giovedì 31 luglio 2014

Acquisto di immobile con pagamenti successivi, non c’è accertamento né sanzione

L’Agenzia delle Entrate, con la risoluzione n. 53/E, ha fornito chiarimenti circa l’indicazione analitica delle modalità di pagamento del corrispettivo, nel caso di pagamenti rinviati ad un momento successivo rispetto al perfezionamento degli atti di cessione immobiliare.

In linea generale, l’art. 35, comma 22, d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito con modificazioni dalla l. 4 agosto 2006, n. 248, impone alle parti di rendere, all'atto della cessione dell'immobile, apposita dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, recante l'indicazione analitica delle modalità di pagamento del corrispettivo. Tale disposizione risponde a finalità antievasive e di prevenzione del riciclaggio e riguarda tutti i pagamenti concernenti atti di compravendita immobiliare. In mancanza di tale dichiarazione, è prevista una sanzione amministrativa da 500 a 10.000 € e l’assoggettamento dell’atto alla procedura di accertamento di valore ex art. 52, comma 1, T.U.I.R.

Con differenti istanze rivolte alle Entrate, è stato richiesto se tale adempimento potesse ritenersi assolto, anche nel caso in cui oggetto della dichiarazione sostitutiva fossero solo i pagamenti effettuati in data antecedente o contestuale al rogito, considerato che per i pagamenti successivi le parti non possono indicare, al momento della stipula dell'atto, i relativi estremi di versamento.

L’Agenzia, nel rispondere al quesito posto, ricorda l’eccezione ex art 1, comma 497, l. 23 dicembre 2005, n. 266 (Legge Finanziaria per il 2006) riguardo alle cessioni di immobili nei confronti di persone fisiche che non agiscano nell'esercizio di attività commerciali, artistiche o professionali, per cui la base imponibile è determinata da valore dell’immobile determinato ai sensi dell'art. 52, comma 4 e 5, d.P.R. n. 131/1986, indipendentemente da quello pattuito dalle parti.

Nel caso specifico, è evidente che l’indicazione analitica delle modalità di pagamento non può essere pretesa, in relazione a versamenti che saranno effettuati successivamente rispetto all'atto di cessione dell’immobile, mancandone gli estremi. Pertanto, l'obbligo previsto potrà essere assolto, fornendo in atto gli elementi utili alla identificazione, in termini di tempi, importi ed eventuali modalità di versamento, di quanto dovuto a saldo. In tal caso, l’Amministrazione può verificare la coerenza tra le movimentazioni finanziarie, una volta manifestatesi, e i patti conclusi tra acquirente e venditore, ma non può applicare alcuna sanzione o procedere ad accertamento di maggior valore.

Fonte: Fiscopiù - Giuffrè per i Commercialisti - www.fiscopiu.it

La Stampa - Acquisto di immobile con pagamenti successivi, non c’è accertamento né sanzione

mercoledì 30 luglio 2014

Scontro con un ramo d’ulivo: se il conducente non è previdente la colpa è anche sua

In caso di sinistri riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada, la conseguente responsabilità derivante dal difetto di manutenzione può essere attenuata o esclusa in funzione dell’accertamento della concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo. Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà tener conto che quanto più questo è suscettibile di essere previsto e superato attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato, tanto più il comportamento della vittima incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta attribuibile al responsabile e l’evento dannoso. È quanto emerge dalla sentenza della Cassazione 11079/14.

Il caso

Un uomo conveniva in giudizio due uomini, una donna e l’Amministrazione Provinciale di Taranto chiedendo la condanna al risarcimento del danno subito a causa di un incidente nel corso del quale la sua macchina operatrice, trasportata su un rimorchio, aveva urtato contro un ramo d’ulivo che sporgeva da un fondo di proprietà dei convenuti sulla strada provinciale.

La Corte d’Appello di Lecce rigettava la domanda: seppure a carico dei convenuti si potessero riscontrare elementi di colpa, il ramo in questione era sicuramente visibile e la condotta del conducente non era stata prudente e attenta, così da porre in essere una serie causale sopravvenuta, idonea a provocare l’evento dannoso.

L’attore ricorre in Cassazione, sostenendo che la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere che egli non poteva non avvistare il ramo in quanto vi era bel tempo. In altre parole, non si poteva sostenere, come fatto dai Giudici di merito, che pur essendo i convenuti colpevoli, solo il conducente era responsabile dell’evento.

Il ricorso non merita accoglimento: correttamente la Corte territoriale si è attenuta al principio della condicio sine qua non, secondo cui in tema di responsabilità civile aquiliana, un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo. Da considerare anche il criterio della causalità adeguata, sulla base del quale, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che appaiono – valutati ex ante – del tutto inverosimili.

Il rigore del principio dell’equivalenza delle cause trova il suo temperamento nella causalità efficiente in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa è tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti. In ordine al carattere colposo della condotta del danneggiato, occorre tenere a mente che in caso di sinistri riconducibili a situazioni di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della strada, la conseguente responsabilità derivante dal difetto di manutenzione può essere attenuata o esclusa in funzione dell’accertamento della concreta possibilità per l’utente danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo.

Nel compiere tale ultima valutazione, si dovrà tener conto che quanto più questo è suscettibile di essere previsto e superato attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato, tanto più il comportamento della vittima incide nel dinamismo causale del danno, sino ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta attribuibile al responsabile e l’evento dannoso. Il ricorso, pertanto, è da rigettarsi.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/La Stampa - Scontro con un ramo d’ulivo: se il conducente non è previdente la colpa è anche sua

Il contribuente non può essere leso dalle deficienze organizzative dell’Agenzia

La giustificazione all’avviso di accertamento, notificato prima del decorrere dei sessanta giorni (art. 12, comma 7, Legge n. 212/00), fondata sull’approssimarsi della scadenza per l’esercizio del potere di accertamento, può “semmai ricevere il giusto risalto all’interno dell’Amministrazione”, ma risulta inadeguata nei rapporti con il contribuente, non potendosi comprimere i diritti garantiti dal detto termine per via del tardivo ricevimento del PVC di chiusura delle operazioni, quest’ultime ritardate a loro volta dall’ “inadeguata programmazione dell’attività di verifica”.

Lo afferma la CTR che annulla l’avviso e lo conferma la Cassazione, adita con il ricorso dell’Agenzia che si difendeva adducendo l’irragionevole sproporzione della sanzione della nullità (non espressamente prevista dalla legge) e sottolineando che l’avviso conteneva la motivazione dell’urgenza: l’imminente spirare del termine di esercizio della potestà di accertamento.

Gli Ermellini, conformi alla giurisprudenza delle Sezioni Unite (sent. n. 18184/13) respingono le censure dell’Agenzia e ribadiscono che il termine è posto “a garanzia del pieno dispiegarsi del contradditorio procedimentale”, il quale ultimo “non può essere degradato ad eventualità soggetta alla discrezione con la quale l’amministrazione programma le proprie attività”, dunque le ragioni d’urgenza non possono derivare da “profili o deficienze organizzative tutte interne all’amministrazione procedente”.

Con la sentenza del 26 giugno 2014, n. 14575, si vede costretta a respingere il ricorso, viceversa si verrebbero a convalidare in via generalizzata tutti gli atti in scadenza, in contrasto col principio secondo cui l’urgenza dev’essere riferita “alla concreta fattispecie, e cioè al singolo rapporto tributario controverso”.

Fonte: Fiscopiù - Giuffrè per i Commercialisti - http://fiscopiu.it/La Stampa - Il contribuente non può essere leso dalle deficienze organizzative dell’Agenzia

martedì 29 luglio 2014

Il poliziotto non ha bisogno di correre dietro al colpevole: il computer lo fa al posto suo

E' possibile redigere un verbale di accertamento di infrazioni stradali in forma digitale ed automatizzata, nei casi in cui non possa procedere alla contestazione immediata dell’addebito al trasgressore. Lo afferma la Cassazione nella sentenza 20560/14.

Il caso

Il tribunale di Milano annullava l’ordinanza di sospensione dall’esercizio del pubblico servizio, emessa dal gip presso il tribunale di Busto Arsizio, nei confronti di un'agente di polizia locale, accusata del reato di cui all’art. 478 c.p. (Falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in copie autentiche di atti pubblici o privati e in attestati del contenuto di atti).

Secondo l’accusa, dopo aver omesso di redigere l’originale di alcuni verbali di accertamento per infrazioni stradali, aveva inserito i dati nel sistema informatico, emettendo, così, delle false copie conformi relative ad atti pubblici inesistenti, in seguito stampati e notificati ai presunti responsabili delle violazioni del codice della strada.

Il pm ricorreva in Cassazione, lamentando la ritenuta insussistenza del reato ex art. 478 c.p., a causa dell’esclusione, operata dai giudici di merito, dei gravi indizi che, a suo avviso, integravano invece la fattispecie. Tuttavia, la Corte di Cassazione riteneva che mancasse il presupposto fattuale, cioè l’ipotizzata inesistenza dell’originale atto di accertamento, e la falsa predisposizione delle copie autentiche. Infatti, gli atti esistevano, anche se redatti in forma digitale ed automatizzata, come consentito dall’art. 383 c.d.s., mediante la creazione di files immodificabili inseriti nel sistema operativo del Comune.

Questo è un sistema di redazione del verbale consentito dalla legge nei casi in cui il pubblico ufficiale non possa procedere alla contestazione immediata dell’addebito al trasgressore. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Il poliziotto non ha bisogno di correre dietro al colpevole: il computer lo fa al posto suo

Conti bancari, la prova della non imponibilità deve essere analitica

Nel solco di un orientamento consolidato, la Corte di Cassazione ha ribadito che, in caso di accertamento fondato sull'analisi dei conti correnti bancari del contribuente, questi ha l'onere di dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non sono riferibili ad operazioni imponibili, e deve farlo fornendo una prova non generica, ma analitica, indicando specificamente la riferibilità di ogni movimentazione.

Il principio è stato riaffermato, in accoglimento del ricorso proposto dall'Agenzia delle Entrate, nella sentenza n. 16455 del 18 luglio 2014. Il caso riguardava l'avviso di accertamento per IRPEF e ILOR notificato a una società a seguito di indagini di polizia giudiziaria sui conti bancari di detta società e dei suoi soci di fatto.

Il Giudice d'appello aveva ritenuto illegittimo l'avviso di accertamento sulla scorta della considerazione che i versamenti e i prelevamenti eseguiti risultavano in linea con la dichiarazione Iva presentata. L'Agenzia ha impugnato per cassazione la sentenza di secondo grado deducendo, con unico motivo di ricorso, la violazione dell'art. 32, comma 1, n. 2, del D.P.R. n. 600/1973: secondo la tesi prospettata dall'Ufficio, in caso di recupero a tassazione delle movimentazioni attive e passive che non trovino corrispondenza nelle scritture contabili obbligatorie, il contribuente non può assolvere all'onere probatorio dimostrando che l'ammontare complessivo di prelevamenti e versamenti corrisponde o è inferiore a quanto dichiarato ai fini dell'Iva o delle imposte dirette, ma deve fornire prova specifica della estraneità di ogni movimentazione all'attività d'impresa. La tesi è stata condivisa dalla Suprema Corte che, richiamando la consolidata giurisprudenza di legittimità sul tema (Cass. nn. 2752/2009, 18081/2010, 21420/2013), ha accolto il ricorso dell'Ufficio.

Fonte: Fiscopiù - Giuffrè per i Commercialisti - http://fiscopiu.it/La Stampa - Conti bancari, la prova della non imponibilità deve essere analitica

Vademecum sulle ferie: la parola all'avvocato

Nei contesti aziendali assume sempre maggiore interesse la tematica delle ferie riconosciute ai dipendenti e la corretta regolazione della loro fruizione. Cercheremo quindi di esaminare il tema delle ferie, analizzando in questa prima parte, attraverso continui richiami alla giurisprudenza costituzionale, di legittimità e di merito, le fonti del diritto alle ferie, le modalità di fruizione delle stesse e le ipotesi di monetizzazione lecite.

Fonti del diritto alle ferie

Come noto, il diritto alle ferie è sancito dall'art. 36, comma 3 Cost., a norma del quale "il lavoratore ha diritto […] a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi".

Si tratta di un diritto costituzionale, non rinunziabile da parte del lavoratore, che "non ha solo la funzione di corrispettivo della prestazione lavorativa, ma soddisfa anche esigenze psicologiche fondamentali del lavoratore, consentendo allo stesso di partecipare più incisivamente alla vita familiare e sociale e tutelando il suo diritto alla salute, nell'interesse dello stesso datore" (in questo senso Cass. Sez. Un. 23 febbraio 1998, n. 1947).

La norma, di rango costituzionale, è assai concisa nei suoi contenuti e ha lasciato ampi spazi interpretativi, solo parzialmente colmati attraverso gli ulteriori interventi normativi; prima ancora, con l'art. 2109 c.c. e poi, in tempi più recenti, con la disciplina dettata all'art. 10 del d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66.

In particolare, l'art. 2109, comma 2 c.c. stabilisce che il prestatore di lavoro ha diritto "ad un periodo annuale di ferie retribuito, possibilmente continuativo, nel tempo che l'imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del prestatore di lavoro".

La disposizione richiamata prevede inoltre, al successivo comma 3, che "l'imprenditore deve preventivamente comunicare al prestatore di lavoro il periodo stabilito per il godimento delle ferie".

L'art. 2109 c.c. è stato nel tempo oggetto di ripetuti interventi ad opera della Corte Costituzionale; prima con la Sentenza 7 maggio 1963, n. 66 che ha riconosciuto la maturazione progressiva infra-annuale delle ferie e ha pertanto dichiarato l'illegittimità costituzionale del comma 2 della norma codicistica, nella parte in cui era stabilito che le ferie maturavano "dopo un anno di ininterrotto servizio"; successivamente, con decisione 22 dicembre 1980, n. 189, la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'articolo nella parte in cui non prevedeva il diritto a ferie retribuite anche per il lavoratore assunto in prova in caso di recesso dal contratto durante il suddetto periodo.

Più recentemente, è intervenuto l' art. 10 del D.lgs. 8 aprile 2003 n. 66 - modificato dall'art. 1, comma 1, lett. d) del D.lgs. 19 luglio 2004, n. 213 -, di attuazione organica alla direttiva 93/104/CE del Consiglio, come modificata dalla direttiva 2000/34/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, che ha dettato le modalità applicative in tema di maturazione e di fruizione delle ferie.

Nella sua attuale formulazione, la norma stabilisce infatti che "Fermo restando quanto previsto dall'articolo 2109 del codice civile, il prestatore di lavoro ha diritto ad un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro settimane. Tale periodo, salvo quanto previsto dalla contrattazione collettiva o dalla specifica disciplina riferita alle categorie di cui all'articolo 2, comma 2, va goduto per almeno due settimane, consecutive in caso di richiesta del lavoratore, nel corso dell'anno di maturazione e, per le restanti due settimane, nei 18 mesi successivi al termine dell'anno di maturazione. 2. Il predetto periodo minimo di quattro settimane non può essere sostituito dalla relativa indennità per ferie non godute, salvo il caso di risoluzione del rapporto di lavoro. 3. Nel caso di orario espresso come media ai sensi dell'articolo 3, comma 2, i contratti collettivi stabiliscono criteri e modalità di regolazione".

Potere di assegnazione delle ferie

E' stato chiarito dalla Suprema Corte come il potere di assegnazione delle ferie spetta unicamente al datore di lavoro: "L'esatta determinazione del periodo feriale, presupponendo una valutazione comparativa di diverse esigenze, spetta unicamente all'imprenditore quale estrinsecazione del generale potere organizzativo e direttivo dell'impresa; al lavoratore compete soltanto la mera facoltà di indicare il periodo entro il quale intende fruire del riposo annuale, anche nell'ipotesi in cui un accordo sindacale o una prassi aziendale stabilisca - al solo fine di una corretta distribuzione dei periodi feriali - i tempi e le modalità di godimento delle ferie tra il personale di una determinata azienda" (in questo senso Cass. civ. Sez. lav., sent. 19 dicembre 2013, n. 28428).

Ancor prima, è stato evidenziato che "il periodo annuale di ferie retribuito è fissato nel tempo che l'imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del prestatore di lavoro. La legge prevede la determinazione unilaterale del periodo annuale di ferie da parte del datore di lavoro, in detta determinazione egli deve soltanto tener conto degli interessi del lavoratore (v. Cass., 4198/88). La legge stabilisce inoltre che l'imprenditore deve preventivamente comunicare al prestatore di lavoro il periodo stabilito per il godimento delle ferie. […] La rilevanza degli interessi del prestatore, che eventualmente potrà richiedere di essere indennizzato per danni derivanti dal mutamento del periodo feriale, non esclude il permanere del potere del datore di lavoro di modificare il periodo originariamente assegnato in relazione alle esigenze dell'impresa e quindi di modificare, salva la obbligatoria preventiva comunicazione, il periodo di ferie assegnato" Cass. civ. Sez. Lav., 11 febbraio 2000, n. 1557).

La medesima decisione ha inoltre precisato come "il potere attribuito all'imprenditore dalla legge di stabilire il periodo delle ferie, implica quello di modificarlo, con il solo limite del preavviso".

Modalità di fruizione delle ferie

Circa la frazionabilità del periodo di due settimane - che l'art. 10 del D.lgs. 8 aprile 2003 n. 66 presume di regola goduto dal lavoratore in via consecutiva - è intervenuto il Ministero del Lavoro con interpello 18 ottobre 2006, sostenendo che "la norma deve quindi essere interpretata nel senso che la contrattazione collettiva può anche ridurre il limite delle due settimane per cui è obbligatorio il godimento infra-annuale, purché tale riduzione non vanifichi la richiamata funzione dell'istituto feriale e sia occasionata da eccezionali esigenze di servizio o, comunque, da "esigenze aziendali serie".

La contrattazione collettiva è inoltre abilitata ad intervenire in merito alle ulteriori due settimane minime di legge, anche dilatando il termine di 18 mesi che la legge fissa ai fini della loro fruizione.

La contrattazione collettiva può inoltre disporre (come di fatto solitamente avviene) l'incremento del numero di giornate a titolo di ferie a disposizione di ciascun lavoratore, fruibili in modo frazionato nel rispetto delle previsioni contrattuali e degli usi aziendali applicati.

Ipotesi di monetizzazione delle ferie

In tema di indennità sostitutiva delle ferie non godute, sembra utile evidenziare che l'art. 10 comma 2 del D.lgs. 8 aprile 2003 n. 66 ha espressamente vietato la monetizzazione del periodo di ferie corrispondente alle quattro settimane legali, "salvo il caso di risoluzione del rapporto di lavoro".

Proprio in merito a tale ultima previsione, è di recente intervenuta la Suprema Corte, affermando "l'illegittimità, per il loro contrasto con norme imperative, delle disposizioni di contratti collettivi che escludano il diritto del lavoratore all'equivalente economico di periodi di ferie non goduti al momento della risoluzione del rapporto, salva l'ipotesi del lavoratore che abbia disattesa la specifica offerta della fruizione del periodo di ferie da parte del datore di lavoro" (Cass. civ. Sez. Lav. sent. 9 luglio 2012 n. 11462).

Accanto alla fattispecie legale sopra menzionata, le aziende saranno chiamate a confrontarsi con l'ulteriore esigenza di riconoscere l'indennità sostitutiva delle ferie non godute anche in caso di decesso del lavoratore, dichiarata dalla recentissima pronuncia della Corte di Giustizia UE 12 giugno 2014, C-118/13.

Al pari, secondo un recente orientamento espresso dalla Suprema Corte, deve essere riconosciuta l'indennità sostitutiva delle ferie non godute anche in favore del lavoratore che non ne abbia fatto richiesta al proprio datore di lavoro, sul mero presupposto che le ferie non siano state effettivamente da questo fruite (in questo senso Cass. civ., Sez. Lav., sent. 4 luglio 2013, n. 16735).

fonte: ilsole24ore.com//Vademecum sulle ferie: la parola all'avvocato

lunedì 28 luglio 2014

A Lampedusa task force di avvocati per gli immigrati

Avvocati a Lampedusa. Il progetto con cui il Consiglio nazionale forense e la Scuola superiore dell'avvocatura operano da alcuni mesi per dare supporto alla tutela dei diritti degli immigrati ha scelto il luogo simbolo dell'immigrazione, in Italia ma anche agli occhi del mondo: l'isola siciliana, porta dell'Europa, luogo dell'accoglienza e della solidarietà ma anche del dramma senza fine dei naufragi e dei morti in mare. Avvocati che, presenti a turno in un presidio sul posto ma attrezzati anche per consulenze a distanza, aiutano le istituzioni locali, la Capitaneria di porto e le associazioni e organizzazioni non governative attraverso pareri giuridici per la affrontare tutte le questioni relative all'arrivo dei migranti.

Il progetto

''Siamo qui in rappresentanza dell'avvocatura istituzionale, grazie al fatto che la Scuola dell'avvocatura e il Cnf hanno creduto e credono in questo progetto, che ha il sostegno di tutta l'avvocatura italiana - sottolinea Monica Gazzola, che coordina il gruppo - L'iniziativa è espressione della funzione sociale dell'avvocatura, speriamo che si sviluppino analoghi progetti in Europa, che anche lì gli avvocati si pongano come punto di riferimento in una materia che tocca davvero i diritti fondamentali degli ultimi''. Chi soccorre immigrati in difficoltà può incorrere nel reato di immigrazione clandestina? Come regolarsi sull'identificazione e la sepoltura dei migranti morti in mare? Sono solo alcuni esempi dei quesiti ai quali gli avvocati che fanno parte del progetto sono stati chiamati a rispondere.

Il presidio forense

In tutto sono 60, operano a titolo assolutamente volontario: a turni di una o due settimane stanno a Lampedusa e partecipano direttamente all'attività del presidio, attivo da maggio e costituito da un avvocato senior, con più esperienza, e uno junior, appena laureato o neo avvocato. Gli altri seguono comunque l'attività e forniscono consulenza a distanza. Il presidio ha una piccola biblioteca giuridica specializzata, oltre alla banca dati telematica. Primo step del progetto, iniziato nell'autunno scorso, la formazione giuridica con workshop e aggiornamenti on line sulle norme e la giurisprudenza in tema di diritti umani e di diritto delle migrazioni, in particolare via mare.

Nessun contatto diretto

Nessun contatto diretto con i migranti, ma attraverso i pareri forniti, la partecipazione a tante situazioni che riguardano la vita di chi sbarca sulle nostre coste. A Lampedusa ''ci sono tante realtà molto qualificate, come l'ufficio legale di Save the Children o dell'Organizzazione mondiale per le migrazioni, che svolgono già questo tipo di attività sui casi dei singoli migranti. Per noi non c'è rapporto di mandato diretto. Quello che facciamo - spiega l'avvocato Gazzola - è affiancare e supportare l'attività di queste Ong o delle istituzioni, interveniamo su tematiche sono legate alle attività che svolgono e alle loro competenze''.

Nessun reato per il salvataggio in mare

''Uno dei pareri ha riguardato il problema che ci ha sottoposto la Capitaneria di porto - racconta - quello dell'eventuale imputabilità del reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina ai privati che soccorrono i migranti in mare. C'è stato purtroppo un momento in cui, a causa di una cattiva informazione, si è posto il dubbio''. I lampedusani, assicura, ''sono persone molto generose, si fanno carico di un problema che è europeo, ma che finisce per essere solo un problema dell'isola. L'abbiamo scelta anche per questo, c'è già un background di presa in carico dei problemi immediati dei migranti, che su un territorio così piccolo avrebbero potuto creare problemi sociali, cosa che non è stata perché gli abitanti sono consapevoli dei problemi che vivono queste persone e cercano sempre di aiutarli''. In quel caso ''abbiamo rassicurato pescatori o diportisti sul fatto che non solo non è reato che si salvino persone in mare ma che anzi viene qualificato come atto meritevole anche sotto il profilo giuridico''. Un esempio di risposta immediata, ''fornita nel giro di due ore, con il supporto di tutto il gruppo di studio interno, con 20 colleghi interpellati con i quali che discutevamo on line''. Sempre alla Capitaneria di porto, gli avvocati hanno fornito anche un diverso tipo di consulenza, definita ''di secondo livello'', che ''riguarda questioni più complesse meno urgenti, tematiche che possono essere affrontate con più tempo''.

Lo status di rifugiato e la protezione internazionale

Tra queste il problema delle competenza tra Italia e Malta per la ricerca e il soccorso nelle zone Sar. ''L'Italia - sottolinea la coordinatrice della task force - ha grossi problemi di coordinamento con Malta, che ha una ha zona di competenza molto estesa ma sempre, quando c'è una richiesta d'aiuto, la prima cosa che fanno le autorità maltesi è dire che non possono intervenire e quindi sono chiamati in causa gli operatori italiani''. In un altro caso ''ci è stata chiesta dalle Ong una consulenza sui problemi relativi all'identificazione in relazione riconoscimento della protezione internazionale piuttosto che dello status di rifugiato. E' una questione molto delicata - spiega Gazzola - perché il sistema di Dublino, anche con ultimo regolamento entrato in vigore per l'Italia all'inizio dell'anno, prevede che si faccia carico delle procedure per il diritto d'asilo il paese d'arrivo e quindi l'Italia. Questo pone un problema di gestione efficace delle procedure ma crea anche un danno ai diritti dei migranti, obbligati a far fronte a una procedura che si svolge in Italia, dove molti di loro non hanno né intenzione né possibilità di rimanere, e sono diretti atrove''.

Anche il parroco Lampedusa si è rivolto agli avvocati, per una consulenza sul diritto all'identificazione e alla sepoltura dei migranti morti in mare. E spesso a chiedere pareri sono state le associazioni che si occupano di minori. Adesso il gruppo di studio sta lavorando, su sollecitazione comune di associazioni e Ong, sui possibili strumenti di accesso protetto dei richiedenti asilo sul territorio europeo. ''E' stato già elaborato un primo parere, poi sarà affiancato da un secondo lavoro, studi che servono anche a chi opera a livello legislativo e regolamentare. Punto fondamentale che condividiamo con operatori giuridici e istituzionali - conclude - è che bisogna modificare il sistema di ingresso e accoglienza, prevedendo forme di ingresso protetto, la possibilità di chiedere asilo presso le ambasciate,il rilascio di visti umanitari temporanei l'insediamento rifugiati in tutto il territorio europeo''.

fonte: ilsole24ore.com//A Lampedusa task force di avvocati per gli immigrati

Il Fisco contesta lo sconto di 1,50 euro che non risulta dalle ricevute. Ma la chiusura del ristorante è illegittima

Uno euro e cinquanta centesimi di sconto possono costare cari, molto cari. Non tanto per il mancato incasso, quanto per le conseguenze fiscali che rischia di determinare. Sembra paradossale che in Italia l'evasione arrivi in base alle stime a 150-180 miliardi di euro all'anno (un dato ufficiale non è mai stato fornito nonostante rappresenti una piaga per il nostro Paese) eppure il Fisco si concentri su violazioni per piccoli o piccolissimi importi.

È quanto accaduto a un ristorante nel milanese che si è visto comminare la sanzione della sospensione dell'attività per quattro violazioni consecutive avvenute tra il 5 e il 17 luglio di due anni fa. La Guardia di Finanza ha contestato in unico verbale che il ristorante avrebbe emesso le ricevute fiscali e successivamente avrebbe praticato uno sconto rispetto a quanto indicato in ricevuta: complessivamente l'incongruenza ammontava a 1,50 euro e lo spread tra quanto certificato in tre ricevute fiscali e quanto pagato dai clienti risultava dagli incassi registrati tramite il Pos, ossia con transazioni tracciabili attraverso bancomat e carte di credito. In pratica, l'esercizio avrebbe praticato uno sconto di 50 centesimi per ognuna delle tre fatture «incriminate».

La vicenda, che si è trascinata in contenzioso nei Tribunali del Fisco (quelli che in gergo tecnico si chiamano Commissioni tributarie), ha portato a un atto di contestazione di sanzioni di 2.064 euro. Ma quando il Fisco ravvisa più irregolarità nell'emissione di scontrini o ricevute a stretto giro scatta anche la sanzione aggiuntiva della sospensione dell'attività. E le "serrande" dell'attività sono rimaste chiuse, infatti, per tre giorni dal 9 all'11 aprile 2013.

Mentre sulle sanzioni pecuniarie la contribuente ha scelto la strada della «definizione» (cioé ha pagato) per evitare una controversia lunga e costosa, sul provvedimento di chiusura ha deciso di rivolgersi ai giudici tributari. In primo grado, la Commissione tributaria ha riconosciuto che la sospensione dell'attività era già avvenuta e quindi non c'era più interesse all'annullamento del provvedimento del Fisco. Non è andata così nel ricorso in appello. La sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia ha rilevato come le tre ricevute fiscali «indicavano, ciascuna, un corrispettivo superiore di 50 centesimi a quello incassato con il Pos e quindi alcuna evasione fiscale era stata posta in essere». Del resto, il ristorante aveva fatto notare di non aver arrecato alcun danno all'Erario visto che poi aveva pagato le imposte sulle somme indicate in ricevuta e non su quanto incassato (inferiore appunto di un euro e cinquanta centesimi).

I giudici: sanzione «spropositata, afflittiva e vessatoria» 

«La circostanza che la contribuente abbia aderito bonariamente alla definizione pecuniaria - continua ancora la sentenza - non può far nascere alcuna presunzione di riconoscimento della costante irregolarità, dato che l'instaurazione di un contenzioso tributario avrebbe ragionevolmente comportato ben più onerosi costi professionali per poter esercitare il diritto di difesa».

Ragioni che hanno indotto i giudici ad annullare il provvedimento di sospensione dell'attività, però già avvenuto. Ecco perché la pronuncia sottolinea che «la sanzione accessoria, irrogata con la quadruplicazione dell'unico Pvc, appare spropositata, afflittiva e vessatoria rispetto all'affermata presunta irregolarità di mancato incasso per complessivi 1,50 euro».

E la Commissione tributaria va oltre e indica anche la strada per ottenere un riconoscimento del pregiudizio subito: «Appare sussistente l'eccepito patito danno economico e di immagine lamentato dalla contribuente che può essere rivendicato nella competente sede civile».

Il Fisco contesta lo sconto di 1,50 euro che non risulta dalle ricevute. Ma la chiusura del ristorante è illegittima - Il Sole 24 ORE

Categoria, classe e consistenza non bastano a motivare il riclassamento

Quando l’Agenzia del Territorio riclassifica d’ufficio immobili già muniti di rendita catastale deve specificare le ragioni del suo intervento, al fine di consentire al contribuente di individuare agevolmente il relativo presupposto e di approntare le consequenziali difese, e al fine di delimitare l’oggetto dell’eventuale successivo contenzioso. Stante la preclusione per l’Ufficio di addurre, in giudizio, cause diverse rispetto a quelle enunciate.

Questo il principio ripreso dalla Cassazione per respingere il ricorso presentato dall’Agenzia al fine di ridare vigore all’avviso di accertamento catastale annullato dalla CTR per l’omissione del sopralluogo sull’immobile, la mancata attivazione del contradditorio col contribuente e la carenza assoluta di motivazione. Proprio quest’ultima, come affermato dalla Corte, non può limitarsi all’indicazione di consistenza, categoria e classe attribuita dall’Agenzia, ma deve a pena di nullità specificare a quale presupposto la modifica dev’essere associata, se il non aggiornamento del classamento ovvero la palese incongruità rispetto a fabbricati similari.

In tale ultimo caso, quello della fattispecie, l’atto impositivo dovrà individuare specificatamente i detti fabbricati, il loro classamento e le caratteristiche analoghe che li rendono similari a quello riclassato, sempre al fine di delimitare l’ambito delle ragioni nel successivo giudizio, nel quale, il contribuente può “chiedere la verifica dell’effettiva correttezza della riclassificazione”. Proprio in virtù dell’illegittimità dell’atto per detto vizio di motivazione, la Corte, con la sentenza del 24 luglio 2014, n. 16883, ha confermato la decisione di merito, pur riconoscendo l’errore della CTR che riconduceva la fattispecie alla disciplina della Legge n. 311/04, escludendo l’applicazione (legittima) della Legge n. 662/96 (antecedente ma comunque applicabile per le revisioni dovute a incongruenza tra precedente classamento e quello di fabbricati similari).

Fonte: http://fiscopiu.it//La Stampa - Categoria, classe e consistenza non bastano a motivare il riclassamento

Custodia cautelare: il doppio del termine di fase non è superabile

Le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione, con sentenza 7 luglio 2014, n. 29556 si sono interrogate se, nel caso in cui il giudice abbia sospeso i termini di fase avvalendosi del disposto dell'art. 304, comma 2, c.p.p., che consente tale sospensione nel caso di dibattimenti o di giudizi abbreviati particolarmente complessi relativi ai reati previsti dall'art. 407, comma 2, lett. a), il limite del doppio del termine di fase (previsto dal comma 6 dell'art. 304) possa essere ulteriormente superato in forza del n. 3-bis dell'art. 303, comma 1, lett. b), che prevede (sempre nel caso dei processi per i delitti di cui all'art. 407, comma 2, lett. a) un ulteriore aumento fino a sei mesi del termine di fase da imputarsi o alla fase precedente (qualora il termine di quella fase non sia stato completamente utilizzato) ovvero ai termini di cui alla lett. d) del medesimo art. 303 (relativo al giudizio di legittimità).

Un primo orientamento era monoliticamente orientato nel dare al quesito risposta negativa, fondando tale soluzione sull'espressione letterale usata dal comma 6 dell'art. 304, che, nel prevedere il raddoppio dei termini di fase nel caso di dichiarata sospensione dei termini per la complessità del giudizio, precisa che non si debba tener conto “dell'ulteriore termine previsto dall'articolo 303, comma 1, lettera b), numero 3-bis”.

Gli ermellini ricordano come, a parte un'isolata pronuncia (Cass. pen., Sez. II, sent. n. 9148 del 30 maggio 2002) la giurisprudenza successiva è stata per molti anni unanime nel ritenere non cumulabili le cause di aumento (art. 304) e sospensione (art. 303), sulla base di alcune ragioni che possono essere così sintetizzate: a) la formulazione letterale della norma (art. 304, comma 6), ed in particolare l'espressione utilizzata (“senza tenere conto dell'ulteriore termine”), non consentirebbe un'interpretazione diversa da quella che conduce all'esclusione della possibilità di pervenire al cumulo dei periodi di sospensione; b) anche le decisioni che ritengono non decisiva la formulazione dell'espressione ricordata affermano che l'uso dell'avverbio "comunque" utilizzato nella prima parte della norma (“La durata della custodia cautelare non può comunque superare il doppio [...]”) rafforzerebbe l'interpretazione che esclude la possibilità di cui trattasi costituendo un insuperabile confine del limite indicato (Cass. pen., Sez. VI, n. 26127 del 27 giugno 2011; Cass. pen., Sez. VI, n. 38671 del 7 ottobre 2011); c) il procedimento di formazione della norma dimostra che il legislatore ha volutamente escluso la possibilità di cumulare i termini in esame prevedendo, nella legge di conversione, questo divieto che il decreto-legge non contemplava (Cass. pen., Sez. I, n. 6239 del 18 dicembre 2009).

Il difforme orientamento, riportato integralmente dal ricorrente e richiamato e condiviso dall'ordinanza di rimessione, è rappresentato (oltre che dal risalente citato precedente del 2002) dalla già richiamata sentenza della Sez. 5, n. 30759 del 11/07/2012, Ali Sulaiman, Rv. 252938.

Questa decisione si pone consapevolmente in contrasto con il precedente orientamento uniforme della giurisprudenza di legittimità e contesta, preliminarmente, la tesi secondo cui la formulazione letterale della norma osterebbe all'interpretazione costantemente seguita. Secondo questa decisione esisterebbe inconciliabilità tra l'avverbio "comunque" e la frase successiva "senza tenere conto" perché la prima espressione “sembra introdurre una previsione perentoria di insuperabilità” mentre la locuzione successiva “sembrerebbe, invece, alludere ad una deroga”. Tale ultima impostazione contesta, preliminarmente, la tesi secondo cui la formulazione letterale della norma osterebbe all'interpretazione costantemente seguita.

Secondo questa decisione esisterebbe inconciliabilità tra l'avverbio "comunque" e la frase successiva "senza tenere conto" perché la prima espressione “sembra introdurre una previsione perentoria di insuperabilità” mentre la locuzione successiva “sembrerebbe, invece, alludere ad una deroga”.

Ciò considerato, le Sezioni Unite affermano che nel caso di sospensione dei termini di fase della custodia cautelare, disposta in base all'art. 304, comma 2 c.p.p. nell'ipotesi di dibattimento o di giudizio abbreviato particolarmente complesso relativo ai reati previsti dall'art. 407, comma 2, lett. a), il limite del doppio del termine di fase (previsto dal comma 6 dell'art. 304) non può essere ulteriormente superato in forza del n. 3-bis dell'art. 303, comma 1, lett. b) che prevede (sempre nel caso di processi per i delitti di cui all'art. 407, comma 2, lett. a) un ulteriore aumento fino a sei mesi del termine di fase da imputarsi o alla fase precedente (qualora il temrine di quella fase non sia stato completamente utilizzato) ovvero ai termini di cui alla lett. d) del medesimo art. 303 (relativo al giudizio di legittimità).

fonte: Altalex.com//Custodia cautelare: il doppio del termine di fase non è superabile

Affitta una rimessa ma la adibisce a dormitorio per extracomunitari: inutile distogliere il giudice dal nocciolo della questione

Non è possibile spostare il piano del dibattito sull’esistenza di un contratto di sublocazione o di cessione gratuita del locale: bisogna tener conto dell’originario petitum dell’azione e della sua causa petendi, consistenti nella domanda di risoluzione del contratto per inadempimento del conduttore. Lo ha affermato la Cassazione nella sentenza 10842/14.

Il caso

Il locatore di un immobile adibito a rimessa conveniva in giudizio un uomo perché fosse dichiarato risolto il contratto di locazione per inadempimento del conduttore che aveva adibito l’immobile a dormitorio per extracomunitari e vi aveva realizzato lavori non autorizzati. Il Tribunale di Roma accoglieva la domanda. Il conduttore ricorre per cassazione.

Con il primo motivo, il ricorrente sostiene che il giudice non avrebbe potuto disporre d’ufficio la testimonianza di soggetti da lui non indicati. La doglianza è infondata dal momento che, a norma dell’art. 447-bis c.p.p., «il giudice può disporre d’ufficio, in qualsiasi momento, l’ispezione della cosa e l’ammissione di ogni mezzo di prova, ad eccezione del giuramento decisorio». Secondo il ricorrente, inoltre, dalle testimonianze assunte può desumersi solo che il giorno dell’ispezione furono trovate nel locale alcune persone ma ciò non prova l’esistenza di un contratto di sublocazione/cessione a titolo gratuito.

La Suprema Corte rigetta il ricorso, essendo palese il fatto che il conduttore voglia spostare il piano del dibattito sull’esistenza di un contratto di sublocazione o di cessione gratuita del locale. A tal proposito, occorre ricordare che bisogna tener conto dell’originario petitum dell’azione e della sua causa petendi, consistenti nella domanda di risoluzione del contratto per inadempimento del conduttore, individuato dal locatore nel fatto che quest’ultimo aveva adibito l’immobile ad un uso diverso rispetto alla sua natura e allo scopo per il quale era stato concesso in locazione. Per quanto riguarda i lavori, non erano necessari e, tra l’altro, quelli effettuati erano diversi da quelli effettivamente realizzati. In conclusione il ricorso deve essere respinto.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/ La Stampa - Affitta una rimessa ma la adibisce a dormitorio per extracomunitari: inutile distogliere il giudice dal nocciolo della questione

venerdì 25 luglio 2014

Garante privacy, nuovi paletti per Google: il motore di ricerca ha 18 mesi per adeguarsi

Gli utenti che useranno i servizi o il motore di ricerca di Google in Italia saranno più tutelati. Lo sostiene, in una nota, il Garante per la Privacy che ha stabilito che il colosso di Mountain View non potrà utilizzare i loro dati a fini di profilazione se non ne avrà prima ottenuto il consenso e dovrà dichiarare esplicitamente di svolgere questa attività a fini commerciali.

Si è conclusa con un provvedimento prescrittivo l'istruttoria avviata lo scorso anno dal Garante italiano a seguito dei cambiamenti apportati dalla società alla propria privacy policy.

Si tratta del primo provvedimento in Europa che - nell'ambito di un'azione coordinata con le altre Autorità di protezione dei dati europee ed a seguito della pronuncia della Corte di Giustizia europea sul diritto all'oblio - non si limita a richiamare al rispetto dei principi della disciplina privacy, ma indica nel concreto le possibili misure che Google deve adottare per assicurare la conformità alla legge.

La società ha infatti unificato in un unico documento le diverse regole di gestione dei dati relative alle numerosissime funzionalità offerte - dalla posta elettronica (Gmail), al social network (GooglePlus), alla gestione dei pagamenti on line (Google Wallet), alla diffusione di filmati (YouTube), alle mappe on line (Street View), all'analisi statistica (Google Analytics) - procedendo pertanto all'integrazione e interoperabilità anche dei diversi prodotti e dunque all'incrocio dei dati degli utenti relativi all'utilizzo di più servizi.

Nel corso dell'istruttoria, caratterizzata anche da diverse audizioni con i suoi rappresentanti, Google ha adottato una serie di misure per rendere la propria privacy policy più conforme alle norme. Il Garante ha tuttavia rilevato il permanere di diversi profili critici relativi alla inadeguata informativa agli utenti, alla mancata richiesta di consenso per finalità di profilazione, agli incerti tempi di conservazione dei dati e ha dettato una serie di regole, che si applicano all'insieme dei servizi offerti.

Google avrà 18 mesi per adeguarsi alle prescrizioni del Garante. In quest'arco temporale, l'Autorità monitorerà l'implementazione delle misure prescritte. La società dovrà infatti sottoporre al Garante, entro il 30 settembre 2014, un protocollo di verifica, che una volta sottoscritto diverrà vincolante, sulla base del quale verranno disciplinati tempi e modalità per l'attività di controllo che l'Autorità svolgerà nei confronti di Mountain View.

«Abbiamo collaborato costantemente con il Garante nel corso di questa vicenda per spiegare le nostre privacy policy e come ci consentono di creare servizi più semplici ed efficaci e continueremo a collaborare in futuro. Analizzeremo il provvedimento del Garante attentamente per definire i prossimi passi», risponde in una nota Google.

fonte: ilsole24ore.com//Garante privacy, nuovi paletti per Google: il motore di ricerca ha 18 mesi per adeguarsi - Il Sole 24 ORE

IRAP: con più di 40 mila euro per compensi a dipendenti, l’imposta si paga

Nelle aule di Cassazione di casi di piccoli professionisti che lamentavano la non debenza dell’IRAP quest’anno ne sono arrivati moltissimi. E i Giudici di Piazza Cavour, con grande soddisfazione dei contribuenti, in tanti giudizi sono intervenuti per dichiarare l’esclusione del professionista dal campo d’applicazione dell’imposta, spesso anche andando a modificare la giurisprudenza di merito, ancora lenta ad uniformarsi al nuovo, più favorevole, orientamento.

Pronunciandosi sui casi concreti e dati alla mano (dal numero di dipendenti, alle spese per beni strumentali, ai compensi a terzi) la Corte, ha fornito precise linee guida in tema di corretta applicazione (ed interpretazione) del presupposto dell’IRAP, la sussistenza di un’autonoma organizzazione di cui all’art. 2, D.Lgs 15 dicembre 1997, n. 446. Ma la causa giunta davanti ai Supremi Giudici su ricorso del consulente amministrativo, esula da quei casi e, soprattutto, da quegli importi la cui ricorrenza ha sempre indotto la Cassazione a “salvare” il professionista dall’imposta: oltre quarantamila euro annuali sostenuti per pagare i compensi dei dipendenti sono una cifra che non esclude la sussistenza dell’autonoma organizzazione.

Con l’ordinanza depositata il 6 giugno scorso, n. 12790, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso del professionista, ritenendolo infondato “dal momento che il Giudice di merito ha correttamente interpretato la normativa vigente” e sulla base di questa ha affermato la non spettanza del rimborso IRAP.

Fonte: Fiscopiù - Giuffrè per i Commercialisti - http://fiscopiu.it/La Stampa - IRAP: con più di 40 mila euro per compensi a dipendenti, l’imposta si paga

Vettura dimenticata nel parcheggio: proprietario condannato per abbandono di rifiuto pericoloso

Per due anni il veicolo è rimasto nell’area di sosta nelle vicinanze di un impianto sportivo. Fatali le condizioni in cui esso è stato rinvenuto: logico parlare di inidoneità all’uso, e altrettanto logico dedurre la volontà di abbandono del proprietario. Di conseguenza è lecito catalogare la carcassa dell’automobile come rifiuto speciale.

Il caso

Più che un parcheggio, quasi un’occupazione del territorio! Così, con ironia, si può valutare la scelta di un uomo di piazzare, a ‘tempo indeterminato’, la propria vecchia vettura nell’area dedicata alla sosta nelle vicinanze di un campo sportivo. Ma, per la Giustizia, la condotta dell’uomo, ironia a parte, è assai grave, catalogabile come abbandono di un rifiuto pericoloso. Consequenziale la condanna alla pena di 2mila euro di multa (Cassazione, sentenza 20492/14).

Ad adottare la linea dura già i giudici del Tribunale, che considerano pericolosa l’azione compiuta dall’uomo, che ha abbandonato la propria vettura, a settembre 2008 – due anni dopo, invece, il ritrovamento –, «in pessimo stato di conservazione e priva di vari componenti presso il parcheggio di un campo sportivo». E questa visione viene condivisa anche dai giudici del ‘Palazzaccio’. Respinte, quindi, le contestazioni mosse dall’uomo in Cassazione, laddove egli ha ritenuto non corretta la ‘catalogazione’ della «carcassa dell’auto abbandonata» quale «veicolo fuori uso e rifiuto speciale».

Per i giudici, difatti, la vettura, di proprietà dell’uomo, «trovata, in pessimo stato di conservazione e priva di vari componenti, presso il parcheggio di un campo sportivo», era evidentemente valutabile come «veicolo fuori uso» e, quindi, come «rifiuto speciale». Decisivi due elementi: la «volontà di abbandono, da parte del proprietario», da un lato, e la «oggettiva inidoneità del veicolo a svolgere la sua funzione», dall’altro.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Vettura dimenticata nel parcheggio: proprietario condannato per abbandono di rifiuto pericoloso

I sessanta giorni concessi al contribuente non si toccano

La difesa opposta dall’Agenzia alla dichiarazione di nullità dell’atto emesso prima dello scadere dei sessanta giorni previsti dall’art. 7, Legge n. 212/2000 e fondato su presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, è fallita. A nulla sono valse le lamentele opposte dall’Amministrazione tanto in Appello, ove, per giunta, veniva evidenziato che non si era trattato di una vera e propria verifica fiscale ma di “un semplice accesso” finalizzato all’acquisizione di documentazione contabile, quanto in Cassazione.

I Supremi Giudici, infatti, con la sentenza del 26 giugno 2014, n. 14573, confermano la decisione di merito e respingono la tesi dell’Amministrazione che, stante l’assenza di un’esplicita sanzione nella citata norma di riferimento, contestava l’eccessiva gravità della dichiarazione di nullità, sostenendo che, al contribuente, privato dei sessanta giorni previsti dalla legge, restava comunque garantito il diritto di difesa in via amministrativa e giudiziaria.

Più precisamente, l’Agenzia riteneva che l’irregolarità dell’avviso, peraltro privo di precisazioni circa i motivi d’urgenza, fosse inidonea a ledere diritti ma semplicemente interessi di genere pubblico, quali l’economicità, il buon andamento dell’azione amministrativa e la cooperazione tra contribuente e Amministrazione.

Ma per i Giudici, dopo l’intervento delle Sezioni Unite (sent. n. 18184/13), che ha posto la “regula iuris” estraibile da detta norma, sull’illegittimità dell’avviso non ci sono dubbi e correttamente il Giudice di merito motivava la sua decisone affermando che l’assegnazione di uno “spatium deliberandi” a favore del contribuente risponde all’esigenza di evitare inutili contenziosi e il mancato rispetto del termine dilatorio determina la nullità dell’accertamento.

Fonte: Fiscopiù - Giuffrè per i Commercialisti - http://fiscopiu.it/La Stampa - I sessanta giorni concessi al contribuente non si toccano

mercoledì 23 luglio 2014

Prima o dopo non importa: se il denaro è delle prostitute, fonte di ricchezza è il mestiere più antico del mondo

Lo sfruttamento della prostituzione si configura in tutti i casi in cui il reo tragga un vantaggio economico dal meretricio, non essendo necessario che tale vantaggio sia contestuale all’esercizio dell’attività, a condizione che esso abbia la sua specifica causa in tale attività e non in una generica ingiusta pretesa di carattere economico nei confronti della vittima. È quanto emerge dalla sentenza della Cassazione 19588/14.

Il caso

La Corte d’Appello di Venezia condannava un uomo per i reati di cui agli artt. 626 e 61, n. 2, c.p. perché costringeva due donne a consegnargli la somma di 500 euro ciascuna, quale parte del corrispettivo da lui preteso per l’uso di un appartamento che aveva in precedenza concesso loro per esercitare la prostituzione, procurandosi in tal modo un ingiusto profitto con altrui danno, con l’aggravante di aver commesso il fatto al fine di conseguire il profitto dei reati di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione.

L’imputato propone ricorso per cassazione. Occorre premettere che lo sfruttamento della prostituzione si configura in tutti i casi in cui il reo tragga un vantaggio economico dal meretricio, non essendo necessario che tale vantaggio sia contestuale all’esercizio dell’attività, a condizione che esso abbia la sua specifica causa in tale attività e non in una generica ingiusta pretesa di carattere economico nei confronti della vittima. A rilevare, allora, è la causa illecita dell’obbligazione e non la contestualità della pretesa rispetto al sorgere dell’obbligazione stessa, né tantomeno la provenienza materiale delle somme con le quali la persona offesa procede all’adempimento di detta obbligazione.

La Corte d’Appello non ha fatto corretta applicazione di questi principi: essa ha sostenuto che la causa del credito dell’imputato nei confronti delle persone offese è lo sfruttamento della prostituzione, attraverso la locazione di appartamenti a canoni molto superiori a quelli del mercato.

Essendo cessata l’attività di prostituzione, la pretesa dell’imputato non poteva più essere ritenuta connessa all’attività stessa. Per quest’ultimo, infatti, era indifferente il modo in cui le donne si sarebbero procurate le somme pretese, pur essendo queste parte dei canoni di locazione per l’utilizzazione degli immobili nei quali la prostituzione era esercitata. Ragionando in questi termini, però, la Corte distrettuale valorizza due elementi irrilevanti per configurare l’estorsione in luogo dello sfruttamento della prostituzione: la distanza temporale fra l’esercizio della prostituzione e il momento in cui il corrispettivo relativo viene richiesto; la materiale provenienza della somma necessaria per il pagamento. La sentenza impugnata deve, dunque, essere annullata quanto al reato di estorsione.

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Scooter e motocicli 125 in autostrada Rivoluzione del codice per le due ruote

Scooter e motocicli 125cc liberi di circolare su tangenziali ed autostrade, biciclette e motocicli che in futuro potranno muoversi sulle corsie preferenziali riservate ai mezzi pubblici. E poi ancora il riconoscimento dello status di utenti vulnerabili anche per gli utilizzatori di ciclomotori e motocicli e l’introduzione di disposizioni per migliorare la sicurezza della circolazione di biciclette, ciclomotori e motoveicoli, anche limitando la presenza a bordo strada di ostacoli fissi artificiali, come i supporti della segnaletica stradale e i guardrail. È una vera rivoluzione nella mobilità a due ruote quella tracciata dal testo unificato della legge delega di riforma del codice della strada approvato in Commissione Trasporti della Camera. Otto mesi di lavoro che hanno permesso alla stessa Commissione di definire i criteri direttivi che il Governo dovrà tradurre in norme cogenti. Il documento però potrà ancora essere modificato nel successivo passaggio al Senato, anche se già oggi contiene lo scheletro del futuro codice stradale.

 A diffondere le importanti novità contenute nel provvedimento è stata l’Ancma, associazione aderente a Confindustria che riunisce le maggiori aziende italiane costruttrici di veicoli a due ruote e artefice degli emendamenti relativi alla sicurezza dei motociclisti e alla mobilità delle due ruote accolti nel testo approvato dalla Commissione Trasporti della Camera. Una delle novità più importanti, che certo farà piacere ai centauri e ai pendolari `forzati delle due ruote´ è la possibilità per scooter e motocicli 125cc di circolare su tangenziali ed autostrade, se i mezzi sono guidati da conducenti maggiorenni. Una storica richiesta dell’Ancma che precisa come «così l’Italia si allinei al resto d’Europa, dove questa limitazione non è mai esistita». Buone notizie anche per le biciclette: introdotto il principio che le corsie riservate ai mezzi pubblici potranno in futuro essere percorse anche da biciclette e motocicli. Una misura «destinata ad accrescere la sicurezza degli utenti delle due ruote - precisa Ancma - in quanto li separa dal traffico ordinario ed è stata mutuata dall’esperienza di altre città europee, come Londra».

 Cattive notizie, invece, per i ladri di biciclette: per favorire l’identificazione e il recupero di quelle rubate è prevista l’introduzione di un sistema di marchiatura volontaria del telaio. E novità sono previste anche in tema di strade. Il Ministero dei Trasporti viene incaricato di predisporre linee guida destinate agli enti proprietari che definiscano criteri di progettazione e costruzione di infrastrutture stradali sicure per gli utilizzatori di veicoli a due ruote. In proposito l’Ancma ribadisce di aver redatto, in collaborazione con il DISS (Dipartimento di Sicurezza Stradale) dell’Università di Parma, un vademecum utile a progettisti e tecnici per realizzare infrastrutture che limitino i rischi per i motociclisti, in linea con gli standard comunitari.

fonte:La Stampa - Scooter e motocicli 125 in autostrada Rivoluzione del codice per le due ruote

giovedì 17 luglio 2014

Cambia casa di nascosto: l’atto di citazione rimane valido

Non può essere rimessa in termini, ex art. 294 c.p.c., la parte contumace in primo grado e costituitasi in appello, che non ebbe notizia dell’atto di citazione, ritualmente notificato nella residenza originaria, per essersi allontanata da essa senza dare disposizioni per essere prontamente informata di quanto poteva riguardarla. Lo stabilisce la Cassazione nella sentenza 10183/14.

Il caso

La proprietaria di un immobile chiedeva la risoluzione di un contratto preliminare di compravendita per inadempimento e condanna dell’altra parte al risarcimento danni. Il convenuto non si costituiva in giudizio e, dopo averlo dichiarato contumace, il Tribunale di Alessandria pronunciava la risoluzione del contratto. L’uomo proponeva appello, affermando di non aver avuto conoscenza del processo per causa a lui non imputabile e chiedendo, quindi, di essere rimesso in termini. La Corte d’appello di Torino, tuttavia respingeva l’istanza di rimessione in termini.

L’uomo ricorreva in Cassazione, contestando ai giudici di merito, ritenendo irrilevanti le circostanze addotte, di aver fatto applicazione di un rigido principio di autoresponsabilità della parte rimasta contumace, che non trova riscontro nell’art. 294 c.p.c. (Rimessione in termini). Inoltre, la Corte d’appello avrebbe errato a ritenere inammissibili le istanze istruttorie volte a dimostrare l’esistenza di una situazione di non conoscenza del processo a lui non imputabile. In particolare, ricordava la separazione dalla moglie, con conseguente allontanamento dall’abitazione principale, ed il fatto che la donna, affetta da gravi disturbi fisici e psichici, ricevuto personalmente l’atto di citazione introduttivo del giudizio, non si fosse preoccupata di avvisare il marito, ritenendo di poca importanza l’evento.

Analizzando la domanda, la Corte di Cassazione ricordava che l’art. 294 c.p.c. richiede, ai fini della rimessione in termini del contumace, la dimostrazione che la costituzione gli sia stata impedita da causa a lui non imputabile, la quale postula il verificarsi di un evento estraneo alla volontà del contumace, non prevedibile e non prevenibile da quest’ultimo con l’uso dell’ordinaria diligenza. Inoltre, secondo l’art. 44 c.c., la residenza originaria deve ritenersi immutata fino a quando il relativo trasferimento non sia regolarmente denunciato. Perciò, non può essere rimessa in termini, ex art. 294 c.p.c., la parte contumace in primo grado e costituitasi in appello, che non ebbe notizia dell’atto di citazione, ritualmente notificato nella residenza originaria, per essersi allontanata da essa senza dare disposizioni per essere prontamente informata di quanto poteva riguardarla.

Nel caso di specie, il ricorrente, quindi, non poteva giustificarsi con l’allontanamento dalla casa di abitazione e il mancato avviso da parte della moglie, affetta da disturbi. Mancava, infatti, la dimostrazione di aver dato disposizioni per essere tempestivamente informato di eventuali atti recapitatigli presso tale indirizzo, dove, a suo rischio, aveva mantenuto la residenza anagrafica. Inoltre, proprio i disturbi della moglie avrebbero dovuto portare l’uomo ad adottare delle cautele adeguate, in modo da assicurarsi di essere portato a conoscenza di atti notificatigli presso il luogo in cui aveva deciso di conservare la sua residenza. Ragionevolmente, quindi, la Corte d’appello ha ritenuto irrilevanti le prove dell’appellante a dimostrazione delle circostanze addotte, in quanto questi fatti, anche se provati, non avrebbero condotto ad una decisione favorevole. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso.

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mercoledì 16 luglio 2014

Un unico limite per il giudice nelle controversie creditorie: due anni dall’apertura della successione

La norma dell’art. 22, comma 1, n. 3, c.p.c., in riferimento alla competenza del giudice dell’aperta successione per le controversie relative a crediti verso il defunto o legali dovuti all’erede, si riferisce anche ad ogni azione personale per qualsiasi credito vantato nei confronti del defunto, a prescindere dalla causa o dal titolo da cui è sorto, ma pur sempre all’imprescindibile condizione che non sia ancora decorso un biennio dall’apertura della successione, indipendentemente dalla circostanza che sia o meno stato instaurato un giudizio di divisione; ne consegue che quest’ultima circostanza diviene del tutto irrilevante e non opera la competenza speciale prevista dalla norma in esame, ove l’azione per il credito verso il de cuius sia iniziata dopo che sia trascorso già un biennio dall’apertura della successione. È quanto emerge dall’ordinanza della Cassazione 10097/14.

Il caso

Il progettista e direttore dei lavori otteneva dal Tribunale di Roma decreto ingiuntivo nei confronti delle eredi del committente per oltre 36 mila euro, quale compenso per prestazioni professionali per la costruzione di un centro turistico. Le ingiunte proposero opposizione eccependo l’incompetenza territoriale dell’adito Tribunale. Il Giudice ha accolto tale eccezione, dichiarando la nullità del decreto ingiuntivo e la competenza territoriale inderogabile del Tribunale di Perugia. L’attore propone ricorso per cassazione, in merito alla decorrenza di oltre un biennio dall’apertura della successione al momento dell’instaurazione del giudizio.

La norma dell’art. 22, comma 1, n. 3, c.p.c., in riferimento alla competenza del giudice dell’aperta successione per le controversie relative a crediti verso il defunto o legali dovuti all’erede, si riferisce anche ad ogni azione personale per qualsiasi credito vantato nei confronti del defunto, a prescindere dalla causa o dal titolo da cui è sorto, ma pur sempre all’imprescindibile condizione che non sia ancora decorso un biennio dall’apertura della successione, indipendentemente dalla circostanza che sia o meno stato instaurato un giudizio di divisione; ne consegue che quest’ultima circostanza diviene del tutto irrilevante e non opera la competenza speciale prevista dalla norma in esame, ove l’azione per il credito verso il de cuius sia iniziata dopo che sia trascorso già un biennio dall’apertura della successione.

Nel caso di specie, la speciale competenza del giudice del luogo di apertura della successione per i crediti verso il de cuius era definitivamente cessata in ogni caso allo spirare del biennio, vale a dire prima della proposizione dell’odierna azione. La Corte di Cassazione, pertanto, cassa la gravata sentenza e dichiara la competenza del Tribunale di Roma.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Un unico limite per il giudice nelle controversie creditorie: due anni dall’apertura della successione

Pomo della discordia: due fondi separati da una ringhiera. Peccato che non vi sia alcuna servitù di veduta

Non può dar luogo all’esercizio di una veduta una ringhiera posta a separazione tra due fondi urbani, trattandosi di un’opera avente essenzialmente funzione divisoria, anche quando consenta di inspiciere et prospiciere in alienum. Lo ha affermato la Cassazione nella sentenza 10181/14.

Il caso

La proprietaria e detentrice di due terreni esponeva che il proprietario delle due rimesse attigue nonché di un appartamento aveva rimosso la ringhiera del balcone di quest’ultimo, pavimentando e cingendo con un’inferriata i tetti delle sue rimesse, utilizzando tale spazio aperto come ampia balconata, invadendo sul lato ovest la proprietà della ricorrente, la quale chiedeva, pertanto l’eliminazione della pavimentazione e della ringhiera in ferro che consentiva alla controparte la veduta diretta, invocando la tutela del possesso e il rispetto delle distanze per le vedute.

Il Pretore di Lucera reputava che le opere integrassero gli estremi della molestia possessoria, sia perché eseguite in violazione delle distanze legali sia perché atte a dar vita a una servitù di veduta su fondo altrui. Ordinava, quindi, la rimozione della ringhiera mentre negava che la pavimentazione dei tetti delle rimesse fosse idonea a integrare una turbativa del possesso. All’esito di una complessa vicenda processuale, in riferimento all’asserita molestia nel possesso arrecata, in dipendenza della trasformazione del tetto in lastrico solare, con violazione delle distanze legali tra costruzioni, la Corte d’Appello di Bari riteneva che il manufatto realizzato non poteva rilevare ai fine del computo delle distanze.

L’attrice propone ricorso in Cassazione, sulla base della convinzione che con la collocazione della ringhiera e senza il rispetto delle distanze, viene decisamente alterata la situazione dei luoghi. La Corte di Cassazione respinge il ricorso, facendo notare che la consistenza originaria dei luoghi non è stata sostanzialmente modificata dalle opere realizzate. A tal proposito, occorre ricordare che un’inferriata posta a separazione tra due fondi anche urbani non può dar luogo all’esercizio di una servitù di veduta: anche quando essa consenta di inspiciere e di prospicere sul fondo altrui, costituisce pur sempre un’opera avente la funzione di semplice separazione dei fondi. Conclusivamente, il ricorso non può che essere rigettato.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/La Stampa - Pomo della discordia: due fondi separati da una ringhiera. Peccato che non vi sia alcuna servitù di veduta

martedì 15 luglio 2014

Intimidazione fasulla: fare il gradasso non salva dalla pena

Il reato di minaccia deve considerarsi reato formale di pericolo e, in quanto tale, non postula l’intimidazione effettiva del soggetto passivo, essendo sufficiente che il male minacciato, in relazione alle concrete circostanze di fatto, sia tale potenzialmente da incutere timore e da incidere nella sfera di libertà psichica del soggetto passivo. Inoltre, la gravità del male minacciato va accertata avendo riguardo a tutte le modalità della condotta, in particolare al tenore delle eventuali espressioni verbali ed al contesto in cui si collocano, per verificare se, ed in quale grado, tali espressioni abbiano ingenerato timore o turbamento nella persona offesa. Lo stabilisce la Cassazione nella sentenza 19203/14.

Il caso

La Corte d’appello di Milano condannava un imputato per il delitto di minaccia aggravata. L’uomo ricorreva in Cassazione, deducendo che la minaccia proferita non potesse ritenersi grave, in quanto non aveva apportato alcun turbamento psichico ai due destinatari, i quali, inoltre, in ogni caso, sia per ragioni personali che professionali, non avrebbero potuto modificare le proprie abitudini di vita.

Analizzando la domanda, la Corte di Cassazione ricordava che il reato di minaccia deve considerarsi reato formale di pericolo e, in quanto tale, non postula l’intimidazione effettiva del soggetto passivo, essendo sufficiente che il male minacciato, in relazione alle concrete circostanze di fatto, sia tale potenzialmente da incutere timore e da incidere nella sfera di libertà psichica del soggetto passivo. Inoltre, la gravità del male minacciato va accertata avendo riguardo a tutte le modalità della condotta, in particolare al tenore delle eventuali espressioni verbali ed al contesto in cui si collocano, per verificare se, ed in quale grado, tali espressioni abbiano ingenerato timore o turbamento nella persona offesa.

Nel caso di specie, la prospettazione dell’ipotesi di essere colpiti da armi da fuoco e di essere “puniti” da amici dell’imputato costituiva una minaccia connotata da obiettiva gravità. Il fatto che ciò fosse stato detto nel corso di un litigio non poteva valere, di per sé, a togliere alle parole né la natura minacciosa né l’elevato grado intimidatorio. Anche il mancato mutamento delle abitudini di vita da parte delle persone offese era irrilevante ai fini della consumazione del reato, in quanto, se tale mutamento fosse avvenuto, avrebbe dovuto essere contestata una diversa e più grave ipotesi criminosa. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Intimidazione fasulla: fare il gradasso non salva dalla pena

Droga nei calzini + disoccupazione + soldi in tasca = spaccio

In materia di stupefacenti, la valutazione in ordine alla destinazione della droga, ogni qualvolta la condotta non appaia indicativa dell’immediatezza del consumo, viene effettuata dal giudice di merito, tenendo conto di tutte le circostanze oggettive e soggettive del fatto, secondo parametri di apprezzamento sindacabili, in sede di legittimità, solo sotto il profilo di mancanza o manifesta illogicità della motivazione. È quanto affermato dalla Cassazione nella sentenza 19243/14.

Il caso

La Corte d’appello di Palermo, riformando la sentenza assolutoria di primo grado, condannava un imputato per detenzione e traffico di stupefacenti, riconoscendo l’ipotesi lieve. L’uomo ricorreva in Cassazione, deducendo un’illogica motivazione sulla negata destinazione personale dello stupefacente desunta dalle sue modalità di detenzione e sull’attribuzione di un’ulteriore quantità, trovata nell’abitazione, in cui vivono anche altri familiari, e, soprattutto, in una stanza non occupata dall’indagato.

Analizzando la domanda, la Corte di Cassazione ricordava che, in materia di stupefacenti, la valutazione in ordine alla destinazione della droga, ogni qualvolta la condotta non appaia indicativa dell’immediatezza del consumo, viene effettuata dal giudice di merito, tenendo conto di tutte le circostanze oggettive e soggettive del fatto, secondo parametri di apprezzamento sindacabili, in sede di legittimità, solo sotto il profilo di mancanza o manifesta illogicità della motivazione.

Nel caso di specie, i giudici d’appello, senza vizi logici, superavano la precedente decisione assolutoria (secondo cui non si poteva escludere destinazione al consumo personale), considerando che la droga rinvenuta in auto si presentava in parte nascosta in un calzino ed in parte in mano con dose spezzettata (circostanza che induceva una parziale destinazione a terzi), e valorizzando il possesso di una somma di denaro da parte del ricorrente, privo di giustificazione, in quanto l’imputato era disoccupato.

Tuttavia, i giudici di legittimità ricordavano l’intervento della Corte Costituzionale, che, con la sentenza n. 32/2014, che ha reintrodotto la differenziazione tra droghe leggere e pesanti, con le prime punibili in una forbice edittale compresa tra i 6 mesi ed i 4 anni di reclusione, secondo la nuova formulazione dell’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990 (Testo Unico in materia di stupefacenti). Inoltre, sottolineavano la recente modifica legislativa, intervenuta con il d.l. n. 146/2013 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito in l. 10/2014, secondo cui, in relazione alla fattispecie in esame, considerandola ipotesi autonoma e non più circostanziale, fissava i limiti edittali tra 1 e 5 anni di reclusione oltre la multa.

È compito del giudice comune individuare, secondo i criteri fissati dalla legge in ordine alla successione di leggi penali nel tempo, individuare quale sia la norma incriminatrice da applicare nel caso concreto. Tale individuazione della disposizione più favorevole al reo va operata in riferimento al caso concreto. Nella specie, era la formulazione rivivente dell’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990 ad essere più favorevole al ricorrente, in ragione del ridotto limite edittale previsto per le droghe leggere. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rideterminava direttamente la pena in 6 mesi di reclusione ed € 1.032 di multa.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Droga nei calzini + disoccupazione + soldi in tasca = spaccio

lunedì 14 luglio 2014

Il danno da vacanza rovinata: vademecum per il consumatore turista

“I GIORNI DI VACANZA VALGONO PIU’ DEGLI ALTRI” recita uno spot pubblicitario. Ciò ormai è un dato acquisito anche sul piano legislativo e giurisprudenziale, sebbene non significhi che il consumatore turista possa contare su un automatismo dei meccanismi indennitari o risarcitori se le vacanze non si svolgono come previsto in base al contratto di viaggio stipulato con il tour operator.

1) Quando si ha diritto al risarcimento perché il periodo di vacanza “logora e non rigenera”?

Il diritto di godere di un periodo di riposo e svago è un bene della vita ritenuto meritevole di tutela. Se la vacanza non si svolge come ci si aspettava, perché il viaggio non si svolge secondo le previsioni contrattuali, è possibile pretendere il risarcimento del danno per i disagi e lo stress subiti in corso di viaggio: c.d. “danno da vacanza rovinata”, per il riconoscimento del quale devono però ricorrere alcuni presupposti. E’ bene dunque fare chiarezza su tali aspetti della normativa che disciplina i c.d contratti di viaggio (limitando l’analisi ai c.d. pacchetti turistici, crociere/viaggi itineranti/vacanze tutto compreso, vale a dire quelli che ricomprendono almeno due tra i seguenti elementi: trasporto, alloggio, servizi in corso di viaggio).

La materia dei contratti aventi per oggetto i servizi turistici è attualmente disciplinata dal D.Lgs. 79/2011, denominato Codice del Turismo, nel quale sono state trasfuse le norme che erano ricomprese nella parte terza del Codice del Consumo, artt. 82-100, che aveva, a sua volta, inglobato il D.Lgs. 111/95 concernente i viaggi e le vacanze tutto compreso. In base alla normativa vigente, l’organizzatore del viaggio è tenuto all’esecuzione delle prestazioni che sono oggetto del contratto da redigere in forma scritta (art. 35 Cod. Tur.).



Le prestazioni oggetto del contratto devono essere conformi alla proposta contrattuale visionata dal consumatore (opuscolo informativo) ed in base alla quale ha effettuato la scelta (artt. 36-38 Cod. Tur.). Dunque, a titolo meramente esemplificativo: la sistemazione presso una data struttura alberghiera con determinate caratteristiche, il volo di andata e ritorno con una determinata compagnia ed un piano voli predeterminato, guida turistica e/o autoveicoli o natanti per le escursioni in loco e così via.



In linea generale, laddove uno dei servizi che contrattualmente il tour operator si era impegnato a prestare manca in tutto o in parte, se viene eseguito con modalità diverse rispetto a quanto previsto nell’offerta e/o nel contratto, l’organizzatore è tenuto a risponderne. Ne risponde anche se la responsabilità è da attribuirsi ad uno dei soggetti prestatori dei singoli servizi compresi nel pacchetto (art. 45 Cod. Tur.). A nulla rileva il fatto che la struttura alberghiera non sia di proprietà dell’organizzatore (come in alcuni casi può verificarsi). Parimenti irrilevante il fatto che il viaggio si effettui con le Compagnie aeree; ovvero ancora la circostanza che le escursioni sul posto non siano eseguite con mezzi di proprietà dell’organizzatore. In ogni caso, infatti, il tour operator è responsabile dei terzi prestatori dei servizi compresi nel programma di viaggio (art. 43 Cod. Tur.). Il medesimo principio vale nel caso in cui, in conseguenza dell’inadempimento, si verificano danni alla persona, come nel caso non infrequente di sinistro stradale durante uno spostamento in loco previsto nel programma di viaggio (art. 44 Cod. Tur). In tal modo il consumatore turista è agevolato per avere un unico referente contrattuale, l’organizzatore che ha predisposto il pacchetto di viaggio da lui acquistato (direttamente o tramite un’agenzia di viaggi, che svolge il ruolo dell’intermediario nella vendita).

E’ posto a carico dell’organizzatore l’onere di rivalersi nei confronti dei terzi prestatori dei servizi in corso di viaggio di cui si è avvalso, responsabili dell’inadempimento che ha cagionato danni al consumatore turista. Nel caso in cui l’inadempimento o l’inesatta esecuzione della prestazione oggetto del contratto “non sono di scarsa importanza” il turista può anche chiedere un “risarcimento del danno correlato al tempo di vacanza inutilmente trascorso ed all’irripetibilità dell’occasione perduta” (così l’art. 47 Cod. Tur.). In buona sostanza, solo se l’inadempimento non è di scarsa importanza l’organizzatore del viaggio risponde del c.d. emotional distress subito dal viaggiatore in conseguenza dell’inadempimento stesso; un disagio tale che la vacanza, in luogo di essere momento di rigenerazione psicofisica, si rivela fonte di stress e stanchezza. Il danno da vacanza rovinata correlato ad un inadempimento contrattuale presuppone dunque, per essere riconosciuto, che il danneggiato fornisca la prova del nesso causale tra il fatto e l’evento lesivo.

2) Entro quanto tempo dal rientro dal viaggio è possibile presentare il reclamo e richiedere il risarcimento dei danni?

Il reclamo deve essere presentato dal turista tempestivamente, anche in corso di viaggio, affinché l’organizzatore o il suo rappresentante sul posto oppure l’accompagnatore del gruppo possano porvi rimedio (art. 49 Cod. Tur.). Il reclamo può inoltre essere presentato, a mezzo raccomandata o altro mezzo idoneo a fornire la prova dell’avvenuto ricevimento, nel termine di 10 giorni dal rientro dal viaggio. Tale termine, secondo l’orientamento della Suprema Corte di Cassazione che sul punto si è espressa in senso favorevole al consumatore (cfr. Cass. 297/2011), non rappresenta un termine di decadenza dal diritto ad essere risarciti. Di conseguenza, la contestazione può essere successiva a condizione che avvenga entro il termine prescrizionale di un anno dal rientro dal viaggio (per danni diversi a quelli alla persona) e di tre anni per danni alla persona. Se però l’inadempimento attiene il servizio di trasporto, il termine di prescrizione è di 18 o 12 mesi a seconda se si tratta, rispettivamente, di danni alla persona o alle cose (trovando applicazione in tal caso la regola generale di cui all’art. 2951 c.c.).

3) Le coperture assicurative dei tour operators: quali danni coprono e come operano la polizza infortuni e la polizza di responsabilità civile?

Un aspetto interessante che merita attenzione, spesso ignorato dai consumatori, è la questione dell’operatività delle coperture assicurative che l’organizzatore di viaggi stipula con le Compagnie: la polizza infortuni e la polizza di responsabilità civile. La polizza infortuni è un contratto a favore di un terzo, vale a dire un contratto stipulato nella specie tra tour operator e Compagnia di assicurazione (contraenti) i quali stabiliscono limiti di copertura ed ambiti di operatività della polizza, ma il beneficiario “diretto” è il turista che lamenta di avere subito un sinistro in corso di viaggio.

Il turista in tal caso, messo al corrente dal Tour operator circa la Compagnia di Ass.ni ed il numero di polizza (che di regola sono indicati nel contratto di viaggio, brochure, nell’opuscolo informativo), ha facoltà di attivarsi direttamente nei confronti della Compagnia di assicurazione per essere indennizzato dell’infortunio subito, come detto, nei limiti delle condizioni di polizza concordate dai contraenti.

Di norma, la polizza infortuni copre ogni evento lesivo occorso al turista durante il viaggio produttivo di un danno di natura fisica. In genere, la polizza in questione viene attivata in caso di eventi accidentali e prescinde dall’indagine circa l’attribuzione di responsabilità nella causazione dell’evento. La polizza di responsabilità civile opera in maniera totalmente diversa e non ha nulla a che vedere con la più nota R.C. Auto obbligatoria. In primo luogo, non può essere attivata dal turista che ritiene l’organizzatore responsabile dell’inadempimento che ha dato luogo al danno; il consumatore in tal caso non ha la legittimazione ad agire nei confronti della Compagnia di Assicurazione.

E’ onere del tour operator comunicare alla Compagnia la richiesta risarcitoria avanzata nei suoi confronti, per essere tenuto indenne in base alle previsioni contrattuali della polizza dalle conseguenze derivanti dall’inadempimento lamentato dal cliente. Solo l’organizzatore contraente è quindi legittimato ad agire nei confronti della Compagnia. La copertura assicurativa opera in caso di accertamento giudiziale della responsabilità del tour operator, da cui discende anche l’obbligo per la Compagnia di manlevare il tour operator assicurato. Accordi transattivi in corso di causa non escludono la possibilità che vi partecipi la Compagnia, facendosi carico del sinistro, a prescindere dall’accertamento giudiziale della responsabilità del contraente/tour operator.

Molto raramente la Compagnia interviene in manleva prima dell’introduzione della causa o in sede di procedimento di mediazione. Il consumatore può naturalmente chiedere copia delle polizze sottoscritte dall’organizzatore per conoscere le condizioni ed i limiti di copertura. Occorre tenere conto che il tour operator stipula una sola polizza cumulativa infortuni ed una polizza di responsabilità civile che riguardano tutti i partecipanti ed i viaggi dallo stesso organizzati. Ciò incide sui massimali delle polizze che naturalmente tengono conto del numero di partecipanti, della tipologia e numero di viaggi che il tour operator mediamente organizza annualmente (elementi questi che incidono anche sul corrispettivo della copertura assicurativa).

4) Come si ottiene il risarcimento dei danni?

Laddove il turista, ritenendo l’inadempimento dell’organizzatore non di lieve entità, intenda avanzare una richiesta risarcitoria anche per danno da vacanza rovinata deve promuovere un giudizio civile nei confronti dell’organizzatore, se quest’ultimo contesta la propria responsabilità. L’organizzatore, se lo ritiene, può coinvolgere nello stesso giudizio la Compagnia per essere da questa manlevato dell’eventuale onere risarcitorio, che venisse giudizialmente accertato, in virtù della copertura assicurativa da responsabilità civile. In buona sostanza si attiva, nella stessa causa (talvolta in via autonoma), un contenzioso “contestuale e parallelo” al tempo stesso che riguarda la Compagnia ed il proprio assicurato, che nella specie è il tour operator. Ciò a prescindere dall’eventuale risarcimento riconosciuto al consumatore turista in base alla polizza infortuni, di cui comunque si tiene conto se già riconosciuto e liquidato in via stragiudiziale.

Diversamente, il turista può agire per tutti i danni che ritiene di avere subito in conseguenza dell’inadempimento dell’organizzatore del viaggio, avviando una causa sia nei confronti del tour operator, sia nei confronti della Compagnia limitatamente alla copertura da polizza infortuni. In tal caso, se l’organizzatore contesta l’inadempimento lamentato dal cliente, è suo onere attivarsi per resistere in giudizio nei confronti del consumatore turista, svolgendo domanda autonoma di manleva nei confronti della Compagnia (in tal caso già coinvolta nel giudizio) in virtù della polizza di responsabilità civile per ogni danno, di natura patrimoniale e non patrimoniale, dunque anche per essere manlevato in caso di condanna al risarcimento del danno da vacanza rovinata.

In tale ipotesi, non si esclude che l’organizzatore, in quanto contraente della polizza infortuni, possa contestare alla Compagnia un inadempimento per non avere quest’ultima provveduto a risarcire il terzo beneficiario, consumatore turista. Le cause che riguardano i contratti di viaggio non rientrano tra quelle per le quali è prevista la mediazione obbligatoria come condizione di procedibilità della domanda giudiziale (D.L. 69/2013, convertito in legge n. 98/2013). Pertanto il giudizio civile è proponibile senza il preventivo avvio del procedimento di mediazione. Non è però escluso che una delle parti possa tentare il ricorso alla mediazione per la composizione stragiudiziale della controversia insorta. La competenza a decidere le controversie giudiziarie spetta al Giudice di Pace, se la pretesa risarcitoria non supera € 5.000,00; spetta invece al Tribunale se il valore della causa è superiore (artt. 7 e 9 c.p.c.). Dal punto di vista della competenza territoriale, il Foro di competenza è quello di residenza del consumatore.

5) Come si determina il risarcimento spettante al consumatore?

L’organizzatore, come già ricordato, è chiamato a rispondere dei danni alla persona e/o dei danni diversi da quelli alla persona, derivanti dal mancato o inesatto adempimento agli obblighi assunti in base al contratto di viaggio, anche quando si avvale di altri prestatori di servizi. Per la quantificazione del danno si considerano i seguenti elementi:

- per un inadempimento di scarsa importanza (disservizio) si tiene conto del valore della prestazione mancata in tutto o in parte, valutando il corrispettivo pagato dal consumatore per usufruire dei servizi compresi nel contratto di viaggio nonché l’eventuale servizio sostitutivo prestato dall’organizzatore in luogo di quello mancato in tutto o in parte;

- per i danni patrimoniali lamentati, che si prova essere stati la conseguenza dell’inadempimento, il turista ha diritto al rimborso integrale di tutte le spese sostenute di cui riesce a fornire il relativo riscontro (es. acquisti fatti per perdita del bagaglio necessari per la prosecuzione del viaggio; spese di vitto e alloggio non preventivate; biglietti aerei e/o di altri mezzi di trasporto per spostamenti in loco, perimenti non preventivati per servizi che avrebbe dovuto prestare l’organizzatore o il terzo di cui questo si è avvalso e rientranti nel contratto di viaggio, ecc.);

- quanto ai soli danni fisici, questi possono essere risarciti sulla base della polizza infortuni anche in via stragiudiziale ed a prescindere dal coinvolgimento del tour operator; per la liquidazione si tiene conto della tabella unica per la determinazione del risarcimento del danno biologico (tabella unica nazionale). Tale via si persegue, in genere, nelle ipotesi di infortunio accidentale di lieve entità (c.d. microlesioni) non correlato ad un’ipotesi di inadempimento del tour operator;

- per la determinazione del danno da vacanza rovinata, danno non patrimoniale di non agevole quantificazione, si tiene conto, in linea generale, del pregiudizio “correlato al tempo di vacanza inutilmente trascorso ed all’irripetibilità dell’occasione perduta”. Per es. se l’inadempimento ha impedito la partenza e/o si è verificato all’inizio del viaggio compromettendone lo svolgimento, il giudice può valutare equo commisurare il danno da vacanza rovinata tenuto conto del corrispettivo pagato per acquistare il pacchetto turistico, ovvero del possibile valore del servizio che è mancato. Si tiene conto altresì del motivo del viaggio perché talvolta si svolge in una particolare occasione senz’altro irripetibile (es. viaggio di nozze; evento naturale raro cui si voleva assistere e che ha determinato la scelta per un dato viaggio). Nel caso in cui, però, l’inadempimento ha prodotto un danno alla persona, non può prescindersi dalle sofferenze psicofisiche subite dal consumatore turista. In tal caso, si fa ricorso alle tabella unica per la determinazione del risarcimento del danno biologico (tabella unica nazionale) che, all’esito di una recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione (sez. 3^ civile n. 531/2014 che riprende il principio affermato dalle SS.UU. nella sentenza n. 26972/2008), ricomprende ogni danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica (danno biologico).

Fonte: Paola Vitaletti - http://dirittoditutti.giuffre.it/La Stampa - Il danno da vacanza rovinata: vademecum per il consumatore turista

Screzi reciproci fra coniugi? Escuso il mobbing familiare. No all’addebito

Deve escludersi che la nozione di mobbing possa avere una qualche rilevanza in ambito familiare, nel quale vige il principio di uguaglianza morale e giuridica tra i coniugi  e, a differenza di quanto avveniva in passato, l'unità familiare non è più fondata sull'autorità maritale, ma affidata all'accordo dei coniugi che è il fulcro della costituzione e conservazione del rapporto matrimoniale. In ogni caso, se gli screzi tra i coniugi in procinto di separarsi sono reciproci, non può essere pronunciato l’addebito della separazione.

Il caso, oggetto della sentenza in commento, vede protagonisti due coniugi, parti della loro causa di separazione.

Entrambi proponevano domanda di addebito, rigettata dal Tribunale e dalla Corte d’Appello, in quanto i reciproci screzi erano frutto della rottura, piuttosto che causa della stessa.

La moglie, non contenta della decisione della Corte d’Appello proponeva ricorso in Cassazione.

Tra l’altro, la moglie lamentava che l'affermazione della Corte di merito, secondo cui il riferimento all'istituto del mobbing in ambito familiare fosse improprio e contraddittorio

La Suprema Corte ritiene non condivisibili le considerazioni svolte nel predetto motivo di ricorso, in quanto deve escludersi che la nozione di mobbing possa avere una qualche rilevanza in ambito familiare, nel quale vige il principio di uguaglianza morale e giuridica tra i coniugi  e, a differenza di quanto avveniva in passato, l'unità familiare non è più fondata sull'autorità maritale, ma affidata all'accordo dei coniugi che è il fulcro della costituzione e conservazione del rapporto matrimoniale.

La Suprema Corte, altresì, rileva che il mobbing è comunemente la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematicamente protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, caratterizzata da sistematici e reiterati comportamenti ostili che si manifestano  in forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, tali da determinare un dislivello tra protagonisti, tale da relegare la vittima ad un livello di inferiorità.

La bontà della decisione della Corte trova conferma anche in ambito penalistico, dove la nozione di mobbing viene collegata al reato di maltrattamenti in famiglia, esclusivamente nel caso in cui l’ambiente di lavoro abbia la caratteristica della parafamiliarità.



                               SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE I CIVILE

Sentenza 29 aprile - 19 giugno 2014, n. 13983

Svolgimento del processo

Il Tribunale di Torino, giudicando nella causa di separazione personale tra i coniugi G.M. e G.F., rigettò le reciproche domande di addebito, dispose l'affidamento condiviso del figlio minore con collocazione abitativa presso la madre, disciplinando le modalità dei rapporti con il padre, e pose a carico del F. un contributo al mantenimento del figlio e della moglie.

La Corte di appello di Torino, con sentenza 1 giugno 2012, ha rigettato l'appello principale della M. e quello incidentale del F. Per quanto ancora interessa in questa sede, con riguardo alle domande di addebito, la corte ha condiviso la valutazione del tribunale che aveva ritenuti che i fatti da lei addebitati al marito (tra cui comportamenti assimilabili a mobbing familiare, atteggiamenti prepotenti e sprezzanti, villane espressioni indirizzate alla moglie, ecc.) non fossero causa ma effetto di un progressivo deterioramento del rapporto coniugale già in atto e che ciò giustificasse la decisione di non ammettere le istanze probatorie della M. in quanto attinenti a fatti temporalmente prossimi alla richiesta di separazione o generici e irrilevanti; analoga condivisione è stata espressa dalla corte con riguardo al rigetto della domanda di addebito proposta dal marito in relazione a fatti che non dimostravano la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio e non rilevanti come causa della crisi matrimoniale. La corte ha inoltre ritenuto che non vi fossero ragioni di opportunità per modificare il regime di affidamento condiviso del figlio, che era in vigore dal 2006 con risultati positivi, anche tenuto conto del fatto che egli era prossimo alla maggiore età e che entrambi i genitori erano adeguati a tal fine.

Avverso questa sentenza la M. propone ricorso per cassazione sulla base di due motivi, cui resiste il F. che propone ricorso incidentale affidato a due motivi. Entrambe le parti hanno presentato memorie.

Motivi della decisione

Preliminarmente va dichiarata inammissibile la corposa produzione documentale allegata alla memoria del F. ex art. 378 c.p.c., non avente ad oggetto né la nullità della sentenza impugnata né l'ammissibilità del controricorso (art. 372 c.p.c.).

Venendo ad esaminare il ricorso principale, nel primo motivo la M. deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, 151, comma 2, e 277 c.c., nonché insufficiente motivazione, per avere la corte del merito rigettato il motivo di appello con cui essa aveva dedotto l'erronea valutazione da parte del primo giudice delle condotte di mobbing poste in essere dal F. e consistite in provocazioni, offese e umiliazioni di vario genere e con diverse modalità al fine di indurla a lasciare la casa coniugale. Il tribunale aveva ritenuto che quelle condotte erano successive al sorgere della crisi coniugale, come dimostrato da un fax dell'avv. B. dell'8 gennaio 2006 da cui emergeva che le parti già allora erano assistite da difensori a causa di una crisi che sarebbe sfociata nel ricorso per separazione presentato il 1° dicembre 2006. Tale valutazione non sarebbe condivisibile perché inficiata da un errore materiale sulla data del fax, inviato ai difensori del F. un anno dopo (l'8 gennaio 2007), con la conseguenza che le condotte di mobbing precedevano i contatti tra i difensori di quasi un anno e, quindi, doveva ritenersi che erano state causa della crisi coniugale. Inoltre, si imputa alla corte del merito di avere, da un lato, svalutato la rilevanza di fatti accaduti sin dal 2002 e, dall'altro, attribuito improprio valore alle dichiarazioni rese dagli stessi coniugi all'udienza presidenziale.

Il motivo è infondato.

Una violazione dell'art. 115 c.p.c. è configurabile solo ove il giudice ometta di valutare le risultanze istruttorie indicate dalla parte come decisive o ponga a base della decisione circostanze non ritualmente acquisite al giudizio; inoltre, non sussiste violazione dell'art. 116 C.P.C. laddove, nell'esercizio del suo prudente apprezzamento delle risultanze istruttorie, il giudice indichi con motivazione logica ed esauriente (o lasci intendere implicitamente quali siano) le ragioni della ritenuta decisività di alcune risultanze istruttorie a preferenza di altre; né integra una violazione dell'art. 2697 c.c. (richiamato nel corpo del motivo) la erronea valutazione delle risultanze istruttorie che è censurabile soltanto per vizio della motivazione (v. Cass. n. 4330/2013, n. 12968/2012).

La corte torinese, con motivazione congrua ed immune da vizi logici, ha ritenuto che i comportamenti di mobbing addebitati al marito allo scopo di indurla ad abbandonare la casa coniugale non potevano dirsi causa ima conseguenza di una crisi coniugale già in atto, in quanto riferibili ad un periodo (primi mesi del 2006) in cui le parti erano già avviate sulla strada della separazione (formalizzata dal F. nel dicembre dello stesso anno), e ciò contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente che ha erroneamente addebitato alla sentenza impugnata di avere ritenuto che la crisi coniugale fosse "perdurante da anni e anni anteriormente al 2006". La corte ha anche condiviso la non ammissione di alcune istanze probatorie della M. in quanto "da un lato generiche quanto a collocazione temporale dei fatti addebitati e dall'altro irrilevanti", statuizione questa non espressamente censurata in questa sede mediante un apposito mezzo che avrebbe dovuto essere supportato dall'indicazione dell'atto con cui quelle istanze erano state formulate, dalla trascrizione del testo delle stesse e da un'argomentata dimostrazione della loro decisività (la quale può comunque escludersi sia con riguardo al presunto errore lamentato dalla ricorrente circa la datazione del fax, sia con riguardo alle circostanze riferite in ricorso, datate al 2002 e alla fine del 2005, che dimostrano soltanto opinioni divergenti o contrasti di natura economica sulla ristrutturazione della casa coniugale). Del resto, com'è noto, l'individuazione delle fonti del proprio convincimento, la valutazione delle prove e anche la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (v., tra le tante, Cass. n. 17097/2010, n. 12362/2006).

La ricorrente ha censurato per incongruità e contraddittorietà l'affermazione della corte che ha ritenuto che fosse improprio il riferimento all'istituto del mobbing in ambito familiare e che nel nostro ordinamento per provocare l'allontanamento del coniuge indesiderato non sarebbe necessaria l'adozione di un comportamento di tal genere, essendo sufficiente chiedere la separazione personale, come aveva fatto il F. senza attendere i risultati del suo ipotizzato piano persecutorio. Sono necessarie alcune precisazioni.

Per mobbing si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili (illeciti o anche leciti se considerati singolarmente) che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità (v., tra le altre, Cass., sez. lav., n. 3785/2009; anche n. 18093/2013). La nozione di mobbing è particolarmente utile per fotografare quelle situazioni patologiche che possono sorgere in presenza di un dislivello tra gli antagonisti, dove la vittima si trova in posizione di costante inferiorità rispetto ad un'altra o ad altre persone, e ciò spiega perché è con riferimento ai rapporti di lavoro che quella nozione è stata elaborata ed ha avuto applicazione.

In ambito familiare, invece, vige il principio di uguaglianza morale e giuridica tra i coniugi (art. 3 Cost.); l'unità familiare (art. 29 Cost.), che in passato aveva consentito di giustificare l'autorità del marito, è oggi affidata all'accordo dei coniugi che, come notato da acuta dottrina, condiziona la costituzione e conservazione del rapporto matrimoniale. La ricorrente sollecita l'applicazione della nozione di mobbing anche ai rapporti familiari tra coniugi, valorizzandone la natura di comportamento contrario ai doveri che derivano del matrimonio e idoneo a rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza (art. 151 c.c.), nei casi in cui un coniuge assuma atteggiamenti persecutori nei confronti dell'altro al fine di costringerlo ad abbandonare il tetto coniugale o ad accettare separazioni consensuali a condizioni inadeguate. Si ipotizza, in sostanza, che il comportamento del coniuge mobber integri di per sé una violazione degli obblighi di assistenza morale e materiale e di collaborazione previsti dall'art. 143 c.c., ma questa conclusione non è condivisibile.

La nozione di mobbing in materia familiare è utile in campo sociologico, ma in ambito giuridico assume un rilievo meramente descrittivo, in quanto non scalfisce il principio che l'addebito della separazione richiede pur sempre la rigorosa prova sia del compimento da parte del coniuge di specifici atti consapevolmente contrari ai doveri del matrimonio - quelli tipici previsti dall'art. 143 c.c. e quelli posti a tutela della personalità individuale di ciascun coniuge in quanto singolo e membro della formazione sociale familiare ex artt. 2 e 29 Cost. - sia del nesso di causalità tra gli stessi atti e il determinarsi dell'intollerabilità della convivenza o del grave pregiudizio per i figli (v., tra le tante, Cass. n. 25843/2013, n. 2059/2012, n. 14840/2006). Questa impostazione, la quale esclude ogni facilitazione probatoria per il coniuge richiedente l'addebito, neppure scalfisce (ed è anzi coerente con) il principio secondo cui il rispetto della dignità e della personalità dei coniugi assurge a diritto inviolabile la cui violazione può rilevare come fatto generatore di responsabilità aquiliana (v. Cass. n. 5652/2012, n. 9801/2005) anche in mancanza di una pronuncia di addebito della separazione (v. Cass. n. 18853/2011).

Il secondo motivo del ricorso principale, in tema di affidamento del figlio, è inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse, avendo egli raggiunto la maggiore età nell'anno 2013.

Venendo al ricorso incidentale del F., il primo motivo (per violazione e falsa applicazione dell'art. 116 c.p.c. e insufficiente motivazione) riguarda il mancato addebito della separazione alla moglie, in quanto considerata responsabile di una continua e reiterata condotta aggressiva verso il marito consistita in numerose iniziative assunte in varie sedi processuali (quali la proposizione del gravame avverso la sentenza del tribunale, di un ricorso urgente nel giudizio di appello e del ricorso per cassazione in esame, nonché per avere proposto una querela nei suoi confronti, rifiutato una proposta transattiva e introdotto altra causa civile per il rimborso delle spese di ristrutturazione dell'abitazione coniugale). Il motivo è infondato in quanto basato su comportamenti del coniuge in parte diversi da quelli fatti valere nel giudizio di merito (dove il F. aveva dedotto il carattere intollerante della moglie, la sua ostilità verso la famiglia di origine del marito, l'insofferenza verso la casa coniugale) e in parte successivi alla proposizione della domanda di separazione e, quindi, intrinsecamente privi di ogni influenza ai fini della intollerabilità della convivenza e, conseguentemente, della pronuncia di addebito (v. Cass. n. 8512/2006, n. 3098/1995).

Il secondo motivo dell'incidentale, che deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 155 bis c.c. e 91 e 96 c.p.c., è inammissibile, avendo la corte di appello fatto uso del potere discrezionale di compensazione delle spese processuali, in considerazione della soccombenza reciproca, che è incensurabile in Cassazione (v. Cass., sez. un., n. 14989/2005).

In conclusione, entrambi i ricorsi sono rigettati. Sussistono giusti motivi di compensazione delle spese del giudizio di legittimità, vista la reciproca soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta i ricorsi; compensa le spese del giudizio. In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi.

fonte: Altalex.com//Screzi reciproci fra coniugi? Escuso il mobbing familiare. No all’addebito

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