venerdì 12 giugno 2020

Reati contro la persona: no a scriminante su differenze culturali e religiose

Lo straniero imputato di delitto contro la persona non può invocare, neppure in forma putativa, la scriminante dell'esercizio di un diritto correlata a facoltà asseritamente riconosciute dall'ordinamento dello Stato di provenienza, qualora tale diritto debba ritenersi oggettivamente incompatibile con le regole dell'ordinamento italiano in cui l'agente ha scelto di vivere.

In questi termini si è espressa, con la sentenza 5 marzo 2020, n. 8986, la Terza Sezione Penale della Corte di cassazione rispetto all'invocazione, da parte del ricorrente, delle differenze culturali e religiose a giustificazione delle condotte contestategli in danno della convivente more uxorio; differenze, queste, di cui ha escluso la compatibilità con l'esigenza, propria del nostro ordinamento giuridico, di valorizzare la centralità della persona umana.

Il caso
Il ricorrente era stato condannato in giudizio abbreviato, con sentenza confermata in appello, per i reati di violenza sessuale, maltrattamenti in famiglia e lesioni aggravate in danno della convivente.
Con ricorso per cassazione aveva censurato la sentenza di condanna sotto un triplice profilo: per vizio di motivazione, per non aver valorizzato, ai fini del mancato riscontro alle dichiarazioni della persona offesa, l'assenza di documentazione sanitaria attestante la presenza di lesioni vaginali, oltre che per non aver riconosciuto la lieve entità del fatto, avuto riguardo alla occasioniltà delle condotte e all'incidenza della superiore età della vittima sul grado di coartazione della stessa; sempre per vizio di motivazione, per aver ritenuto relative ad elementi di dettaglio le discrasie rilevate nelle dichiarazioni testimoniali de relato; infine, per violazione di legge e, precipuamente, dell'art. 51 c.p., per non aver riconosciuto rilevanza scriminante, o comunque diminuente, alle particolari connotazioni culturali e religiose dell'imputato.
La sentenza
La pronuncia della Corte merita attenzione per le argomentazioni rese nel respingere tutti i motivi di legittimità proposti.
In particolare, nel ribadire, con riguardo al primo motivo, il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui le dichiarazioni della persona offesa possono ex se essere  poste a fondamento del decisum in assenza di riscontri, sempre che ne sia attentamente vagliata la credibilità soggettiva e oggettiva, la Corte ha escluso la necessità di trovare riscontro alle dichiarazioni della persona offesa in certificati medici attestanti lesioni vaginali; ciò, in quanto, rispetto ad un episodio, in cui la violanza sessuale era consistita nell'indurre la vittima a praticare un rapporto orale,  una lesione vaginale non avrebbe potuto neppure essere astrattamente ipotizzata; rispetto ad un altro episodio, invece, in cui il certificato attestava, non lesioni vaginali, ma lesioni al volto, ecchimosi e contusioni agli arti inferiori e superiori, la Corte ha ritenuto immune da censure la motivazione dei giudici di merito circa la riconosciuta compatibilità della stessa con la coartazione della volontà a scopo sessuale subita dalla vittima.
Altra chiosa di interesse nella sentenza in esame è quella resa sull'invocazione della diminuente del fatto di lieve entità: sul punto la Corte ha sottolineato come il riconoscimento della suddetta diminuente implichi una valutazione globale del fatto da cui emerga che la libertà sessuale della persona offesa sia stata compromessa in maniera non grave e che il danno arrecato alla stessa in termini psichici sia stato significativamente contenuto. La Corte ha concluso che nel caso al suo esame i giudici avevano fatto buon governo dei principi in materia perchè i due episodi di violenza erano stati vagliati nella loro globalità, nel contesto di condotte di abituali maltrattamenti.
Sul secondo motivo, dichiarato inammissibile per genericità, la Corte ha abdicato dall'apprezzamento delle doglianze dedotte per mancata riproduzione/allegazione delle dichiarazioni testimoniali censurate, in spregio al principio di autosufficienza del ricorso.
Particolarmente interessante risulta l'argomentazione resa sul terzo motivo e diretta ad escludere la valenza scriminante delle tradizioni culturali e religiose nella commissione di delitti contro la persona.
La Corte ha a riguardo richiamato il noto precedente costituito dalla sentenza 14960/2015 (Cassazione Penale, Sez. III, 13 aprile 2015, n. 14960): in tale pronuncia i giudici di legittimità avevano affrontato compiutamente l'argomento partendo dalla considerazione secondo cui, in una società multietnica quale quella moderna, non sia possibile scomporre l'ordinamento in tanti statuti individuali quante sono le etnie, non essendo compatibile con l'unicità dell'ordinamento giuridico la convivenza in un unico contesto civile di culture tra loro differenti; sulla base di tali premesse avevano individuato come unica soluzione civilmente e giuridicamente praticabile, perchè costituzionalmente orientata, quella di armonizzare i comportamenti individuali, rispondenti alla varietà delle culture, al principio unificatore della centralità della persona umana. Tanto, in linea con l'art. 3 della Costituzione che, in un unico contesto normativo, attribuisce a tutti i cittadini pari dignità sociale e posizione di eguaglianza davanti alla legge senza distinzione, fra l'altro, di religione.
In quest'ottica secondo la Suprema Corte, la sopravvivenza della società multietnica postula l'obbligo di chiunque di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano, non potendosi riconoscere una posizione di buona fede in chi, trasferitosi in un Paese diverso, con cultura e costumi diversi dai propri, presume di aver un diritto, non riconosciuto da nessuna norma di diritto internazionale, di proseguire in condotte che, seppur ritenute culturalmente accettabili nel Paese di provenienza, risultino oggettivamente incompatibili con le regole proprie  della compagine sociale in cui ha scelto di vivere.
Sulla scorta di tali argomentazioni, secondo cui non è configurabile una scriminante, anche solo putativa, fondata sull'esercizio di un presunto diritto, escluso in linea di principio dall'ordinamento, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso e condannato il ricorrente alle spese.
fonte:www.altalex.com

mercoledì 10 giugno 2020

Società di noleggio: è responsabile in solido per le multe del guidatore

La III Sezione civile della Corte di Cassazione, con la sentenza 26 maggio 2020, n. 9675 ha chiarito che, in riferimento alle multe prese dai guidatori dei veicoli noleggiati, la società è responsabile in solido.
Nella specie, i giudici di Piazza Cavour hanno rigettato il ricorso interposto da Avis, chiamata in causa dal Comune di Firenze, per pagare una cartella di Equitalia relativa alle infrazioni stradali.

I fatti
L’Avis Budget Italia aveva ricevuto, da parte di Equitalia e per conto del Comune di Firenze, una cartella di pagamento per violazioni stradali, poste in essere da guidatori di veicoli che la medesima Avis aveva concesso a noleggio, a breve o lungo termine.
La vicenda nei due gradi di merito
L’Avis ha asserito di non essere tenuta in solido coi conducenti, al pagamento della multa, poiché la solidarietà doveva casomai ravvisarsi tra questi ultimi ed il locatario del veicolo, qualora non vi fosse corrispondenza tra i due. Il Giudice di Pace respingeva tale tesi sostenendo che l’art. 196 C.d.S., in ipotesi di noleggio, aggiunge al conducente ed al proprietario, anche il locatario del veicolo, e non già sostituisce quest’ultimo a quello.
Il Tribunale, in appello, concordava col giudice di primo grado, in più ritenendo conforme alla ratio dell’art. 196 C.d.S., la tesi della responsabilità solidale del proprietario in aggiunta a locatario e conducente, anche sulla base della circostanza che le ipotesi ove detta solidarietà risulta esclusa sono tassative, e che in caso di noleggio sussiste una grande variabilità degli individui che godono della disponibilità del veicolo.
L’Avis contesta ratio siffatta, formulando due motivi di ricorso presso la Cassazione, e al contrario sostenendo la tesi della responsabilità solidale del solo locatario e del conducente, come pure dell’omessa considerazione, da parte del giudice, della circostanza che, appena ricevuta la notifica dei verbali di accertamento, aveva provveduto a comunicare i nominativi dei locatari dei veicoli coinvolti.
La responsabilità di locatario e conducente
La Corte, nel rigettare il ricorso, rammenta che l’art. 196 C.d.S., nel ritenere il locatario responsabile in solido col conducente, non lo sostituisce al proprietario, bensì lo aggiunge a quello (Cass. 1845/2018). La ratio di tale interpretazione è di rendere più agevole la posizione dell’amministrazione che contesta la violazione, in quanto in ipotesi di noleggio “il rapporto di locazione riguarda solo il locatore ed il locatario ed il nominativo di quest’ultimo è noto solo al locatore” (Cass. 1845/2018 e Cass. 18988/2015).
La ratio dell’art. 196 C.d.S.
Per i giudici di legittimità la norma in esame intende garantire, tramite la titolarità di un diritto accertabile, la possibilità di ottenere il pagamento della sanzione: nel caso della locazione del veicolo senza conducente, il rapporto di locazione riguarda solo il locatore e il locatario e il nominativo di quest’ultimo è conosciuto al solo locatore. Di qui, la ragione della mancata equiparazione del locatore alle ipotesi su indicate, così che è irrilevante che, di fatto, la società abbia o meno comunicato i nominativi dei guidatori (dei locatari), poiché la norma istituisce come responsabile solidale il proprietario, e ciò legittima la pretesa del Comune nei confronti di quest’ultimo.

lunedì 1 giugno 2020

Confermata la condanna di un parcheggiatore abusivo per tentata estorsione

“O mi paghi o sposti la macchina!”. L’ultimatum all’automobilista – che coraggiosamente si rifiuta di pagare e lascia lì la vettura in sosta – può valere una condanna per il parcheggiatore abusivo, ritenuto responsabile di una tentata estorsione in piena regola (Corte di Cassazione, sentenza n. 16030/20, depositata il 27 maggio).

Scenario della vicenda è l’aeroporto di Catania. Lì una donna lascia regolarmente in sosta, come già in passato, la propria auto, rifiutando di dare qualche moneta al parcheggiatore abusivo. Quest’ultimo la prende malissimo, ribadisce con forza la richiesta di denaro e proponendo alla donna una sola alternativa: spostare l’automobile e consentirgli di far parcheggiare qualcheduno disposto a pagare.
Per i giudici di primo grado la condotta tenuta dall’uomo è inequivocabile e vale una condanna. Per i giudici di secondo grado, invece, i fatti vanno ridimensionati, e il parcheggiatore abusivo va punito con soli tre mesi di reclusione per tentata violenza privata. Ciò perché egli ha solo cercato di «ottenere lo spostamento dell’auto senza alcun ingiusto profitto».
A contestare la lettura data in Appello provvede la Procura, chiedendo di qualificare il comportamento tenuto dal parcheggiatore abusivo coma una tentata estorsione.
Per la Procura l’atteggiamento tenuto nei confronti dell’automobilista è inequivocabile: l’uomo ha rivolto alla donna, che aveva appena piazzato in sosta la propria vettura, «offesa precise, minacce dirette ad ottenere un ingiusto profitto, sia esso costituito dal pagamento dell’obolo ovvero dallo spostamento del mezzo in altra sede al fine di permettere il parcheggio ad altri per così ricavarne analoghi guadagni illeciti».
La visione proposta dalla Procura convince i Giudici della Cassazione. Questi ultimi in premessa ricordano che è «estorsione pretendere, con violenza o minaccia, il pagamento di un compenso per l’attività di parcheggiatore abusivo», e ciò perché «ove alla richiesta del pagamento di somme si accompagni anche la rappresentazione di un male futuro alle cose od alla persona, la pretesa è illegittima, trattandosi di posteggiatore non autorizzato, ma anche portata con gli illeciti mezzi della violenza e della minaccia».
Ebbene, in questo caso è acclarato che «la richiesta del parcheggiatore abusivo veniva formulata in relazione all’ingiusto profitto costituito dal lucrare un compenso non dovuto dalla commercializzazione di quel posto auto». E difatti anche in Appello, osservano i giudici della Cassazione, si è riconosciuto che il parcheggiatore abusivo «agiva perché spinto dalla volontà di lucrare vantaggi ingiusti tuttavia», con l’aggiunta, però, di un dettaglio fondamentale per i giudici di secondo grado, e cioè che «la richiesta formulata all’indirizzo della donna era destinata a non trovare riposta positiva per l’atteggiamento di resistenza della vittima che aveva anche in passato negato il pagamento richiesto in occasione di precedenti parcheggi in quell’area».
Questa circostanza, però, precisano i magistrati della Cassazione, non consente di ipotizzare il reato di tentata violenza privata, poiché l’uomo ha comunque agito «al fine di realizzare vantaggi patrimoniali dalla occupazione del posto, non ottenuti per ragioni indipendenti dalla sua condotta». Di conseguenza, deve parlarsi di «estorsione tentata, essendo stati compiuti atti diretti ad ottenere un ingiusto vantaggio patrimoniale cui non seguiva il danno ingiusto a causa della condotta oppositiva della persona offesa».
Erronea, quindi, la valutazione compiuta in Appello, laddove si è ritenuto che «l’uomo mirasse soltanto ad ottenere lo spostamento dell’auto senza alcun ingiusto profitto», mentre invece, osservano i giudici della Cassazione, «egli, stabilmente dedito all’attività di parcheggiatore abusivo nella zona aeroportuale di Catania, agiva al fine di lucrare da quel preciso posto auto del parcheggio il versamento di somme a lui non dovute, sicché la rappresentazione di eventi anche nefasti all’indirizzo della vittima e della sua autovettura integra certamente la minaccia costitutiva del delitto di estorsione in quanto rappresentata al fine di ottenere vantaggi economici assolutamente non dovuti».
Questa lettura rende più delicata la posizione dell’uomo, che dovrà subire un nuovo processo d’Appello, affrontando la più grave accusa di «tentata estorsione» ai danni dell’automobilista.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it 

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