lunedì 31 luglio 2017

Rapporto Zoomafia 2017: in Italia ogni 57 minuti un nuovo fascicolo per reati contro animali

In Italia si aprono circa 25 fascicoli al giorno, uno ogni 57 minuti, per reati a danno di animali con una persona indagata ogni 80 minuti circa. È quanto emerge dal rapporto Zoomafia 2017 della Lav analizzando i dati forniti da 104 Procure Ordinarie su 140 (74%) e di 28 Tribunali per i minorenni su 29 (pari al 96%).
Dal quadro generale emerge che sono in aumento in Italia le denunce per i combattimenti fra cani, come pure quelle per traffico di cuccioli dai paesi dell’est. Non si fermano le corse clandestine di cavalli, il traffico internazionale di specie protette e il bracconaggio. E non spariscono neppure i furti di bestiame e di cani e la pesca di frodo.
Il reato contro gli animali più contestato l’anno scorso è maltrattamento (33,95%), quindi uccisione (31,25%), reati venatori (17,45%), abbandono e detenzione incompatibile (14,67%). La procura più attiva in questo tipo di reati è Brescia, sul cui territorio è fortissimo il bracconaggio. Seguono Foggia, Udine, Napoli, Roma, Verona e Torino.
Nel 2016 per i combattimenti fra cani sono stati sequestrati 133 animali (+189% rispetto al 2015) e sono state denunciate 29 persone (+38%). Per le corse clandestine di cavalli ci sono stati 8 interventi delle forze dell’ordine, 3 gare bloccate, 36 persone denunciate, 24 persone arrestate, 22 cavalli sequestrati, 4 stalle e un maneggio sequestrati.
Aumentano le denunce per il traffico di cuccioli importati illegalmente dai Paesi dell’Est Europa. Negli anni 2015 e 2016 sono stati sequestrati 964 cani e 86 gatti (dal valore complessivo di 717.800 euro). Sono 107 le persone denunciate nel 2016, in gran parte cittadini di paesi dell’est.
Per il traffico di animali e piante protetti, l’ex Corpo Forestale dello Stato ha accertato 78 illeciti penali e 194 illeciti amministrativi, per un totale di 516.430 euro, e compiuto 100 sequestri. Il bracconaggio non demorde, l’abbattimento o la cattura di specie particolarmente protette è diventato un fenomeno diffuso: lupi, orsi, Ibis eremita, cicogne, rapaci. Non si ferma neppure l’abigeato: ogni anno spariscono nel nulla circa 150.000 animali, che alimentano macelli clandestini.
In mare i pescatori di frodo imperversano, spesso gestiti dalle mafie locali: nel 2016 sono state sequestrate tonnellate di tonno rosso, di pesce spada, di molluschi, di novellame, di anguille, insieme a migliaia di ricci e a quintali di datteri di mare e oloturie.
Su internet infine non si trovano solo commercio illegale di cuccioli e scommesse su gare clandestine, ma anche video di sevizie e uccisioni di animali, diffusi spesso da minorenni.

Fonte:www.lastampa.it/Rapporto Zoomafia 2017, Lav: ogni 57 minuti un nuovo fascicolo per reati contro animali - La Stampa

Il reato si estingue se si ripara ai danni

Dal 3 agosto gli imputati per reati procedibili a querela potranno vedersi estinto il reato se saranno capaci di dimostrare il ravvedimento tramite condotte riparatorie, tra cui anche il pagamento di somme a titolo del risarcimento del danno. E potranno farlo anche se la condotta sia adottata dopo l’apertura del dibattimento di primo grado.

Chi compirà furti in appartamento, invece, sconterà una pena più alta; e potrà assistere al dibattimento ma «a distanza» se è imputato per reati di associazione mafiosa, terrorismo e droga.

Coloro che hanno presentato ricorso in Cassazione contro sentenze penali rischieranno caro: in caso di pronuncia di inammissibilità e anche rigetto (se il giudice lo ritenga) saranno multati con sanzioni salate (fino a 6 mila euro). Ulteriore deterrente a non presentare ricorso, insieme al divieto, dal 3 agosto, di agire personalmente, senza l’assistenza di un avvocato cassazionista.

Entra in vigore, infatti, il 3 agosto la riforma penale, cosiddetta «Orlando», contenuta nella legge 103/2017 (Gazzetta Ufficiale n. 154 del 4 luglio).

Fonte:www.italiaoggi.it/Il reato si estingue se si ripara ai danni - News - Italiaoggi

giovedì 27 luglio 2017

Rettificazione di sesso: non è indispensabile l’intervento chirurgico

Con due ordinanze di analogo tenore, il Tribunale di Trento ha sollevato questione di legittimità costituzionale della norma che prevede la necessità, ai fini della rettificazione anagrafica dell’attribuzione di sesso, dell’intervenuta modificazione dei caratteri sessuali primari attraverso trattamenti chirurgici poiché pregiudicherebbe gravemente l’esercizio del diritto fondamentale all’identità di genere.
Cassazione: non è necessario l’intervento chirurgico demolitorio. La Corte costituzionale richiama in primo luogo la pronuncia con cui la Cassazione, nel 2015, ha escluso che per ottenere la rettificazione dell’attribuzione di sesso nei registri dello stato civile sia obbligatorio l’intervento chirurgico demolitorio o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari. Secondo la Suprema Corte, infatti, l’acquisizione di una nuova identità di genere può essere il risultato di un processo individuale che non postula necessariamente tale intervento, richiedendo però che la serietà e univocità del percorso scelto, nonché la compiutezza dell’approdo finale, siano oggetto di accertamento anche tecnico in sede giudiziale.
Consulta: il trattamento chirurgico è solo una possibilità. In secondo luogo, deve richiamarsi una sentenza, sempre del 2015, con cui la stessa Corte costituzionale ha escluso la necessità, ai fini dell’accesso al percorso giudiziale di rettificazione anagrafica, del trattamento chirurgico poiché costituisce solo una delle possibili tecniche per realizzare l’adeguamento dei caratteri sessuali ed è, pertanto, autorizzabile solo in funzione di garanzia del diritto alla salute.
Ciò non esclude, però, la necessità di un accertamento rigoroso non solo della serietà e univocità dell’intento, ma anche dell’intervenuta oggettiva transizione dell’identità di genere emersa nel percorso seguito dalla persona interessata, non essendo sufficiente il solo elemento volontaristico.

Fonte: www.ilfamiliarista.it/Rettificazione di sesso: non è indispensabile l’intervento chirurgico - La Stampa

Nuova convivenza? Addio all’assegno divorzile

Secondo la Cassazione l’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, rescindendo ogni connessione con il tenore e il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire meno definitivamente ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge. Lo ha deciso la Suprema Corte con l’ordinanza n. 18111/17 depositata il 21 luglio.
Il caso. La Corte d’Appello dichiarava l’insussistenza del diritto all’assegno divorzile per l’ex moglie che conviveva con un nuovo compagno.
Avverso tale pronuncia la donna ricorre in Cassazione, lamentando violazioni in materia di contestazione e valutazione dell’onere della prova, per non aver provato l’ex marito l’effettiva sussistenza della convivenza extra coniugale dal momento che la stessa, pur sussistente, era cessata prima dell’instaurazione del giudizio di primo grado.
L’assegno divorzile. La Cassazione per affrontare la questione in esame richiama il consolidato principio secondo il quale «l’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore e il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire meno definitivamente ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso». Secondo la Corte, infatti, la formazione di una famiglia di fatto è espressione di una scelta esistenziale libera e consapevole e come tale si caratterizza per l’assunzione piena di un rischio anche di eventuale cessazione del rapporto e va quindi esclusa ogni residua solidarietà post matrimoniale con l’altro coniuge, il quale è ormai esonerato da ogni obbligo verso l’ex coniuge .
Per questi motivi la Cassazione respinge il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Nuova convivenza? Addio all’assegno divorzile - La Stampa

martedì 25 luglio 2017

Rottamazione delle liti fiscali: le istruzioni dell'Agenzia delle Entrate

Nessun rischio di doppia imposizione per chi partecipa alla voluntary disclosure bis. È uno dei nuovi chiarimenti forniti dalle Entrate nella circolare n. 21/E del 20 luglio, con cui l’Agenzia illustra le novità introdotte dal decreto legge n. 50/2017 in materia di procedura di collaborazione volontaria. Il documento di prassi, inoltre, fornisce delucidazioni anche sull’estensione dell’esonero dagli obblighi dichiarativi per l’Ivie e l’Ivafe e sulla determinazione delle somme dovute in caso di pagamento spontaneo carente.
Doppie imposizioni, salvi anche gli atti non definiti – Chi aderisce alla voluntary disclosure bis può detrarre le imposte pagate all’estero a titolo definitivo relative a redditi di lavoro dipendente e autonomo in caso di omessa presentazione della dichiarazione o di omessa indicazione dei citati redditi esteri. Si tratta di quei casi in cui il contribuente non ha presentato la dichiarazione dei redditi in Italia ma ha correttamente adempiuto agli obblighi fiscali nel Paese dove ha svolto attività lavorativa. Con la circolare di oggi le Entrate chiariscono che la possibilità detrarre le imposte pagate all’estero vale anche per gli atti non ancora definiti emanati nell’ambito della precedente edizione della voluntary.
Ivie e Ivafe, quando vale l’esonero - Il contribuente che accetta la procedura di collaborazione volontaria bis è esonerato da alcuni obblighi dichiarativi, tra cui quelli relativi al monitoraggio fiscale. L’esenzione è valida limitatamente al 2016 e alla frazione del periodo d’imposta antecedente la data di presentazione dell’istanza di collaborazione volontaria. In base al Dl n. 50/2017, chi aderisce alla nuova procedura non è tenuto a dichiarare nemmeno l’imposta sul valore degli immobili situati all’estero (Ivie) e quella sul valore delle attività finanziarie detenute all’estero (Ivafe). In questo modo è stato reso omogeneo l’esonero per tutti gli obblighi dichiarativi connessi alla mera detenzione all’estero di attività sia finanziarie che patrimoniali, a prescindere dalla maturazione sulle stesse di eventuali redditi.
Le sanzioni per versamento carente - Nel caso in cui il versamento spontaneo effettuato dal contribuente sia carente, la disciplina della voluntary disclosure prevede l’applicazione di maggiorazioni sugli importi dovuti. In base alla nuova normativa, l’importo totale ottenuto a seguito delle operazioni di maggiorazione, compreso quanto già versato, non può in nessun caso essere superiore rispetto a quanto sarebbe dovuto in caso di mancata autoliquidazione da parte del contribuente.

Fonte:www.altalex.com/Rottamazione delle liti fiscali: le istruzioni dell'Agenzia delle Entrate | Altalex

Centra il cinghiale con l’auto e lo uccide a coltellate: cacciatore condannato

La Cassazione, con sentenza n. 35536/2017, ha condannato un cacciatore per avere ucciso in modo crudele un cinghiale. Decisiva la ricostruzione dell’episodio, che ha fatto emergere le modalità con cui ha agito l’uomo.
Crudeltà. Comune la linea di pensiero adottata dai giudici. Prima in Tribunale, poi in Appello e infine in Cassazione il cacciatore viene ritenuto colpevole di avere offeso «il sentimento per gli animali», uccidendo un cinghiale con «modalità crudeli». In particolare, viene sottolineato che c’è stato prima «l’abbagliamento, in tempo di notte, della bestia», poi «il suo investimento con l’autoveicolo» del cacciatore, e in ultimo «la sua uccisione con numerose coltellate».
Per i magistrati non vi sono dubbi sulla crudeltà mostrata dall’uomo. E va respinta l’ipotesi che egli abbia agito per difendersi, poiché, annotano i giudici, è stato proprio lui, con la sua condotta, a creare «la situazione di potenziale pericolo».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Centra il cinghiale con l’auto e lo uccide a coltellate: cacciatore condannato - La Stampa

“Non c'è correlazione tra vaccini e autismo”, la Cassazione conferma: nessun risarcimento

La Cassazione ha bocciato la richiesta di indennizzo avanzata da un padre che asseriva che il figlio avesse contratto l’autismo a seguito del vaccino antipolio Sabin. La Suprema Corte ha confermato in questo modo le conclusioni del tribunale e della Corte d’Appello di Salerno, che a seguito di una perizia tecnica avevano a loro volta respinto la richiesta escludendo il nesso di causalità tra la vaccinazione subita e la malattia.
L’uomo chiedeva, come tutore, l’indennizzo al ministero della Salute e alla Regione Campania ai sensi della legge 210 del 1992 sui vaccini, ritenendo che il bambino fosse affetto da encefalopatia immunomediata ad insorgenza post vaccinica con sindrome autistica a causa della terapia vaccinale a lui somministrata.
Il perito nominato dalla Corte d’Appello di Salerno aveva concluso di trovarsi in presenza di una patologia di cui «non è tuttora ipotizzabile una correlazione con alcuna causa nota in termini statisticamente accettabili e probanti» e che «non sussistono ad oggi studi epidemilogici definitivi». Su tale conclusione i giudici di appello avevano fondato la loro decisione. E la Cassazione (sentenza n. 18358) ha ritenuto che nel ricorso non vi fossero elementi decisivi per confutare tale soluzione e che la scienza medica citata dal ricorrente «non consente allo stato di ritenere superata la soglia della mera possibilità teorica della sussistenza di un nesso di causalità».

Fonte:www.lastampa.it/“Non c’è correlazione tra vaccini e autismo”, la Cassazione conferma: nessun risarcimento - La Stampa

Attenti alle truffe digitali. Ora arrivano con WhatsApp

La truffa dell’estate viaggia via WhatsApp. Si moltiplicano i casi di raggiri inviati attraverso il popolare programma di messaggini su smartphone. Molte volte le comunicazioni arrivano dai contatti della nostra rubrica e così la trappola finisce per scattare con più facilità. Cosa si rischia? Nel migliore dei casi scatta, attraverso un link fraudolento, l’attivazione di un abbonamento a qualche servizio non richiesto come gli aggiornamenti sul meteo o l’oroscopo del giorno. È il caso del messaggino che invita a provare i nuovi colori di WhatsApp.
Una delle esche più frequenti è però quella dei buoni spesa proposti dalle maggiori catene di supermercati come Carrefour, Eurospin, oppure Coop, fino allo sconto spesa alla Lidl e al Conad per arrivare alle grandi catene dell’elettronica come MediaWorld. Anche i biglietti aerei Ryanair per volare in vacanza sono nell’elenco dei messaggi di raggiro. Al malcapitato del caso viene offerta la possibilità di vincere un buono spesa anche di 250 euro semplicemente partecipando a un sondaggio. Per rispondere a questo sondaggio bisogna cliccare su un link fraudolento che porterà a un sito infettato che farà scattare costosi abbonamenti. La Polizia postale mette periodicamente in guardia da queste insidie sulla propria pagina Facebook che si chiama «Vita da Social».
Nel mirino delle forze dell’ordine c’è poi un altro caso che è ben più rischioso. È quello in cui si rischia di vedersi svuotare il conto corrente. La tecnica dei frodatori qui è più raffinata e punta a rubare i codici di accesso al nostro conto online. Il rischio è di veder sparire i propri risparmi in banca. Tra i bersagli preferiti dagli hacker via Whatsapp in questo caso c’è Poste Italiane. Il malcapitato viene invitato a cliccare su un link che gli promette un buono postale del valore di 500 euro. Il link, invece, installa a sua insaputa un ransomware o un malware sullo smartphone, in grado di rubare i dati personali e finanziari dell’utente. Occorre tenere gli occhi sempre bene aperti ed evitare di seguire link sospetti. Un’altra truffa dell’estate, di cui ha dato conto la Polizia postale, riguarda le carte Postepay o Postepay Evolution. Agli utenti viene inviato un messaggio mail che dice che la loro carta è stata bloccata per questioni di sicurezza in seguito a transazioni strane e potenzialmente non autorizzate. Nel messaggio mail si invita a cliccare un link per la conferma dei dati ma si tratta chiaramente di un tentativo di phishing a cui prestare molta attenzione.

Fonte:www.lastampa.it/Attenti alle truffe digitali. Ora arrivano con WhatsApp - La Stampa

venerdì 21 luglio 2017

Rimosso il barbecue troppo vicino a un’abitazione per la potenzialità nociva o molesta

Il rispetto della distanza prevista dall'articolo 890 Cc, nella cui regolamentazione rientrano anche i forni è collegato a una presunzione assoluta di nocività e pericolosità che prescinde da ogni accertamento concreto, nel caso in cui vi sia un regolamento edilizio comunale che stabilisca la distanza medesima. In difetto di una disposizione regolamentare, si ha sempre una presunzione di pericolosità, sia pure relativa, che può essere superata ove la parte interessata al mantenimento del manufatto dimostri che mediante opportuni accorgimenti può ovviarsi al pericolo o al danno del fondo vicino. Lo ha detto la Cassazione con la sentenza 20 giugno 2017 n. 15246.
Secondo i giudici della sezione seconda la presunzione che deve essere superata - comunque - non è una presunzione di danno, ma di pericolo che si produca il danno e prescinde dall'accertamento in concreto del danno, dovendo invece essere valutata in concreto la pericolosità del forno ancorché non in attività.
Il caso esaminato dalla Corte - Nella specie era stato realizzato un barbecue costituito da un manufatto in muratura il cui comignolo si trovata a una distanza minima da meno di un metro a due metri da alcune finestre del soprastante appartamento dell'attore. Sulla scorta di una consulenza tecnica che aveva accertato che il manufatto avrebbe dovuto essere collocato a non meno di 5-6 metri dalla proprietà dell'attore, i giudici del merito hanno accolto la domanda diretta alla sua rimozione. In applicazione del principio che precede la Suprema corte ha confermato tale pronunzia evidenziando che era irrilevante l'accertamento svolto con il forno in attività, essendo sufficiente la potenzialità della esalazione nociva o molesta.
Il rispetto della distanza per fabbriche e depositi nocivi e pericolosi - Analogamente, per l'affermazione che il rispetto della distanza prevista per fabbriche e depositi nocivi e pericolosi dall'articolo 890 Cc è collegato a una presunzione assoluta di nocività e pericolosità che prescinde da ogni accertamento concreto nel caso in cui vi sia un regolamento edilizio comunale che stabilisca la distanza medesima; mentre, in difetto di una disposizione regolamentare, si ha pur sempre una presunzione di pericolosità, seppure relativa, che può essere superata ove la parte interessata al mantenimento del manufatto dimostri che mediante opportuni accorgimenti può ovviarsi al pericolo o al danno del fondo vicino, Cassazione, sentenza 22 ottobre 2009 n. 22389, che ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto presunta la nocività di un impianto a fronte della fuoriuscita di esalazioni di fumo da un tubo posto sul confine con la proprietà limitrofa, in violazione di una norma regolamentare che imponeva la distanza di tre metri.
Sempre nel senso che un regolamento locale indichi in modo specifico l'altezza a cui deve essere posto il comignolo, la disposizione civilistica risulta pienamente integrata e al giudice non residua alcuna discrezionalità al riguardo, Cassazione, sentenza 26 maggio 2015, n. 10814, in Diritto & Giustizia, 2015, 27 maggio.
Per il rilievo che il rispetto della distanza prevista per fabbriche e depositi nocivi e pericolosi dall'art. 890 Cc, nella cui regolamentazione rientrano anche i comignoli con canna fumaria, è collegato a una presunzione assoluta di nocività e pericolosità che prescinde da ogni accertamento concreto nel caso in cui vi sia un regolamento edilizio comunale che stabilisca la distanza medesima; mentre, in difetto di una disposizione regolamentare, si ha pur sempre una presunzione di pericolosità, seppure relativa, che può essere superata ove la parte interessata al mantenimento del manufatto dimostri che mediante opportuni accorgimenti può ovviarsi al pericolo o al danno del fondo vicino. Cassazione, sentenza 6 marzo 2002 n. 3199, in Rivista giuridica dell'edilizia, 2002, II, p. 1073
Altri orientamenti - Sempre in argomento si è ritenuto, altresì, in giurisprudenza:
- il rispetto delle distanze previste per fabbriche e depositi nocivi e pericolosi, nella cui regolamentazione rientrano anche i comignoli con canna fumaria, è collegata a una presunzione di assoluta nocività e pericolosità che prescinde da ogni accertamento concreto nel caso in cui vi sia un regolamento comunale che stabilisca la distanza medesima, mentre in difetto di una disposizione regolamentare si ha una presunzione relativa, che può essere superata ove la parte interessata al mantenimento del manufatto dimostri che, mediante opportuni accorgimenti, può ovviarsi al pericolo od al danno del fondo vicino, Cassazione, sentenza 30 giugno 2016, n. 13449, in Rivista giuridica dell'edilizia, 2016, I, p. 702;
- nella installazione del forno in aderenza al muro di confine, ai fini dell'applicazione della norma di cui all'art. 844 Cc rileva il dato oggettivo della immissione e della sua caratterizzazione oltre i limiti della normale tollerabilità a prescindere dal suo carattere continuativo, Tribunale di Bari, 30 giugno 2015, in Redazione Giuffè, 2016;
- nel caso di installazione di una canna fumaria lungo il muro perimetrale dell'edificio comune non può legittimamente invocarsi la violazione dell'art. 1102 Cc giacché quest'ultimo articolo riconosce a ciascun condomino la facoltà di far uso della cosa comune anche apportando a essa delle modifiche per il migliore godimento laddove non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto; né l'ulteriore norma sulle distanze di cui all'art. 906 Cc attenendo, quest'ultima, all'apertura di vedute oblique e laterali sul fondo del vicino ma dovendo, semmai, rientrare nella disciplina di cui all'art. 890 Cc a norma del quale chi intende realizzare le opere ivi previste, fonti di pericolo di danno, deve attenersi alle distanze stabilite dai regolamenti e in mancanza alle distanze necessarie a preservare il fondo del vicino da ogni «danno alla solidità, alla salubrità e alla sicurezza», Tribunale di Bari, sentenza 16 giugno 2014, n. 2973, in Guida al diritto, 2014, f. 47, p. 53;
- la pericolosità di un forno a gas, rifornito da bombole per uso domestico, in relazione al fondo limitrofo deve essere valutata ai sensi dell'art. 890 Cc., e non applicando l'art. 889, comma 2,Cc con la conseguenza che il presunto pericolo non può essere considerato in re ipsa, ma deve essere dimostrato, Cassazione, sentenza 3 ottobre 2013, n. 22635, in Diritto & Giustizia, 2013, 4 ottobre.
La posizione dei giudici amministrativi - Per i giudici amministrativi, nel senso che è illegittima l'ordinanza sindacale contingibile e urgente con la quale s'impone al suo destinatario di dismettere l'uso di un forno camino (nella specie un piccolo forno barbecue a legno posto all'aperto sul terreno di proprietà del ricorrente), perché privo di una canna fumaria di adeguata altezza e fonte di pericolo per la salute pubblica in ragione delle continue moleste immissioni di fumi e vapori nelle proprietà finitime, trattandosi di circostanza già esclusa a seguito di verifiche eseguite sul posto sia dal servizio igiene e sanità pubblica dell'Azienda sanitaria locale sia dai vigili urbani, con la conseguente comprovata mancanza dei presupposti legislativamente richiesti per l'adozione da parte del sindaco di un provvedimento extra ordinem, tenuto anche conto della notevole distanza che intercorre fra il fondo del ricorrente e quelli dei proprietari finitimi, TAR Torino, sez. II, sentenza 7 luglio 2010, n. 200, in Foro amministrativo TAR, 2010, p. 2277 .

Fonte:Cassa Forense - Dat Avvocato

È risarcibile il danno non patrimoniale cagionato dalla perdita dell’animale d’affezione

È risarcibile il danno non patrimoniale cagionato dalla perdita dell’animale d’affezione, in quanto pregiudizio conseguente alla lesione di un diritto inviolabile della persona umana costituzionalmente tutelato (Trib. Pavia, sez. III civile, 16 settembre 2016, n. 1266).

La pronuncia in esame ripropone la vexata quaestio della risarcibilità del danno non patrimoniale da perdita o ferimento dell’animale d’affezione. Perno della fattispecie è la morte di un cane, ucciso mentre si trova all'interno di un terreno di proprietà degli attori, da un colpo di fucile proveniente da oltre la recinzione del fondo. Il giudice civile, liberamente valutando le prove raccolte nel giudizio penale (pur conclusosi con l’assoluzione dell’imputato dal delitto ex art. 544 bis c.p., per difetto di dolo) e considerando accertata la colpa del cacciatore convenuto, ritiene sussistente la responsabilità aquiliana di quest’ultimo e lo condanna a risarcire il danno cagionato. A tal proposito, mentre viene esclusa la stessa configurabilità di un pregiudizio patrimoniale, “perché un cucciolo di cane meticcio nato in casa e senza alcun valore commerciale non può aver cagionato una perdita economica ai suoi padroni”, si riconosce il pregiudizio non patrimoniale, affermando che “nel caso di specie si è in presenza di un danno non patrimoniale conseguente alla lesione di un interesse della persona umana alla conservazione di una sfera di integrità affettiva costituzionalmente protetta”.
Come è noto la ristorabilità del danno non patrimoniale da perdita dell’animale d’affezione, già ricondotto da un ampio orientamento giurisprudenziale di merito sotto le insegne del danno esistenziale (ex multis, Giud. Pace Ortona, 8 giugno 2007, in Resp. Civ. e Prev., 2008, 471 e Trib. Roma, 17 aprile 2002, in Giur. di Merito, 2002, 1254 – che tuttavia lo esclude nel caso di specie per difetto di prova), è stata denegata dalle Sezioni Unite “di San Martino”: ciò in quanto, sulla scorta della lettura conforme a Costituzione dell’art. 2059 c.c. accolta in quella sede, il danno non patrimoniale risulta risarcibile solo in presenza di un’espressa previsione di legge o della lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato, laddove nell’ipotesi di morte di un animale ad essere leso sarebbe soltanto “un rapporto, tra l’uomo e l’animale, privo, nell'attuale assetto dell’ordinamento, di copertura costituzionale” (così Cass., Sez. un., 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 26974, 26975, in Resp. Civ. e Prev., 2009, 38, che riprende, sul punto, Cass. civ., 27 giugno 2007, n. 14846, in Danno e Resp., 2008, 36).
Tale arresto tuttavia non è bastato a tacitare il dibattito, determinando piuttosto un mutamento dei termini in cui la questione viene di massima posta. I giudici di merito infatti hanno continuato e tuttora continuano a dividersi circa la risarcibilità ex 2059 c.c. del pregiudizio conseguente alla morte o lesione dell’animale, gli uni invocando in senso contrario la mancanza della lesione di un diritto inviolabile (è l’opinione che da ultimo sembra dominante: Trib. Milano, 1° luglio 2014, n. 8698, ma in obiter; Trib. S. Angelo dei Lombardi, 12 gennaio 2011, in Nuova Giur. Comm., 2011, 663; Trib. Catanzaro, 5 maggio 2011, in Danno e Resp., 2012, 187), gli altri asserendo in senso favorevole la compromissione di un diritto collocato a presidio del rapporto tra il “padrone” e l’animale d’affezione e il cui referente risiederebbe nell’art. 2 Cost., inteso – in consonanza peraltro con le richiamate Sezioni Unite – quale clausola aperta ad un processo evolutivo e perciò idonea a consentire il riconoscimento delle posizioni soggettive via via emergenti nel contesto sociale e ordinamentale (Trib. Foggia, 24 giugno 2011, in www.personaedanno.it; G. di Pace Palermo, 9 febbraio 2010, in www.animaliediritto.it; Trib. Rovereto, 18 ottobre 2009, in www.personaedanno.it).
La sentenza in commento si inserisce per l’appunto in questo secondo, filone minoritario e poggia la propria ratio decidendi sulla sussistenza della “ingiustizia costituzionalmente qualificata” del fatto dannoso: diventa allora centrale l’indagine circa l’eventuale rilevanza costituzionale del rapporto affettivo instaurato tra la persona e il proprio animale domestico. Al riguardo un consistente orientamento della dottrina (Azzarri, Il sensibile diritto. Valori e interessi nella responsabilità civile, in Resp. Civ. e Prev., 2012, 20 B; Di Marzio, Il riccio e il volpino. La morte dell’animale d’affezione sotto l’incubo della ragionevole durata, in Giur. di Merito, 2012, 561; Bona, Argo, gli aristogatti e la tutela risarcitoria: dalla perdita/menomazione dell’animale d’affezione alla questione dei pregiudizi c.d. bagatellari (crepe nelle sentenze delle SS. UU. Di San Martino), in Resp. Civ. e Prev., 2009, 1035 e 1036), in critica alle conclusioni raggiunte dalla Corte di legittimità, risolve positivamente il quesito sulla scorta soprattutto della considerazione del recente dato normativo. Il legislatore (non solo nazionale) avrebbe infatti recepito il mutare della sensibilità collettiva, sì da attribuire all’animale una posizione vieppiù differenziata da quella delle altre res e in specie da delineare per l’animale d’affezione uno statuto differenziato, improntato alla logica del rispetto dovuto ad un essere senziente e alla peculiare relazione con esso instaurata dall’uomo (cfr. L. 4 novembre 2010, n. 201 – “Ratifica ed esecuzione della Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia [...] nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno” –; art. 13 TFUE; artt. 544 bis e ter c.p., introdotti dalla L. 20 luglio 2004, n. 189; art. 1, L. 14 agosto 1991, n. 28 – “Legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo” –). Al di là degli elementi tratti dal diritto positivo, poi si sostiene che l’obiettiva importanza sociale e culturale assunta dagli animali domestici, sovente considerati alla stregua di membri del nucleo familiare, renderebbe inaccettabile il diniego dello strumento risarcitorio per il pregiudizio non patrimoniale, poiché una tale soluzione lascerebbe privo di tutela minima (identificata nella tutela risarcitoria, secondo l’insegnamento di Cass., Sez. un., 11 novembre 2008, nn. 26972-26975, cit.; Trib. Roma, 3 maggio 2016, n. 8834, in www.dejure.it) un interesse costituzionalmente rilevante, che l’ordinamento peraltro deve limitarsi a “ri-conoscere” (Sapone-Vorano, Il danno non patrimoniale da perdita di animale domestico, in Nuova Giur. Comm., 2010, II, 568 e 569; Donadoni, Una nuova frontiera per la Corte di Cassazione: il danno non patrimoniale “interspecifico”, ibidem, 583).
A proposito della possibilità di ritenere assurta al rango di diritto inviolabile la pretesa al mantenimento del rapporto uomo-animale d’affezione, va osservato come i dati di diritto positivo assunti dalla citata dottrina quali indici di siffatta più elevata rilevanza non sembrino al riguardo sufficientemente univoci. Le disposizioni penali in particolare paiono esser poste a presidio di un bene giuridico di carattere oggettivo e superindividuale, il “sentimento per gli animali”, che è cosa in essenza diversa dalla percezione eminentemente soggettiva della lesione della propria sfera personale e sentimentale (Ponzanelli, Nessun risarcimento per la perdita dell’animale di affezione: la conferma del giudice di Catanzaro, nota a Trib. Catanzaro, 5 maggio 2011, cit., 189; Basini, Dei delitti contro il sentimento per gli animali, in Trattato di diritto penale a cura di A. Cadoppi, Parte speciale, VI, I delitti contro la moralità pubblica, di prostituzione, contro il sentimento per gli animali e contro la famiglia, Torino, 2009, 85 e segg.). È agevole notare come la scarsa pregnanza dei riferimenti normativi induca molti Autori, e le stesse pronunce in argomento, a svolgere più o meno ampie considerazioni di natura sociologica o psicologica volte a scolpire la speciale importanza degli animali nella vita quotidiana, senza però tenere il discorso sul piano che gli è proprio, vale a dire quello giuridico (esemplare, in tal senso, Donadoni, cit., 582-586). La stessa assenza di un orientamento giurisprudenziale univoco sul punto non consente di ritener completato il quadro dei sintomi di un’attuale rilevanza qualificata del rapporto uomo-animale.
Queste difficoltà paiono spingere altra dottrina a spostare decisamente il terreno dell’indagine e a tentare di ricondurre la relazione in parola ad un diritto inviolabile già “acclimatato”, o che si suppone tale. Ragionando a partire dalla distinzione tra danno-evento e danno-conseguenza, si è sostenuto che la perdita dell’animale d’affezione, risolvendosi in un’alterazione talora irreversibile della personalità del soggetto costituzionalmente garantita ex art. 2 Cost., andrebbe pressoché in ogni caso ad infirmare un ambito dotato di copertura a livello di Carta fondamentale (Scarano, Il danno non patrimoniale e il principio di effettività, in Riv. Dir. Civ., 2011, II, 24 e 25). Un discorso di questo genere finisce però per sollevare problemi assai simili nella sostanza a quelli che già la teorizzazione del danno esistenziale recò con sé: individuando un diritto inviolabile ad amplissimo spettro, definito, anzi, più in termini finalistici (la realizzazione della “personalità” umana) che di contenuto, si apre la via alla proliferazione di pretese risarcitorie legate a pregiudizi disparati e soprattutto dalla dubbia rilevanza giuridica (viene spontaneo un parallelismo col tedesco “diritto generale della personalità”, la cui elaborazione si spiega però a fronte di un sistema dell’illecito civile profondamente diverso dal nostro; cfr. Francisetti Brolin, Danno non patrimoniale e inadempimento, Napoli, 2014, 133). In termini più generali va osservato che il riferimento fatto dalle Sezioni Unite di San Martino alla “coscienza sociale di un determinato momento storico” rischia di tradursi, se non suffragato da univoci riscontri a livello (quantomeno) di norme primarie, in un comodo escamotage per svuotare dall’interno il principio di tipicità chiaramente desumibile dall’art. 2059 c.c. (come già paventato, prima della svolta del 2008, da Gazzoni, Alla ricerca della felicità perduta (psicofavola fantagiuridica sullo psicodanno esistenziale, in Riv. Dir. Comm., 2000, I, 675; contra Lipari, Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale: il ruolo limitativo delle categorie concettuali, in Contratti, 2010, 705). Il che, oltre a risolversi in una violazione degli stessi canoni ermeneutici codificati che impongono il rispetto, pur nei limiti di compatibilità con il sovraordinato paradigma costituzionale (e nella acquisita consapevolezza circa l’immancabile spinta creativa insita nell’interpretazione), del “nucleo minimo di significato” desumibile dal dettato legislativo (G. Zaccaria, voce “Interpretazione della legge”, in Enc. Dir., Annali, V, 2012, 704), finisce per riconsegnare al risarcimento del danno non patrimoniale una funzione punitiva, sanzionatoria, che giurisprudenza e dottrina concordemente e da lungo tempo gli negano (Gazzoni, cit., 676).
La sentenza pavese che qui si commenta ben compendia le rilevate criticità. Essa, invero, sembra compiere un apprezzamento (peraltro, piuttosto generico) della realtà sociale e dell’acquisita speciale rilevanza, nella tavola dei valori condivisa, della relazione affettiva uomo-animale, senza che queste considerazioni, tuttavia, siano accompagnate da un’adeguata ricerca di indici normativi idonei a corroborarle a livello giuridico-positivo (come si sforza di fare, perlomeno, Trib. Rovereto, 18 ottobre 2009, cit.). D’altro canto, l’affermazione per cui la rottura del legame del danneggiato col proprio animale domestico sarebbe coincisa con la “lesione di un interesse della persona umana alla conservazione di una sfera di integrità affettiva costituzionalmente protetta” pare sintomatica di quella vera e propria inversione logica a cui abbiamo poc’anzi accennato, consistente nella individuazione di un diritto, rilevante ex art. 2 Cost., avente per oggetto la stessa “personalità” dell’uomo e, come tale, suscettibile di esser infranto ogniqualvolta una relazione affettiva o una consolidata abitudine di vita sia travolta o menomata dalla condotta di un terzo. In tal modo la pronuncia si muove al di fuori dei confini della tipicità del danno non patrimoniale come delineata dalle Sezioni Unite e, in fatto, ripropone la prospettiva ripudiata dalle sentenze di San Martino ma difesa, anche all’indomani di queste ultime, dalla dottrina “esistenzialista” (cfr. Cendon, Cass. S.U. 26972/2008. Non con l’accetta per favore, in www.personaedanno.it). Oltretutto, l’intento che ha mosso l’intervento nomofilattico del 2008 è dichiaratamente quello di fissare uno statuto generale per il danno non patrimoniale, evitando nei limiti del possibile la proliferazione di tendenze soggettivistiche che porterebbero al ristoro pressoché automatico di tutti i pregiudizi non pecuniari. Una simile logica sembra, per le ragioni che si sono esplicitate, esser stata accantonata dalla sentenza in esame, la quale all’opposto sposa un paradigma (definibile, volendo, come del “diritto inviolabile allo sviluppo della personalità”) che si presta più di ogni altro a far luogo all’affollamento di voci di danno eterogenee e mutevoli.
Le considerazioni testé svolte non possono comunque essere assolutizzate. È un dato di fatto sovente richiamato che, in date circostanze, il legame instauratosi tra animale e “padrone” assume una tale importanza nella vita di quest’ultimo da far sì che la sua recisione determini uno sconvolgimento radicale nella vita della persona, trovatasi magari priva dell’ultimo centro di affetti restatole (si pensi alla vecchia signora rimasta sola, che trova l’unica compagnia nel cane o nel gatto fidato) oppure di un ausilio indispensabile per condurre un minimum di vita di relazione (tale può essere il caso del cieco, per il quale il cane-guida costituisce il tramite con un’ampia porzione della realtà esterna). A fronte della specificità di tali ipotesi, un utile spunto per una soluzione ragionevole può provenire dalla riflessione in ordine alla distinzione, sviluppata con riguardo al diritto di proprietà, tra diritti-mezzo, privi in sé e per sé della qualifica dell’inviolabilità, e diritti-fine (quali il diritto alla vita, alla salute, la libertà personale ecc.). Si è sostenuto in particolare che determinati beni e servizi, oggetto di diritti patrimoniali e innanzitutto del diritto di proprietà – del quale si nega la natura stricto sensu inviolabile (riferimenti in Baldassarre, voce “Diritti inviolabili”, in Enc. Giur. Treccani, XI, Roma, 1989, 24) – potrebbero risultare a tal punto funzionali all’esercizio di diritti inviolabili che, intaccando i primi, si intaccherebbero per ciò stesso i secondi (Navarretta, voce “Diritti inviolabili e responsabilità civile”, in Enc. Dir., Annali, VII, 2014, Milano, 367). Un modello così articolato potrebbe essere utilmente impiegato quale paradigma per consentire la prestazione della tutela risarcitoria in quelle situazioni-limite ove la morte o la lesione dell’animale comprometterebbe il pieno godimento di diritti inviolabili effettivamente riconosciuti come esistenti. A tanto si giungerebbe valorizzando la natura di res, di cose mobili che, sia pure in termini sempre più sfumati, tuttavia l’ordinamento continua ad attribuire agli animali. In quanto beni di proprietà del “padrone” il danno ad essi arrecato non potrebbe attivare quella tutela piena che, secondo le Sezioni Unite, deve assistere i diritti inviolabili (proprio perché la proprietà, quale che ne sia l’oggetto, non sembra assurgere – almeno di regola – a tale rango). Se però nel caso concreto l’animale, sempre riguardato nel suo profilo giuridico di res, apparisse come strumento indispensabile per l’esercizio di una situazione soggettiva dalla sicura rilevanza ex art. 2 Cost., allora la compromissione del rapporto con l’animale (mezzo) potrebbe tradursi nella compromissione del diritto inviolabile (fine) il cui dispiegamento fosse garantito da quel rapporto (per un articolato sviluppo di tale prospettiva con riguardo alla diversa tematica del danno non patrimoniale da infiltrazioni si vedano Trib. Trieste, 9 dicembre 2013, n. 986, in www.dirittocivilecontemporaneo.it e Trib. Vercelli, 12 febbraio 2015, in www.personaedanno.it; in dottrina Di Genova, Risarcimento del danno non patrimoniale da lesione del diritto di proprietà: una svolta nella giurisprudenza di merito nazionale, in Riv. Crit. Dir. Priv., 2016, 293 e segg.). Ed è a queste condizioni, evidentemente restrittive, che il risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla perdita dell’animale d’affezione potrebbe trovare spazio: non come mezzo di ristoro della violazione di un ipotetico diritto costituzionale a vivere il “rapporto interspecifico” (su cui Donadoni, cit., 583 e 584), ma come compensazione per il pregiudizio arrecato dalla lesione di un diritto inviolabile già consolidato, diritto rispetto al quale, nel singolo caso, la relazione uomo-animale si pone come tramite necessario.
Al di fuori di tali ipotesi – e, ovviamente, al di fuori dei casi in cui la condotta del danneggiante costituisce reato, perché allora, in presenza di un’espressa disposizione di legge quale l’art. 185 c.p., il danno non patrimoniale sarà sempre risarcibile nelle sue diverse componenti – pare giocoforza ammettere che “nonostante il carattere aperto della clausola generale di tutela di cui all’art. 2 Cost. [...] resta il fatto che la categoria dei diritti della persona costituzionalmente garantiti e a maggior ragione quella dei valori inviolabili non è poi così infinita come a prima vista si potrebbe essere indotti a ritenere [...] se ne inferisce la conseguenza che interessi e valori della persona socialmente apprezzabili e come tali meritevoli di tutela alla stregua dell’interest rei publicae o per conforme valutazione della comunità giuridica restino non giustiziabili sul piano aquiliano” (così Scalisi, Danno alla persona e ingiustizia, in Riv. Dir. Civ., 2007, I, 152).

Fonte:www.altalex.com/danno non patrimoniale da perdita animale di affezione | Altalex

Le insidie della rete: i pericoli per la nostra identità digitale

Molto spesso sentiamo parlare di Web 1.0, 2.0, 3.0 senza conoscerne il reale significato e le differenze tra essi. Ma cosa si intende per Web?
Il Web è uno spazio elettronico e digitale destinato alla pubblicazione di contenuti multimediali (testi, immagini, audio, video, ipertesti, ipermedia ecc.), nonché uno strumento per implementare particolari servizi come ad esempio il download di software (programmi, dati, applicazioni, videogiochi ecc.).
Tale spazio elettronico e tali servizi sono resi disponibili attraverso particolari computer collegati in rete chiamati server Web. Si è soliti ricondurre la nascita del Web (il World Wide Web letteralmente “rete di grandezza mondiale”) al 6 agosto 1991, giorno in cui Tim Berners-Lee, informatico britannico, pubblicò il primo sito Web dando così vita al fenomeno “WWW” (detto anche “della tripla W”).
L’evoluzione del Web si articola in diverse fasi:
Il Web 1.0 (il suffisso 1.0 fu aggiunto successivamente per differenziarlo dalle evoluzioni di Web successive) era caratterizzato dalla presenza di siti Web statici e non interattivi, erano formati da pagine ricche di ipertesti, contenenti collegamenti ad altre pagine.
Il Web 2.0 viene inteso come evoluzione della rete e dei siti internet, caratterizzati da una maggiore interattività che pone l’utente al centro della rete. Internet non è più una semplice “rete di reti”, né un agglomerato di siti Web isolati e indipendenti tra loro, bensì la “summa” delle capacità tecnologiche raggiunte dall’uomo nell’ambito della diffusione dell’informazione e della condivisione del sapere.
In altri termini il Web 2.0 è l’insieme di tutte quelle applicazioni on-line che permettono un elevato livello di interazione tra il sito Web e l’utente come i blog, i forum, le chat, i wiki, le piattaforme di condivisione di media come Youtube, social network, ecc.
Il termine Web 3.0 è stato coniato da Etic Schmidts (ceo di Google) nel 2007. La linea di sviluppo principale che caratterizza il Web 3.0 è il concetto di Web semantico (semantic Web). Il termine Web semantico fa riferimento all’inserimento nel Web di informazioni comprensibili da parte del calcolatore.
Il Web attuale corrisponde solo in piccola misura all’idea del Web semantico che nasce dalla necessità di facilitare lo scambio di informazioni non solo tra gli uomini, che si realizza con il Web 2.0, ma anche tra le macchine.
In sintesi, possiamo dire che il Web 3.0 è caratterizzato da contenuti comprensibili dal computer, dal collegamento dei dati grazie a criteri di classificazione comuni e, infine, dall’Internet of Things (IoT), neologismo riferito all’estensione di Internet al mondo degli oggetti e dei luoghi concreti dove l’oggetto ha un ruolo attivo, dinamico, interagisce con il mondo circostante in modo intelligente, grazie a una serie di “sensori” e “attuatori” e tramite un collegamento alla Rete.
Oggi già sono immessi in commercio elettrodomestici programmabili a distanza (domotica) o che comunque grazie al collegamento alla Rete sono in grado di fornire ulteriori informazioni al consumatore (possibili guasti, consumi di elettricità, ecc.).
Sin dall’inizio la Rete ha messo a disposizione dei propri utenti tantissimi servizi, ricordiamo le mailing-list, i newsgroup, i personal Web site per poi passare ai più moderni wiki, blog, social network (facebook, twitter, linkedin, myspace, youtube, ecc.). Spesso questi servizi sono gratuiti, ma i gestori di queste piattaforme sociali in cambio ci chiedono i nostri dati personali al fine di poter tracciare le nostre identità digitali. In questo modo è possibile profilarci e condurre efficaci politiche di marketing a vantaggio di aziende talvolta prive di scrupoli.
Bisogna stare attenti alle attività delle aziende che gestiscono i social network, in quanto generalmente si finanziano vendendo pubblicità mirate. Il valore di queste imprese è strettamente legato anche alla loro capacità di analizzare in dettaglio il profilo, le abitudini e gli interessi dei propri utenti, per poi rivendere le informazioni a chi ne ha bisogno.
I social network (Facebook, MySpace e altri) sono “piazze virtuali”, cioè dei luoghi in cui via Internet ci si ritrova portando con sé e condividendo con altri fotografie, filmati, pensieri, indirizzi di amici e tanto altro.
I social network sono lo strumento di condivisione per eccellenza e rappresentano straordinarie forme di comunicazione, anche se comportano dei rischi per la sfera personale degli individui coinvolti. Sono strumenti che danno l’impressione di uno spazio personale, o di piccola comunità. Si tratta però di un falso senso di intimità che può spingere gli utenti a esporre troppo la propria vita privata, a rivelare informazioni strettamente personali, provocando “effetti collaterali”, anche a distanza di anni, che non devono essere sottovalutati.
Non bisogna mai dimenticare che le nozioni di digital footprint, identità e profilazione degli utenti in internet, sono concetti tra loro strettamente collegati.
Il termine digital footprint, viene comunemente utilizzato per indicare le tracce di dati che vengono disperse nella rete a seguito di determinate interazioni avvenute all’interno dell’ambiente digitale, questi dati contengono usualmente informazioni riguardanti le diverse interazioni che un soggetto può eseguire in un contesto digitale. Questi dati ed informazioni possono concorrere nel formare anche una identità digitale.
A tal fine è possibile individuare almeno due tipi di informazioni che possono essere reperiti on-line e riguardanti un soggetto determinato, un primo tipo, che potremmo definire di informazioni primarie e riguardanti i caratteri personalissimi dell’individuo, ed altri tipi di informazioni secondarie, riguardanti le abitudini sociali ed i gusti commerciali dell’utente interessato, questi due tipi di informazioni, elaborate tra loro, formano il cd. profilo-utente.
Da queste brevi premesse, si pongono alla nostra attenzione una serie di questioni, occorre anzitutto domandarsi quali siano gli interessi che sottostanno ad una operazione di profilazione e in seconda analisi quali tutele sono esperibili in tali situazioni.
Come noto, la maggior parte dei moderni dispositivi di comunicazione, al momento del loro utilizzo attraverso il collegamento ad internet, frammentano e disperdono delle tracce che provano l’utilizzo del dispositivo e la contestuale presenza dell’utente in rete. Nella pratica il problema della profilazione e della dispersione dei dati personali, si manifesta in modo particolare nei momenti della navigazione in internet mediante browser (si pensi ai cookies) e nell’utilizzo delle più comuni piattaforme di social networking come strumenti relazionali e di comunicazione.
A tal fine vengono sempre più utilizzate anche tecniche di reperimento di informazioni utili al ciclo di intelligence tramite il monitoraggio e l’analisi dei contenuti scambiati attraverso i Social Media come la SOCial Media INTelligence (SOCMINT).
L’obiettivo principale della profilazione è la pubblicità comportamentale, che pensata e cresciuta nel mondo delle comunicazioni informatiche, prevede il tracciamento delle informazioni rilasciate dagli utenti durante la navigazione in internet, al fine di creare segmenti pubblicitari ad personam, modellati sugli interessi dell’utente considerato. Tale attività di per sé non è illecita o vietata, ma con il crescente bisogno di proteggere le identità digitali e i dati sensibili degli utenti, negli ultimi anni l’Unione europea si è mossa in maniera molto decisa verso la creazione di direttive e linee guida contenenti discipline di regolamentazione nelle comunicazioni elettroniche e di protezione dei dati nonché delle informazioni riguardanti gli utenti di internet, per dare ai naviganti strumenti attraverso i quali poter essere sempre al corrente dell’eventuale monitoraggio che può avvenire sulle loro tracce digitali. Il recente Regolamento europeo in realtà ha un occhio particolare per tali attività che vengono considerate degne della massima attenzione.
In effetti il progressivo sviluppo delle comunicazioni elettroniche ha determinato la crescita esponenziale di nuovi servizi e tecnologie. Se ciò ha comportato, da un lato, indiscutibili vantaggi in termini di semplificazione e rapidità nel reperimento e nello scambio di informazioni fra utenti della rete Internet, dall’altro, ha provocato un enorme incremento del numero e delle tipologie di dati personali trasmessi e scambiati, nonché dei pericoli connessi al loro illecito utilizzo da parte di terzi non autorizzati.
Si è così maggiormente diffusa l’esigenza di assicurare una forte tutela dei diritti e delle libertà delle persone, con particolare riferimento all’identità personale e alla vita privata degli individui che utilizzano le reti telematiche.
Difatti, nell’attuale era tecnologica, come si è visto, le caratteristiche personali di un individuo possono essere tranquillamente scisse e fatte confluire in diverse banche dati, ciascuna di esse contraddistinta da una specifica finalità. Su tale presupposto può essere facilmente ricostruita la c.d. persona elettronica (v. identità digitale) attraverso le tante tracce che lascia negli elaboratori che annotano e raccolgono informazioni sul suo conto.
La forma di tutela più efficace è comunque sempre l’autotutela, cioè la gestione attenta dei propri dati personali. Difatti, i contenuti creati dagli utenti e resi pubblici attraverso il mezzo telematico, costituiscono un potenziale veicolo di violazioni degli interessi di terzi e in questo senso una minaccia per diritti quali l’immagine, l’onore e la reputazione, nonché la riservatezza. Come messo in risalto da alcuni interpreti, la rete, che per sua natura tende a connettere individui, formazioni sociali e istituzioni di ogni genere, pone questioni “inquietanti” in quanto risolvibili solo con nuovi approcci, soluzioni mai adottate prima e in taluni casi non ancora individuate.
Quando si inseriscono i propri dati personali su un sito di social network, si perde il controllo degli stessi. I dati possono essere registrati da tutti i propri contatti e dai componenti dei gruppi cui si è aderito, rielaborati, diffusi, anche a distanza di anni.
A volte, accettando di entrare in un social network, si concede all’impresa, che gestisce il servizio, la licenza di usare senza limiti di tempo il materiale che viene pubblicato on-line e quindi le proprie foto, chat, scritti, pensieri.
Questo aspetto deve far riflettere anche lo studio professionale che, laddove dovesse decidere di sfruttare le potenzialità dei social network per scopi promozionali o di marketing, dovrà porre la massima attenzione alla gestione dei dati personali dei potenziali clienti.
Inoltre, se si decide di uscire da un sito di social network spesso si prevede solo la possibilità di “disattivare” il proprio profilo, non di “cancellarlo”. I dati, i materiali pubblicati on-line, potrebbero essere comunque conservati nei server, negli archivi informatici dell’azienda che offre il servizio. È necessario, quindi, leggere bene cosa prevedono le condizioni d’uso e le garanzie di privacy offerte nel contratto ed accettate dagli utenti al momento dell’iscrizione.
D’altro canto, la maggior parte dei siti di social network ha sede all’estero e così i loro server. In caso, quindi, di disputa legale o di problemi insorti per violazione della privacy, non sempre si è tutelati dalle leggi italiane ed europee.

Fonte:www.altalex.com/Le insidie della rete: quali pericoli per la nostra identità digitale? | Altalex

Chiudere le app su iPhone non serve a niente

Due tap sul tasto home e poi via di swipe verso l’alto, per eliminare tutte quelle applicazioni in background che occupano spazio in memoria e rallentano il sistema operativo dell’iPhone. Facile, veloce, efficace. Giusto? No, sbagliato. Questa procedura, che in tanti ancora usano per migliorare le prestazioni del proprio dispositivo Apple, non serve a niente; anzi, ha effetti negativi sulla durata della batteria.
Quando un’applicazione attiva su iOS viene messa in background e finisce nella lista delle app accessibili dall’interfaccia del multitasking, il sistema procede a “congelarla”. Significa che tutte le risorse che quell’app stava consumando vengono immediatamente riallocate dal sistema, che gestisce in maniera autonoma e intelligente alcune operazioni specifiche come le notifiche, la riproduzione musicale o gli aggiornamenti push. Per questo chiudere del tutto le applicazioni non ha ad esempio alcun effetto sulla quantità di RAM occupata.
La chiusura forzata finisce invece per avere effetti opposti: terminare le app in continuazione diminuisce la durata della batteria, perché il riavvio da zero del singolo software richiede risorse di calcolo maggiori rispetto alla semplice operazione di risveglio dal “letargo” del multitasking, un’operazione che iOS riesce a portare a termine con un impiego di risorse ridottissimo. Forzare la chiusura di un’app ha senso soltanto quando il software, per un motivo o un altro, si è bloccato e ha smesso del tutto di rispondere.
Il mito della pulizia delle app in background su iPhone e iPad è nato con l’introduzione del multitasking su iOS ed è duro a morire ancora oggi, nonostante non abbia mai avuto alcuna giustificazione da un punto di vista tecnico.
Craig Federighi, Senior Vice President responsabile dello sviluppo software a Cupertino, ha confermato di recente l’inutilità della procedura con una risposta all’email di un utente. E se non bastasse l’affermazione di Federighi, c’è anche la parola di Steve Jobs . Nel 2010, rispondendo anch’egli a un messaggio di un utente, il co-fondatore di Apple suggeriva di “usare il multitasking di iOS nel modo in cui è stato progettato: non c’è alcuna ragione di forzare la chiusura delle applicazioni”.

Fonte:www.lastampa.it/Chiudere le app su iPhone non serve a niente, e vi spieghiamo perché - La Stampa

No all’attribuzione del cognome paterno se contrario all’interesse del figlio

I criteri per l’individuazione del cognome del minore riconosciuto da entrambi i genitori in tempi diversi si pongono in funzione del suo interesse che è quello di evitare un danno alla sua identità personale.
Il caso. Il padre riconosce il figlio in un momento successivo rispetto alla madre e chiede che al figlio venga attribuito il proprio cognome. La Corte d’Appello ha confermato il provvedimento con il quale era stata rigettata la domanda di attribuzione del cognome paterno. Avverso tale decreto, il soccombente ha presentato ricorso per cassazione.
Diritto al cognome quale segno distintivo dell’identità personale del minore. Secondo la giurisprudenza di legittimità, i criteri per l’individuazione del cognome del minore riconosciuto in tempi diversi dai genitori «si pongono in funzione del suo interesse, che è quello di evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua persona sociale». La scelta del Giudice è, pertanto, ampiamente discrezionale, priva di qualsiasi automaticità e non può essere condizionata dal favor per il patronimico o per un prevalente rilievo alla prima attribuzione.
La Cassazione chiarisce, infatti, che il diritto al nome è uno dei diritti fondamentali della persona, con copertura costituzionale assoluta. La ratio dell’art. 262 c.c., la cui violazione è stata dedotta dal ricorrente, non risiede nell’esigenza di equiparare la condizione dei figli nati fuori dal matrimonio con quella dei figli di genitori coniugati, ma in quella di garantire l’interesse del figlio alla conservazione del cognome originario nel caso in cui questo sia divenuto un autonomo segno distintivo della sua identità personale nella comunità. Il provvedimento del Giudice, quindi, contrassegnato da ampio margine di discrezionalità, è frutto di libero apprezzamento e deve essere orientato a garantire non tanto l’interesse dei genitori quanto quello del minore a essere identificato nel contesto delle relazioni sociali in cui è inserito.
Poiché, nel caso in esame, la Corte d’appello ha ritenuto, con valutazione di merito, che l’imposizione del cognome paterno avrebbe turbato profondamente il minore, considerato che dall’esito del suo ascolto è emersa la sua volontà di non sostituirlo né aggiungerlo al proprio, la Cassazione dichiara inammissibile il ricorso.

Fonte: www.ilfamiliarista.it/No all’attribuzione del cognome paterno se contrario all’interesse del figlio - La Stampa

Assegno all'ex coniuge: cosa cambia dopo la sentenza della Cassazione n. 11504/17

La Corte di cassazione, adita al fine di ottenere la riforma della sentenza della Corte d’Appello di Milano, che aveva ritenuto non dovuto in favore della ricorrente l’assegno divorzile in quanto quest’ultima non aveva dimostrato l’inadeguatezza dei propri redditi ai fini della conservazione del tenore di vita matrimoniale, pur ritenendo il dispositivo della sentenza impugnata conforme a diritto, ne corregge la motivazione ai sensi dell’art. 384, 4° comma, c.p.c. e dichiara che una corretta lettura dell’art. 5, comma 6°, L.div. impone di individuare quale parametro per l’attribuzione dell’assegno non il tenore di vita matrimoniale, ma l’indipendenza economica del richiedente.
A prescindere dalla valutazione della rispettiva situazione economico-patrimoniale, e a prescindere dalla considerazione di quale sia stato il tenore di vita durante il matrimonio, all’ex coniuge non potrà essere attribuito alcun sostegno economico, ove questi sia economicamente autosufficiente.
La Corte di Cassazione rileva, infatti, come con il divorzio il matrimonio cessa e le parti del rapporto debbano ricominciare ad essere considerate uti singuli. Nessuna rilevanza potrà essere attribuita, ai fini della decisione se concedere l’assegno, all’entità dei rispettivi patrimoni, alla diversa distribuzione dei compiti di cura della famiglia durante il matrimonio, alle ragioni della decisione, né alla durata del matrimonio stesso, che – afferma la Corte – deve essere contratto nella consapevolezza della dissolubilità dello stesso.
La Sezione Prima della Corte di cassazione, con la sentenza n. 11504/17 è intervenuta, significativamente innovando, sul tema del diritto dell’ex coniuge ad un assegno di divorzio ai sensi dell’art. 5, comma 6, L.div.
Rilevato che, una volta passata in giudicato la sentenza con la quale sia stato pronunciato lo scioglimento del matrimonio ovvero la cessazione degli effetti civili dello stesso, il rapporto matrimoniale si estingue definitivamente, “sul piano sia dello status personale dei coniugi, i quali devono perciò considerarsi da allora in poi «persone singole», sia dei loro rapporti economico-patrimoniali e, in particolare, del reciproco dovere di assistenza morale e materiale”, la Corte sottolinea come l’attribuzione dell’assegno sia dal legislatore ancorata alla sussistenza del solo presupposto della mancanza - in capo al soggetto richiedente - di “mezzi adeguati”, rilevando gli ulteriori criteri enumerati all’art. 5, comma 6, L.div. solo ai fini della determinazione dell’importo dell’assegno.
In altri termini, il giudizio sull’assegno è strutturato dal legislatore in due fasi nettamente distinte: da un lato, il riconoscimento del diritto (fase dell’an debeatur), dall’altro, la determinazione quantitativa dello stesso (fase del quantum debeatur).
Il parametro di riferimento per l’accertamento della sussistenza dei presupposti per la concessione dell’assegno dovrà, secondo il recente insegnamento della Corte, essere non il tenore di vita matrimoniale, ma l’indipendenza economica del richiedente. Parametro, ad avviso della Corte, in tutto e per tutto analogo a quello cui l’art. 337septies fa riferimento per l’individuazione del diritto del figlio maggiorenne alla prestazione di un assegno periodico, fattispecie con la quale l’art. 5 comma 6° L.div. condividerebbe il principio informatore, ossia il principio dell’autoresponsabilità economica.
Nella fase dell’accertamento dell’an debeatur, dunque, dovrà essere accertato il ricorrere del presupposto dell’inadeguatezza dei mezzi propri e dell’impossibilità di procurarseli con esclusivo riferimento alla persona singola del richiedente, all’autosufficienza e all’indipendenza economica dello stesso, senza nessuna valutazione comparativa delle situazioni personali e patrimoniali degli ex-coniugi.
Gli indici di indipendenza economica, in presenza dei quali l’assegno dovrà essere negato, sono elencati dalla Corte ed individuati nel:
1) possesso di redditi di qualsiasi specie;
2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari e immobiliari;
3) la capacità e le possibilità effettive di lavoro personale;
4) la stabile disponibilità di una casa di abitazione.
In altre parole, solo l’ex coniuge che sia privo di mezzi adeguati - id est: che non sia economicamente autosufficiente -, avrà diritto all’assegno post-matrimoniale.
Nulla tuttavia dice la Corte su cosa debba intendersi per indipendenza economica; se sia sufficiente la capacità di procurarsi mezzi di sostentamento o sia necessaria la capacità di produrre un reddito adeguato alla condizione sociale del richiedente.
L’accertamento della soglia oltre la quale deve essere riconosciuta l’autosufficienza economica sarà dunque di volta in volta determinata dal giudice del caso singolo, con la conseguenza che grande spazio troverà la discrezionalità del giudice, così come nella determinazione in concreto del raggiungimento dell’autosufficienza economica del figlio maggiorenne.
Il deciso cambio di rotta della Suprema Corte, in ogni caso, non potrà che avere ricadute non solo sui giudizi che in futuro avranno ad oggetto la cessazione degli effetti civili del matrimonio ovvero lo scioglimento dello stesso, ma anche innanzitutto sulle domande di revisione proposte ai sensi dell’art. 9 L. div.
E’ noto infatti come tutte le disposizioni aventi ad oggetto i coniugi e i figli siano pronunciate con l’implicita clausola rebus sic stantibus. L’art. 9 L.div., infatti, prevede espressamente che in ogni momento, dopo la pronuncia di divorzio, possa essere chiesta la revisione delle disposizioni concernenti l'affidamento dei figli e di quelle relative alla misura e alle modalità dei contributi economici in favore del coniuge e dei figli stessi, ove sussistano giustificati motivi.
La domanda di revisione deve cioè fondarsi sull’evoluzione della situazione familiare, ossia sull’allegazione di fatti nuovi, dovendosi escludere - quantomeno con riferimento alle statuizioni concernenti i coniugi (per l’ammissibilità della revisione anche in assenza di un mutamento delle circostanze con riferimento ai provvedimenti sulla prole: C. 17.5.2012 n. 7770) - che il giudice possa compiere una nuova ed autonoma valutazione dei fatti dedotti o deducibili nel giudizio di divorzio. Il giudice, dunque, cui sia stata chiesta la revisione dell’assegno divorzile, non potrà procedere ad una nuova valutazione dei presupposti e della misura dell’assegno, senza che siano allegate e provate dalle parti circostanze sopravvenute, che alterino la situazione posta alla base dell’attribuzione dell’assegno stesso (C. 13.1.2017, n. 787).
Occorre pertanto chiedersi se l’onerato della prestazione dell’assegno possa chiederne la revisione sul presupposto dell’indipendenza economica del beneficiario. In altri termini, ove l’assegno fosse stato pronunciato sulla base dell’accertamento dell’insufficienza delle risorse del richiedente a conservare il tenore di vita matrimoniale, ma queste stesse risorse fossero sufficienti a dimostrare l’autosufficienza economica, la decisone a suo tempo emessa potrebbe essere ribaltata semplicemente allegando l’insegnamento di Cass. 11504/17?
La giurisprudenza, che in passato già si era espressa nel senso che i nuovi orientamenti della Suprema Corte possano essere considerati quali giustificati motivi fondanti la domanda di revisione (Trib. Napoli 7.12.1996), sembra aver già imboccato la strada di siffatta interpretazione (cfr. le recentissime T. Milano 22.5.2017, T. Venezia 24.5.2017), che – pur coerente con la considerazione che le pronunce della Suprema Corte hanno efficacia meramente dichiarativa della corretta interpretazione delle norme - certamente comporterà un incremento del contenzioso, portando davanti ai Tribunali ogni fattispecie nella quale l’attribuzione dell’assegno divorzile sia stata pronunciata al fine di perequare la situazione economica dei coniugi o di conservare il tenore di vita matrimoniale in favore dell’ex coniuge che tuttavia sia economicamente autosufficiente.
Chiaro, peraltro, che in sede di revisione non potrà essere riconsiderata la situazione economico-patrimoniale dei coniugi al momento dell’attribuzione dell’assegno, bensì la situazione al momento della richiesta di revisione e che nessuna richiesta di restituzione sembra poter essere accolta (nel senso peraltro che la decisione giurisdizionale di revisione non possa avere decorrenza anticipata al momento dell'accadimento innovativo, rispetto alla data della domanda di modificazione: C., ord., 3.7.2015, n. 16173).
Nel caso in cui in sede di divorzio non fosse stato attribuito alcun assegno, per rigetto della domanda o per mancanza della stessa, nonostante non sia mancato chi ha rilevato come a rigore non vi possa essere revisione di qualcosa che non c’è, la giurisprudenza ritiene che, in caso di sopravvenienza di fatti nuovi, l’assegno possa essere richiesto attraverso l’instaurazione di un procedimento di revisione ai sensi dell’art. 9 L.div. (Cass.3.2.2017, n. 2953). Si potrebbe dunque ritenere che l’ex coniuge possa richiedere l’assegno sul presupposto del venir meno di un’indipendenza economica prima esistente. Tuttavia, alla luce della lettura della recente sentenza della S.C., sembra potersi dubitare che tale strada sia effettivamente percorribile.
Se, infatti, il mutamento in pejus della situazione economica dell’ex coniuge, cui fosse stato negato l’assegno in sede di divorzio in quanto dotato di risorse economiche sufficienti, potrebbe supportare la richiesta di revisione e di attribuzione dell’assegno, non così evidente l’accoglimento della domanda stessa, se si considera che la Corte ha ritenuto applicabile per analogia alla fattispecie dell’assegno divorzile il parametro previsto dal legislatore per il mantenimento del figlio maggiorenne.
E’ noto, infatti, come la giurisprudenza neghi costantemente che sia dovuto il mantenimento al figlio maggiorenne che abbia conseguito l’indipendenza economica e l’abbia successivamente perduta (Cass. 26.9.2011 n. 19589, in Foro It., 2012, 5, 1, 1553; T. Treviso 24.6.2015; T. Novara 2.5.2013). In tal caso, si sottolinea come il figlio abbia diritto alla prestazione di alimenti ai sensi dell’art. 433 e ss., se in stato di bisogno, ma non al mantenimento di cui all’art. 337septies, 1° comma.
Proseguendo lungo la strada dell’analogia indicata dalla S.C., dunque, si potrebbe ritenere che non possa essere riconosciuto il diritto all’assegno in capo all’ex coniuge la cui autosufficienza economica sia venuta meno in un momento successivo al divorzio. In tal caso, come per il figlio maggiorenne, dovrebbe essere riconosciuto unicamente il diritto agli alimenti, il cui obbligo sorgerebbe tuttavia non in capo all’ex coniuge, bensì ai figli, primi obbligati ai sensi dell’art. 433 c.c.
La recente sentenza della Corte, peraltro, sembra destinata a produrre rilevanti conseguenze anche sul dispiegarsi dei rapporti tra giudizio di separazione e divorzio.
Come è stato autorevolmente rilevato, l’introduzione nell’ordinamento del c.d. divorzio breve, ad opera della L. 6.5.2015 n. 55, incide sicuramente sul tema dei rapporti tra i processi di separazione e divorzio. L’abbreviazione dei termini per accedere alla cessazione del matrimonio rende infatti assai più probabile la contemporanea pendenza dei due giudizi. Se, infatti, è vero che l’art. 3 L. div. continua a prevedere, tra i presupposti per la proposizione della domanda, il passaggio in giudicato della sentenza sulla separazione, con ciò in prima battuta comprimendo di fatto l’operatività dell’abbreviazione del termine per la proposizione della domanda, è altrettanto vero che l’art. 709bis prevede espressamente la possibilità per il tribunale di pronunciare sentenza non definitiva sulla separazione, proseguendo l’istruzione sull’eventuale richiesta di addebito, sull’affidamento dei figli e sulle questioni economiche.
Nell’ipotesi di pronuncia di sentenza parziale sulla separazione – peraltro ritenuta ammissibile dalla S.C. anche in assenza di domanda di parte (C. 22.6.2012 n. 10484) – la domanda di divorzio, ove nel frattempo sia passata in giudicato la sentenza parziale, potrà effettivamente essere proposta trascorso un anno dalla comparizione dei coniugi davanti al Presidente, con la conseguenza che si avrà la contemporanea pendenza dei giudizi di separazione e divorzio e che, conseguentemente, due giudici potenzialmente diversi dovranno decidere su questioni in buona parte identiche. Certamente identiche, infatti, le questioni relative all’affidamento dei figli minori, al mantenimento degli stessi e di eventuali figli maggiorenni non autosufficienti, nonché all’assegnazione della casa familiare.
Sul presupposto dell’identità di tali questioni, la giurisprudenza ha già avuto modo di statuire che “dal momento del deposito del ricorso divorzile (o, comunque, quanto meno dall'adozione dei provvedimenti provvisori ex art. 4 L. div.), il giudice della separazione non può più pronunciarsi sulle questioni genitoriali (cd. provvedimenti de futuro) avendo esclusiva potestas decidendi (sopravvenuta) il solo giudice del divorzio” (T. Milano, 26.2.2016; nel senso dell’opportunità della riunione dei giudizi, T. Napoli 15.11.2002).
Lo stesso Tribunale di Milano ha, peraltro, aggiunto che, dal momento del deposito del ricorso divorzile o, comunque, quanto meno dall'adozione dei provvedimenti provvisori ex art. 4 L. div., il giudice della separazione non può più pronunciarsi sulle questioni economiche se non con riguardo al periodo compreso tra la data di deposito del ricorso per separazione e la data di deposito del ricorso divorzile. Ciò significa che, secondo tale insegnamento, una volta proposto il ricorso per divorzio, o quantomeno dopo che il Presidente abbia in tale giudizio statuito provvisoriamente sull’attribuzione di un assegno post-matrimoniale, il giudice della separazione, tutt’ora investito della decisione sulle questioni accessorie, avendo pronunciato sentenza parziale sulla separazione, non potrebbe decidere, oltre che sulle questioni relative ai figli, neppure quanto all’attribuzione dell’assegno di mantenimento del coniuge, se non per il periodo compreso tra il deposito del ricorso per separazione e il deposito del ricorso per divorzio. Tale interpretazione si fonda sulla considerazione che, pur essendo diversa la natura, i presupposti e le finalità dei due assegni, la domanda relativa all’assegno divorzile sarebbe assorbente ed incompatibile con la domanda di attribuzione dell’assegno di mantenimento ex art. 156 c.c., dovendosi riconoscere che, una volta deciso sull’assegno di divorzio, mancherebbe l’interesse ad agire quanto alla domanda di attribuzione di un assegno di mantenimento ancora collegato al rapporto di coniugio.
E’ pur vero, peraltro, che l’eventuale assegno provvisorio non partecipa della natura dell’assegno post-matrimoniale, tanto che per la tutela dei crediti derivanti dallo stesso si ritiene applicabile l’art. 156, 6° comma, c.c. e non le misure previste dall’art. 8, 3° comma, L.div. (C.22.4.2013 n. 28990).
D’altro canto, l’assegno di mantenimento è dovuto fino al passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, con la conseguenza che la Suprema Corte ha statuito che, stante l’opportunità del simultaneus processus, la domanda di adeguamento dello stesso possa essere proposta al giudice del divorzio, convertendosi l’assegno di mantenimento in assegno provvisorio ai sensi dell’art. 4 L.div. (C. 10.12.2008, n. 28990).
Il problema della sovrapposizione tra assegno divorzile e assegno di mantenimento è peraltro assai evidente nelle ipotesi in cui al primo venga attribuita efficacia ex tunc e cioè al momento della proposizione della domanda ex art. 4, 13° comma, L.div., tanto da spingere la giurisprudenza a disporre che il Presidente, in sede di emissione dei provvedimenti provvisori, non sia vincolato a quanto statuito nella sentenza di separazione né agli accordi omologati (C. 14.10.2010 n. 21245; C. 18.4.1991 n. 4193, in F.I. 91, I, 2046) e che i provvedimenti presidenziali sostituiscono ogni provvedimento precedente, anche in caso di estinzione del giudizio di divorzio (C. 30.3.1994 n. 3164).
Tuttavia, partendo dall’assunto del carattere esclusivamente assistenziale e soprattutto dall’irrilevanza ai fini della concessione dell’assegno di divorzio del tenore di vita matrimoniale, appare quantomeno dubbio pensare che i provvedimenti presidenziali in sede di divorzio possano sostituire ogni provvedimento precedente ed escludere la possibilità per il giudice della separazione, ancora investito della questione, di decidere sull’assegno in favore del coniuge richiedente. Se è vero infatti che l’insegnamento di Cass. 11504/17 si fonda innanzitutto sulla circostanza che con il divorzio cessa ogni rapporto di coniugio - con la conseguenza che ingiustificato sarebbe il permanere della necessità della perequazione economica tra i coniugi -, è altrettanto vero che sino al passaggio in giudicato della sentenza di divorzio la condizione che impone di considerare i coniugi uti singuli ancora non si è verificata.
La contemporanea pendenza del giudizio di separazione e divorzio appare, dunque, alla luce del nuovo orientamento della Suprema Corte ancora più complessa, stante, da un lato, l’interesse del coniuge “debole” a protrarre più a lungo possibile la vigenza dell’eventuale assegno di mantenimento e dunque la garanzia dell’uguale tenore di vita e, dall’altro, l’interesse della controparte a veder riconosciuta al più presto l’indipendenza economica del coniuge.
Non meno complessa la situazione nell’ipotesi della separazione consensuale.
Secondo quanto previsto dall’art. 1 della L.55/2015, in caso di separazione consensuale è possibile chiedere il divorzio trascorso il breve termine di sei mesi dalla comparizione dei coniugi davanti al Presidente, ovvero dalla data certificata nell'accordo di separazione raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita da un avvocato, o infine dalla data dell'atto contenente l'accordo di separazione concluso innanzi all'ufficiale dello stato civile.
Si pone dunque con evidenza la necessità/opportunità di raggiungere, già in sede di separazione, accordi che regolino in modo definitivo i rapporti tra i coniugi e le questioni riguardanti i figli.
E’ altrettanto evidente, tuttavia, che la recente sentenza della Cassazione, e dunque la consapevolezza della diversità effettiva di presupposti per la pronuncia dell’assegno di mantenimento e dell’assegno post-matrimoniale, potrà costituire un ostacolo al raggiungimento di detti accordi.
In altri termini, se da un lato il coniuge che sia nelle condizioni per vedersi attribuito un assegno di mantenimento, ma che sia economicamente autosufficiente, cercherà di posticipare il momento del divorzio, non temendo una nuova negoziazione ovvero il giudizio, dall’altro lato il coniuge forte vorrà “chiudere” prima possibile l’intera vicenda eventualmente accettando di corrispondere un mantenimento per il limitato periodo di sei mesi e non oltre. L’orientamento della giurisprudenza, tutt’ora assestata sull’affermazione dell’indisponibilità ora per allora delle situazioni sostanziali sottese al divorzio (Cass. 30.1.2017, n. 2224), potrà rivelarsi utile alleata del coniuge che, pattuita la cessazione della corresponsione del mantenimento trascorso il periodo di sei mesi dalla separazione, si disponga a non formalizzare gli accordi di divorzio già pattuiti, al fine di prolungare la percezione del contributo al proprio mantenimento, con ciò rischiando di travolgere anche gli accordi aventi ad oggetto il mantenimento e l’affidamento dei figli.
Non si può peraltro dimenticare che, come già sottolineato da autorevole dottrina, l’accentuazione del profilo assistenziale dell’assegno post-matrimoniale ricade inevitabilmente proprio sull’indisponibilità del diritto.
L’importanza di una negoziazione che metta al centro l’interesse dei figli, da un lato, e di una lettura della sentenza della Suprema Corte che non trascuri la valutazione delle situazioni concrete e che sia capace di attribuire la giusta rilevanza, anche nella fase dell’accertamento dei presupposti per l’attribuzione dell’assegno post-matrimoniale, alle scelte di vita condivisa dei coniugi prima della fine del matrimonio, è dunque di tutta evidenza.

Fonte:www.quotidianogiuridico.it/Assegno all'ex coniuge: cosa cambia dopo la sentenza della Cassazione n. 11504/17 | Quotidiano Giuridico

martedì 18 luglio 2017

Il portale delle vendite pubbliche è on line. Più trasparenza nelle procedure

Il marketplace delle vendite pubbliche, promosso dal Ministero della giustizia,  è operativo da oggi 18 luglio.
E’ il primo tassello del Piano triennale della digitalizzazione dell’ecosistema Giustizia che va a regime, con qualche mese di ritardo rispetto alle aspettative iniziali a causa della “complessità” del sistema degli stakeholder.
La fase operati va è stata annunciata dal Ministero stesso con un comunicato.
“Il portale - ha dichiarato il ministro della giustizia Andrea Orlando - rappresenta uno strumento altamente innovativo sotto il profilo tecnologico, capace di garantire trasparenza e maggior efficienza nei meccanismi di vendita. Il portale sarà in grado di generare un cambio di prospettiva per superare il localismo e le lentezze delle singole procedure. Un luogo in cui i beni sono resi più visibili e le vendite più accessibili”.
Nel portale, accessibile da tre indirizzi web sotto riportati, potranno essere pubblicati e messi  in vendita i beni, mobili e immobili, oggetto di tutte le procedure fallimentari ed esecutive aperte sul territorio nazionale.
Volendo fare una stima, secondo i dati aggiornati al primo trimestre 2017, le procedure coinvolte saranno intorno alle 700mila (al 31 marzo le procedure fallimentari ed esecutive pendenti erano 566mila).
E’ stato istituito con il Decreto legge 27 giugno 2015, n. 83 ed era stato presentato in fase sperimentale dal ministro della Giustizia Andrea Orlando lo scorso 13 gennaio. Altalex ne aveva parlato nell’articolo Vendite giudiziarie: il Ministero della Giustizia vara il Portale Unico.
Da oggi, dunque, su disposizione dei Tribunali, professionisti e creditori potranno cominciare ad inserire online gli Avvisi di vendita. In esso sono pubblicati tutti gli avvisi di vendita relativi alle procedure esecutive e concorsuali nonché agli altri procedimenti per i quali la pubblicazione è prevista dalla legge. I dati contenuti nel portale sono caricati a cura dei creditori, dei delegati alle vendite, degli organi delle procedure concorsuali e degli altri soggetti a ciò abilitati. In ogni avviso è indicato il soggetto a cui rivolgersi per ottenere informazioni sui contenuti pubblicati. Il portale è in esercizio dal 17 luglio 2017. A partire da tale data su disposizione dell'autorità giudiziaria è possibile procedere alla pubblicazione
Tutte le specifiche tecniche aggiornate. In previsione della partenza, il Responsabile per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia ha aggiornato una serie di atti normativi rivolti agli operatori, tra i quali sinteticamente ricordiamo Specifiche tecniche relative alle modalità di pubblicazione sul portale delle vendite pubbliche; il provvedimento concernente le informazioni minime relative ai dati da pubblicare nei siti internet destinati all'inserimento degli avvisi di vendita; pecifiche tecniche previste dall’art. 26 del Decreto del Ministro della giustizia 26 febbraio 2015, n. 32 relative alle vendite  telematiche.
Non solo. Nel sito del Ministero sono stati anche pubblicati:
a) il manuale operativo per l’interoperabilità dei siti internet di pubblicità e dei gestori delle vendite telematiche con il portale delle vendite pubbliche;
b) il modello di comunicazione del referente tecnico per il censimento dei siti di pubblicità;
c) il modello di comunicazione del referente tecnico per il censimento dei siti dei gestori delle vendite telematiche;
d) il modello di domanda per l’accesso al model office del portale delle vendite pubbliche, per i siti di pubblicità, è reperibile al link mentre per i gestori delle vendite, è reperibile al link.
Il portale è accessibile agli indirizzi:

Si getta dalla finestra della classe: incolpevoli scuola e insegnanti

La ragazza, all’epoca studentessa di scuola media, ha riportato gravi lesioni. Ricostruito il drammatico episodio, i Giudici respingono la richiesta di risarcimento presentata dalla giovane e dai genitori. Esclusa la responsabilità di insegnanti, scuola e Ministero. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione con ordinanza n. 17085/17 depositata l’11 luglio.
Vigilanza. Linea di pensiero comune per i Giudici, prima in Tribunale, poi in Corte d’Appello e ora, infine, in Cassazione. In sostanza, va escluso che «gli obblighi di vigilanza e di protezione gravanti sull’istituto scolastico e sugli insegnanti» possano «estendersi al punto di considerare la concreta prevedibilità ed evitabilità dell’atto autolesivo» compiuto dalla ragazza, studentessa di scuola media, all’epoca del drammatico episodio.
In questa ottica viene evidenziato che il tentato suicidio si è verificato «in modo inconsulto e repentino», così da escludere «ogni legame di causalità tra le eventuali omissioni contestabili alla scuola e ai docenti» e «i gravi danni alla salute» riportati dalla ragazza, lasciatasi cadere nel vuoto dal secondo piano dell’edificio.
Tutto ciò rende assolutamente non plausibile il «risarcimento» preteso dai genitori e dalla figlia, che avevano chiamati in causa, sin dal primo grado, il Ministero dell’Istruzione e l’istituto scolastico.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Si getta dalla finestra della classe: incolpevoli scuola e insegnanti - La Stampa

Automobilista con tasso alcolemico di poco superiore al consentito: non punibile

Confermata in Cassazione la decisione pronunciata in Tribunale. Per i Giudici è evidente la non gravità della condotta tenuta dall’uomo al volante della propria vettura. Significativo anche il fatto che egli non sia stato fermato a causa di una guida spericolata. Così la Corte di Cassazione con sentenza n. 34377/17 depositata il 13 luglio.
Etilometro. Favorevole alla persona fermata è già la visione adottata dai Giudici del Tribunale. A loro parere va fatta cadere l’accusa di «guida in stato di ebbrezza», nonostante il dato rilevato dall’etilometro, perché è ritenuta evidente la «particolare tenuità del fatto». Su questo fronte vengono evidenziati alcuni elementi ritenuti decisivi: «le non gravi modalità della condotta; l’esiguità del danno e l’occasionalità del controllo non conseguito ad uno spericolato comportamento di guida; la non abitualità della condotta contestata». Ma ancor più significativa è ritenuta la circostanza che «il tasso alcolemico riscontrato era di poco superiore alla soglia di rilevanza penale».
Comportamento. A rendere definitiva l’assoluzione dell’automobilista provvedono i Giudici della Cassazione, rigettando le obiezioni proposte dal Procuratore della Repubblica e finalizzate a contestare la decisione presa dal Tribunale.
Anche per la Cassazione «le peculiarità» della vicenda rendono evidente «la tenuità» dell’episodio di cui è stato protagonista l’automobilista. Così viene sottolineato che non è fondamentale solo «l’entità dello stato di ebbrezza», poiché anche «le modalità della condotta e l’entità del pericolo o degli eventuali danni cagionati» sono stati in esame. E in questa ottica i Giudici sottolineano che «il comportamento di guida tenuto dal conducente era del tutto conforme alle regole del Codice della strada, tanto che la verifica era stata effettuata nel corso di ordinari controlli ed era risultato tale da non rappresentare alcun pericolo per l’incolumità del conducente stesso e degli altri studenti della strada».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Automobilista con tasso alcolemico di poco superiore al consentito: non punibile - La Stampa

sabato 15 luglio 2017

Il flop del divorzio breve. L’udienza “urgente” fissata dopo sei mesi

Da qualche tempo sentiamo ripetere che i tempi dei processi civili italiani si vanno allineando agli standard europei. In relazione alle procedure originate dalla crisi della famiglia (principalmente separazioni e divorzi), il Governo riponeva grandi speranze negli effetti positivi che avrebbe dovuto avere il decreto legge del 2014 sulla «degiurisdizionalizzazione», orrendo neologismo con cui si indica principalmente un nuovo strumento: i coniugi, invece di fronteggiarsi in una causa lunga e costosa, si impegnano ad effettuare una negoziazione, assistiti dai loro avvocati; se la negoziazione riesce il loro accordo ha gli stessi effetti di una sentenza.
Sul campo, occupandosi di diritto di famiglia, nei corridoi e nelle cancellerie dei tribunali, l’ottimismo lascia invece il posto allo sconforto. Se è vero che mediamente la durata complessiva dei giudizi (almeno in primo grado) si è leggermente ridotta, i tempi dei giudizi di separazione e divorzio nelle fasi iniziali, quelle più delicate, si sono allungati in modo intollerabile. Alcuni esempi: quelli che seguono non sono casi eccezionali, ma normali; vicende scelte a caso nell’esperienza di chi scrive, per dare una concretezza al problema.
Procedura di separazione giudiziale con figli minori. La legge dice che al termine della prima udienza il giudice deve pronunciare un provvedimento provvisorio e «urgente» per regolare la vita dei coniugi e dei figli durante il giudizio. Il presidente del tribunale di Milano fissa la prima udienza sei mesi e mezzo dopo il deposito del ricorso. Dieci anni fa, nello stesso tribunale, il tempo di attesa era di circa tre mesi. Il giudice si rende però conto che questi tempi sono inaccettabili per la pronuncia di un provvedimento urgente relativo alla vita di un bambino e avverte la necessità di precisare, fissando l’udienza, che il ritardo non deriva dall’inefficienza del giudice ma dalla strutturale inadeguatezza dell’organico.
Procedura di divorzio giudiziale. Al tribunale di Brescia, per le stesse ragioni, passano undici mesi fra il deposito del ricorso e la prima udienza (la prima, non l’ultima). La legge prevede un tempo massimo di novanta giorni che fino a qualche anno fa veniva quasi rispettato.
Procedura di divorzio congiunto. I coniugi sono d’accordo e chiedono entrambi al tribunale di pronunciare la sentenza. Si tiene un’unica udienza. Il giudice deve solo verificare che l’accordo non sia contrario alla legge. Il tribunale di Grosseto impegna dieci mesi, a cui si aggiungono due mesi per comunicare al Comune la sentenza di divorzio. Un anno, che si somma ovviamente al tempo della separazione e ai tempi per ottenere la pronuncia di separazione. Altro che divorzio breve!
La Cassazione non fa eccezione: un anno e due mesi per decidere su un ricorso per regolamento di competenza, cioè la procedura nella quale si decide solo quale giudice è competente a trattare una causa. Il codice prevede che questa procedura duri venti giorni: un termine che non è mai stato rispettato. Un tempo però qualche mese era sufficiente.
E i benefici effetti della «degiurisdizionalizzazione», che fine hanno fatto? Il rapporto Istat sul matrimonio pubblicato alla fine del 2016 ha certificato il fallimento dello strumento della negoziazione assistita come strumento per ridurre il numero dei giudizi contenziosi di separazione e divorzio. Nel 2014, prima dell’introduzione della riforma, le separazioni giudiziali erano il 15,8% del totale; nel 2015, dopo la riforma, la percentuale non è diminuita ma è addirittura aumentata: 17,8%. Non c’è stata invece alcuna modifica nella percentuale di contenziosi al momento del divorzio. La riforma quindi non ha per nulla aumentato la propensione dei coniugi a trovare un accordo per risolvere i problemi posti dal fallimento del matrimonio. Infatti la nuova procedura di negoziazione assistita è seguita solo nel 6,2% dei casi e sono tutte procedure che prima della riforma venivano definite con lo strumento classico della separazione consensuale. Per ottenere qualche risultato si dovrebbero introdurre strumenti la cui efficacia è già stata sperimentata all’estero, primo fra tutti l’arbitrato familiare, cioè la possibilità per i coniugi di incaricare un arbitro per dirimere la loro controversia.

Fonte:www.lastampa.it/Il flop del divorzio breve. L’udienza “urgente” fissata dopo sei mesi - La Stampa

Cassetto fiscale dell’imprenditore: tutte le informazioni sull’azienda con un click

Con un click sarà possibile avere sotto controllo le informazioni sulla propria azienda in qualunque momento, accedendo da smartphone e tablet in modo facile, sicuro e veloce.
Informazioni sempre sottomano. Da oggi si apre per 10 milioni di cittadini-imprenditori italiani (di cui 700 mila a Milano) una nuova opportunità, attraverso il servizio impresa.italia.it, una piattaforma online – realizzata da InfoCamere per conto delle Camere di Commercio – con cui ogni imprenditore potrà accedere, senza oneri, alle informazioni e ai documenti ufficiali della propria impresa.
Il nuovo servizio. L’imprenditore può accedere ad informazioni e documenti, ufficiali e aggiornati in tempo reale, della propria impresa: da visure, atti e bilanci dal Registro delle Imprese sino al fascicolo informatico e alle pratiche presentate presso i Suap, gli Sportelli Unici delle Attività Produttive; inoltre, può consultare presentazioni (quali documenti, filmati…) ed altre informazioni che la nuova generazione di imprese digitali ha inserito sul portale startup.registroimprese.it per una promozione in chiave “social”.
Presentazione. La nuova piattaforma è stata presentata ieri in Camera di Commercio, a Milano. “Il cassetto digitale dell’impresa – ha dichiarato Carlo Calenda, Ministro dello Sviluppo Economico – è una di quelle piccole rivoluzioni che, però, hanno la capacità di ricostruire la fiducia con la Pubblica Amministrazione. È un esempio di rapporto virtuoso con le imprese. Offre la possibilità di avere in modo ordinato il company profile e in modo gratuito un contatto con i potenziali investitori. È importante far comprendere alle aziende come usare le novità tecnologiche e aggiornarle sul continuo cambiamento”.
Cittadinanza digitale. Secondo Carlo Sangalli, Presidente di InfoCamere e della Camera di Commercio di Milano, il Cassetto Digitale “semplifica la vita delle imprese ed è un concreto passo in avanti verso una Pubblica Amministrazione più efficiente. Ma soprattutto avvicina milioni di imprenditori alla cittadinanza digitale, spingendoli ad utilizzare strumenti e tecnologie che possono renderli più competitivi anche a livello internazionale”.

Fonte: www.fiscopiu.it/Cassetto fiscale dell’imprenditore: tutte le informazioni sull’azienda con un click - La Stampa

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