lunedì 30 giugno 2014

Istituto autonomo per le case popolari – assegnatari degli alloggi: un rapporto che si costruisce nel tempo

Integra il reato di cui all’art. 633 c.p. l’occupazione abusiva di alloggio popolare da parte di chi sia già assegnatario dell’alloggio stesso. Ciò in quanto il rapporto che si instaura tra l’Istituto autonomo per le case popolari e gli assegnatari in locazione degli alloggi trae origine da due atti distinti, di cui il primo, che ha natura amministrativa, è diretto all’accertamento delle condizioni per l’assegnazione e il secondo, che ha valore privatistico, è destinato alla costituzione di un rapporto negoziale per effetto del quale sorge a favore dei beneficiari dell’assegnazione il diritto al godimento degli alloggi. È quanto emerge dalla sentenza della Cassazione 18068/14.

Il caso

Il Tribunale di Brindisi disponeva il sequestro preventivo di un immobile di proprietà I.A.C.P. (Istituto autonomo case popolari) occupato da un uomo accusato per i reati di cui agli artt. 633; 639-bis; 640, n. 2; 483 c.p. A seguito dell’annullamento del provvedimento di sequestro, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Brindisi ricorre per cassazione. Assegnatario dell’alloggio ma comunque occupante abusivo: perché? Secondo la Suprema Corte, integra il reato di cui all’art. 633 c.p. l’occupazione abusiva di alloggio popolare da parte di chi sia già assegnatario dell’alloggio stesso. Ciò in quanto il rapporto che si instaura tra l’Istituto autonomo per le case popolari e gli assegnatari in locazione degli alloggi popolari trae origine da due atti distinti, di cui il primo, che ha natura amministrativa, è diretto all’accertamento delle condizioni per l’assegnazione e il secondo, che ha valore privatistico, è destinato alla costituzione di un rapporto negoziale per effetto del quale sorge a favore dei beneficiari dell’assegnazione il diritto al godimento degli alloggi.

Si comprende che la fase pubblicistica è caratterizzata da mere posizioni di interesse legittimo e non attribuisce agli assegnatari il diritto soggettivo all’occupazione che deve essere preceduta dalla consegna degli alloggi. Ne consegue che, in assenza di contratto di locazione e di consegna dell’alloggio, il fumus commissi delicti non può essere escluso. Secondo il ricorrente, inoltre, in assenza di consenso dell’I.A.C.P., la condotta non può essere scriminata. Occorre chiarire, a tal proposito, che nel reato di invasione di terreni o edifici di cui all’art. 633 c.p., la nozione di “invasione” si riferisce al comportamento di colui che si introduce arbitrariamente e, contra ius, in quanto privo del diritto di accesso.

La conseguente occupazione estrinseca materialmente la condotta vietata e la finalità per la quale viene posta in essere l’elusiva occupazione dopo la pronuncia della sentenza; la protrazione del comportamento illecito dà luogo ad una nuova ipotesi di reato che si sostanzia nella prosecuzione dell’occupazione. Il Tribunale non sembra aver tenuto conto di questo principio. Per quanto concerne la falsità delle dichiarazioni rese dall’indagato, essa è accertata indipendentemente dalla mancata effettuazione di controlli da parte delle autorità amministrative: il reato di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico è integrato dalla condotta di colui che rende false attestazioni in ordine al patrimonio ed al reddito familiare nella dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, rilevante per l’accesso alla graduatoria preordinata all’assegnazione di sussidi da parte dell’Opera Universitaria, in quanto la l. n. 15/1968 facoltizza il privato alla dichiarazione sostitutiva, che diviene atto pubblico per il solo fatto della sottoscrizione autenticata dal funzionario preposto a ricevere l’atto, stabilendo che tali dichiarazioni «sono considerate come fatte a pubblico ufficiale». L’ordinanza impugnata deve, pertanto, essere annullata con rinvio.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Istituto autonomo per le case popolari – assegnatari degli alloggi: un rapporto che si costruisce nel tempo

venerdì 27 giugno 2014

Reato di 'fuga': la condotta imprudente della vittima non esime dalla responsabilità

Non è esente da responsabilità penale per lesioni personali colpose il conducente del veicolo che, nello svoltare imprudentemente a sinistra, abbia tagliato la strada ad un motociclista, travolgendolo, sebbene quest’ultimo, a bordo della propria motocicletta, stesse eseguendo, a sua volta, un’imprudente ed illecita manovra di sorpasso.

Inoltre, non può considerarsi adempiuto l’obbligo di fermarsi a prestare soccorso alla vittima, di cui all’art. 189, comma 1, CdS, dal conducente che, dopo aver travolto il motociclista, si sia fermato senza scendere dall’autoveicolo e, senza aver accertato le condizioni di salute del motociclista e senza consentire l’identificazione propria e del proprio veicolo, sia ripartito per evitare di bloccare la circolazione degli altri veicoli.

Questo è quanto affermato dalla Corte di cassazione, sezione IV penale, con sentenza n. 14616, depositata il 28 marzo 2014, che ha respinto il ricorso dell’imputata, la quale si era rivolta alla Suprema Corte per ottenere, inter alia, che la colpa dell’incidente fosse addebitata al motociclista, a causa della manovra di sorpasso, vietata ed imprudente, dallo stesso posta in essere; fosse dichiarato regolarmente adempiuto l’obbligo di fermarsi, imposto dall’art. 189 CdS, e quindi insussistente il reato di cui all’art. 189, commi 1 e 6, CdS; e, per l’effetto, fosse annullata la sentenza della Corte d’Appello di Roma che, confermando la sentenza del giudice di prime cure, l’aveva condannata a sette mesi di reclusione per i reati di cui agli artt. 590 c.p. (lesioni personali colpose) e art. 189, commi 1 e 6, CdS (“fuga”), nonchè al risarcimento dei danni in favore della parte civile.

fonte: ilsole24ore.com/Reato di 'fuga': la condotta imprudente della vittima non esime dalla responsabilità

mercoledì 25 giugno 2014

Lavori per il condominio: referente per i pagamenti è solo l’amministratore

Non è idoneo ad estinguere il debito pro quota del singolo condomino il pagamento diretto al creditore del condominio, se questo è sprovvisto di titolo esecutivo nei confronti della singola persona. E’ quanto affermato dalla Cassazione con la sentenza 3636/14.

Il caso

Due abitanti di un condominio hanno convenuto di fronte al Giudice di Pace di Napoli un loro vicino. Dopo un contratto di appalto con una società cooperativa, il condominio non ha saldato il corrispettivo. Per questo motivo, la società ha ottenuto un decreto di ingiunzione e ha pignorato l’importo, corrispondente agli affitti delle due attrici, facendoselo assegnare in sede di espropriazione. Le due donne hanno quindi chiesto al vicino di pagar loro la quota di spettanza delle spese condominiali, ma il convenuto ha risposto di aver già corrisposto, prima del ricorso della società, la sua quota all’Amministratore del condominio. Per questo motivo, sia il Giudice di Pace che il Tribunale d’appello hanno rigettato la domanda delle due donne, le quali hanno presentato ricorso in Cassazione, denunciando la violazione degli artt. 1292, 1294 e 1299 c.c., relativi alla solidarietà del debito.

A chi bisogna pagare? Secondo le parti ricorrenti il condominio, ponendosi come debitore nei confronti della società, non poteva ricevere da un singolo condomino, pagamenti con effetto estintivo nei confronti del solvens, essendo entrambi i soggetti debitori solidali del terzo. Per loro, quindi, era presente un nesso di solidarietà tra i vari condomini e tra essi ed il condominio. Tuttavia, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza n. 9148/2008, ha smentito questa impostazione, statuendo che «in riferimento alle obbligazioni assunte dall’amministratore, o comunque nell’interesse del condominio, nei confronti di terzi, in mancanza di un’espressa previsione normativa che stabilisca il principio di solidarietà», la responsabilità dei condomini è retta dal principio di parzialità. Infatti si tratta di un’obbligazione che ha per oggetto una somma di denaro, e perciò divisibile, pertanto le obbligazioni assunte nell’interesse del condominio «si imputano ai singoli componenti soltanto in proporzione delle rispettive quote».

La S.C., infine, in merito alle modalità di estinzione del debito, rileva che, essendo il condominio, nei confronti di terzi, un soggetto di gestione per quanto riguarda diritti e obblighi dei singoli condomini, l’Amministratore è il rappresentante della comunità, per cui è a lui, e non al creditore del condominio, che bisogna dare i soldi delle spese condominiali per estinguere il debito pro quota. Ciò vale a meno che il creditore non sia in possesso di un titolo esecutivo nei confronti del singolo condomino. Per questi motivi, la Corte ha rigettato il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Lavori per il condominio: referente per i pagamenti è solo l’amministratore

Infraventunenne ubriaco alla guida: necessari un po’ di calcoli per il computo delle aggravanti

Nel caso in cui l’incidente venga causato dopo le 22.00 da un guidatore sotto i 21 anni in stato di ebbrezza, la pena viene raddoppiata e può essere ulteriormente aumentata di un terzo: si tratta del caso in cui le circostanze aggravanti dell’aver provocato un sinistro guidando sotto l’effetto di sostanze alcoliche e in orario notturno concorrono con il fatto che la violazione è compiuta da chi ha meno di 21 anni. È quanto emerge dalla sentenza della Cassazione 17805/14.

Il caso

Il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Ancona ricorre avverso la sentenza che aveva condannato un ragazzo per il reato di cui all’art. 186-bis, comma 1, lett. a), c.d.s. (Guida sotto l'influenza dell'alcool per conducenti di età inferiore a ventuno anni, per i neo-patentati e per chi esercita professionalmente l'attività di trasporto di persone o di cose), determinando la pena in sei mesi di arresto e 2400 euro di ammenda, concedendo altresì la non menzione della condanna nel certificato penale, la sospensione condizionale della pena e ordinando la sospensione della patente di guida per otto mesi. Secondo il ricorrente, la pena inflitta è illegale, in quanto non è stato disposto l’aumento previsto dall’art. 186-bis, comma 3 per i conducenti infraventunenni che guidino in stato di ebbrezza e perché non è stata aumentata la pena pecuniaria, secondo quanto disposto dall’art. 186, comma 2 -sexies, c.d.s. Il problema che occorre preliminarmente risolvere è quello relativo al rapporto tra più individuate circostanze ad affetto speciale convergenti sull’ipotesi base della guida in stato di ebbrezza nei casi previsti dalle lettere b) e c) dell’art. 186, comma 2, c.d.s.: a tal proposito la norma di riferimento è l’art. 186, comma 2-bis, c.d.s. nella parte in cui dispone che «se il conducente in stato di ebbrezza provoca un incidente stradale , le sanzioni di cui al comma 3 dell’art. 186-bis» (aumento da un terzo alla metà delle pene rispettivamente previste dalle lettere b) e c) dell’art. 186, comma 2, c.d.s.; in particolare le lett. b) prevede l’arresto fino a sei mesi e l’ammenda da 800 a 3200 euro) «sono raddoppiate…». Detto questo, in tema di reati di guida in stato di ebbrezza alcolica, ove le circostanze aggravanti di cui rispettivamente ai commi 2-bis e 2-sexies dell’art. 186 concorrano con l’ipotesi di cui al comma 3 dell’art. 186-bis s.d.s., in applicazione di quanto previsto dall’art. 63, comma 4, c.p. dovrà essere inflitta il doppio della pena prevista dall’art. 186-bis, comma 3, al quale il giudice può apportare un aumento sino ad un terzo: ciò significa che nel caso in cui l’incidente venga causato dopo le 22.00 da un guidatore sotto i 21 anni in stato di ebbrezza, la pena viene raddoppiata e può essere ulteriormente aumentata di un terzo. Si tratta del caso in cui le circostanze aggravanti dell’aver provocato in sinistro guidando sotto l’effetto di sostanze alcoliche e in orario notturno concorrono con il fatto che la violazione è compiuta da chi ha meno di 21 anni. Nel caso oggetto di esame, la pena inflitta risulta determinata erroneamente., non essendo stata la pena base determinata nell’ambito dei termini edittali definiti dall’art. definiti dall’art. 186, comma 2-bis, in relazione allrt. 186-bis, comma 3. In particolare, la pena pecuniaria risulta determinata in misura inferiore al minimo legale. La sentenza impugnata, pertanto deve essere annullata limitatamente al trattamento sanzionatorio.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Infraventunenne ubriaco alla guida: necessari un po’ di calcoli per il computo delle aggravanti

lunedì 23 giugno 2014

Cassazione: minori difficili? Vietata la violenza a scopo educativo

Nessuna comprensione, né sconti di pena, per gli educatori che hanno a che fare con i ragazzini, soprattutto con quelli `difficili´, e che ricorrono alla violenza per tenerli a bada. Lo sottolinea la Cassazione che mette al bando le maniere forti alle quali era ricorso nel novembre del 2006 un educatore di una casa famiglia per minori dai 12 ai 18 anni, di Casteldaccia (Palermo). Infastidito da un ragazzino che suonava il flauto nell’ora del riposo, Antonino Vassallo (25 anni), lo aveva colpito più volte con lo stesso strumento fino a provocargli «ecchimosi lineari sul gluteo». Ad un altro giovanissimo ospite della comunità `La Libellula´, Vassallo aveva inferto più volte «scappellotti». Alla fine, erano state le testimonianze di numerosi ragazzini, non solo quelli maltrattati, a portarlo sotto processo.

 Senza successo, l’imputato ha sostenuto che era troppo severa la condanna (la cui entità non è nota) per violenza privata, reato più grave di quello di abuso dei mezzi di correzione, del quale ammetteva di essere colpevole. Ad ogni modo, aveva agito nell’esercizio «del diritto a realizzare la correzione e la disciplina» e di meritare l’esimente della giustificazione. Anche perché «il clima di intollerabile prevaricazione, determinatosi per la presenza dei giovani affetti da disagio» rendeva necessario «il ricorso a qualche scappellotto».

 Ma la Cassazione non ha condiviso. «Il termine `correzione´ - rilevano gli `ermellini´ - va assunto come sinonimo di educazione, con riguardo ai connotati intrinsecamente formativi di ogni processo educativo: e non può ritenersi tale l’uso della violenza finalizzato a scopi educativi». «Ciò - sottolineano inoltre i supremi giudici - sia per il primato che l’ordinamento attribuisce alla dignità della persona, anche del minore, ormai soggetto titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione (se non addirittura di disposizione) da parte degli adulti». «Sia perché non può perseguirsi quale meta educativa - prosegue la Cassazione - un risultato di armonico sviluppo di personalità, sensibile ai valori di pace, di tolleranza, di convivenza utilizzando un mezzo violento che tali fini contraddice».

 Al giorno d’oggi - avverte la Suprema Corte - «se è vero che in ipotesi e nella prospettiva dell’educazione del minore, possa ancora ammettersi il ricorso ad un occasionale ceffone, è da escludere che possa farsi uso legittimo dello stesso sistema quando trasmodi in un eccesso e si trasformi in una condotta fonte di lesioni personali non necessitata dalle circostanze».

(Fonte: Ansa)  /La Stampa - Cassazione: minori difficili? Vietata la violenza a scopo educativo

Non registrava le entrate rendendo impossibile la ricostruzione degli affari

La Cassazione ritiene “eccentriche” le doglianze mosse dalla difesa avverso la sentenza di condanna per il reato di bancarotta fraudolenta documentale, nella forma della sottrazione delle scritture e relativa al fallimento della s.r.l. di cui, il condannato, era ritenuto amministratore di fatto. L’accezione dell’aggettivo è da intendersi in senso negativo, visto il rigetto del ricorso da parte della sentenza del 19 giugno, n. 26545. Ma prima di conoscere la contestata difesa, i fatti: le scritture erano state tenute dal commercialista “peraltro in maniera … parziale” solo per un certo periodo di tempo, dopodiché il rapporto con il professionista risultava cessato; emergevano “importanti movimenti in entrata” (che avevano dato luogo ad un credito vantato da due cittadine polacche per anticipazioni alla società) non registrati, che rendevano impossibile la ricostruzione dei rapporti sottostanti e la destinazione impressa agli introiti. Con il ricorso, il condannato, lamentava l’assenza del dolo, ritenendo altresì mancante un’effettiva indagine sull’accertamento dell’elemento psicologico. A ciò aggiungeva che la dimostrazione del dolo era esclusa, secondo giurisprudenza di legittimità, dal fatto che le scritture fossero custodite dal commercialista. Piuttosto, secondo il ricorrente, emergeva un comportamento meramente negligente nella tenuta, incompleta, di scritture contabili, punibile a solo titolo di colpa. Per la Cassazione, la sentenza d’Appello non è censurabile: i giudici davano contezza del fatto che il comportamento del condannato dipendeva esclusivamente dalla sua volontà e doveva essere (logicamente) posto in relazione all’interesse a non registrare i movimenti in entrata. Situazione, per la Corte, “perfettamente inquadrabile” nella fattispecie di reato, connotata da dolo generico, della “tenuta in guisa tale da non consentire la ricostruzione degli affari”.

Fonte: Fiscopiù /La Stampa - Non registrava le entrate rendendo impossibile la ricostruzione degli affari

sabato 21 giugno 2014

L’assistenza familiare non ostacola il deposito delle sentenze

La durata eccedente un anno del ritardo nel deposito dei provvedimenti giurisdizionali rende ingiustificabile la condotta del magistrato, a meno che non sia stata determinata da circostanze assolutamente eccezionali, giustificanti l’inottemperanza al precetto normativo, di cui al d.lgs. n. 109/2006. In particolare, non è consentito al giudice civile, anche se particolarmente oberato da carichi di lavoro, effettuare la scelta di assumere in decisione un numero di cause eccedente la possibilità di far fronte ai relativi depositi entro termini ragionevoli. Lo afferma la Cassazione nella sentenza 9250/14.

Il caso

La sezione disciplinare del CSM condannava un giudice alla sanzione della censura, per aver depositato numerose sentenze con ritardi eccedenti il triplo del termine di legge, in violazione dell’art. 2, comma 1, lettera q), d.lgs. n. 109/2006 (illeciti disciplinari dei magistrati). Non veniva, quindi, accolta, la giustificazione difensiva, in cui si adduceva la gravosità dei compiti assegnati e la circostanza di aver dovuto assistere la madre durante una grave malattia, che l’aveva portata alla morte. Per il CSM, tale malattia non poteva essere considerata un evento eccezionale scriminante, anche perché i numerosi e gravi ritardi erano avvenuti altresì dopo la morte della madre. Il giudice ricorreva in Cassazione, contestando l’esclusione della sussistenza di eccezionali ragioni che avrebbero determinato il suo comportamento. Inoltre, obiettava che le conseguenze dei ritardi accumulati inevitabilmente si erano protratte oltre la data del decesso, in quanto bisognava tener conto del tempo occorrente per il relativo graduale recupero. Analizzando la domanda, le Sezioni Unite della Cassazione rilevavano che la durata eccedente un anno, come nel caso di specie, del ritardo nel deposito dei provvedimenti giurisdizionali rende ingiustificabile la condotta del magistrato, a meno che non sia stata determinata da circostanze assolutamente eccezionali, giustificanti l’inottemperanza al precetto normativo. In particolare, non è consentito al giudice civile, anche se particolarmente oberato da carichi di lavoro, effettuare la scelta di assumere in decisione un numero di cause eccedente la possibilità di far fronte ai relativi depositi entro termini ragionevoli. Secondo i giudici disciplinari, era da escludersi che gli impegni di lavoro del magistrato sanzionato fossero connotati da eccezionale gravosità rispetto a quello di altri colleghi. Inoltre, nel ricorso non veniva addotto nessun particolare dato comparativo, né alcun dato statistico, che potessero consentire un raffronto da cui desumere l’eventuale scarsa significatività dei depositi con ritardo eccedente il triplo dei termini di legge rispetto a quelli puntuali. Dall’altra parte, l’infermità della madre non poteva considerarsi una circostanza assolutamente eccezionale, che potesse giustificare i ritardi. La grave malattia o lo stato di vecchiaia invalidante di un prossimo ascendente costituiscono evenienze normali, da attendersi «quali tappe obbligate della vita in particolari stagioni della stessa», la cui sopravvenienza, tuttavia, ove riguardi un magistrato, non può consentirgli di anteporre l’adempimento dei propri doveri morali e di solidarietà familiare rispetto a quello dei compiti istituzionali. Di conseguenza, i ritardi nel deposito dei provvedimenti, che superino i limiti di tollerabilità e ragionevolezza, integrano gli estremi del provvedimento disciplinare per violazione del dovere di diligenza, anche nei casi di accertata laboriosità del magistrato e di sussistenza di ragioni all’ambiente di lavoro. In caso di esigenze di assistenza familiare, queste non possono ostacolare il buon funzionamento del servizio giustizia e lasciano aperte, per il magistrato che non sia in grado di svolgere il proprio lavoro, le vie consentite dall’ordinamento giudiziario per potersi assentare temporaneamente dal servizio, come, ad esempio, i congedi straordinari e le aspettative per motivi familiari. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - L’assistenza familiare non ostacola il deposito delle sentenze

Per l’Agente di commercio non c’è un’automatica soggezione all’IRAP

Non c’è nessuna automatica riconducibilità dell’attività dell’agente di commercio tra quelle soggette ad IRAP, in quanto attività d’impresa. A confermarlo sono anche le Sezioni Unite, che escludono l’applicazione dell’imposta per l’Agente, qualora si tratti di attività non autonomamente organizzata (sent. 12108/2009). Da ciò ne deriva che il Giudice di merito, chiamato a pronunciarsi sul diritto al rimborso, deve accertare la presenza del presupposto d’applicazione dell’imposta, salvo incorrere nel vizio di violazione di legge e di omessa motivazione. Queste le sorti seguite dalla decisione di merito che negava il rimborso all’Agente, in base alla (ritenuta) automatica soggezione e all’eccedenza del valore dei beni strumentali utilizzati, che, però, non venivano specificati dai giudici. Il contribuente, che svolgeva l’attività in casa, senza dipendenti o collaboratori e con l’ausilio della sola autovettura e di un computer, esperiva vittoriosamente ricorso in Cassazione. Secondo giurisprudenza di legittimità il giudice è tenuto ad accertare l’autonoma organizzazione, che ricorre quando il contribuente ne sia il responsabile e non sia, quindi, inserito in strutture riferibili ad altri, impieghi beni strumentali eccedenti il minimo indispensabile, si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui. Nei fatti di causa quest’accertamento (insindacabile se congruamente motivato) non era stato svolto. I Supremi Giudici, con la sentenza del 18 giugno, n. 13809, annullano la pronuncia di merito rimettendo la causa al Giudice del rinvio.

Fonte: Fiscopiù/La Stampa - Per l’Agente di commercio non c’è un’automatica soggezione all’IRAP

giovedì 19 giugno 2014

Cassazione: il controllore non infierisca su chi non paga il biglietto

Chi non paga il biglietto sui mezzi pubblici giustamente deve essere multato ma il controllore non deve infierire sul `portoghese´ davanti agli altri passeggeri.

 La Cassazione spezza per così dire una lancia nei confronti di chi ha la cattiva abitudine di salire sui mezzi pubblici `da imbucato´ e intima ai controllori di tenere a freno il linguaggio. Ecco perchè la Quinta sezione penale (sentenza 26396) ha accolto il ricorso della Procura presso la Corte d’appello di Catanzaro che ha fatto ricorso contro l’assoluzione accordata a Natale V., un controllore che dopo aver multato con 50 euro una signora che viaggiava sul treno per Sibari sprovvista di biglietto, in presenza di altri passeggeri le aveva detto che era una «recidiva» perchè non aveva pagato «nemmeno tre giorni prima».

 Il controllore era stato assolto dal giudice di pace di Cosenza il 3 ottobre 2012 dall’accusa di ingiuria. Contro l’assoluzione la Procura ha fatto ricorso con successo in Cassazione. Ora piazza Cavour ha disposto un nuovo esame della vicenda davanti al giudice di pace cosentino poiché «la motivazione del provvedimento risulta apodittica avendo il giudice ritenuto che le frasi erano offensive e d’altra parte non riconoscendo valore alle dichiarazioni della persona offesa» che si era sentita mettere alla berlina dal controllore.

(Fonte: Adnkronos)/La Stampa - Cassazione: il controllore non infierisca su chi non paga il biglietto

Dimissioni irragionevoli e mancati alimenti: il marito si manda in carcere da solo

In tema di obblighi di assistenza familiare, non è una scusante la mancanza di reddito, se questa è causata dalle dimissioni dal proprio posto di lavoro, senza aver fornito delle motivazioni ragionevoli su tale fatto. Lo ha affermato la Cassazione nella sentenza 17623/14.

Il caso

La Corte d’appello di Salerno condannava un uomo per il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare, ex art. 570 c.p., in danno della moglie separata e del figlio minore. I giudici respingevano la tesi dell’insussistenza del reato per impossibilità dell’imputato a far fronte ai suoi impegni familiari, in quanto privo di redditi, dato che pochi mesi prima si era licenziato dal posto di lavoro, ma senza alcun motivo plausibile. L’uomo ricorreva in Cassazione, contestando ai giudici di non aver tenuto conto della sua assenza incolpevole di redditi. Analizzando la domanda, la Corte di Cassazione, dopo aver sottolineato che si trattava di un motivo di merito, in quanto tale non sindacabile in sede di legittimità, rilevava, comunque, che i giudici di merito avevano motivato adeguatamente sul punto. Infatti, il ricorrente si era reso volontariamente inadempiente all’obbligo di versamento, dato che, poco dopo alla separazione personale dalla moglie, si era licenziato senza fornire delle motivazioni ragionevoli su tale decisione. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Dimissioni irragionevoli e mancati alimenti: il marito si manda in carcere da solo

Rette scolastiche, spese per viaggi e abbigliamento non compensano l’omesso mantenimento

Confermata la condanna nei confronti di un padre che non ha effettuato il versamento di 2mila euro mensili stabilito dal giudice, a chiusura della procedura di separazione dalla coniuge, come contributo per il mantenimento dei figli minori. Indiscutibile la violazione degli obblighi di assistenza familiare. Irrilevante il fatto che l’uomo abbia provveduto a sostenere in via alternativa alcune spese dei figli.

Il caso

‘Bucato’ completamente il versamento mensile di 2mila euro a favore dei figli minori. Evidente la colpa del padre, che ha scientemente ignorato l’obbligo fissato a suo carico in Tribunale, a chiusura della separazione dalla moglie. Consequenziale, e corretta, la condanna, che non può essere messa in discussione dalla scelta dell’uomo di provvedere in maniera alternativa – coprendo, ad esempio, rette scolastiche e spese per viaggi – ai bisogni dei figli. (Cassazione, sentenza 17691/14). Comune linea di pensiero per i giudici di primo e di secondo grado: condanna «alla pena di giustizia» nei confronti di un uomo – di professione: medico –, colpevole di non avere corrisposto la «somma di 2mila euro mensili» – imposta con «provvedimento» del Tribunale, a conclusione della procedura di separazione dell’uomo dalla coniuge – come «mantenimento dei figli minori». Questa visione, però, viene contestata dal legale dell’uomo, il quale evidenzia, innanzitutto, il fatto che «ai figli minori» non erano mancati i «mezzi di sussistenza» perché la moglie separata «esercente la professione di medico, aveva avuto un adeguato stipendio mensile». Peraltro, aggiunge il legale, «l’uomo aveva, comunque, versato ai figli, a più riprese, importi di varie entità per far fronte alle rette scolastiche e a spese di viaggio, e per l’acquisto di vestiti». Violazione. Ma le obiezioni mosse in Cassazione dal legale non modificano assolutamente gli equilibri stabiliti nei giudizi di merito: così, difatti, i giudici del ‘Palazzaccio’ confermano la condanna nei confronti dell’uomo. Evidente, per i giudici, «il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare», compiuto dall’uomo che, in qualità di «genitore separato», non ha adempiuto «agli obblighi di versamento imposti dal giudice civile in favore dei figli minori». E tale omissione, sia chiaro, riguarda non solo i «mezzi per la sopravvivenza vitale, quali vitto e alloggio» ma anche gli «strumenti che consentano, in rapporto alle reali capacità economiche e al regime di vita personale del soggetto obbligato, un soddisfacimento, sia pur contenuto, di altre complementari esigenze della vita quotidiana, quali, abbigliamento, libri di istruzione, mezzi di trasporto, mezzi di comunicazione». Tale quadro non può essere modificato, chiariscono i giudici, da una strada alternativa percorsa dal genitore obbligato al «versamento» in favore dei figli minori: per essere chiari, egli non può «sostituire, di sua iniziativa, la somma di denaro stabilita dal giudice civile, a titolo di contributo per il mantenimento della prole, con ‘cose’ o ‘beni’» quali «computer e capi di abbigliamento». Ciò significa che è irrilevante il fatto che l’uomo «avesse versato in favore dei figli minori» oltre 3mila euro «per il pagamento di rette scolastiche, spese di viaggio e vestiti»: ciò che conta davvero, concludono i giudici, è che egli ha «del tutto omesso di versare la somma di 2mila euro mensili, oltre al 50 per cento delle spese straordinarie, comprese quelle scolastiche», come stabilito dal giudice civile «per il mantenimento dei figli minori rimasti a carico della moglie separata».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Rette scolastiche, spese per viaggi e abbigliamento non compensano l’omesso mantenimento

domenica 15 giugno 2014

Squilli e telefonate mute: se a pagarne le conseguenze è la tranquillità della vita domestica, nessun dubbio sul risarcimento

Le valutazioni dei Giudici di merito in ordine alla liquidazione dei danni patrimoniali, in particolare di quelli morali, hanno un margine di apprezzamento discrezionale ed equitativo così elevato da poter essere sottratte al sindacato di legittimità, soprattutto se risulta pregiudicata la vita domestica dei coniugi, le loro abitudini e risulta impedita la possibilità di svolgere le ordinarie occupazioni. Lo ha stabilito la Cassazione nella sentenza 16718/14.

Il caso

La Corte di Appello di Messina condannava un uomo per aver arrecato disturbo e molestie a mezzo del telefono a due coniugi. Non era sostenibile l’assunto dell’imputato, secondo cui le telefonate erano state effettuate per rispondere a telefonate moleste da lui ricevute dalla p.o. L’uomo ricorre per cassazione, lamentando la mancata giustificazione, da parte dei Giudici di Appello, della reformatio in peius della sentenza, tenuto anche conto dei motivi per i quali egli aveva effettuato le telefonate. Contesta, inoltre, l’eccessività del risarcimento stabilito a favore della coppia. Il ricorso è infondato: le indagini di polizia hanno permesso di accertare senza alcun dubbio che le numerose telefonate moleste provenivano tutte da due utenze cellulari entrambe intestate all’imputato, rimanendo prive di riscontro le sue affermazioni circa i motivi delle telefonate effettuate per appurare se quelle da lui ricevute fossero o meno partite dall’utenza della p.o. Inoltre, a differenza di quanto sostenuto dal ricorrente, il fatto che un’altra condomina avesse presentato denuncia per molestie telefoniche analoghe a quella presentata dalla p.o. ha costituito circostanza ininfluente e priva di ogni decisività ai fini dell’accertamento della penale responsabilità. La misura del risarcimento è sottratta al sindacato di legittimità. Infondata anche la censura concernente l’eccessività del risarcimento del danno: le valutazioni dei Giudici di merito in ordine alla liquidazione dei danni patrimoniali, in particolare di quelli morali, hanno un margine di apprezzamento discrezionale ed equitativo così elevato da poter essere sottratte al sindacato di legittimità, soprattutto se risulta pregiudicata, come nel caso di specie, la vita domestica dei coniugi, le loro abitudini di vita e risulta impedita la possibilità di svolgere le loro ordinarie occupazioni. Il ricorso, alla luce di quanto detto, va rigettato.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Squilli e telefonate mute: se a pagarne le conseguenze è la tranquillità della vita domestica, nessun dubbio sul risarcimento

venerdì 13 giugno 2014

Telecamere di sicurezza nel ristorante, ma è possibile anche controllare i dipendenti: impianto illegittimo

Confermata la condanna a 300 euro di ammenda nei confronti della titolare di un ristorante. Decisiva la collocazione delle telecamere a circuito interno, presenti in punti strategici dell’attività commerciale. Evidente la possibilità di utilizzare quello strumento anche per monitorare i lavoratori. Obiettivo primario: tutelare il patrimonio aziendale. Ma, inevitabilmente, il sistema di videosorveglianza, allestito all’interno di un ristorante, rappresenta anche uno strumento in mano all’imprenditore –una donna, in questo caso – per monitorare i lavoratori. Questo potenziale utilizzo secondario rende illegittima l’installazione dell’impianto, avvenuta senza accordo con le rappresentanze sindacali aziendali. Conseguenziale la condanna della titolare del ristorante (Cassazione, sentenza 17027/14).

Il caso

Fatale il blitz compiuto dagli «ispettori dell’Ufficio provinciale del lavoro», i quali, all’interno di un ristorante, scoprono ben «quattro telecamere a circuito interno», collocate, però, senza l’«autorizzazione» dell’«Ispettorato del lavoro». Inevitabile la condanna dell’imprenditrice, titolare dell’attività commerciale, a pagare «300 euro di ammenda». E questa sanzione viene legittimata, in via definitiva, dal parere dei giudici del ‘Palazzaccio’, i quali fanno propria l’ottica adottata dai giudici del Tribunale. Decisiva la collocazione delle «telecamere a circuito interno» – una «al piano terra, nella sala dove si trovavano i tavoli», una «in direzione della porta d’ingresso», una che «guardava i tavoli», una posta a «controllare il corridoio, conducente alla cucina», una, infine, «all’interno della sala ristorazione, posta al primo piano» –: evidente che l’obiettivo «non fosse esclusivamente quello di tutelare il patrimonio aziendale contro atti penalmente illegittimi, messi in atto da terzi». Di rimbalzo, quindi, è logico pensare anche ad un «controllo a distanza della attività dei lavoratori»... Proprio per questo, è da sanzionare l’idea dell’imprenditrice, messa in pratica «in difetto di preventivo accordo con le parti sociali». E questa visione non può essere certo scalfita, chiariscono i giudici del ‘Palazzaccio’, dalla tesi difensiva della donna, la quale sostiene, essendo «nata e vissuta per lungo tempo negli Stati Uniti», di ignorare «le prescrizioni imposte dallo Statuto dei lavoratori».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Telecamere di sicurezza nel ristorante, ma è possibile anche controllare i dipendenti: impianto illegittimo

giovedì 12 giugno 2014

Garante privacy, un anno di attività: da internet ai dati giudiziari

Datagate, Internet, social network, pagamenti con smartphone e tablet, banche dati, traffico telefonico e telematico: sono questi alcuni degli ambiti su cui è intervenuta l'Autorità Garante per la Privacy - composta da Antonello Soro, Augusta Iannini, Giovanna Bianchi Clerici e Licia Califano - che ha presentato la sua Relazione annuale nella sala Koch di palazzo Madama, alla presenza del presidente del Senato Pietro Grasso.

Nel rapporto, il Garante traccia il bilancio del lavoro svolto e indica le prospettive di azione verso le quali occorre muoversi nell'obiettivo di costruire una autentica ed effettiva protezione dei dati personali, in particolare per quanto riguarda l'uso delle nuove forme di comunicazione e dei sistemi tecnologici. Come sempre, una particolare importanza ha assunto il lavoro svolto dall'Autorità riguardo al mondo della Rete.

Sono state adottate poi le Linee guida in materia di attività promozionale e contrasto allo spam. Significativi anche gli interventi svolti per regolare l'uso della firma biometrica nelle banche e l'uso delle impronte digitali sul posto di lavoro. Via libera anche al rinnovo delle autorizzazioni generali sull'uso dei dati sensibili e giudiziari da parte di diverse categorie, dell'autorizzazione generale sull'uso dei genetici e di quella sulla ricerca medico scientifica.

Procedimento giudiziario - Il Garante ha confermato che spetta al Giudice adito, ove ritualmente richiesto, la competenza a valutare la liceità del trattamento dei dati personali. Infatti, l'articolo 160, comma 6, del Codice stabilisce che la validità, l'efficacia e l'utilizzabilità di atti, documenti e provvedimenti nel procedimento giudiziario basati sul trattamento di dati personali, ancorché non conforme a disposizioni di legge o di regolamento, restano disciplinate dalle pertinenti disposizioni processuali nella materia civile e penale.

Internet - Nel corso del 2013, si ricorda nella relazione, il Garante ha sanzionato Google per un milione di euro per il servizio Street View ed ha intrapreso un'azione, in coordinamento con le altre Autorità europee, nei confronti di Mountain View per le nuove regole privacy adottate. È intervenuto per garantire maggiore trasparenza agli utenti dei servizi di messaggistica, anche vocale. E ha dettato regole per proteggere la privacy su smartphone e tablet.

È stato anche definito un modello di consenso per l'uso dei 'cookie' da parte degli utenti e ulteriormente rafforzato il diritto delle persone interessate a vedere aggiornati gli archivi giornalistici on line. Inoltre, per garantire un corretto rapporto fra trasparenza della pubblica amministrazione e riservatezza delle persone, sono stati presi provvedimenti di divieto nei confronti di decine di Comuni che avevano pubblicato sul web dati sanitari dei cittadini e sono state adottate le linee guida sulla trasparenza on line.

Tlc - Il Garante per la Privacy ha poi fissato le regole sull'obbligo per le società di tlc di comunicare agli utenti e all'Autorità le violazioni subite dai data-base in caso di attacchi informatici, eventi avversi o calamità, i cosiddetti 'data breach'. Sono state anche adottate linee guida in materia di attività promozionale e contrasto allo spam e fatti interventi per regolare l'uso della firma biometrica nelle banche e l'uso delle impronte digitali sul posto di lavoro. Rilevante anche l'impegno nel dettare regole per la tutela dei cittadini nei confronti dei call center delocalizzati nei Paesi extra Ue; per la tutela degli abbonati telefonici contro il telemarketing aggressivo e contro le cosiddette 'telefonate mute'; per la tutela della privacy nel condominio.

Le cifre - Nella relazione annuale compaiono le cifre più significative, a bilancio dell'attività del Garante per la Privacy. Nel 2013, sono stati adottati 606 provvedimenti collegiali. L'Autorità ha fornito riscontro a 4.185 tra quesiti, reclami e segnalazioni che hanno riguardato telefonia, centrali rischi, videosorveglianza, rapporti di lavoro, giornalismo. Sono stati decisi 222 ricorsi, inerenti soprattutto a banche e società finanziarie, datori di lavoro pubblici e privati, attività di marketing, compagnie di assicurazione, operatori telefonici e telematici. I pareri resi dal collegio a Governo e Parlamento sono stati 22 ed hanno riguardato, in particolare, l'informatizzazione delle banche dati della pubblica amministrazione, l'attività di polizia e sicurezza nazionale, la formazione. Effettuate 411 ispezioni pari al +4% rispetto al 2012, che hanno riguardato diversi settori: call center e telefonate promozionali indesiderate; banche dati del fisco; credito al consumo e centrali rischi; sistema informativo dell'Inps; nuovi strumenti di pagamento elettronico gestiti dalle compagnie telefoniche ovvero 'mobile payment'; violazioni delle banche dati dei gestori tlc, i 'data breaches'.

Le violazioni amministrative contestate sono state 850, in aumento rispetto all'anno precedente quando risultarono in totale 578: una parte consistente ha riguardato il trattamento illecito dei dati, legato principalmente al telemarketing e all'uso dei dati personali senza consenso; all'omessa o inadeguata informativa agli utenti; alla conservazione eccessiva dei dati di traffico telefonico e telematico; alla mancata adozione di misure di sicurezza; all'omessa o mancata notificazione al Garante; all'inosservanza dei provvedimenti dell'Autorità.

Le sanzioni - Le sanzioni amministrative riscosse ammontano a oltre 4 milioni di euro. Le violazioni segnalate all'autorità giudiziaria sono state 71, in particolare per mancata adozione di misure minime di sicurezza a protezione dei dati. L'attività di relazione con il pubblico è aumentata rispetto all'anno precedente: si è dato riscontro a oltre 31.000 quesiti, che hanno riguardato, in particolare, le problematiche legate alle telefonate indesiderate, a Internet, alla pubblicazione di documenti da parte della Pa, alla videosorveglianza, al rapporto di lavoro. Quanto all'attività internazionale, i Garanti europei si sono occupati del nuovo regolamento in materia di protezione dati che sostituirà quello del 1995 e della direttiva che dovrà disciplinare il trattamento dei dati per finalità di giustizia e di polizia. Infine, si è operato anche nell'ambito delle autorità di controllo per Schengen, Europol ed Eurodac.

fonte: ilsole24ore.com//Garante privacy, un anno di attività: da internet ai dati giudiziari

Ok responsabilità toghe, governo e giudici s'infuriano

Più uno scivolone della maggioranza che un blitz del Carroccio (con la "complicità" dei grillini). Il sì della Camera alla responsabilità civile dei magistrati (un emendamento del leghista Gianluca Pini alla legge Comunitaria, votato a scrutinio segreto) ha sgambettato il governo (battuto per 7 voti, 187 a 180), messo a nudo la spaccatura nel Pd (nel mirino i franchi tiratori, 34, e anche Roberto Giachetti che ha ufficializzato il suo sì), reso felice Fi-Lega-M5s. E fatto infuriare l'esecutivo (è un "pasticcio da correggere subito", ha attaccato il ministro Orlando) e così pure i magistrati che hanno letto in quella che giudicano una 'provocazione', una 'lesione' ai principi di indipendenza e di autonomia.

Tutto ciò è accaduto mentre Giorgio Napolitano, ricevendo al Quirinale i membri dell'assemblea generale della Rete Europea dei consigli di giustizia, puntualizzava come l'indipendenza dei giudici non sia affatto un privilegio, bensì una garanzia. Il capo dello Stato ha fatto presente che anche le esigenze dei cittadini devono essere soddisfatte "coniugando equità e tempestività".

Il "gravissimo colpo di mano", per dirla con la Dem Donatella Ferranti, ha fatto virare repentinamente la giornata politica verso il caos, con Matteo Renzi che, impegnato nella mission orientale, ha trattenuto a stento l'arrabbiatura. Quel che è filtrato dalla lontana Pechino è una sdrammatizzazione ("è una tempesta in un bicchiere d'acqua" avrebbe detto ai suoi) da parte del premier per il quale si potrà rapidamente cambiare verso a quella norma al Senato dove è ora approdata la legge comunitaria. Ma il presidente del Consiglio non mancherà di certo l'occasione, sabato prossimo all'assemblea del partito, per stringere i ranghi, e inchiodare il partito alle sue responsabilità che sono direttamente proporzionali a quel 41 % uscito dalle urne che - ha già avvisato - non consente "cincischiamenti" pena la "morte".

Rabbia su rabbia, dunque, perché dietro quel voto c'è un drappello Pd di franchi tiratori forse in combutta con i "gattopardi" (come li definisce angelo Rughetti). Il risultato, come si è visto è una miscela esplosiva, che ha generato il cortocircuito tra Governo e toghe con il Pd a fare da cuscinetto garantendo che quella norma anomala verrà cancellata e non sarà quindi una "clava contro le inchieste".

In questo modo - ha attaccato infatti l'Anm - si "indebolisce l'azione dei giudici impegnati nella lotta alla corruzione", si finisce cioè con il "condizionare" le toghe con una "forza intimidatoria". Altrettanto allarmato il vicepresidente del Csm Michele Vietti che ha fatto scudo al principio dell'indipendenza delle toghe. Preoccupata anche Magistratura Democratica. Ma dal Pd si sono subito precipitati a inviare segnali rassicuranti alla magistratura.

"Alla Camera è stato commesso un errore - è il leitmotiv Dem - che verrà sanato rapidamente a palazzo Madama". Sconsolato il ministro della Giustizia Andrea Orlando: indiscutibilmente "è un pasticcio che non aiuta". Un pasticcio che ha mandato in brodo di giuggiole i 5 stelle felici di aver "portato alla luce la spaccatura nel Pd", ma che al Senato - come ha annunciato il capogruppo Maurizio Buccarella - voteranno in modo compatto contro quella norma. Strafelici gli azzurri che hanno coronato (per via indiretta) il sogno di una vita (toghe alla sbarra). "Caduto il tabù", ha esultato tra gli altri Simone Baldelli, "ora chi sbaglia paga", gli ha fatto eco Anna Maria Bernini.

fonte: ilsole24ore.com//Ok responsabilità toghe, governo e giudici s'infuriano

Niente mantenimento per moglie e figlia: nessuna giustificazione per un marito povero a giorni alterni

L’incapacità economica, intesa come impossibilità dell’obbligato di far fronte agli adempimento sanzionati dall’art. 570 c.p., deve essere assoluta, nel senso di estendersi a tutto il periodo dell’inadempimento, e deve concretizzarsi in una persistente, oggettiva ed incolpevole situazione di indisponibilità di introiti. Inoltre, tale condizione non momentanea deve essere documentata con rigore da chi la prospetta. Lo ha affermato la Cassazione nella sentenza 16450/14.

Il caso

La Corte d’Appello di Bari condannava un uomo per il reato di violazione continuata degli obblighi di assistenza familiare di cui all’art. 570 c.p., per aver fatto mancare i mezzi di sussistenza alla moglie separata, mediante il mancato versamento dell’assegno di mantenimento fissato giudizialmente. Tale condotta non poteva trovare giustificazione a meno che la dedotta incapacità economica non fosse stata assoluta e non ascrivibile a sua colpa. L’uomo ricorre per cassazione, lamentando la mancata verifica, da parte dei Giudici, di un reale stato di bisogno della moglie che, comunque, disponeva di capacità economiche per la propria sussistenza, grazie anche all’aiuto dei sui genitori con cui viveva. Inoltre, la Corte territoriale aveva posto a suo carico, in modo illogico e contraddittorio, l’onere di provare un’assoluta impossibilità di svolgere una qualsiasi attività lavorativa. Il ricorso è privo di pregio: l’incapacità economica, intesa come impossibilità dell’obbligato di far fronte agli adempimento sanzionati dall’art. 570 c.p., deve essere assoluta, nel senso di estendersi a tutto il periodo dell’inadempimento, e deve concretizzarsi in una persistente, oggettiva ed incolpevole situazione di indisponibilità di introiti. Inoltre, tale condizione non momentanea deve essere documentata con rigore da chi la prospetta in termini di forza maggiore o, comunque, essere oggetto di precisa e circostanziata allegazione. Nessuna attenuante. La condotta dell’imputato non può quindi essere in alcun modo giustificata, considerati anche il modestissimo ammontare dell’assegno e la personalità dell’obbligato, gravato da precedenti penali e non incline a nessuna dimostrazione di resipiscenza. Conclusivamente, il ricorso non può che essere dichiarato inammissibile.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Niente mantenimento per moglie e figlia: nessuna giustificazione per un marito povero a giorni alterni

lunedì 9 giugno 2014

Motociclista assume droghe e investe pedone, ma per esserne certi bisogna provarlo

Ai fini del giudizio di responsabilità nel reato di guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti, è necessario provare non solo la precedente assunzione di sostanze stupefacenti, ma anche che l’agente abbia guidato in stato di alterazione causato da tale assunzione. Lo ha stabilito la Cassazione nella sentenza 16059/14.

Il caso

Un motociclista nell’impegnare un incrocio, urtava un pedone che stava attraversando la strada da destra verso sinistra, fuori le strisce pedonali: l’imputato stava superando sulla sinistra le macchine ferme in colonna, procedendo ad una velocità di 37 km/h, ritenuta non prudenziale in relazione alla manovra scorretta che stava compiendo. Alla luce di tale episodio, il gip, in esito a giudizio abbreviato, dichiarava il motociclista colpevole del reati di omicidio colposo commesso in violazione delle norme a tutela della circolazione stradale, e di guida in stato di alterazione da sostanze stupefacenti, condannandolo alla pena di un 1 anno, 4 mesi 20 gg di reclusione, pena sospesa, e applicando la sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente, nonché la confisca del motociclo da lui guidato. Sia il Tribunale che la Corte d’appello ritenevano il guidatore colpevole, rilevando come non potesse dubitarsi che lo stato di intossicazione per assunzione di stupefacenti fosse attuale, e che la guida fosse stata imprudente. Avverso tale sentenza ricorreva per cassazione il condannato, contestando che per quanto riguardava l’alterazione psicofisica, si trattava di una circostanza, che era stata accertata soltanto attraverso l’esame delle urine, esame però che, come la difesa aveva rappresentato già in sede d’appello, poteva dimostrare solo la pregressa assunzione di sostanze stupefacenti e non l’attualità del fatto che la persona, si trovasse, al momento dell’incidente, sotto l’influenza di cannabinoidi. Riguardo invece l’investimento del pedone, la difesa sosteneva che quest’ultimo era uscito all’improvviso dalla fila di auto incolonnate, con modalità tali da non essere visibile da parte del motociclista, di modo che non era possibile alcuna manovra atta ad evitare l’investimento. Per la S.C. il primo motivo di ricorso è fondato, in quanto ai fini dell’accertamento del reato è necessario sia un accertamento tecnico-biologico, sia che altre circostanze provino la situazione di alterazione psico-fisica al momento del fatto contestato. Tale complessità probatoria s’impone perché le tracce degli stupefacenti permangono nel tempo, sicché l’esame tecnico potrebbe avere un esito positivo in relazione ad un soggetto che ha assunto la sostanza giorni addietro e che, pertanto, non si trova al momento del fatto in stato di alterazione. Pertanto su tale punto la sentenza, a parere della Corte, deve essere annullata con rinvio al giudice del merito che valuterà la sussistenza delle altre circostanze, riferite dagli agenti o comunque desumibili dal compimento dell’imputato, sulla cui base possa affermarsi che il medesimo fosse in stato di alterazione al momento dell’incidente. Quanto alla responsabilità per l’incidente il ricorso non merita accoglimento, in quanto il conducente di un veicolo ha in ogni caso il dovere di attenzione nei confronti dei pedoni in prossimità di un semaforo, essendo sempre possibile che si verifichi l’attraversamento fuori dal passaggio pedonale, comportamento che seppure imprudente, non è eccezionale o assolutamente imprevedibile.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Motociclista assume droghe e investe pedone, ma per esserne certi bisogna provarlo

giovedì 5 giugno 2014

Crisi coniugale: stress per l’uomo, che si ‘sfoga’ sul figlio. Non regge la tesi del vizio di mente

Confermata la condanna a oltre cinque anni di carcere, così come tratteggiata dai Giudici di Appello. Respinta la tesi difensiva, tutta puntata sulla incapacità di intendere e di volere dell’uomo al momento dei terribili fatti. Non può bastare lo stress derivante dalla crisi del rapporto coniugale per parlare di status patologico.

Il caso

Famiglia ridotta come un vaso di coccio caduto rovinosamente a terra: completamente a pezzi! Così il marito vive la crisi del proprio rapporto coniugale, con una evidente, e consequenziale, condizione di forte stress. Ma ciò – abbinato alla dequalificazione del ruolo genitoriale della moglie – non basta per considerare acclarato il vizio di mente dell’uomo, tale da ‘alleggerirne’ la drammatica responsabilità per il tentato omicidio del figlioletto (Cassazione, sentenza 15831/14). Chiara la ricostruzione della drammatica condotta del padre di famiglia, accusato per il reato di «tentato omicidio», avendo «compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a cagionare la morte del proprio figlio, tenendo premuto, con forza, un cuscino sul suo volto, fino a quando il bambino non aveva perso i sensi per anossia». Logica la condanna, definita, in Appello, in «cinque anni e quattro mesi di reclusione», condanna che, secondo i giudici, non può essere attenuata, nonostante lo «stato di sofferenza emotiva» dell’uomo – all’epoca dei fatti – frutto della «separazione di fatto dalla moglie, legatasi ad un altro uomo». Nessun dubbio, quindi, sulla «imputabilità» dell’uomo: difatti, pur «rilevando la relativa modestia» del suo «patrimonio intellettuale», è cristallina la sua «piena capacità di intendere e di volere». Secondo il legale dell’uomo, però, i giudici di merito hanno compiuto errori clamorosi. Soprattutto perché era stata «accertata l’esistenza di un’alterazione psichica, già a pochi minuti dalla consumazione del fatto, in occasione del ricovero in ‘Pronto soccorso’», senza dimenticare, poi, il «sovrapporsi, a tale stato patologico, di un intenso stato emotivo». Come escludere, allora, domanda il legale, che «tale sovrapposizione esisteva già al momento» del terribile gesto compiuto dall’uomo? Ancora una volta, quindi, il nodo gordiano è l’equilibrio psichico della persona. Ma su questo punto i giudici del ‘Palazzaccio’, mostrando di condividere le valutazioni compiute in appello – e confermando la relativa pronunzia di condanna –, ritengono di «escludere che la condizione di stress derivante dalla crisi del rapporto coniugale potesse integrare un vero e proprio status patologico – sia pure transeunte – in grado» di compromettere «la capacità di intendere e di volere» dell’uomo.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/La Stampa - Crisi coniugale: stress per l’uomo, che si ‘sfoga’ sul figlio. Non regge la tesi del vizio di mente

mercoledì 4 giugno 2014

Patteggia 4 mesi per ricettazione di una bici

Il proprietario lo aveva trovato in possesso del mezzo davanti allo stabilimento Granchio Beach



I carabinieri lo avevano trovato in possesso di una bicicletta che risultava rubata nell’agosto scorso al Lido di Spina, oggi in Tribunale a Ferrara il patteggiamento a 4 mesi e 100 euro di multa con sospensione della pena per il reato di ricettazione.

I fatti risalgono al 15 agosto dello scorso anno quando il proprietario della bicicletta, che aveva già sporto denuncia per il furto, ha rinvenuto il mezzo – legato insieme ad altre due bici – in una rastrelliera difronte allo stabilimento Granchio Beach. Avvisati subito i carabinieri questi ultimi hanno atteso che qualcuno arrivasse a prenderla per intervenire. Alla richiesta di giustificare il possesso della bici, M.E. residente a Bondeno, difeso davanti al giudice Franco Attinà dall’avvocato Emiliano Mancino, aveva risposto di averla trovata in stato di abbandono nel cortile del condominio dove alloggiava ma i carabinieri non gli hanno creduto e lo hanno così denunciato per ricettazione.

fonte: estense.com//Patteggia 4 mesi per ricettazione di una bici | estense.com Ferrara

martedì 3 giugno 2014

A spasso col cagnetto in borsetta: ferita una donna, avvicinatasi troppo. Padrona responsabile

Nonostante l’insolita collocazione dell’animale, rimane comunque l’obbligo di approntare adeguate misure di sicurezza. Obiettivo è evitare possibili ripercussioni negative per le persone che, incuriosite, decidano di avvicinarsi troppo al cagnetto, provocandone una reazione eccessiva (Cassazione, sentenza 15492/14).

Il caso

Scena carica di simpatia, e capace di strappare un sorriso: perché, inutile negarlo, incuriosisce l’immagine del cagnetto ‘ospite’ della borsa della padrona. Ma dietro il quadretto da film ‘zuccheroso’ può nascondersi comunque un pericolo... che, cioè, il piccolo animale reagisca bruscamente alla intrusione di una estranea nel suo regno. A doverne rispondere, penalmente, è la padrona del cane: ella avrebbe dovuto essere più prudente, e approntare misure adeguate per tenere sotto controllo l’animale. Conto ‘salato’, quello presentato dalla giustizia: «200 euro di multa», «pagamento delle spese processuali» e «risarcimento del danno», frutto della «condanna», a carico di una donna, per il «reato di lesioni personali colpose» provocate dal suo cane a un’altra donna. Quest’ultima, per farla breve, è rimasta «ferita dal cane di piccola taglia» – che la donna sotto accusa «teneva nella borsa portata al braccio» – allorché «ella aveva avvicinato il viso al cane». Evidente, per i giudici di merito, la «condotta imprudente» della vittima, ma ciò non esclude la «responsabilità» della proprietaria del cane, la quale, sempre secondo i giudici, «aveva custodito l’animale senza le debite cautele e la dovuta diligenza». Significativo, a questo proposito, il fatto che ella aveva portato «il cane nella borsa a tracolla», consentendo così all’animale di «essere più vicino al viso delle persone» e limitando, invece, la «possibilità di un pieno controllo sui movimenti» dell’animale. Incustodito. E il quadro tracciato dal Giudice di pace prima e dal Tribunale poi viene condiviso anche dai giudici del Palazzaccio: così, nonostante le obiezioni della proprietaria del cane, è confermata la condanna per «lesioni personali colpose». Decisiva è la constatazione della «inadeguata custodia del cane», alla luce dell’ordinanza del Ministero della Salute con cui si impone «al proprietario o detentore di cani l’obbligo di applicare la museruola e il guinzaglio quando si trovino in luogo pubblico o aperto al pubblico». Questo elemento è valutato come prioritario rispetto alla «condotta» della vittima, «imprudente» sì ma «non assolutamente imprevedibile», poiché, evidenziano i giudici, è noto che «la presenza di un cane può sollecitare l’attenzione e l’interesse delle persone». Per questo, chiariscono i giudici, in chiusura, «ove si intenda condurre l’animale in ambienti ove è prevedibile il contatto con persone», è necessaria «l’adozione» – mancata completamente, in questa vicenda – di «cautele» che azzerino la possibilità di «danni in conseguenza delle reazioni dell’animale».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - A spasso col cagnetto in borsetta: ferita una donna, avvicinatasi troppo. Padrona responsabile

Bonifici eseguiti ma mai ordinati: il correntista doveva accorgersene

Alla Banca, la condanna in Appello alla restituzione di “un’ingente somma”, prelevata dal conto di un consorzio correntista, a fronte di tre bonifici, mai ordinati né sottoscritti dal legale rappresentante del consorzio, eseguiti a favore di un condominio, non va giù, in fondo il suo cliente aveva avuto tempo e modo di accorgersi delle operazioni illegittime, avvenute a seguito di ordini falsificati, senza però fare niente. Ne derivava, per la Banca, un suo concorso colposo nella causazione dell’evento dannoso. La Cassazione, con l’ordinanza del 29 maggio, n. 12091, accoglie la lamentela dell’Istituto circa l’omessa motivazione dell’Appello in ordine alla contestazione tardiva dell’irregolarità dei bonifici da parte del consorzio, a distanza di circa un anno dall’esecuzione del primo, “così ingenerando nella banca stessa il convincimento della regolarità delle operazioni”, di cui le seconde due, come sostenuto dall’istituto, avrebbero potuto non essere effettuate a fronte di una tempestiva contestazione della prima. Sul punto, il Giudice dell’Appello, “nulla ha stabilito in merito”, limitandosi ad affrontare la diversa e, ritenuta dalla Corte, più “generale” questione del rapporto intercorrente tra la mancata contestazione dell’estratto conto da parte del consorzio e la legittimazione dello stesso ad agire contro operazioni eseguite senza titolo legittimante. Accolto il detto motivo di ricorso, sul quale si esprimerà ora il Giudice del rinvio, i Supremi Giudici, respingono invece, per l’insidacabilità del giudizio espresso dal Giudice di merito, a seguito di valutazione dell’istruttoria espletata, la doglianza volta a negare la responsabilità dei funzionari della Banca che, secondo l’Appello, avrebbero dovuto necessariamente avvedersi della falsità dei documenti prodotti per l’esecuzione dei bonifici.

Fonte: http://fiscopiu.it/La Stampa - Bonifici eseguiti ma mai ordinati: il correntista doveva accorgersene

Violenza sessuale: costituisce ''induzione'' qualsiasi forma di sopraffazione della vittima

 L’induzione necessaria ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale non si identifica solo con la persuasione subdola ma si...