sabato 27 aprile 2019

Cassazione: chi accetta assegni scoperti non può rivalersi sulle banche

L’imprenditore che acconsente a ricevere plurimi pagamenti, dalla medesima persona, con assegni privi di copertura e senza protestarli non può accollare né alla banca di cui è correntista né alla banca trattataria la responsabilità per il conseguente fallimento e i danni extracontrattuali. La Corte di cassazione civile con una sentenza di oggi (n. 10814) ha così definitivamente chiuso la vicenda di un imprenditore che aveva portato all’incasso alcuni assegni scoperti emessi da un proprio debitore e di cui aveva però ottenuto, in più occasioni, l’immediato pagamento da parte della propria banca. Successivamente a tale «trattamento di favore» la banca di cui era correntista aveva ottenuto un’ingiunzione di pagamento per le cifre erogate, ma rimaste scoperte, e oltre, con relativa iscrizione di ipoteca sui beni societari e personali. Il beneficiario degli assegni scoperti lamentava danni non solo economici, ma anche reputazionali, e chiamava in causa entrambi gli istituti bancari coinvolti nella vicenda in quanto la prassi da loro seguita e la mancanza di preventive comunicazioni a cui entrambi sarebbero stati obbligati verso il creditore degli assegni, ne avrebbero determinato il dissesto.
Il ricorrente lamentava condotte illecite da parte delle due direzioni bancarie nell’attività di negoziazione dei titoli. Dai passaggi in cui la vicenda viene riportata nella sentenza di Cassazione, si evince che la banca del beneficiario avrebbe concesso l’immediata disponibilità delle somme senza verificare che i titoli fossero coperti. E che una volta risultati scoperti l’imprenditore, al fine di mantenere buoni rapporti con chi li aveva emessi, aveva deciso di rinnovarli e proseguire le loro relazioni commerciali, da cui derivarono successivi pagamenti sempre tramite assegni da parte del medesimo debitore e anche questi riscossi immediatamente.
Inoltre, il ricorrente additava il direttore della banca trattataria per non avergli fatto alcuna comunicazione - entro i 7 giorni - del mancato pagamento degli assegni, ma avendo al contrario proceduto alla restituzione alla propria banca degli assegni insoluti e non protestati, una volta decorsi 45 giorni dal primo titolo impagato. La banca trattataria, dal canto suo, riteneva che la responsabilità per i danni derivanti dalla scopertura dei titoli di pagamento fosse da ascrivere unicamente alle condotte dell’imprenditore stesso e della sua banca.

fonte: www.lastampa.it

La casa familiare va assegnata al coniuge economicamente più debole

Ai fini dell’assegnazione della casa familiare, il giudice deve valutare le condizioni economiche dei coniugi e favorire il coniuge più debole. Così il Tribunale di Macerata con sentenza del 31 ottobre 2018.
Il caso. In sede di separazione giudiziale, il marito chiedeva l’assegnazione della casa familiare di sua proprietà, con la perpetuazione della convivenza presso di sé della figlia maggiorenne. L’ex moglie si costituiva in giudizio chiedendo anch’ella l’assegnazione della casa familiare.
A chi spetta l’assegnazione della casa familiare? Dopo aver effettuato una ricognizione normativa in merito a chi debba essere assegnata la casa familiare, il Tribunale di Macerata dispone la revoca dell’assegnazione della casa familiare alla ex moglie, in quanto l’interesse della figlia, studentessa universitaria che ha già conseguito la laurea triennale, a continuare a vivere nella casa familiare è integralmente tutelato dalla volontà dichiarata del padre (proprietario esclusivo) con cui ha sempre convissuto in quella casa di continuare a vivere lì con lui.
Osservano, peraltro, i giudici che non sussistono gravi ragioni oggettive che impediscono il protrarsi della convivenza tra padre e figlia, nonostante la donna abbia dedotto nella memoria difensiva il rapporto fortemente conflittuale tra i due, peraltro seccamente smentito dalla figlia stessa.
Il Tribunale ritiene che, ai fini dell’assegnazione della casa, il giudice deve valutare le condizioni economiche dei coniugi e favorire il coniuge più debole, che nel caso in esame è proprio l’ex marito.

Fonte: www.ilfamiliarista.it

L'aereo in ritardo di tre ore risarcisce i passeggeri se ha non provato in tutti modi a limitare i danni

Un vettore aereo è tenuto a versare una compensazione pecuniaria ai passeggeri per un ritardo di durata pari o superiore a tre ore in caso di danneggiamento di uno pneumatico dell'aeromobile dovuto alla presenza di una vite sulla pista di decollo o di atterraggio soltanto qualora non si sia avvalso di tutti i mezzi di cui dispone per limitare il ritardo del volo. Lo ha precisato la Cgue con la sentenza 4 aprile 2019 causa C-501/17.
Il caso – La controversia vede contrapposti un passeggero e il vettore aereo Germanwings in merito a una richiesta di compensazione pecuniaria per il ritardo subìto in occasione di un volo operato da quest'ultimo.
Un signore ha prenotato, con Germanwings, un volo con partenza da Dublino (Irlanda) e destinazione Düsseldorf (Germania). Detto volo è stato effettuato con un ritardo all'arrivo di tre ore e ventotto minuti.
Germanwings ha respinto la richiesta di compensazione pecuniaria con la motivazione che il ritardo del volo in questione era dovuto al danneggiamento di uno pneumatico dell'aeromobile causato dalla presenza di una vite sulla pista di decollo o di atterraggio, circostanza questa che doveva essere qualificata come eccezionale ai sensi del regolamento dell'Unione sui diritti dei passeggeri e che la esonerava dal suo obbligo di compensazione pecuniaria previsto dal medesimo regolamento.
Il Landgericht Köln (Tribunale del Land, Colonia, Germania), investito della controversia, ha deciso di sottoporre alla Corte di giustizia una questione pregiudiziale al fine di stabilire se il danneggiamento di uno pneumatico dell'aeromobile dovuto alla presenza di una vite sulla pista di decollo o di atterraggio (danno causato da un corpo estraneo) costituisca effettivamente una circostanza eccezionale.
La decisione - La Corte dichiara che il vettore aereo non è obbligato a pagare una compensazione pecuniaria ai passeggeri se può dimostrare che la cancellazione o il ritardo del volo di durata pari o superiore a tre ore all'arrivo sono dovuti a circostanze eccezionali che non si sarebbero comunque potute evitare anche se fossero state adottate tutte le misure del caso e, qualora si verifichi una circostanza del genere, se può dimostrare di aver adottato le misure adeguate alla situazione avvalendosi di tutti i mezzi di cui disponeva, in termini di personale, di materiale e di risorse finanziarie, al fine di evitare che detta situazione comportasse la cancellazione o il ritardo prolungato del volo in questione, senza che si possa pretendere tuttavia che questi acconsenta a sacrifici insopportabili alla luce delle capacità della sua impresa nel momento preso in considerazione.
Così, ricorda la Corte, possono essere qualificati come circostanze eccezionali, ai sensi del regolamento sui diritti dei passeggeri aerei, gli eventi che, per la loro natura o per la loro origine, non siano inerenti al normale esercizio dell'attività del vettore aereo in questione e sfuggano all'effettivo controllo di quest'ultimo.
La Corte ritiene che, sebbene i vettori aerei si trovino spesso a far fronte al danneggiamento degli pneumatici dei loro aeromobili, il guasto di uno pneumatico causato esclusivamente dalla collisione con un oggetto estraneo presente sulla pista dell'aeroporto non possa essere considerato come inerente, per la sua natura o per la sua origine, al normale esercizio dell'attività del vettore aereo interessato. Inoltre, detta circostanza sfugge al suo effettivo controllo. Essa costituisce, dunque, una circostanza eccezionale ai sensi del regolamento sui diritti dei passeggeri aerei.
Tuttavia, per essere esonerato dal suo obbligo di compensazione ai sensi del regolamento sui diritti dei passeggeri, il vettore aereo ha altresì l'onere di dimostrare di essersi avvalso di tutti i mezzi di cui disponeva, in termini di personale, di materiale e di risorse finanziarie, al fine di evitare che la sostituzione dello pneumatico danneggiato da un oggetto estraneo presente sulla pista di un aeroporto comportasse il ritardo prolungato del volo in questione. A questo proposito e, più in particolare, riguardo al danneggiamento degli pneumatici, la Corte osserva che i vettori aerei, in tutti gli aeroporti da essi serviti, possono disporre di contratti per la sostituzione di pneumatici che garantiscono loro un trattamento prioritario.

venerdì 12 aprile 2019

Gli sposi cambiano idea sulla location: va risarcito il titolare

Confermato il diritto del proprietario di una villa utilizzata come location per ricevimenti di nozze a ottenere il pagamento dai promessi sposi. Legittima, e non vessatoria, la clausola che nel contratto di banqueting vincolava il diritto di recesso dei clienti al versamento di un corrispettivo in denaro.
Costa cara ai promessi sposi la decisione di non effettuare più il banchetto di nozze nella villa scelta in prima battuta. Legittimo, sia chiaro, il recesso da loro esercitato, ma sacrosanto anche il loro obbligo di “risarcire” il titolare della struttura, così come previsto nel contratto di banqueting. Impossibile, spiegano i giudici, parlare di clausola vessatoria (Cassazione Civile, ordinanza n. 9937/19).
Recesso. A dar ragione al titolare della villa, posizionata in Abruzzo e utilizzata come location per matrimoni, sono sia i giudici del Tribunale che quelli della Corte d’Appello. Preso atto del recesso esercitato dai promessi sposi, è legittima la richiesta dell’imprenditore di ottenere il pagamento di una penale, come da regolare «contratto di banqueting».
Per i Giudici, in sostanza, non si può parlare di «clausola vessatoria», né si può ipotizzare che la cifra da pagare in caso di recesso, prevista nell’accordo tra sposi e ristoratore, possa essere letta come «espressione di un significativo squilibrio contrattuale», anche perché «si tratta, in ogni caso, di una condizione regolata ad esito di una trattativa individuale».
Clausola. Identica linea di pensiero adotta anche la Cassazione, respingendo il ricorso proposto dai due promessi sposi e sancendo in via definitiva il diritto del titolare della villa ad essere tenuto indenne a fronte del recesso esercitato dai clienti.
Nessun dubbio, in sostanza, sul valore della clausola messa nero su bianco nel contratto di banqueting. Essa è assolutamente legittima, poiché costituisce «una consensuale previsione (ad esito di una puntuale trattativa condotta dalle parti) di una specifica facoltà assicurata al cliente (quella di recedere dal contratto già concluso) dietro pagamento di un corrispettivo, variamente determinato in funzione dell’epoca dell’eventuale recesso», osservano i Giudici.
Impossibile, invece, parlare di «clausola penale» o di «forma di coazione unilaterale all’adempimento, eventualmente foriera di possibili squilibri nei diritti e negli obblighi delle parti».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it

Rottamazione delle liti pendenti, la circolare dell'Entrate scioglie le questioni dubbie

Con la Circolare n. 6 pubblicata lo scorso 1° aprile l'Agenzia delle Entrare ha fatto luce sui principali dubbi interpretativi relativi alla definizione agevolata delle liti tributarie evidenziati dagli addetti ai lavori all'indomani della conversione del Dl n. 119/2018. Alle preziose risposte fornite fanno da contraltare, tuttavia, questioni ancora irrisolte.
Normativa di riferimento - L'articolo 6 del Dl n. 119/2018 consente la rottamazione delle controversie tributarie pendenti alla data del 24 ottobre 2018 con il pagamento, anche rateale, di un importo compreso tra valore integrale della lite ed il 5% dello stesso. In particolare, in funzione del grado e dell'esito intermedio del giudizio alla predetta data, la norma dispone la riduzione quantum da versare (tributo al netto di sanzioni e interessi) al: a) 90%, nel caso in cui il ricorso risulti iscritto a ruolo ma la Commissione tributaria provinciale non abbia emesso alcuna pronuncia; b) 40%, qualora la Commissione tributaria provinciale abbia depositato una sentenza favorevole al ricorrente; c) 15%, nel caso in cui la sentenza favorevole al contribuente sia stata depositata dalla Commissione tributaria regionale. Disciplina ad hoc è stata, poi, predisposta per la definizione delle liti relative, esclusivamente, a sanzioni non collegate al tributo, definibili dal contribuente con il pagamento del 40% del valore della lite (corrispondente all'importo delle sanzioni) ovvero, in ipotesi di soccombenza dell'Amministrazione nell'ultima o unica pronuncia giurisdizionale, del 15%. Il Legislatore ha completato la regolamentazione della procedura con l'introduzione, in sede di conversione, dei commi 2-bise 2-ter con i quali, da un lato, ha delineato la disciplina applicabile ai casi di soccombenza ripartita e, dall'altro, ha previsto la rottamazione dei giudizi pendenti in Cassazione alla data del 19 dicembre 2018, in caso in ipotesi di soccombenza dell'Amministrazione finanziaria in entrambi i gradi di merito, con pagamento del solo 5 per cento del valore di lite.
La Circolare n. 6/2019 - Nonostante le indicazioni rese da Telefisco 2019, i dubbi rimasti irrisolti avevano spinto gli addetti ai lavori a temporeggiare prima di dare avvio alla procedura, in attesa dei chiarimenti ufficiali dell'Agenzia delle Entrate. Con la pubblicazione, lo scorso 1° aprile, della Circolare n. 6, le auspicate indicazioni operative sono arrivate, ponendo fine a tutti o quasi i dubbi interpretativi.
Pendenza della lite - Riprendendo il dettato normativo l'Agenzia delle Entrate ha confermato che si considerano pendenti alla data di entrata in vigore del decreto i giudizi instaurati con ricorso notificato entro il 24 ottobre 2018, precisando che l'avvenuto deposito dello stesso, alla predetta data, rileva esclusivamente ai fini della riduzione al 90% del quantum da versare. L'Agenzia delle Entrate, inoltre, ha inoltre espressamente ammesso alla definizione anche liti instaurate mediante ricorsi affetti da vizi di inammissibilità. Da ultimo, è stato confermato che per l'accesso alla procedura è essenziale che alla data di presentazione della relativa istanza non sia intervenuta una sentenza definitiva.
Atti oggetto delle liti definibili - Dopo aver precisato che la procedura riguarda, esclusivamente, le liti "aventi ad oggetto atti impositivi", il documento di prassi si è soffermato sui procedimenti esclusi. Ferma restando l'esclusione delle liti relative a provvedimenti di dinieghi espresso o tacito (di rimborsi, agevolazioni o relativi a precedenti definizioni), a tasse automobilistiche, a contributi previdenziali ed a sanzioni per omesso o tardivo pagamento, in relazione alle controversie aventi ad oggetto ruoli derivanti da controlli formali e avvisi di liquidazione la Circolare ha chiarito che occorre avere riguardo alla natura sostanziale dell'atto, a prescindere dal "nomen iuris". Conseguentemente, assodata l'esclusione delle liti su atti e ruoli aventi contenuto meramente liquidatorio, le stesse rientrano nella procedura qualora dal controllo formale siano derivate riduzioni o esclusioni di deduzioni o detrazioni non spettanti ovvero qualora con l'avviso di liquidazione dell'imposta di registro sia stata fatta valere, per la prima volta, una pretesa fiscale maggiore di quella applicata in sede di registrazione. Analogamente, con riferimento alle cartelle di pagamento, se da un lato devono escludersi dal perimetro della definizione le liti relative a cartelle precedute da avvisi di accertamento regolarmente notificati, dall'altro sono certamente definibili sia quelle concernenti cartelle non precedute da atti impositivi presupposti, sia quelle nelle quali sia stata rilevata l'illegittimità della notifica del prodromico atto impositivo. Escluse, inoltre, le liti relative a controversie concernenti, anche solo in parte, risorse proprie tradizionali dell'Unione europea, IVA riscossa all'importazione e aiuti di Stato.
Soccombenza reciproca - La Circolare ha, altresì, reso chiarimenti sulla disciplina applicabile in caso di soccombenza reciproca. Considerato che il comma 2-bis dell'articolo 6 si limita a prevedere il pagamento ridotto sulla parte della lite favorevole al contribuente ed il pagamento integrale sul residuo, era sorto più di un dubbio su come comportarsi qualora, alla data 24 ottobre 2018, alcune statuizioni della Commissione tributaria fossero già passate in giudicato. Il caso è quello in cui, alla data del 24 ottobre, il contribuente abbia proposto appello ma risultino spirati i termini per l'interposizione di appello incidentale da parte dell'Ufficio avverso la parte della sentenza favorevole al contribuente. Sul punto la Circolare ha confermato «ai fini della determinazione dell'effettivo valore della controversia, vanno esclusi gli importi di cui all'atto impugnato che eventualmente non formano oggetto della materia del contendere, come avviene, in caso di contestazione parziale dell'atto impugnato, di formazione di un giudicato interno, di conciliazione o mediazione perfezionate che non abbiano definito per intero la lite ovvero in caso di parziale annullamento dell'atto a seguito di esercizio del potere di autotutela».
Questioni irrisolte - Secondo quanto chiarito dalla circolare restano esclusi dalla definizione i soli rapporti definiti da sentenza definitiva alla data del 24 ottobre 2018 in quanto, in relazione a quelli pendenti alla medesima data, per evitare il deposito di una sentenza di cassazione senza rinvio prima della presentazione della domanda di definizione, il contribuente potrebbe chiedere la sospensione del giudizio alla Corte di Cassazione, ai sensi del comma 10 dell'articolo 6. Sul punto, non si può fare a meno di evidenziare che tale ultima possibilità resta preclusa in tutti i casi in cui la sentenza senza rinvio sia stata depositata a fronte di udienze tenutesi precedentemente al 24 di ottobre. Si pensi, per esempio, al deposito di una sentenza di cassazione senza rinvio intervenuto il 10 dicembre a fronte di una discussione del 1° ottobre. In tale scenario, la norma presta il fianco a potenziali profili di illegittimità costituzionale – per contrasto con gli articoli 3 e 111 della Costituzione - considerando che il contribuente interessato, da un lato, non avrebbe potuto chiedere la sospensione del processo e, dall'altro, in mancanza del Modello di definizione (approvato solo il 18 febbraio), pur avendone diritto, non avrebbe potuto dare avvio alla procedura in questione.
Non lineare, inoltre, appare l'assunto con cui l'Agenzia delle Entrate, dopo avere espressamente ammesso alla definizione anche liti instaurate mediante ricorsi affetti da vizi di inammissibilità in quanto proposti oltre i termini prescritti dalla legge, ha richiamato, in nota, un orientamento della Corte di Cassazione con cui la stessa era stata esclusa in ipotesi di evidente "abuso del processo" (sentenza 22 gennaio 2014, n. 1271).

giovedì 11 aprile 2019

Cassazione: in caso di stupro l’aspetto della vittima è irrilevante. Assoluzione annullata

«L’aspetto fisico di una donna che si dichiara vittima di stupro è del tutto «irrilevante» e si tratta di un «elemento non decisivo» per valutare la credibilità sua e dei suoi aggressori. Lo sottolinea la Cassazione nelle motivazioni depositate oggi dell’annullamento con rinvio delle assoluzioni dei due giovani sudamericani accusati di aver violentato una ragazza peruviana a Senigallia quattro anni fa.
Ad assolverli era stata la Corte di Appello di Ancona nel novembre del 2017 con un verdetto che ha fatto scalpore e in cui si faceva riferimento anche alla «mascolinita’» della ragazza per dare credito alla versione assolutoria dei due imputati e, al contrario, minare la credibilità della vittima.
In particolare, la Corte d’appello di Ancona (composta in quel caso da tre donne), aveva stabilito che «non è possibile escludere che sia stata proprio» la giovane - definita in un passaggio la «scaltra peruviana» - «a organizzare la nottata `goliardica´, trovando una scusa con la madre, bevendo al pari degli altri, per poi iniziare a provocare» uno dei due imputati «(al quale la ragazza neppure piaceva, tanto da averne registrato il numero di cellulare sul proprio telefonino con il nominativo `Vikingo´ ... con allusione ad una personalità tutt’altro che femminile, quanto piuttosto mascolina, che la fotografia presente nel fascicolo processuale appare confermare)».
Secondo la Cassazione, però, la ricostruzione della vicenda fatta dai giudici d’appello «si basa fondamentalmente sulla incondizionata accettazione del narrato degli imputati», i quali avevano sostenuto la consensualita’ del rapporto. Una versione, prosegue la Suprema Corte, «che viene ritenuta riscontrata sul piano obiettivo da elementi non decisivi» e «irrilevanti in quanto eccentrici rispetto al dato di comune esperienza rispetto alla tipologia dei reati in questione, come l’aspetto della vittima». Secondo gli ermellini, inoltre, i giudici di merito non hanno svolto alcun «serio raffronto critico» con il verdetto di condanna emesso in primo grado: senza il necessario «supporto probatorio» le dichiarazioni dei due imputati sul consenso al rapporto sessuale sono state prese per buone a fronte della brutalità del rapporto in seguito al quale la ragazza si è dovuta sottoporre a intervento chirurgico e trasfusione.
La denuncia per lo stupro risale al marzo del 2015 quando la ventiduenne peruviana si presenta in ospedale con la madre dicendo di avere subito una violenza sessuale in un parco ad Ancona da parte di un coetaneo, mentre un amico di lui faceva da palo. Per loro, il 6 luglio 2016 il tribunale decreta una condanna a 5 e 3 anni, con l’accusa di aver violentato la giovane dopo averle somministrato un mix di alcol e droga. In appello la situazione si ribalta: il 23 novembre 2017 i due imputati vengono assolti e la ricostruzione della ragazza viene ritenuta non credibile. Lo scorso 5 marzo, poi, la Cassazione annulla la sentenza, ritenendo fondati i ricorsi della procura generale e della vittima, disponendo un nuovo processo d’appello a Perugia.

fonte: www.lastampa.it

Svolta sull’utero in affitto “La madre adottiva va sempre riconosciuta”

Utero in affitto, da Strasburgo un’importante apertura. Non è una sentenza vincolante per gli Stati membri, solo un parere su un caso specifico, ma il concetto espresso dai giudici della Corte europea dei Diritti umani è chiaro ed è stato preso all’unanimità dai 17 componenti del Tribunale europeo. Nell’interesse del minore, scrivono i giudici nel loro parere chiesto dalla Cassazione francese, gli Stati devono riconoscere legalmente il legame genitore-figlio con la madre intenzionale, cioè quella non biologica, indicata come «madre legale» secondo la legislazione di alcuni Paesi. Non farlo, potrebbe avere un impatto negativo sul diritto del minore. Se la legislazione del Paese europeo non consentisse il riconoscimento diretto, la corte di Strasburgo suggerisce altre vie come l’adozione.
All’origine del pronunciamento dei giudici di Strasburgo un caso che sta ancora impegnando la magistratura francese. Si tratta di una coppia di coniugi che ha chiesto di essere registrata come genitori di due bambini nati con la gestazione surrogata portata avanti da un’altra donna in California. Lo Stato francese fino ad ora ha regolarizzato solo il padre, in quanto genitore biologico. Ma non sua moglie, madre committente di fatto, ma senza alcun legame biologico coi bambini. Di fronte alla mancata registrazione i coniugi si erano rivolti alla magistratura. Fino alla Corte di Cassazione che ha investito i giudici di Strasburgo che si sono avvalsi per la prima volta dell’istituto dell’opinione non vincolante.
Malgrado non ci siano ricadute di legge il dibattito è aperto in Italia. Soprattutto a pochi giorni dal Congresso mondiale delle famiglie di Verona. Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia, è tranchant: «Decisione abominevole. Per noi rimane reato universale». Stesse parole dagli organizzatori del Congresso di Verona: «Ci batteremo per impedire l’assimilazione giuridica di questo provvedimento anche se non è vincolante. È un invito a sfruttare all’estero l’utero di povere donne». Soddisfatto invece l’avvocato trentino Alexander Schuster, uno dei massimi esperti in diritti civili: «Il pronunciamento è positivo. Giusto equilibrio dalla Corte».

fonte: www.lastampa.it

sabato 6 aprile 2019

Sciopero dei penalisti dall'8 al 10 maggio contro le riforme populiste

Eliminazione dell’abbreviato per i reati da ergastolo, disciplina della legittima difesa connotata da finalità esclusivamente propagandistiche, drammaticità della violenza di genere senza nessuna altra risposta che l’inasprimento ossessivo delle pene fino alla idea barbarica della castrazione chimica, “spazzacorrotti” e irresponsabile mancata previsione di una normativa intertemporale per la sospensione della esecuzione delle pene comprese entro i quattro anni per i reati commessi prima dell’entrata in vigore della nuova legge, “decreto sicurezza” quale strumento di acutizzazione di contraddizioni sociali, condizione del carcere che ha raggiunto nuovamente allarmanti livelli di drammaticità, sostanziale abolizione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado quale vulnus intollerabile nel nostro sistema penale. L’UCPI, considerato che non sia più procrastinabile la esigenza di dare nel paese un forte segnale di allarme per questa sconsiderata, ossessiva gara alla promulgazione di norme sempre più eclatantemente connotate da una idea iperbolica e simbolica del più cupo e cinico populismo giustizialista, delibera l’astensione delle udienze per i giorni 8, 9 e 10 maggio. Convoca per il giorno 8 maggio una conferenza stampa in Roma per illustrare le ragioni dell'iniziativa e le specifiche critiche alle leggi esaminate. Invita le camere penali territoriali ad organizzare nella giornata del 9 maggio iniziative locali di approfondimento delle ragioni dell'astensione. Sollecita la partecipazione di tutti gli avvocati, magistrati, cittadini e studiosi alle giornate di presentazione del Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo, del 10 e 11 maggio in Milano.

fonte: www.camerepenali.it

giovedì 4 aprile 2019

Cassazione: è lecito fermarsi in corsia d’emergenza per i bisogni fisiologici

Nel 2013 sul Grande Raccordo Anulare di Roma avviene un incidente un po' particolare. Un taxi si ferma sulla corsia di emergenza, il guidatore scende, espleta un bisogno fisiologico e poi torna alla macchina per risalire. Proprio in questo momento sopraggiunge una motocicletta che lo urta. Il motociclista viene sbalzato via e perde la vita a causa dell'impatto. A questo punto inizia un iter giudiziario, con l'automobilista indagato per omicidio colposo. Nel 2017 la corte d’appello di Roma conferma la decisione del Giudice per l’udienza preliminare, assolvendo il guidatore dell'auto perché il fatto non costituisce reato. I parenti della vittima, però, presentano ricorso in Cassazione, perché secondo loro nella sentenza non è stato valutato un fatto rilevante, cioè che il tassista aveva fatto una telefonata prima di occuparsi dei propri bisogni.
Inoltre, questi non aveva acceso le luci di emergenza, né indossato il giubbotto catarifrangente. Infine secondo i portatori del ricorso, l'esigenza urinaria non poteva essere qualificata come un malessere, visto che l'automobilista non soffriva di incontinenza cronica ma solo di problemi prostatici. In altre parole, per i parenti del motociclista deceduto, il conducente dell'auto aveva scambiato la corsia di emergenza per una qualunque area di sosta, senza preoccuparsi di segnalare bene la propria posizione e senza avere una particolare urgenza, visto che si era preso anche il tempo per telefonare. Tutte motivazioni che la Cassazione non ha ritenuto valide, scagionando del tutto l'autista del taxi con la sentenza 13124/2019 pubblicata pochi giorni fa.
I giudici hanno ritenuto che le condizioni meteo - ore 9 di mattina e pieno sole - e della strada completamente rettilinea, portassero a una ottima visibilità, dove non servivano né il giubbetto né l'accensione delle quattro frecce. La telefonata, invece, non ha alcuna influenza sul malessere che comunque viene giudicato come un'emergenza. In conclusione, per la Cassazione, l'incidente si è verificato solo ed esclusivamente per la distrazione del motociclista. A questo proposito vale la pena ricordare che la corsia di emergenza può essere usata solo per il tempo strettamente necessario a superare il problema e comunque per non più di tre ore. Dopo questo lasso di tempo c'è la multa di 431 euro e la rimozione del veicolo.

fonte: www.lastampa.it

Licenziamento è valido se gravidanza inizia durante preavviso

Il licenziamento per recesso del datore di lavoro è legittimo nei confronti della donna che inizi il proprio stato di gravidanza durante il periodo di preavviso. Ma si sospende la decorrenza del preavviso, come nei casi di malattia o infortunio. Cioè il licenziamento è inefficace, ma non nullo. Infatti, la Corte di cassazione con l'ordinanza n. 9268 depositata ieri ha confermato la decisione di merito che, in riforma di quella di primo grado, ha respinto la domanda della lavoratrice mirata all'annullamento del licenziamento e al pieno reintegro nel posto di lavoro. La lavoratrice ha infatti insistito in giudizio per la nullità del recesso datoriale a fronte del suo stato di gravidanza. E lo ha fatto puntando sull'applicazione della presunzione legale secondo cui l'inizio della gravidanza è fissato in 300 giorni precedenti la data presunta del parto. Ma superata dalle prove processuali tale presunzione (prevista dall'articolo 4 del Dpr 1026/1975) e acclarato che la donna fosse rimasta incinta durante il preavviso non restava altro che far valere la norma del Codice civile, che sospende la decorrenza del periodo di preavviso in caso di gravidanza, al pari della malattia o dell'infortunio del dipendente.

La causa
La lavoratrice appuntandosi sull'obiettivo di far ricadere la propria condizione di donna incinta in un'epoca precedente al ricevimento della lettera di recesso (momento in cui si perfeziona il licenziamento intimato per motivo oggettivo) mirava di fatto all'applicazione del divieto di licenziamento, che opera dall'inizio della gravidanza al decorso del periodo d'interdizione dal lavoro e fino al compimento del primo anno di età del bambino. Il divieto è previsto dall'articolo 54 del testo unico della maternità e paternità (Dlgs 151/2001) e la sua violazione determina la nullità del recesso datoriale. Ma proprio a causa di tale linea difensiva la ricorrente ha mancato di invocare la giusta tutela per il suo caso, cioè l'operatività dell'articolo 2110 del Codice civile che, invece, sospende la decorrenza del preavviso per tutto il periodo di legittima astensione dal lavoro per gravidanza, puerperio e maternità, determinando come conseguenza un diverso e successivo avverarsi dell'effetto risolutivo del rapporto d i lavoro. Il divieto del testo unico opera, al contrario, "cancellando" gli effetti del licenziamento con preavviso tenendo conto del momento in cui viene intimato e si è perfezionato. Rileva perciò come causa di nullità la gravidanza sussistente al momento del licenziamento anche se non comunicata o se il datore ne sia comunque inconsapevole. La Cassazione affermando l'assoluta unicità della vicenda, giunta fino al giudizio di legittimità, ha compensato le spese tra le parti.

Congedi di paternità: il papà avrà diritto ad almeno 10 giorni di congedo retribuito

Congedo di paternità più lungo per i cittadini europei. Il padre o il secondo genitore equivalente, se riconosciuto dalla legislazione nazionale, avrà diritto ad almeno 10 giorni lavorativi di congedo di paternità retribuito nei giorni vicini alla nascita o al parto del feto morto. Questo congedo dovrà essere pagato ad un livello non inferiore all'indennità di malattia. È la principale novità introdotta dalla direttiva sulle nuove misure per facilitare la conciliazione tra lavoro e vita di famiglia, approvata oggi, con 490 voti a favore, 82 contrari e 48 astensioni, dal Parlamento europeo, che regolamenta anche congedi parentali e di assistenza. Attualmente in Italia la durata del congedo obbligatorio per il padre è di 5 giorni, più un giorno facoltativo previo accordo con la madre e in sua sostituzione. Gli eurodeputati hanno aggiunto due mesi di congedo parentale non trasferibile e retribuito. Questo congedo sarà un diritto individuale, in modo da creare le condizioni adeguate per una distribuzione più equilibrata delle responsabilità. Gli Stati membri, che hanno tre anni di tempo per recepire la direttiva nei propri ordinamenti, si legge in una nota, "fisseranno un livello adeguato di retribuzione, o indennità, per il periodo minimo non trasferibile di congedo parentale, tenendo conto del fatto che questo spesso comporta una perdita di reddito per la famiglia e che invece anche il familiare più retribuito (spesso un uomo) dovrebbe potersi avvalere di tale diritto. Gli Stati membri devono offrire 5 giorni all'anno di congedo per i lavoratori che prestano assistenza personale a un parente o a una persona che vive nella stessa famiglia a causa di un grave motivo medico o infermità connesse all'età. I genitori e i prestatori di assistenza che lavorano potranno richiedere modalità di lavoro adattabili, ove possibile, ricorrendo al lavoro a distanza o a orari flessibili per poter svolgere le loro mansioni. Nell'esaminare tali richieste, i datori di lavoro potranno tener conto non solo delle proprie risorse, ma anche delle esigenze specifiche di un genitore di figli con disabilità, o una malattia di lunga durata, e dei genitori soli".

fonte: www.italiaoggi.it

Responsabilità professionale medica, stop alle "liti temerarie" contro i medici

 Stop alle "liti temerarie" contro i medici: su 100 cause per responsabilità professionale, nel penale, solo il 5% porta a una con...