve entità.
E’ in proposito assunto pacifico quello secondo cui, in tema di sostanze stupefacenti, la ipotesi attenuata del fatto di lieve entità (articolo 73, comma 5, del D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309) può essere riconosciuta solo in ipotesi di “minima offensività penale” della condotta, deducibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati dalla norma (mezzi, modalità e circostanze dell’azione), con la conseguenza che, ove venga meno anche uno soltanto degli indici previsti dalla legge, diviene irrilevante l’eventuale presenza degli altri (cfr. Cass. pen. Sezioni unite, 21 giugno 2000, Primavera ed altri; di recente, tra le tante, Cass. pen. Sezione IV, 8 giugno 2016, Agnesse). Ciò in quanto la finalità dell’ ipotesi attenuata si ricollega al criterio di ragionevolezza derivante dall’articolo 3 della Costituzione, che impone – tanto al legislatore, quanto all’interprete- la proporzione tra la quantità e la qualità della pena e l’offensività del fatto. In proposito, dovensosi solo ricordare che nessuna conseguenza, sotto questo specifico profilo, deriva dal novum normativo introdotto dal decreto legge 23 dicembre 2013 n. 146, convertito dalla legge 21 febbraio 2014 n. 10, che ha trasformato l’ipotesi di cui al comma 5 dell’articolo 73 del D.P.R. n. 309 del 1990 in fattispecie autonoma di reato [scelta normativa ribadita anche a seguito dell’ulteriore modifica introdotta dal decreto legge n. 36 del 2014, convertito dalla legge n. 79 del 2014], giacchè i presupposti del reato sono rimasti gli stessi che potevano giustificare [o, per converso, negare] la concessione dell’attenuante. Va così affermato con chiarezza, infatti, che nella “ricostruzione” della nuova fattispecie autonoma di reato sono utilizzabili gli stessi parametri che caratterizzavano la previgente previsione di circostanza attenuante. Il fatto di “lieve entità”, cioè, deve essere apprezzato considerando i mezzi, le modalità e le circostanze dell'azione nonché la qualità e quantità delle sostanze stupefacenti, riproponendo l’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza, che vale tuttora per cogliere il proprium anche della nuova fattispecie di reato.
I principi cardine, in proposito, sono quelli della “valutazione congiunta” dei parametri normativi e della rilevanza ostativa anche di un solo parametri quando risulti “esorbitante” e cioè chiaramente dimostrativo della “non lievità” del fatto. La valutazione congiunta, infatti, consente di apprezzare, in modo equilibrato, il fatto in tutte le sue componenti, senza peraltro trascurare le connotazioni particolari che assumono, nel concreto, i singoli parametri di riferimento.
In questa prospettiva, come nel caso di specie, risulta evidente la necessità di escludere il fatto lieve quando il quantitativo delle sostanze sia considerevole o esorbitante (così, la citata sentenza Billè, che, quindi, ha ritenuto corretto e congruamente motivato il diniego dell’ipotesi attenuata effettuata valorizzando negativamente il dato quantitativo “considerevole” della sostanza – grammi 266,70 di canapa indiana- ritenuto dimostrativo della significativa potenzialità offensiva della condotta).
Ma risulta evidente che, di per sé solo, il dato della eterogeneità delle sostanze è non sufficientemente significativo per qualificare il fatto come lieve o non lieve, ossia, come precisato qui in motivazione, non è un dato “che possa scriminare il “livello” di collocamento del reo nell’ambito del traffico della droga”.
Pur in presenza di sostanze eterogenee, per escludere il fatto lieve è quindi necessario un apprezzamento di gravità della condotta che passi attraverso l’apprezzamento complessivo della vicenda.
La giurisprudenza
In questo senso è del resto la migliore giurisprudenza.
Così, si è affermato di recente da Cass. pen.Sezione VI, 19 settembre 2017- 10 ottobre 2017, PM in proc. Rachadi ed altri, che, in caso di detenzione di quantità non rilevanti di sostanza stupefacente, la diversa tipologia della sostanza non può di per sè costituire ragione sufficiente ad escludere l'ipotesi di lieve entità di cui all'articolo 73, comma 5, del D.P.R. n. 309 del 1990, qualora le peculiarità del caso concreto siano indicative di una complessiva minore portata dell'attività svolta dallo spacciatore.
E si è parimenti affermato, da Cass. pen.Sezione IV, 13 luglio 2017- 26 ottobre 2017, PG in proc. Amorello ed altri, che la diversa tipologia della sostanza non può di per sè costituire ragione sufficiente ad escludere l'ipotesi di lieve entità, qualora le peculiarità del caso concreto siano indicative di una complessiva minore portata dell'attività svolta dallo spacciatore.
Il principio di diritto
In definitiva, ciò che conta da parte del giudice è la necessità di apprezzare il fatto nella sua complessità. Rispetto a tale apprezzamento è pacifico che la sola eterogeneità delle sostanze non può assumere rilevanza assorbente per escludere la lievità del fatto. Piuttosto, è circostanza di fatto che potrebbe essere valutata negativamente, nel complesso della vicenda, se e quando contribuisse in positivo a dimostrare una particolare pericolosità della condotta, unitamente agli altri elementi oggettivi e soggettivi che il comma 5 dell’articolo 73 impone di valutare.
La suddivisione in dosi
Analogo ragionamento si impone sull’altro argomento sviluppato in motivazione: quello secondo cui anche la suddivisione della sostanza in dosi non è di per sé sintomatico e dimostrativo della non lievità del fatto.
Secondo la Corte ciò si giustifica con il rilievo che proprio la distribuzione in dosi già confezionate è quel che ricorre pressoché di regola nel piccolissimo spaccio.
Ed allora valgono le considerazioni già espresse sulla necessità di una valutazione complessiva, l’unica che consente di formulare un giudizio [lievità/gravità] aderente al caso di specie.
La decisione in sintesi
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali

Fonte: Stupefacenti: la diversità delle sostanze non esclude il “fatto lieve” | Quotidiano Giuridico

lunedì 12 febbraio 2018

Bonus prima casa applicabile anche se disponibile altro immobile non idoneo

L’agevolazione prima casa è applicabile anche nel caso di disponibilità di un alloggio che non sia concretamente idoneo, per dimensioni e caratteristiche complessive, a soddisfare le esigenze abitative dell'interessato.
E’ quanto stabilito dalla Sezione Tributaria della Cassazione, con la sentenza n. 2565 depositata il 2 febbraio scorso.
La Suprema Corte ha fornito un’interpretazione costituzionalmente orientata della c.d. legge sulla prima casa (D.p.r.n°131/1986), accogliendo la tesi per cui il beneficio va riconosciuto laddove, tanto per circostanze di natura oggettiva (come l’effettiva inabitabilità), quanto per circostanze di natura soggettiva (aventi riguardo all'inidoneità dell'alloggio a soddisfare le esigenze abitative), l’abitazione già posseduta - per dimensioni o caratteristiche qualitative - non sia tale da soddisfare le esigenze abitative del compratore e del suo nucleo familiare.
I requisiti nell’evoluzione normativa. L’agevolazione “prima casa” è quel particolare trattamento fiscale di favore previsto per il contribuente che acquista per la prima volta la piena proprietà o la nuda proprietà, l’abitazione, l’uso e l’usufrutto di una unità immobiliare non di lusso. Le agevolazioni riguardano l'iva e le altre imposte che gravano sulle compravendite (di registro, catastale, ipotecaria). La materia in esame è stata oggetto di numerosi interventi normativi tra cui, da ultimo, quello di cui alla legge n. 232/2016 (Legge di Stabilità 2017), alla luce dei quali è possibile rilevare che presupposto per l'ottenimento dell'agevolazione "prima casa" è quello della c.d. "impossidenza" dell’acquirente; in particolare: l’acquirente non deve essere titolare, esclusivo o in comunione con il coniuge, di diritti di proprietà, usufrutto, uso o abitazione di altra casa di abitazione nel comune dove è situato l'immobile acquistato; l’acquirente non deve essere titolare, neppure per quote di comproprietà o in regime di comunione legale, in tutto il territorio nazionale, di diritti di proprietà, anche nuda, o di diritti reali di godimento su altra casa di abitazione acquistata dall'acquirente o dal coniuge con le agevolazioni "prima casa”.
Il caso di specie riguarda l’impugnazione degli avvisi emessi dall'Agenzia delle Entrate, con i quali veniva dichiarata la decadenza dalle agevolazioni prima casa, in quanto gli acquirenti risultavano, al tempo dell'acquisto dell'immobile già contitolari di un immobile nel medesimo Comune, sul rilievo che detto immobile, acquistato senza agevolazioni all'atto della compravendita, era privo dei requisiti di abitabilità, ragion per cui né sotto il profilo oggettivo né sotto quello soggettivo poteva essere considerata idonea “casa di abitazione”.
La Suprema Corte cassa con rinvio la sentenza della Corte di Appello del Friuli Venezia Giulia, che aveva stabilito l’idoneità oggettiva dell'alloggio ad essere adibito ad abitazione e quindi l’escusione delle agevolazioni, sulla base della considezione che i ricorrenti avrebbero potuto richiedere il mutamento di classificazione dell'immobile.
L'indirizzo interpretativo adottato dalla Cassazione contribuisce a fare finalmente chiarezza in materia, in quanto il D.p.r.n.131/1986 si limita a individuare quale elemento ostativo alla fruizione del beneficio la mera “pre-possidenza” di un'altra casa di abitazione o situata nel medesimo Comune o acquistata con l'agevolazione di cui l'interessato aveva già usufruito, indipendentemente dalle sue caratteristiche strutturali. Non si può ritenere d'ostacolo, dunque, all'applicazione delle agevolazioni "prima casa" la circostanza che l'acquirente dell'immobile sia al contempo proprietario d'altro immobile (acquistato senza agevolazioni nel medesimo comune) che, "per qualsiasi ragione" sia inidoneo ad essere destinato a sua abitazione.

Fonte: Bonus prima casa applicabile anche se disponibile altro immobile non idoneo | Altalex

Sottrarre denaro dalla cassetta delle offerte è furto aggravato

E’ configurabile il reato di furto con l’aggravante dell’esposizione a pubblica fede qualora l’imputato sottragga del denaro dalla cassetta delle offerte all’interno di una chiesa.
Così la Corte di Cassazione con sentenza n. 5348/18, depositata il 5 febbraio.
Il caso. Il Tribunale di Asti dichiarava di non doversi procedere nei confronti di un uomo per il reato di furto di denaro da alcune cassette delle offerte site in una chiesa, in seguito all’esclusione dell’aggravante di cui all’art. 625, n. 7, c.p. e all’intervenuta remissione di querela.
Il Procuratore della Repubblica presso il medesimo Tribunale propone ricorso per cassazione denunciando l’illegittima esclusione dell’aggravante del fatto commesso su cose destinate a pubblica fede, aggravante che ricorrerebbe anche in relazione a furti posti in essere in luoghi privati ma aperti al pubblico.
L’aggravante dell’esposizione a pubblica fede. Il Supremo Collegio ribadisce la configurabilità, nel caso di specie, dell’aggravante di cui all’art. 625, n. 7, c.p., poiché tale aggravante «sussiste anche nel caso in cui la cosa si trovi in luoghi privati, ma aperti al pubblico e sia soggetta a sorveglianza saltuaria».
Da ciò ne deriva che il Giudice di prime cure è incorso in errore nel ritenere l’aggravante non sussistente. Il reato è infatti perseguibile d’ufficio, a nulla rilevando l’intervenuta remissione di querela.
La Corte dunque annulla la sentenza impugnata senza rinvio.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Sottrarre denaro dalla cassetta delle offerte è furto aggravato - La Stampa

domenica 11 febbraio 2018

Scoperto il maxi archivio digitale dei pedofili: tre arresti, 33 denunciati

Tre persone arrestate, 33 denunciate, 37 perquisizioni. La Procura di Salerno ha dato il via a una grossa operazione contro la pedopornografia online. L’indagine, condotta dalla Polizia postale di Salerno è cominciata con una segnalazione e ha portato a scoprire ingente materiale pedopornografico conservato in un archivio digitale nascosto nel deepweb (le directory di internet che sfuggono alle normali ricerche) denominato Labibbia 3.0. L’archivio contiene migliaia di file di fotografie e video che ritraggono donne, prevalentemente adolescenti nude e in pose provocanti.
A conclusione delle indagini è stato possibile ricostruire l’apporto dato all’archivio informatico dai partecipanti alla chat, identificando chi inviava le foto dell’ex fidanzata, o della sorella minore di 12 anni. Immagini sottratte da telefoni e computer in riparazione, e foto di ragazze minorenni rubate da profili pubblici. Dei tre arrestati, due devono rispondere di detenzione di ingente quantità di materiale pedopornografico, uno di produzione, traffico e detenzione illecita di sostanze stupefacenti oltre al sequestro di centinaia di supporti informatici contenenti migliaia di files pedopornografici.
I 33 denunciati devono rispondere del reato di detenzione di materiale pedopornografico. Le perquisizioni di stamani sono state effettuate in 14 regioni (Campania, Lazio, Piemonte,Lombardia, Emilia Romagna, Puglia, Sicilia, Calabria, Marche, Abruzzo, Veneto, Toscana, Liguria, Trentino Alto Adige).

Fonte: Scoperto il maxi archivio digitale dei pedofili: tre arresti, 33 denunciati - La Stampa

Prende a bastonate un gatto, condannato a quattro mesi di reclusione

Un gesto crudele punito con una condanna a quattro mesi di reclusione: è accaduto a Trapani e a subirla è stato un operatore marittimo di 62 anni. A denunciarlo i vicini di casa, a nulla sono servite le sue difese: diceva di aver solo sbattuto a bastonata la scopa a terra per fare fuggire l’animale, ma il giudice monocratico di trapani Rossana Cicorella non gli ha creduto. Non solo. Gli ha anche inflitto una condanna più alta di quanto aveva chiesto l’accusa, che si era limitata a proporre due mesi di reclusione.
Stando alle testimonianze dei vicini l’uomo ha colpito il micio, che si era accovacciato in una cesta con il bucato appena lavato e aveva lasciato anche degli escrementi per lo spavento. L’operatore marittimo, invece, sosteneva di essersi limitato a dare un colpo a terra per scacciarlo. “Giustificazione” inutile: condanna senza attenuanti, con la sola sospensione condizionale.

Fonte: Trapani: prende a bastonate un gatto, condannato a quattro mesi di reclusione - La Stampa

sabato 10 febbraio 2018

Giustificato il licenziamento del dirigente troppo autoritario

È legittimo il licenziamento del top manager che, pur conseguendo importanti risultati aziendali, governi l'azienda con stile autoritario ed autoreferenziale, non sottoponendo ad approvazione nomine apicali, ovvero selezionando per posizioni di vertice dipendenti non in possesso dei necessari requisiti professionali. Il ruolo dell'amministratore delegato, infatti, pur essendo caratterizzato da un forte potere decisionale, non può trascendere nella prevaricazione e nell'autoritarismo. Appare quindi giustificato il licenziamento del dirigente apicale che, anziché svolgere una funzione equilibratrice, da collettore di consensi, provochi invece con la sua gestione prevalentemente autoritaria, tensioni e fratture, nonostante i risultati economici raggiunti.
La Società contestava al dirigente apicale avente ruolo di Condirettore Generale di non essersi coordinato con il Country Manager della Società nella definizione dei piani di sviluppo strategici della stessa. In particolare, oggetto della contestazione disciplinare era la mancata condivisione di una bozza di comunicato, che sarebbe poi stato inviato a tutto il personale, avente ad oggetto i risultati del 2014 e le nuove nomine del 2015, in cui veniva annunciata una riorganizzazione complessiva della Società. Tale riorganizzazione comportava una serie di promozioni e nuove nomine (25 in tutto), non concordate con il Country Manager, tra cui quella del nuovo Chief Commercial Officer (CCO), non in possesso del livello di inglese necessario ad interagire con i clienti internazionali della Società e con il Gruppo della multinazionale, ma soprattutto non legato alla stessa da alcun patto di non concorrenza, necessario per ricoprire un ruolo commerciale come quello assegnato.
Allo stesso modo, il top manager nominava un nuovo branch manager nonostante il parere contrario del Direttore Generale.
In particolare, la Società contestava che le scelte organizzative annunciate, sia per la forma utilizzata che per i contenuti, avessero provocato la reazione e le lamentele di diversi dirigenti di vertice e amministratori esecutivi, i quali denunciavano al Country Manager come "da diversi mesi il personale della Società si trova costretto a lavorare in clima difficile e demotivante, tutt'altro che sereno e costruttivo", a causa dell'operato del dirigente, che veniva definito "inutilmente autoritario e in diverse occasioni prevaricatore dei ruoli e delle competenze di alcuni Suoi colleghi, nonché volto a ingiustamente favorire altri colleghi a Lei più legati".
Nella contestazione si muovevano inoltre appunti sull'operato del dirigente, che avrebbe applicato "due pesi e due misure" a favore dei dipendenti al medesimo più graditi, attraverso promozioni, aumenti stipendiali, assegnazioni di dotazioni hardware diverse rispetto ai pari grado, concessione di maggiore visibilità sui clienti, con ciò scavalcando i diretti responsabili dei dipendenti coinvolti, i quali in alcuni casi venivano invitati a non partecipare a meeting con importanti clienti e decisioni strategiche nell'area di competenza.
Il Dirigente si giustificava sostenendo anzitutto la genericità della contestazione disciplinare.
Su tale punto, rigettando la doglianza, il giudice sosteneva non solo che la missiva constava di numerosi e dettagliati addebiti, ma che oltretutto le giustificazioni rese dallo stesso Dirigente – di oltre sei pagine con allegati 100 documenti – dimostravano che il diritto di difesa del Dirigente era stato adeguatamente esercitato.
Allo stesso modo, veniva rigettata l'eccezione di tardività di taluni addebiti mossi, risalenti ad oltre un anno prima della contestazione.
Sul punto, il Giudice rilevava che, per consolidata giurisprudenza, il requisito della tempestività della contestazione doveva essere valutato con riferimento all'adeguata conoscenza che il datore di lavoro abbia acquisito della infrazione disciplinare. Infatti "detta conoscenza può avvenire anche progressivamente, laddove la condotta del lavoratore consti in una serie di atti, poi convergenti in un unico comportamento che richiede una valutazione unitaria". Proprio alla luce di questo orientamento, il giudice rilevava come, nel caso concreto, talune delle condotte stigmatizzate risalissero a poche settimane prima della contestazione, mentre, con riferimento alle residue, la natura delle stesse rendeva "plausibile il fatto che l'azienda si sia determinata ad una valutazione unitaria dei comportamenti progressivamente pervenuti a sua conoscenza".
Il giudice riteneva infatti che, solo dopo la diffusione della riorganizzazione decisa dal Dirigente, molti altri dirigenti della Società avessero deciso di manifestare il proprio malcontento rispetto al comportamento complessivo del ricorrente, permettendo alla Società di effettuare le proprie valutazioni successivamente.
La Società irrogava il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, sottolineando l'irrilevanza del raggiungimento di significativi risultati economici, laddove tali risultati fossero stati ottenuti con modalità non adeguate, avendo il Dirigente riconosciuto di aver scavalcato altri dirigenti della società per asserite inefficienze. La Società rilevava infatti come principi ispiratori della propria cultura aziendale fossero il "perseguimento di obiettivi di squadra, il condividere idee, scelte, rispettare le gerarchie delineate nell'ambito della struttura organizzativa adottata dalla Società, e promuovere l'uguaglianza di trattamento dei collaboratori, ivi inclusa quella economica, a parità di meriti".
Orientamenti giurisprudenziali – Costituisce principio granitico della Suprema Corte quello secondo cui "la nozione di ‘giustificatezza' del licenziamento del dirigente, prevista da alcuni contratti collettivi ai fini del riconoscimento di un'indennità supplementare, non coincide con quella di ‘giusta causa' o ‘giustificato motivo' del licenziamento del lavoratore subordinato, ma è molto più ampia, e si estende sino a comprendere qualsiasi motivo di recesso che ne escluda l'arbitrarietà, con i limiti del rispetto dei principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, e del divieto di licenziamento discriminatorio. Di conseguenza fatti o condotte, che con riguardo al rapporto di lavoro in generale non integrano giusta causa o giustificato motivo, possono giustificare il licenziamento del dirigente con conseguente disconoscimento dell'indennità supplementare prevista dalla contrattazione collettiva (Cass. n. 775 del 17.1.2005; nello stesso senso: cfr. Cass. n. 14604 del 20.11.2001, Cass. n. 15749 dell'8.11.2002, Cass. n. 322 del 13.1.2003, Cass. n. 16263 del 19.8.2004, Cass. n. 7838 del 15.4.2005, Cass. n. 11691 dell'1.6.2005 e Cass. n. 21748 del 22.10.2010).
Più recentemente, la Corte ha ulteriormente argomentato che ai fini della giustificatezza del licenziamento dirigenziale "può rilevare qualsiasi motivo, purché apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore, nel cui ambito rientra l'ampiezza dei poteri attribuiti al dirigente, sicché maggiori poteri presuppongono una maggiore intensità della fiducia e uno spazio ampio ai fatti idonei a scuoterla" (Cass. n. 12204/2016; conformi n. 24941/2015; n. 2205/206 e altre).
In tema di onere della prova, la sussistenza di un'idonea giustificazione a base del licenziamento (con o senza preavviso) grava sempre sulla parte datoriale (cfr. Cass., Sez. L., Sentenza n. 16263/2004 cit.).
Nel caso del rapporto dirigenziale, la valutazione dei fatti idonea a compromettere la fiducia "va compiuta in modo più rigido e fermo che non nei confronti di qualsiasi altro dipendente per via dell'essenziale rapporto di fiducia di positiva valutazione del dirigente "imprenditore" con la conseguenza che " la giusta causa indicata dall'articolo 2119 c.c. risente, sia pure in misura più contenuta in quanto legata ad una definizione precisa dettata dall'esigenza di tener conto della maggiore gravità delle conseguenze, dell'investimento di fiducia fatto dal datore di lavoro con l'attribuire al dirigente compiti, di volta in volta strategici o comunque di impulso, direzione di orientamento della struttura organizzativa aziendale" (Trib. Milano n. 832/2013).
In tema di licenziamento del dirigente, infatti, "l'unica verifica demandata al giudice è l'esistenza di una ragionevole causa che dimostri l'impossibilità del perdurare del vincolo fiduciario di particolare intensità che deve caratterizzare il rapporto tra datore di lavoro e dirigente" (Cass. n. 2137/2011; conforme n. 15496/2008).
Conclusioni – Il comportamento posto in essere dal Dirigente è stato quindi giudicato come idoneo ad integrare l'ipotesi di un giustificato motivo soggettivo di licenziamento, a nulla rilevando gli ottimi e non contestati risultati aziendali conseguiti nel corso della propria carriera. La sentenza in commento, quindi, espande ancora le maglie del concetto di giustificatezza del licenziamento del Dirigente, andando a configurare tale ipotesi anche nello scenario di una corretta e proficua gestione dell'impresa sotto un profilo economico e della performance individuale, ma non accompagnata dall'instaurazione di un clima aziendale di correttezza e di rispetto di tutte le professionalità presenti, anche se non oggetto di particolare stima da parte del top manager, specie se in contrasto con i principi ispiratori aziendali.

Fonte: www.ilsole24ore.it/Giustificato il licenziamento del dirigente troppo autoritario

Rete nazionale ciclistica: novità in arrivo

E’ stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 31 gennaio 2018, n. 25, la legge n. 2/2018 relativa alle « Disposizioni per lo sviluppo della mobilità in bicicletta e la realizzazione della rete nazionale di percorribilità ciclistica».
Finalità ed obiettivi. La legge ha lo scopo di promuovere ed incentivare l’uso della bicicletta all’interno della vita quotidiana, sia come mezzo di trasporto ecosostenibile sia come mezzo per «ridurre gli effetti negativi della mobilità in relazione al consumo del suolo».
Il piano generale della mobilità ciclistica. Al fine di perseguire tali obiettivi, viene prevista l’adozione, entro 6 mesi dall’entrata in vigore della presente legge, di un Piano generale della mobilità ciclistica, il quale andrà ad integrare il Piano generale dei trasporti e della logistica.
Tale piano si riferirà ad un periodo di 3 anni ed individuerà non solo le ciclovie che andranno a costituire la Rete ciclabile nazionale «Bicitalia», ossia la rete infrastrutturale di livello nazionale integrata nel sistema della rete ciclabile transeuropea c.d. «EuroVelo», ma anche gli interventi e gli atti necessari per la realizzazione della rete, nonché la definizione del quadro delle risorse finanziarie.
I piani regionali. Le Regioni, nell’ambito delle proprie competenze, al fine di implementare e valorizzare il Piano generale dovranno predisporre ed aggiornare con cadenza triennale il Piano regionale della mobilità ciclistica.
Le modifiche al codice della strada. L’art. 9 della legge prevede inoltre alcune modifiche al codice della strada. In particolare, il nuovo art. 61, comma 1, lett. c), prevede che «Gli autobus da noleggio, da gran turismo e di linea possono essere dotati di strutture portasci, portabiciclette o portabagagli applicate a sbalzo posteriormente o, per le sole strutture portabiciclette, anche anteriormente» struttura che «può sporgere longitudinalmente dalla parte anteriore fino ad un massimo di 80 cm dalla sagoma propria del mezzo».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Rete nazionale ciclistica: novità in arrivo - La Stampa

Nascita indesiderata: risarcito anche il padre

In tema di responsabilità medica per erronea diagnosi e conseguente nascita indesiderata, il risarcimento dei danni derivanti dall’inadempimento delle struttura sanitaria spetta non solo alla madre, ma anche al padre, in quanto soggetto protetto dagli effetti negativi delle condotta del medico.
Il caso. Il Tribunale di Alessandria rigetta la domanda di un uomo volta ad ottenere, nei confronti di un’Azienda Ospedaliera, il risarcimento dei danni patiti a causa dell’erronea esecuzione di un intervento di raschiamento uterino, cui si era sottoposta la moglie al fine di interrompere la gestazione. La gravidanza si era quindi regolarmente conclusa con la nascita di una bambina, nascita dunque indesiderata perchè avvenuta contro la volontà dei genitori. Il Tribunale, con sentenza confermata anche dalla Corte d’Appello, non aveva ritenuto espressamente dimostrata la sicura volontà di abortire dei genitori.
Avverso la decisione di merito ricorre per cassazione il soccombente deducendo la sostanziale apparenza della motivazione dei Giudici di merito: la sentenza impugnata mancava «del tutto di argomentazioni logicamente comprensibili e giuridicamente idonee a sostenere la reiezione delle relative istanze», oltre a non essere state rispettate le norme per la ripartizione degli oneri probatori.
Motivazione illogica e apparente. La Suprema Corte accoglie i motivi di ricorso. In particolare, in applicazione dei consolidati principi in relazione alla necessaria motivazione, cui sono obbligati i giudici, ha rilevato che la domanda attorea è stata respinta senza alcuna plausibile motivazione. I Giudici di prime cure si sono infatti limitati a dedurre l’insufficienza di prove ed ad affermare, illogicamente, che la nascita della figlia fosse una riprova del fatto che la madre non avesse intenzione di fare ricorso ad una interruzione volontaria di gravidanza. Avrebbero invece dovuto osservare il seguente principio di diritto: «ricorre il vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza – che, in quanto tale, configura l’ipotesi di cui all’art. 360, n. 4 c.p.c. – allorquando il giudice di merito indichi elementi da cui ha trattato il proprio convincimento senza una benché minima, approfondita disamina logica e giuridica, ovvero quando li illustri attraverso espressioni tautologiche che rendono impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento, anche in relazione al corretto assolvimento degli oneri probatori rispetto ai quali la reiezione delle istanze istruttorie deve essere fondata su argomentazioni sintetiche ma esaustive».
Diritto al risarcimento del padre. La Cassazione poi, pronunciandosi sul caso di specie, afferma il seguente principio di diritto in tema di responsabilità medica per errata diagnosi sul feto e conseguente nascita indesiderata, disponendo che «il risarcimento dei danni che costituiscono immediata e diretta conseguenza dell’inadempimento della struttura sanitaria all’obbligazione di natura contrattuale spetta non solo alla madre, ma anche al padre, atteso il complesso di diritti e doveri che, secondo l’ordinamento, si incentrano sulla procreazione cosciente e responsabile, considerando che, agli effetti negativi delle condotta del medico ed alla responsabilità della struttura in cui egli opera, non può ritenersi estraneo il padre, il quale deve perciò, considerarsi tra i soggetti protetti e , quindi, tra coloro rispetto ai quali la prestazione mancata o inesatta è qualificabile come inadempimento, con il correlato diritto al risarcimento dei conseguenti danni, immediati e diretti, fra i quali deve ricomprendersi il pregiudizio di carattere patrimoniale derivante dai doveri di mantenimento dei genitori nei confronti dei figli».
La Suprema Corte accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte d’Appello di Torino in diversa composizione, che dovrà riesaminare la controversia attenendosi ai suddetti principi di diritto.

Fonte: www.ridare.it/Nascita indesiderata: risarcito anche il padre - La Stampa

giovedì 8 febbraio 2018

Telefonate indesiderate: multa da 840 mila euro per Telecom

E' costato 840 mila euro a Telecom l'avere contattato i propri abbonati con offerte promozionali senza prima avere acquisito il loro consenso.
E' questa la sanzione stabilita dal Garante della privacy a termine di un procedimento iniziato nel 2016 con il quale è stato dato atto che la compagnia telefonica abbia agito consapevolmente e non per mera negligenza.
Nello specifico viene contestato a Telecom di aver effettuato telefonate promozionali nei confronti di ex clienti nonostante questi ultimi non avessero mai dato il loro consenso a ricevere chiamate pubblicitarie o, sebbene lo avessero inizialmente prestato, l'avevano successivamente revocato.
Telecom non è nuova a condotte del genere: già nel 2007 il Garante aveva imposto alla compagnia telefonica di adeguarsi alle regole sulla privacy in materia di chiamate pubblicitarie, imponendo la necessità di acquisizione del previo consenso da parte del soggetto che si intendeva raggiungere con l'offerta promozionale.
La sanzione arriva a pochi giorni dalla messa in opera delle nuove regole sul telemarketing (ovvero la legge 5/2018), ed in particolare sul c.d. “registro delle opposizioni”, ovvero l'elenco dove è possibile inserire il proprio numero di telefono fisso o del cellulare per non essere contattati da chiamate pubblicitarie.

fonte: Telefonate indesiderate: multa da 840 mila euro per Telecom | Altalex

mercoledì 7 febbraio 2018

Coniuge privo di capacità lavorativa concreta ha diritto al mantenimento

Ai fini dell’attribuzione dell’assegno di mantenimento nella separazione, rileva solo la capacità lavorativa concreta del coniuge richiedente l’assegno. Il giudice deve tenere in considerazione di ogni fattore individuale e ambientale, e non basarsi su valutazioni astratte ed ipotetiche.
Il giudizio sull’adeguatezza dei redditi nella separazione, poiché ancora intatto il dovere di assistenza materiale, rimane ancorato al tenore di vita goduto dal coniuge durante il matrimonio.
Con ordinanza del 4 dicembre 2017 n. 28938, la Cassazione ribadisce la distinzione tra l’assegno di mantenimento nella separazione e l’assegno divorzile.
A determinare l’entità del mantenimento nel giudizio separativo è ancora il tenore di vita goduto dal coniuge durante il matrimonio.
La Corte d’appello di Bologna, in riforma della sentenza di primo grado, aveva disposto un aumento dell’assegno in favore della moglie (da 2000 a 2900 euro), accertando l’assenza di una capacità lavorativa, per la scelta condivisa di dedicarsi alla famiglia.
Dal raffronto delle due situazioni patrimoniali e reddituali era emerso che il marito era un professionista affermato e proprietario di numerosi immobili, mentre la moglie non aveva altre fonti di reddito se non l'assegno percepito dal coniuge e non disponeva di proprietà immobiliari.
Per la casa coniugale, inoltre, il solo canone di locazione ammontava a 1.800 euro mensili.
Con ricorso in Cassazione, il marito sostiene che la Corte territoriale non avrebbe applicato correttamente il principio secondo cui il contributo economico ex art. 156 c.c. deve essere ricondotto entro termini di ragionevolezza, equità ed equilibrio.
La moglie avrebbe ottenuto un contributo economico per il canone di locazione superiore alle sue effettive esigenze abitative.
I giudici d’appello non avrebbero inoltre considerato l’insufficienza del reddito del ricorrente rispetto agli ulteriori oneri imposti dalla sentenza impugnata.
Negli atti difensivi, il ricorrente aveva fatto rilevare, infine, che non era stata considerata la capacità lavorativa della moglie.
In merito a quest’ultimo motivo di censura la Cassazione ha ribadito il suo orientamento secondo cui l'attitudine del coniuge al lavoro rileva solo se si accerti la concreta possibilità di svolgimento di un'attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni fattore individuale ed ambientale, e non in base a valutazioni astratte e ipotetiche.
Nel caso di cui alla Cass. Civ. n. 789/2017, una donna, casalinga quarantenne, aveva inviato il proprio curriculum a diverse strutture alberghiere e in passato aveva lavorato gratuitamente presso il negozio del fratello, ma tali circostanze, non sono state valutate come prova della effettiva possibilità da parte della donna di ottenere una collocazione nel mondo del lavoro.
Quanto alla correttezza del parametro del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio in relazione alla commisurazione dell'assegno separativo, la Corte osserva, in linea con le recenti statuizioni, che la separazione personale, a differenza divorzio, presuppone la permanenza del vincolo coniugale.
Pertanto i "redditi adeguati" cui va rapportato, ai sensi dell'art. 156 c.c., l'assegno di mantenimento in favore del coniuge, in assenza della condizione impeditiva dell'addebito, sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
Nella separazione rimane intatto il dovere di assistenza materiale, dovere che si differenzia dalla solidarietà post coniugale, presupposto dell'assegno di divorzio (Crf. Cass. Civ. n. 12196 del 16/05/2017).

fonte: Coniuge privo di capacità lavorativa concreta ha diritto al mantenimento | Altalex

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