sabato 30 novembre 2013

Casalinghe: entro il 31 gennaio obbligatoria l’assicurazione contro infortuni domestici

Scatta l’obbligo di assicurazione contro gli infortuni domestici per chi si occupa delle faccende di casa a tempo pieno e gratuitamente.

Con un comunicato ufficiale comparso sul proprio sito internet, l’Inail ha appena comunicato che è diventata obbligatoria l’assicurazione contro gli infortuni domestici per chi si occupa delle faccende di casa a tempo pieno.

L’obbligo di firmare una polizza assicurativa scatta entro il 31 gennaio 2014 e vale per le persone di età compresa tra 18 e 65 anni che si occupano della casa gratuitamente (senza cioè alcun compenso: pertanto sono escluse badanti, baby sitter e collaboratrici domestiche) e a tempo pieno (sono quindi escluse le persone che lavorano “part time”).

L’assicurazione dovrà coprire gli infortuni domestici gravemente invalidanti e mortali.

Il costo della polizza è di € 12,91 l’anno e va pagata a favore dell’Inail. I versamenti potranno essere effettuati negli uffici postali o direttamente on line entro il 31 gennaio 2014.

Ovviamente, l’obbligo vale tanto per le donne casalinghe quanto per gli uomini “casalinghi”!

Non dovranno pagare l’assicurazione coloro che hanno un reddito basso, ossia:
- chi ha un reddito personale complessivo lordo fino a 4.648,11 euro annui;
- chi fa parte di un nucleo familiare il cui reddito complessivo lordo non supera i 9.296,22 euro annui.
Per ottenere l’esonero basta presentare un’autocertificazione.

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fonte: laleggepertutti.it//Casalinghe: entro il 31 gennaio obbligatoria l’assicurazione contro infortuni domestici

Ferrara: Il consigliere comunale Simone Lodi condannato a due anni per corruzione

Al consigliere, passato al gruppo misto, è stato anche disposta l’interdizione dai pubblici uffici per due anni e la confisca dei beni per 4.000 euro

Ferrara, 29 novembre 2013 - Consigliere comunale di Ferrara condannato a 2 anni per corruzione. E' la sentenza emessa dal tribunale di Ferrara nei confronti di Simone Lodi. Lodi prima faceva parte del Pdl, poi è passato al gruppo misto (è stato promotore della lista Ferrara Futuro insieme per le prossime amministrative).

I giudici Marini, Testoni e Attina’ lo hanno riconosciuto responsabile di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, cosi’ come ipotizzato dal pm Castaldini che aveva chiesto una condanna leggermente inferiore, un anno e sei mesi. Il tribunale ha anche disposto l’interdizione dai pubblici uffici per due anni (una pena accessoria che diventera’ esecutiva solo a sentenza definitiva) e la confisca di beni per 4.000 euro, corrispondenti alla somma al centro delle accuse.

I giudici infatti, accogliendo la tesi della procura, hanno stabilito che Lodi nel novembre del 2008, quando faceva parte della III Commissione consigliare (Urbanistica) (era consigliere d’opposizione di centro-destra, con il Pdl), si adopero’ per votare a favore di due pratiche in cambio di 4.000 euro.
Alessandro Rizzo, proprietario di un terreno nella zona sud-est della citta’, gli aveva chiesto di appoggiare la richiesta di poter recuperare alcuni fabbricati a uso abitativo, e in cambio del favore Lodi avrebbe preteso inizialmente 10mila euro, poi “scontati” a 4000. Rizzo aveva gia’ patteggiato la pena di 4 mesi.
Tra i principali accusatori di Lodi, c’era il fratello Nicola, che al processo aveva riferito che prima di denunciare i fatti che coinvolgevano Rizzo e il fratello Simone si consulto’ - visto che era un militante del suo movimento politico - con l’onorevole Alessandra Mussolini, che gli disse di denunciare il fatto.

fonte: ilrestodelcarlino.it/Il consigliere comunale Simone Lodi condannato a due anni per corruzione - il Resto del Carlino - Ferrara

Estesa a 70 anni la durata dei diritti connessi al diritto d’autore


Lo scorso 21 novembre il Consiglio dei Ministri, in recepimento della direttiva comunitaria 2011/77/UE, ha approvato l’estensione da 50 a 70 anni della durata dei diritti connessi al diritto d'autore riconosciuti ad artisti, interpreti ed esecutori, sulle interpretazioni musicali fissate in un fonogramma e dei produttori di fonogrammi. Lo schema di decreto legislativo passerà ora alle Camere per l'approvazione definitiva.

I diritti connessi, come è noto, sono quei diritti che spettano per la pubblica diffusione di musica registrata non agli autori originali che hanno creato l’opera, bensì a coloro che sono intervenuti sull’opera da un punto di vista professionale con la propria creatività (interpreti ed esecutori) o con la propria attività di impresa (produttori fonografici).

Il nuovo termine di 70 anni di protezione sarà calcolato a partire dalla data di prima pubblicazione lecita su supporto fisico o comunicazione al pubblico del fonogramma (ad es. via radio, canali tv, Internet). L’estensione della protezione trova applicazione solo con riferimento alle interpretazioni musicali fissate in un fonogramma e ai fonogrammi stessi, restano esclusi sia i diritti degli artisti sulle interpretazioni che non sono fissate in un fonogramma, sia i diritti dei produttori sulle opere cinematografiche o audiovisive, la cui durata rimane di 50 anni.

Scopo dell’iniziativa legislativa è l’innalzamento del livello di protezione degli artisti dell’industria musicale, per garantire loro uno sfruttamento economico ed artistico delle proprie interpretazioni per un periodo più lungo degli attuali 50 anni, spesso insufficienti a proteggere le esecuzioni per tutta la vita dell’artista. Tale misura garantisce agli artisti, interpreti o esecutori, che iniziano la loro carriera in giovane età un adeguato ritorno economico per le loro interpretazioni musicali in età avanzata, facendo fronte al calo del reddito della loro attività professionale negli ultimi anni di vita; inoltre, servirà a limitare un uso discutibile delle esecuzioni degli artisti quando questi sono ancora in vita.

La nuova norma prevede anche che decorsi 50 anni dalla prima pubblicazione o comunicazione al pubblico del fonogramma, qualora il produttore non metta in vendita, o comunque a disposizione del pubblico, un numero sufficiente di copie del fonogramma, l’artista, interprete o esecutore, avrà facoltà di risolvere unilateralmente il contratto di cessione dei diritti connessi con la casa discografica. Il produttore avrà altresì l'obbligo di accantonare un fondo pari al 20% dei ricavi annui da devolvere agli artisti i cui contratti discografici prevedono forme di remunerazione non ricorrente (i.e. compenso forfettario o non calcolato in percentuale sulle vendite), garantendo loro una remunerazione annua supplementare irrinunciabile.

Apprezzamento positivo per l’adozione del provvedimento è stato espresso dalla FIMI (Federazione Industria Musicale Italiana), PMI (Produttori Musicali Indipendenti) e IFPI (Federazione Internazionale Industria Discografica). L’effetto della nuova norma è quello di proteggere dal pubblico dominio gran parte della produzione discografica degli artisti in attività dagli anni '60 (tra cui i noti big stranieri e italiani), che ha indubbiamente un valore di asset strategico per le aziende musicali. L’estensione del termine di durata del copyright certamente comporterà molti vantaggi per le major e le grandi rockstar ma vi saranno conseguenze positive anche per gli artisti di minore popolarità e potere contrattuale. La nuova norma costituisce in ogni caso un riconoscimento al ruolo importante che gli artisti interpreti svolgono nel successo di una canzone.

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fonte: ilsole24ore/Estesa a 70 anni la durata dei diritti connessi al diritto d’autore

Non serve la delibera assembleare per chiedere la rimozione delle vetrine

L’amministratore può agire anche in assenza di una delibera dell’assemblea per far rimuovere le vetrine poste sulla facciata condominale. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 26849/2013, riconoscendone il carattere meramente conservativo rispetto ai beni condominiali dell’azione.

In particolare, la Suprema corte ha affermato che “l’amministratore del condominio è legittimato, senza necessità di una specifica deliberazione assembleare, ad instaurare un giudizio per la rimozione di aperture abusive eseguite, sulla facciata dello stabile condominiale, da taluni condomini, in quanto tale atto, essendo diretto a conservare
il decoro architettonico dell’edificio contro ogni alterazione dell’estetica dello stesso, è finalizzato alla conservazione dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio”.

Andava dunque esclusa nel caso in questione la configurabilità di un contenuto reale, “illegittimamente rilevato dalla Corte milanese che, erroneamente, ha incongruamente sostituito all’azione conservativa promossa dall’amministratore condominiale quella reale riconducibile ad una negatoria servitutis”.

“Allo stesso modo - prosegue la sentenza -, si sarebbe dovuta riconoscere finalità conservativa alle azioni volte al recupero dei locali cantinati e allo sgombero, da un altro vano, della cella frigofera, poiché … l’amministratore del condominio è pienamente legittimato ad agire - in via autonoma - per ottenere il rilascio di un immobile condominiale (cosi come la liberazione dallo stesso da eventuali beni mobili illegittimamente depositativi), attesa la natura personale dell’azione, poiché il recupero del bene (e la sua completa disponibilità materiale conseguente allo sgombero di eventuali impedimenti) deve ritenersi essenziale per l’ulteriore fruizione dello stesso bene da parte di tutti i condomini”.

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venerdì 29 novembre 2013

Figli abbandonati, Consulta: sì a richiesta alla madre di revocare l'anonimato

l figlio adottivo che abbia compiuto il 25° anno di età potrà accedere alle informazioni sulle sue origini e nello specifico venire a conoscenza dell’identità della madre biologica, anche nel caso in cui quest’ultima, al momento della nascita, abbia esercitato la facoltà di rimanere anonima. L’istanza del figlio verrà fatta pervenire alla madre biologica, che potrà decidere se acconsentire alla rivelazione della propria identità o mantenere l’anonimato.
Lo ha sancito la Corte Costituzionale con la sentenza 22 novembre 2013, n. 178 dichiarando l’incostituzionalità parziale dell’art. 28 comma 7 della Legge n. 184/1983, come sostituito dall’art. 177 comma 2 del D.lgs n. 196/2003, nella parte in cui non prevedeva – attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza – la possibilità per il giudice di interpellare la madre – che abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi dell’art. 30, comma 1, del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato covile) su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione.
Com’è noto, la legge n. 184/1983, rubricata “Diritto del minore ad una famiglia”, disciplina tra l’altro il procedimento giurisdizionale per l’adozione del minore d’età con efficacia legittimante. L’art. 28, come modificato prima dalla legge n. 149/2001 e poi dal D.lgs n. 196/2003, ante declaratoria di incostituzionalità in commento, prevedeva che “Il minore adottato e' informato di tale sua condizione ed i genitori adottivi vi provvedono nei modi e termini che essi ritengono più opportuni. (…). L'adottato, raggiunta l'età di venticinque anni, può accedere a informazioni che riguardano la sua origine e l'identità dei propri genitori biologici. Può farlo anche raggiunta la maggiore età, se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica. L'istanza deve essere presentata al tribunale per i minorenni del luogo di residenza. (…) L'accesso alle informazioni non e' consentito nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata. In quest’ultima eventualità, l’art. 93 del D.lgs n. 196/2003 secreta anche le c.d. informazioni non identificative, ricavabili dal certificato di assistenza al parto o dalla cartella clinica, che il figlio può acquisire solo dopo che siano decorsi cento anni dalla nascita.
La previsione del parto in assoluto anonimato fu introdotta dal legislatore del 1984 per assicurare, da un lato, che il parto avvenisse nelle condizioni ottimali tanto per la madre che per il figlio, e. dall’altro lato, [per] distogliere la donna da decisioni irreparabili, per quest’ultimo ben più gravi. Lo stretto legame tra diritti individuali ed interessi pubblicistici ha giustificato fino a tempi recenti la conservazione di un meccanismo rigido di accesso alle informazioni sulla propria origine da parte del figlio abbandonato alla nascita. Si riteneva che proprio l’impossibilità di superare quell’originario divieto della madre di essere nominata costituisse la garanzia di contenere il più possibile fenomeni interruttivi della gravidanza, che in condizioni di clandestinità ponevano in pericolo anche l’incolumità della gestante, o di abbandono selvaggio dei neonati.
Negli ultimi anni, però, si è sviluppato un ampio dibattito nel nostro Paese in ordine alla necessità di riformare il meccanismo di accesso alle informazioni sulle proprie origini, consentendolo anche in presenza di un originario divieto della madre ad essere menzionata. Il fenomeno dei bambini non riconosciuti alla nascita è andato ridimensionandosi nel tempo. Come si legge nella proposta di legge AC. n. 3030 del 10 dicembre 2009, negli anni ‘50 del XX sec. si contavano circa 5.000 casi l’anno. Negli ultimi anni la percentuale è drasticamente scesa a 400 casi. Le nascite si sono contratte del 39%, mentre i non riconoscimenti si sono ridotti addirittura del 91%. Molti dei non riconoscimenti che si registrano attualmente nel nostro paese sono di donne straniere. Il contenimento del fenomeno trova conforto senz’altro nel mutato quadro economico- sociale e della morale sociale. A fronte di questo dato confortante, è emerso in maniera prepotente il bisogno di quelle migliaia di figli abbandonati di ricostruire le file della propria esistenza, partendo dall’accertamento della identità dei propri genitori biologici. La legislazione internazionale riconosce unanimamente il diritto a conoscere le proprie origini come diritto fondamentale di ogni uomo ed impone agli Stati di attivarsi per assicurare che tale diritto sia esercitato con effettività. Non da ultima la CEDU all’art. 8, così come interpretato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, assicura tutela alla vita familiare e personale di ciascun individuo contro gli arbitri dei poteri delle pubbliche autorità, non solo vietando a questi di ostacolare l’esercizio effettivo di tale diritto, ma imponendo loro di attivarsi affinché predispongano misure in grado di assicurare tale esercizio anche nei rapporti tra consociati. L’urgenza di modifica del meccanismo di cui all’art. 28 Legge n. 184/1983 ha avuto sfogo lungo due direttrici fondamentali. Da una parte la via giurisdizionale, investendo della questione la Corte Costituzionale e la Corte Europea dei diritti dell’uomo, e dall’altra quella legislativa, con la presentazione al Parlamento nazionale di diverse proposte normative di modifica.
Prima della pronuncia in commento, la Consulta era già stata investita della legittimità costituzionale dell’art. 28 legge n. 184/1983 nella parte in cui non consentisse di superare l’originario anonimato in caso di autorizzazione della madre, appositamente richiesta dalle autorità giurisdizionali, alla menzione delle proprie generalità. In quell’occasione, tuttavia, la Corte aveva rigettato il ricorso (sentenza n. 425 del 25 novembre 2005), ritenendo in primis che l’istanza del rimettente fosse volta ad ottenere un intervento additivo non consentito ed in secundis che comunque la questione di legittimità costituzionale fosse infondata. Con riferimento a tale ultimo punto, sinteticamente la Corte aveva concluso per la ragionevolezza delle valutazioni sottese alla scelta della irretrattabilità dell’anonimato, in perfetta compatibilità sia con l’art. 2 che con l’art. 32 cost., strettamente correlato al primo in virtù della previsione dell’art. 93 D.lgs n. 196/2003 relativamente all’accesso alle informazioni non identificative. Aveva poi ritenuto non pertinente il richiamo all’art. 3 cost., stante la diversità di situazioni portate dal giudice remittente a confronto, quella del figlio adottivo che la madre non aveva voluto riconoscere e quella del figlio adottivo in ordine al quale tale dichiarazione non era stata fatta. Diversità che, ad avviso del Giudice delle Leggi, giustificava un trattamento differenziato.
Su ricorso ex art. 34 CEDU n. 33783/09, l’irragionevole esclusione tout court del figlio non riconosciuto a conoscere le generalità della madre che avesse scelto l’anonimato al momento della nascita viene posta all’attenzione della Corte di Strasburgo per sospetta violazione dell’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
La Corte, nella sentenza Godelli c/ Italia del 25 settembre 2012, approda ad un giudizio negativo circa l’irretrattabilità dell’anonimato. Il diritto di conoscere la propria ascendenza rientra nel campo di applicazione della nozione di “vita privata” che comprende aspetti importanti dell’identità personale di cui fa parte l’identità dei genitori. (..) l’art. 8 [CEDU] tutela un diritto all’identità ed allo sviluppo personale e quello di allacciare e approfondire relazioni con i propri simili ed il mondo esterno. A tale sviluppo contribuiscono la scoperta dei dettagli relativi alla propria identità di essere umano e l’interesse vitale, tutelato dalla Convenzione, ad ottenere delle informazioni necessarie alla scoperta della verità riguardante un aspetto importante dell’identità personale, ad esempio l’identità dei propri genitori. La nascita, e in particolare le circostanze di quest’ultima, rientra nella vita privata del bambino, e poi dell’adulto, sancita dall’art. 8 della Convenzione che trova così applicazione nel caso di specie. L’art. 8 CEDU non si limita ad ordinare allo Stato di astenersi da ingerenze che possano pregiudicare il diritto alla vita familiare, ma impone obblighi positivi di adozione di misure che assicurino tale rispetto anche nei rapporti tra individui. La discrezionalità di cui godono gli Stati in relazione a tale ultimo aspetto trova il proprio limite nella equa ponderazione dell’interesse di tutelare la salute della madre e del minore durante la gravidanza ed il parto e di evitare aborti clandestini o abbandoni selvaggi, da un lato, e dell’interesse del figlio a conoscere le proprie origini biologiche, dall’altro. Tale limite è stato violato dallo Stato italiano, in cui è stata data prevalenza assoluta al diritto all’anonimato, senza consentire né la reversibilità dello stesso per volontà della madre appositamente interrogata né di accedere alle informazioni non identificative sulle origini in stretta correlazione con la scelta dell’anonimato al momento della nascita. In queste condizioni, la Corte ritiene che l’Italia non abbia cercato di stabilire un equilibrio ed una proporzionalità tra gli interessi delle parti in causa ed abbia dunque oltrepassato il margine di discrezionalità che le è stato accordato. Pertanto, conclude la Corte, vi è stata violazione dell’art. 8 della Convenzione.
Nelle more della pronuncia della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, sono stati presentati in Parlamento tre diverse proposte di legge: la più risalente è la n. 1899 del 12 novembre 2008, segue la n. 2919 dell’11 novembre 2009 e da ultimo la n. 3030 del 10 dicembre 2009. Tutte partono dalla considerazione che il diritto al parto in segreto ed in assoluto anonimato è una conquista giuridica che non possa essere messa in discussione; ritengono altresì improcrastinabile un nuovo bilanciamento del diritto della madre all’anonimato e del diritto del figlio a conoscere le proprie origini, incidendo sulla sostanziale irreversibilità del divieto di essere nominata manifestato dalla madre. Divergono, però, anche considerevolmente, sulle modalità di attuazione di questa nuova ponderazione degli interessi in gioco; molto estrema rispetto al testo fino ad oggi in vigore la proposta del novembre 2009, che prevede la decadenza del divieto con il raggiungimento del 40° anno di vita del figlio. Meritevole di attenzione, anche per la forte assonanza con la soluzione adottata dalla Consulta nella sentenza in commento, la proposta del dicembre 2009: consentire alla madre che all’epoca del parto avesse optato per l’anonimato di valutare la possibilità di rendere nota la propria identità.
A distanza di otto anni dalla pronuncia del 2005, alla luce della conclusioni rassegnate nel caso Gondelli e considerata, a fronte dell’inerzia del nostro legislatore, l’urgenza di tutelare il diritto fondamentale alla conoscenza delle proprie origini, come declinazione del diritto alla propria identità personale garantito dall’art. 2 cost., la Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 28 Legge n. 184/1983 per violazione degli artt. 2 e 3 cost. Il vulnus è proprio rappresentato dalla irreversibilità del segreto: mentre la scelta per l’anonimato legittimamente impedisce l’insorgenza di una “genitorialità giuridica”, con effetti inevitabilmente stabilizzati pro futuro, non appare ragionevole che quella scelta risulti necessariamente e definitivamente preclusiva anche sul versante dei rapporti relativi alla “genitorialità naturale”: potendosi quella scelta riguardare, sul piano di quest’ultima, come opzione eventualmente revocabile (in seguito alla iniziativa del figlio), proprio perché corrispondente alle motivazioni per le quali essa è stata compiuta e può essere mantenuta.
Deve allora essere consentito al figlio abbandonato che, compiuto il 25° anno di età, ne faccia richiesta, di poter conoscere l’identità della madre che abbia scelto l’anonimato, qualora, disposta l’interrogazione di quest’ultima da parte delle autorità, la stessa ne abbia autorizzato la notizia.
Sarà compito del legislatore, conclude la Consulta, introdurre apposite disposizioni volte a consentire la verifica della perdurante attualità della scelta della madre naturale di non voler essere nominata e, nello stesso tempo, a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all’anonimato, secondo scelte procedimentali che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso, anche da parte degli uffici competenti, ai dati di tipo identificativo, agli effetti della verifica di cui innanzi si è detto.


Corte Costituzionale
Sentenza 18 - 22 novembre 2013, n. 278
(Presidente Silvestri - Redattore Grossi)

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), promosso dal Tribunale per i minorenni di Catanzaro, sul ricorso proposto da R. M., con ordinanza del 13 dicembre 2012, iscritta al n. 43 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell’anno 2013.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 9 ottobre 2013 il Giudice relatore Paolo Grossi.

Ritenuto in fatto

1.– Il Tribunale per i minorenni di Catanzaro solleva, in riferimento agli articoli 2, 3, 32 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), come sostituito dall’art. 177, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), «nella parte in cui esclude la possibilità di autorizzare la persona adottata all’accesso alle informazioni sulle origini senza avere previamente verificato la persistenza della volontà di non volere essere nominata da parte della madre biologica».

Premette il giudice a quo che una donna, nata nel 1963 e adottata nel 1969, esponeva di essere venuta a conoscenza della sua adozione soltanto in occasione della procedura di separazione e divorzio dal marito e che la ignoranza delle sue origini le aveva cagionato vari condizionamenti anche di ordine sanitario, limitando le possibilità di diagnosi e cura per patologie (nodulo al seno e disturbi ricollegabili forse ad una menopausa precoce) che avrebbero dovuto comportare una anamnesi di tipo familiare. Soggiungeva la istante che non era animata da spirito di rivendicazione nei confronti della madre biologica, la quale avrebbe potuto ricevere conforto dalla conoscenza della figlia, «così chiudendo un conto con il passato». Da qui, la richiesta di conoscere le generalità della madre naturale. Il pubblico ministero aveva espresso parere favorevole, ma il Tribunale rilevava che, a fronte della possibilità riconosciuta all’adottato che abbia compiuto i 25 anni di accedere ad informazioni riguardanti i propri genitori biologici, previa autorizzazione del Tribunale per i minorenni, tale possibilità era invece esclusa dalla disposizione oggetto di impugnativa, ove le informazioni si riferiscano alla madre che abbia dichiarato alla nascita – come nella specie – di non voler essere nominata, ai sensi dell’art. 30, comma 1, del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127).

A proposito della violazione dell’art. 2 Cost., il Tribunale osserva come la conoscenza delle proprie origini rappresenti un presupposto indefettibile per l’identità personale dell’adottato, la quale integra un diritto fondamentale, che viene tutelato sotto il profilo della immagine sociale della persona; vale a dire, di quell’insieme di valori rilevanti nella rappresentazione che di essa viene data nella vita di relazione. Il diritto alla identità personale ed alla ricerca delle proprie radici è salvaguardato dagli artt. 7 e 8 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, resa esecutiva con la legge 27 maggio 1991, n. 176 – che assicurano, appunto, il relativo diritto a conoscere i propri genitori ed a preservare la propria identità – nonché dall’art. 30 della Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, fatta a L’Aja il 29 maggio 1993, resa esecutiva con la legge 31 dicembre 1998, n. 476, la quale impone agli Stati aderenti di assicurare l’accesso del minore o del suo rappresentante alle informazioni relative alle sue origini, fra le quali, in particolare, quelle relative all’identità dei propri genitori. Il diritto all’identità è stato poi di recente riaffermato e puntualizzato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, nella sentenza Godelli contro Italia del 25 settembre 2012, ove si è affermato che, nel perimetro della tutela offerta dall’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, rientra anche la possibilità di «disporre dei dettagli sulla propria identità di essere umano e l’interesse vitale, protetto dalla Convenzione ad ottenere informazioni necessarie alla scoperta della verità concernente un aspetto importante della propria identità personale, ad esempio l’identità dei genitori».

Il diritto a conoscere le proprie origini contribuisce, dunque, in maniera determinante a delineare la personalità di un essere umano e rientra, quindi, nell’ambito dei principi tutelati dall’art. 2 Cost., che nella specie risulterebbero violati: negare, infatti, a priori l’autorizzazione all’accesso alle notizie sulle proprie origini, in ragione del fatto che il genitore abbia dichiarato di non voler essere nominato, compromette il diritto all’identità personale dell’adottato.

D’altra parte – sottolinea il giudice a quo – a fronte del diritto all’anonimato, basterebbe prevedere che, in presenza della richiesta del figlio, la madre fosse posta in condizione di ribadire o meno la scelta fatta molti anni prima, non senza sottolineare come il mutamento del costume sociale non faccia più percepire come un disonore la nascita di un figlio fuori del matrimonio. Tale possibilità, inoltre, non presenterebbe “pericoli” maggiori neppure per la famiglia adottiva, tenuto conto delle possibilità offerte all’adottato dai commi 5 e 6 dell’art. 28 in discorso. La logica che ne ha informato la novellazione, d’altra parte, pare essere tutta orientata verso il recepimento dei dati scientifici, convergenti nell’assegnare importanza alla conoscenza delle proprie origini; sicché, la disposizione dettata dal comma 7, oggetto di censura, rischierebbe di «precludere irrazionalmente, nella maggior parte dei casi, ciò che voleva consentire».

La disposizione oggetto di impugnativa violerebbe anche il principio di uguaglianza, trattando in modo diverso l’adottato la cui madre non abbia dichiarato alcunché e quello la cui madre abbia dichiarato di non voler essere nominata, senza considerare l’eventualità che possa aver cambiato idea e lei stessa desideri avere notizie del figlio. Nella specie, sussisterebbero interessi contrapposti: da un lato, quello dell’adottato a conoscere le proprie origini, quale espressione del diritto alla propria identità personale; dall’altro, le esigenze di protezione della famiglia adottiva e quello all’anonimato della famiglia naturale, quale ulteriore garanzia per la famiglia adottiva. La norma impugnata avrebbe privilegiato esclusivamente l’interesse del genitore all’anonimato, senza controllarne l’attualità, sacrificando sempre e comunque l’interesse dell’adottato, in ipotesi anche a fronte di gravi esigenze attinenti alla sua salute psico-fisica.

Infine, la disposizione in questione, operando solo a tutela dell’anonimato, discriminerebbe irragionevolmente gli adottati, in quanto diversamente dal caso di genitori naturali che non hanno dichiarato di non voler essere nominati – e che possono in concreto essersi opposti all’adozione, così da rappresentare un potenziale pericolo per la famiglia adottiva – un simile rischio non è rappresentato dal genitore il quale abbia richiesto l’anonimato. L’impossibilità di accertare, poi, se la madre abbia mutato orientamento circa l’anonimato costituirebbe violazione del principio di uguaglianza, giacché «accertato il superamento del rapporto conflittuale fra il diritto dell’adottato alla propria identità personale e quello della madre naturale al rispetto della sua volontà di anonimato», la diversità di disciplina fra le due ipotesi sarebbe ingiustificata.

Risulterebbe compromesso anche l’art. 32 Cost., in quanto l’impedimento alla conoscenza dei dati inerenti alla madre naturale priverebbe l’adottato di qualsiasi possibilità di ottenere una anamnesi familiare, essenziale per interventi di profilassi o di accertamenti diagnostici, essendo già egli privo di notizie circa la storia sanitaria del ramo paterno del proprio albero genealogico. Ciò, peraltro, in costanza della prassi, diffusa negli ospedali italiani, di omettere la stessa ordinaria raccolta dei dati anamnestici non identificativi della madre.

Sussisterebbe, infine, violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 8 della CEDU, per come interpretato dalla Corte di Strasburgo nella già richiamata sentenza nel caso Godelli contro Italia, la quale ha ritenuto che la normativa italiana in materia violi l’art. 8 della Convenzione, non essendo stati bilanciati fra loro gli interessi delle parti contrapposte, in tal modo eccedendo dal margine di valutazione riconosciuto alla stregua del principio convenzionale.

Sottolinea il giudice a quo, rammentando la giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di interpretazione adeguatrice, che la Corte europea non ha considerato che la normativa nazionale (art. 93 del d.lgs. n. 196 del 2003), da un lato, consente l’acquisizione dei dati relativi alla nascita trascorsi cento anni dalla formazione della cartella clinica o del certificato di assistenza al parto e, dall’altro, riconosce la possibilità di ottenere informazioni non identificative della madre.

Tuttavia – soggiunge il Giudice rimettente – la Corte europea ha censurato la normativa italiana in rapporto a circostanze diverse rispetto all’accesso alle informazioni non identificative, le quali ultime, peraltro, restano disciplinate in modo confuso, al punto da aver generato prassi applicative assai differenziate. La reversibilità del segreto, introdotta dalla legislazione francese – che ha passato immune, nel caso Odièvre, il controllo della Corte di Strasburgo –, costituirebbe un passo in avanti verso il soddisfacimento dell’esigenza di conoscenza delle proprie origini, valutato come elemento fondamentale per la costruzione della personalità dai nuovi approdi della scienza psicologica. Risulterebbe poi contestabile l’assunto che la garanzia dell’anonimato preserverebbe dal rischio di “decisioni irreparabili” della donna, tenuto conto dei dati statistici sugli infanticidi. Inoltre, il parto in anonimato sarebbe tra le prime cause che favoriscono alterazioni di stato, tanto da aver indotto il legislatore a predisporre rimedi in prevenzione, secondo quanto stabilito dall’art. 74 della legge n. 184 del 1983.

In punto di rilevanza, infine, il Tribunale sottolinea che, nella specie, la madre biologica ha dichiarato di non voler essere nominata, con la conseguenza che è precluso anche il semplice interpello della donna: il che confermerebbe la rilevanza della questione, giacché – come già detto – la ricorrente vedrebbe frustrata la sua aspirazione di conoscenza delle proprie origini e insoddisfatte le esigenze di salute connesse alla impossibilità di ottenere una ordinaria anamnesi familiare.

Non sussisterebbe, poi, possibilità di procedere ad interpretazioni della norma interna tali da escludere l’intervento del Giudice delle leggi, a nulla valendo, anche per le incertezze normative, il ricorso ad elementi non identificativi. D’altra parte, «sia emettendo un provvedimento che respingesse la domanda di accesso, ovvero autorizzasse almeno la conoscenza di dati non identificativi, di fatto neppure esistenti perché mai raccolti e/o conservati, la soluzione non soddisferebbe la decisione della CEDU».

2.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata.

La difesa erariale segnala come il Tribunale rimettente abbia trascurato, salvo un breve passaggio, di considerare che la questione è già stata dichiarata non fondata dalla Corte con la sentenza n. 425 del 2005, in riferimento proprio agli artt. 2, 3 e 32 Cost., rievocando la storia del quadro normativo e ponendo in luce la ratio della disciplina censurata («da un lato, assicurare che il parto avvenga in condizioni ottimali e, dall’altro, distogliere la donna da decisioni irreparabili»), che, pure, il giudice a quo ha richiamato per disattenderne la concludenza. Del pari, la Corte ebbe a escludere la violazione del principio di uguaglianza, tra figlio adottato la cui madre abbia dichiarato di non voler essere nominata e figlio adottato i cui genitori non abbiano reso tale dichiarazione, posto che – osservò la Corte – «solo la prima ipotesi e non anche la seconda è caratterizzata dal rapporto conflittuale fra il diritto dell’adottato alla propria identità personale e quello della madre al rispetto della sua volontà di anonimato».

Il novum sarebbe dunque rappresentato dalla sentenza della CEDU nel “caso Godelli” e la questione andrebbe esaminata, pertanto, solo sul versante della conformazione del quadro normativo agli impegni internazionali. Anche sotto questo profilo, però, la questione sarebbe infondata, giacché, se è vero che la legislazione nazionale risolve in favore della tutela dell’anonimato il contrasto di interessi, attraverso quella tutela si salvaguarda anche la vita del nascituro e la salute della donna. In linea con il comune sentire, quindi, si è considerato più grave il «vulnus che patirebbe la donna dal vedere svelata la sua identità di madre contro la propria volontà, rispetto al pericolo di una (non certa) compromissione dell’aspirazione dell’individuo alla sua piena realizzazione anche attraverso la conoscenza delle sue origini».

D’altra parte – e come ricordato dallo stesso rimettente –, il legislatore ha consentito l’accesso alla cartella clinica della madre ove venga in gioco la salute del figlio; tutela di natura eccezionale che non viene invece accordata se la madre si è sottoposta a pratiche di fecondazione assistita (art. 9 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, recante «Norme in materia di procreazione medicalmente assistita»). Per altro verso, l’accesso ai dati è consentito dopo cento anni e, prima, sono acquisibili i dati non identificativi della madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata.

Pertanto, e contrariamente all’assunto della Corte di Strasburgo, la legislazione nazionale avrebbe «regolato con equilibrio e proporzionalità i diversi interessi coinvolti». Mentre risulterebbe priva di base scientifica la tesi del giudice a quo secondo la quale le ragioni della tutela dell’anonimato sarebbero venute meno per il mutamento dei costumi sociali e della morale civile.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale per i minorenni di Catanzaro solleva, in riferimento agli articoli 2, 3, 32 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), come sostituito dall’art. 177, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), «nella parte in cui esclude la possibilità di autorizzare la persona adottata all’accesso alle informazioni sulle origini senza avere previamente verificato la persistenza della volontà di non volere essere nominata da parte della madre biologica».

La disposizione denunciata contrasterebbe con l’art. 2 della Costituzione, configurando «una violazione del diritto di ricerca delle proprie origini e dunque del diritto all’identità personale dell’adottato»; con l’art. 3 Cost., in riferimento all’«irragionevole disparità di trattamento fra l’adottato nato da donna che abbia dichiarato di non voler essere nominata e l’adottato figlio di genitori che non abbiano reso alcuna dichiarazione e abbiano anzi subìto l’adozione»; con l’art. 32 Cost., in ragione dell’impossibilità, per il figlio, di ottenere dati relativi all’anamnesi familiare, anche in relazione al rischio genetico; con l’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, per come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza del 25 settembre 2012 nel caso Godelli contro Italia, la quale ha dichiarato che la normativa italiana rilevante violi il predetto art. 8 della Convenzione, non adeguatamente bilanciando fra loro gli interessi delle parti contrapposte.

2.– Intervenuto nel giudizio, il Presidente del Consiglio dei ministri ha osservato che la questione di legittimità costituzionale, già dichiarata non fondata con la sentenza n. 425 del 2005 in riferimento ai parametri di cui agli artt. 2, 3 e 32 Cost., risulterebbe del pari non fondata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., considerato che con la tutela dell’anonimato si salvaguarda anche la vita del nascituro e la salute della donna e che, diversamente da come prospettato dalla Corte di Strasburgo, la normativa italiana avrebbe «regolato con equilibrio e proporzionalità i diversi interessi coinvolti».

3.– La questione è fondata, nei termini di cui appresso.

4.– Come il giudice a quo e la stessa difesa erariale hanno puntualmente rilevato, il tema del diritto all’anonimato della madre e quello del diritto del figlio a conoscere le proprie origini ai fini della tutela dei suoi diritti fondamentali hanno già formato oggetto di pronunce tanto di questa Corte che della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Si tratta di questioni di particolare delicatezza, perché coinvolgono, entrambe, valori costituzionali di primario rilievo e vedono i rispettivi modi di concretizzazione reciprocamente implicati; al punto che – come è evidente – l’ambito della tutela del diritto all’anonimato della madre non può non condizionare, in concreto, il soddisfacimento della contrapposta aspirazione del figlio alla conoscenza delle proprie origini, e viceversa.

Nel giudizio concluso con la sentenza n. 425 del 2005, questa Corte fu chiamata a pronunciarsi su un quesito del tutto analogo a quello ora nuovamente devoluto dal giudice rimettente: anche in quella circostanza, infatti, il petitum perseguito non mirava alla mera ablazione del diritto della madre che, alla nascita del figlio, avesse dichiarato, agli effetti degli atti dello stato civile, di non voler essere nominata, ai sensi dell’art. 30, comma 1, del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127); e neppure era volto a conseguire una sorta di bilanciamento fra i diritti – potenzialmente alternativi, quanto al rispettivo soddisfacimento – di cui innanzi si è detto; ma mirava esclusivamente ad introdurre nel sistema normativo – che sul punto era del tutto silente – la possibilità di verificare la persistenza della volontà della madre naturale di non essere nominata.

Ebbene, nella circostanza, non si mancò di rammentare come la finalità della norma, oggi nuovamente impugnata in parte qua, fosse quella di assicurare, da un lato, che il parto avvenisse nelle condizioni ottimali tanto per la madre che per il figlio, e, dall’altro lato, di «distogliere la donna da decisioni irreparabili, per quest’ultimo ben più gravi». E l’irrevocabilità degli effetti di questa scelta venne spiegata secondo una logica di rafforzamento dei corrispondenti obiettivi, escludendo che la decisione per l’anonimato potesse comportare, per la madre, «il rischio di essere, in un imprecisato futuro e su richiesta del figlio mai conosciuto e già adulto, interpellata dall’autorità giudiziaria per decidere se confermare o revocare quella lontana dichiarazione di volontà».

Il nucleo fondante della scelta allora adottata si coglie, così, agevolmente, nella ritenuta corrispondenza biunivoca tra il diritto all’anonimato, in sé e per sé considerato, e la perdurante quanto inderogabile tutela dei profili di riservatezza o, se si vuole, di segreto, che l’esercizio di quel diritto inevitabilmente coinvolge. Un nucleo fondante che – vale la pena puntualizzare – non può che essere riaffermato, proprio alla luce dei valori di primario risalto che esso intende preservare.

Il fondamento costituzionale del diritto della madre all’anonimato riposa, infatti, sull’esigenza di salvaguardare madre e neonato da qualsiasi perturbamento, connesso alla più eterogenea gamma di situazioni, personali, ambientali, culturali, sociali, tale da generare l’emergenza di pericoli per la salute psico-fisica o la stessa incolumità di entrambi e da creare, al tempo stesso, le premesse perché la nascita possa avvenire nelle condizioni migliori possibili.

La salvaguardia della vita e della salute sono, dunque, i beni di primario rilievo presenti sullo sfondo di una scelta di sistema improntata nel senso di favorire, per sé stessa, la genitorialità naturale.

Peraltro, in questa prospettiva, anche il diritto del figlio a conoscere le proprie origini – e ad accedere alla propria storia parentale – costituisce un elemento significativo nel sistema costituzionale di tutela della persona, come pure riconosciuto in varie pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo. E il relativo bisogno di conoscenza rappresenta uno di quegli aspetti della personalità che possono condizionare l’intimo atteggiamento e la stessa vita di relazione di una persona in quanto tale. Elementi, tutti, affidati alla disciplina che il legislatore è chiamato a stabilire, nelle forme e con le modalità reputate più opportune, dirette anche a evitare che il suo esercizio si ponga in collisione rispetto a norme – quali quelle che disciplinano il diritto all’anonimato della madre – che coinvolgono, come si è detto, esigenze volte a tutelare il bene supremo della vita.

5.– Tuttavia, l’aspetto che viene qui in specifico rilievo – e sul quale la sentenza della Corte di Strasburgo del 25 settembre 2012, Godelli contro Italia, invita a riflettere, secondo la prospettazione dello stesso giudice rimettente – ruota attorno al profilo, per così dire, “diacronico” della tutela assicurata al diritto all’anonimato della madre.

Con la disposizione all’esame, l’ordinamento pare, infatti, prefigurare una sorta di “cristallizzazione“ o di “immobilizzazione“ nelle relative modalità di esercizio: una volta intervenuta la scelta per l’anonimato, infatti, la relativa manifestazione di volontà assume connotati di irreversibilità destinati, sostanzialmente, ad “espropriare” la persona titolare del diritto da qualsiasi ulteriore opzione; trasformandosi, in definitiva, quel diritto in una sorta di vincolo obbligatorio, che finisce per avere un’efficacia espansiva esterna al suo stesso titolare e, dunque, per proiettare l’impedimento alla eventuale relativa rimozione proprio sul figlio, alla posizione del quale si è inteso, ab origine, collegare il vincolo del segreto su chi lo abbia generato.

Tutto ciò è icasticamente scolpito dall’art. 93, comma 2, del ricordato d.lgs. n. 196 del 2003, secondo cui «Il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata avvalendosi della facoltà di cui all’articolo 30, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, possono essere rilasciati in copia integrale a chi vi abbia interesse, in conformità alla legge, decorsi cento anni dalla formazione del documento».

Ebbene, a cercare un fondamento a tale sistema – che commisura temporalmente lo spazio del “vincolo” all’anonimato a una durata idealmente eccedente quella della vita umana –, se ne ricava che esso riposa sulla ritenuta esigenza di prevenire turbative nei confronti della madre in relazione all’esercizio di un suo “diritto all’oblio” e, nello stesso tempo, sull’esigenza di salvaguardare erga omnes la riservatezza circa l’identità della madre, evidentemente considerata come esposta a rischio ogni volta in cui se ne possa cercare il contatto per verificare se intenda o meno mantenere il proprio anonimato.

Ma né l’una né l’altra esigenza può ritenersi dirimente: non la prima, in quanto al pericolo di turbativa della madre corrisponde un contrapposto pericolo per il figlio, depauperato del diritto di conoscere le proprie origini; non la seconda, dal momento che la maggiore o minore ampiezza della tutela della riservatezza resta, in conclusione, affidata alle diverse modalità previste dalle relative discipline, oltre che all’esperienza della loro applicazione.

Sul piano più generale, una scelta per l’anonimato che comporti una rinuncia irreversibile alla “genitorialità giuridica” può, invece, ragionevolmente non implicare anche una definitiva e irreversibile rinuncia alla “genitorialità naturale”: ove così fosse, d’altra parte, risulterebbe introdotto nel sistema una sorta di divieto destinato a precludere in radice qualsiasi possibilità di reciproca relazione di fatto tra madre e figlio, con esiti difficilmente compatibili con l’art. 2 Cost.

In altri termini, mentre la scelta per l’anonimato legittimamente impedisce l’insorgenza di una “genitorialità giuridica”, con effetti inevitabilmente stabilizzati pro futuro, non appare ragionevole che quella scelta risulti necessariamente e definitivamente preclusiva anche sul versante dei rapporti relativi alla “genitorialità naturale”: potendosi quella scelta riguardare, sul piano di quest’ultima, come opzione eventualmente revocabile (in seguito alla iniziativa del figlio), proprio perché corrispondente alle motivazioni per le quali essa è stata compiuta e può essere mantenuta.

6.– La disciplina all’esame è, dunque, censurabile per la sua eccessiva rigidità.

Ciò, d’altra parte, risulta sulla base degli stessi rilievi, in sostanza, formulati dalla Corte EDU nella richiamata “sentenza Godelli”.

In essa – come accennato e nei termini di seguito precisati – si è stigmatizzato che la normativa italiana non darebbe «alcuna possibilità al figlio adottivo e non riconosciuto alla nascita di chiedere l’accesso ad informazioni non identificative sulle sue origini o la reversibilità del segreto», a differenza di quanto, invece, previsto nel sistema francese, scrutinato, in parte qua, nella sentenza 13 febbraio 2003, nel “caso Odièvre”.

Ora, è agevole osservare, quanto al primo rilievo, che il già citato art. 93 del d.lgs. n. 196 del 2003 prevede espressamente, al comma 3, la comunicabilità, in ogni tempo (e nel termine di cento anni fissato per il segreto), delle informazioni “non identificative” ricavabili dal certificato di assistenza al parto o dalla cartella clinica, tuttavia ancorandola soltanto all’osservanza, ai fini della tutela della riservatezza della madre, delle relative «opportune cautele per evitare che quest’ultima sia identificabile».

Resta evidente che l’apparente, quanto significativa, genericità, o elasticità, della formula «opportune cautele» sconta l’ovvia – e sia pure non insormontabile – difficoltà di determinare con esattezza astratte regole dirette a soddisfare esigenze di segretezza variabili in ragione delle singole situazioni concrete. Altrettanto evidente che debba, inoltre, essere assicurata la tutela del diritto alla salute del figlio, anche in relazione alle più moderne tecniche diagnostiche basate su ricerche di tipo genetico.

Il vulnus è, dunque, rappresentato dalla irreversibilità del segreto. La quale, risultando, per le ragioni anzidette, in contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost., deve conseguentemente essere rimossa.

Restano assorbiti i motivi di censura formulati in riferimento agli ulteriori parametri.

Sarà cómpito del legislatore introdurre apposite disposizioni volte a consentire la verifica della perdurante attualità della scelta della madre naturale di non voler essere nominata e, nello stesso tempo, a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all’anonimato, secondo scelte procedimentali che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso, anche da parte degli uffici competenti, ai dati di tipo identificativo, agli effetti della verifica di cui innanzi si è detto.
per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), come sostituito dall’art. 177, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), nella parte in cui non prevede – attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza – la possibilità per il giudice di interpellare la madre – che abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi dell’art. 30, comma 1, del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127) – su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione.

fonte: Altalex.com//Figli abbandonati, Consulta: sì a richiesta alla madre di revocare l'anonimato

Utilizzo di carte di credito rubate e reato di riciclaggio

Un uomo veniva accusato del delitto di utilizzazione indebita di carte di credito estero per aver trasferito il denaro proveniente da illecita clonazione/furto di carte di credito estere (avvenuto ad opera di ignoti), compiendo operazioni in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa. Dopo aver formulato tale accusa, il GIP disponeva il sequestro preventivo per equivalente in funzione della successiva confisca obbligatoria ex art. 648 quater c.p. Il Tribunale annullava il Decreto suddetto considerando le operazioni compiute dall’uomo come operazioni di “auto-riciclaggio”, pertanto, non ascrivibili ad alcuna fattispecie tipica di reato. Il PG ricorreva in Cassazione avverso tale decisione assumendo che: il delitto cd. presupposto del riciclaggio è l’indebito utilizzo di carte di credito e non già la clonazione/furto delle stesse carte, delitti non contestati all’indagato nel caso di specie; l’indagato non aveva semplicemente utilizzato più carte di credito conseguendone il profitto, ma aveva ricevuto beni di provenienza illecita e li aveva sostituiti con denaro con operazioni commerciali evidentemente false. La Corte di Cassazione – con la sentenza del 27 novembre 2013, n. 47147 - ha ritenuto fondato il ricorso presentato dal PG affermando che nel caso di riciclaggio di carte di credito provenienti da delitto, perché rubate o clonate, l’indebita utilizzazione delle carte di credito medesime non costituisce reato presupposto del riciclaggio, ma reato strumentale alla commissione del riciclaggio medesimo.

Fonte: http://fiscopiu.it/La Stampa - Utilizzo di carte di credito rubate e reato di riciclaggio

Stupefacenti, no alla revoca della patente per chi ha patteggiato ante ‘09


No alla retroattività della norma che prevede la revoca della patente di guida per chi ha patteggiato prima del 2009 una condanna per reati in materia di stupefacenti. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale, con la sentenza 281/2013, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 120, commi 1 e 2, del Dlgs 285/1992, come sostituito dall’art. 3, comma 52, lettera a), della legge 94/2009, nella parte in cui si applica anche con riferimento a sentenze pronunziate, ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale, in epoca antecedente all’entrata in vigore della legge n. 94 del 2009.

La Consulta ha rilevato che, in merito alle sentenze di patteggiamento, «la componente negoziale» propria di questo istituto «resa evidente anche dalla facoltà concessa al giudice di verificare la volontarietà della richiesta o del consenso (articolo 446, comma 5, del codice di procedura penale), postula certezza e stabilità del quadro normativo che fa da sfondo alla scelta compiuta dall’imputato e preclude che successive modificazioni legislative vengano ad alterare in pejus effetti salienti dell’accordo suggellato con la sentenza di patteggiamento» (sentenza n. 394 del 2002).

Il nuovo testo del codice della strada, come modificato dalla legge del 2009, spiega la sentenza, «ha innovato la disciplina che l'imputato aveva avuto presente nel ponderare l'opportunità di addivenire al patteggiamento ed ha retroattivamente attribuito al consenso a suo tempo prestato l'ulteriore significato di una rinunzia alla patente di guida». Questo, concludono i giudici delle leggi, «ne comporta il denunciato contrasto con il diritto di difesa», previsto dall'articolo 24 della Costituzione, «sia per l'inadempimento, che ne consegue, rispetto al negozio processuale» del patteggiamento, «sia per il vulnus all'affidamento qualificato dell'imputato circa gli effetti delle proprie scelte».

Manifestamente inammissibilità, invece, la questione di legittimità costituzionale (sempre dell’articolo 120, commi 1 e 2, del Dlgs n. 285 del 1992) sollevata in riferimento agli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per l’Umbria, con riferimento alla automaticità della revoca della patente senza alcuna attenzione al caso specifico ed alla funzione rieducativa delle pena.

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Stupefacenti, no alla revoca della patente per chi ha patteggiato ante ‘99

Leasing, l’utilizzatore risponde della falsa dichiarazione

Nel contratto di leasing l’insolvenza del fornitore del bene non ricade sulla società di leasing ma sull’utilizzatore se questo ha firmato l’avvenuta ricezione del bene che invece non è mai stato consegnato. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 26687/2013, rigettando il ricorso di un medico ginecologo contro la condanna al pagamento di 138 milioni di lire oltre interessi, per il leasing di un ecografo.

Secondo il sanitario egli avrebbe subito un raggiro che l’avrebbe indotto a sottoscrivere una dichiarazione di accettazione in consegna del macchinario, che in realtà non era mai avvenuto, dietro promessa che ciò sarebbe servito ad accelerare i tempi.

Sulla base della dichiarazione del cliente il presunto truffatore avrebbe ottenuto dalla Centro Leasing il finanziamento dell’intero prezzo del macchinario, senza tuttavia versarne il prezzo alla Toshiba, la quale quindi non ha consegnato a RWS l’ecografo, che non è mai pervenuto all’ utilizzatore.

La Cassazione oggi ha confermato la sentenza della Corte di appello che aveva addebitato al medico la responsabilità di avere indotto la società opposta a versare a RWS l’intero importo del finanziamento, avendo egli sottoscritto la dichiarazione - che sapeva non veritiera - di avere ricevuto in consegna il macchinario.

Per gli ermellini dunque il ricorrente è il responsabile esclusivo per l’avventatezza con cui ha dichiarato di avere ricevuto un macchinario che in realtà non gli era stato consegnato e per il fatto che le clausole del contratto di leasing pongono a carico dell’utilizzatore tutti i rischi e le responsabilità per l’inadempimento del fornitore.

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fonte: ilsole24ore/Leasing, l’utilizzatore risponde della falsa dichiarazione

Rapporto sessuale consenziente? Questo lo dice lui, ma ci sono altre dichiarazioni da valutare

Dopo l’annullamento dell’ordinanza che disponeva la misura degli arresti domiciliari nei confronti di un giovane, in relazione al reato di violenza sessuale (art. 609 bis c.p.), da parte del Tribunale di Roma, il Procuratore della Repubblica propone ricorso per cassazione. In sostanza, la difesa dell’indagato sostiene che la persona offesa abbia avuto un rapporto consensuale con lo stesso e che la sua reazione sia derivata dalla presa di coscienza dell’assenza di precauzioni e dal relativo timore di conseguenze non desiderate, come dimostrerebbe l’attenzione per la prescrizione della «pillola del giorno dopo». Le dichiarazioni della sorella e del fidanzato della persona offesa dovevano essere valutate. La Cassazione (sentenza 26446/13) ritiene, invece, meritevole di accoglimento il ricorso del procuratore, in quanto i giudici di appello hanno «omesso di argomentare in ordine al contenuto delle diverse dichiarazioni rese da persone informate sui fatti», circostanza, questa, che non può essere considerata irrilevante rispetto alla coerenza interna del provvedimento. Pertanto, l’ordinanza impugnata va annullata con rinvio per nuovo esame.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Rapporto sessuale consenziente? Questo lo dice lui, ma ci sono altre dichiarazioni da valutare

giovedì 28 novembre 2013

Condannata la maestra che fa spogliare gli allievi per scoprire un furto

Ferisce la dignità dei bambini e il loro sentimento di riservatezza la maestra che ordina ai piccoli allievi, già sottoposti alla perquisizione di zaini e tasche, di spogliarsi per verificare che addosso non abbiano i soldi scomparsi a una bidella. Per questo la Cassazione ha confermato la condanna a venti giorni di reclusione per perquisizioni personali arbitrarie nei confronti di Rosa Giovanna R., una maestra della scuola elementare Montessori di Sanremo che, nel novembre 2005, riservò questo trattamento agli alunni di quarta dopo che l'assistente scolastica si era lamentata perché dal portafoglio cadutole a terra non c'erano più i settanta euro che aveva. Scrive infatti la Suprema Corte - sentenza 47103/2013 della Quinta sezione penale, presidente Gaetanino Zecca - che se per la prima parte delle perquisizioni, quella più soft relativa a zaini e tasche, la maestra potrebbe essere scusata perché poteva pensare di aver agito nell'ambito dei poteri disciplinari per far capire agli alunni quali sono le azioni che non devono compiere, tale giustificazione non può essere concessa per l'ordine di denudamento. Questa viene considerata una coercizione la cui gravità non può sfuggire a chi lo impartisce.

Ad avviso della Cassazione, correttamente quindi la Corte di Appello di Genova "ha escluso la consapevolezza della illiceità della condotta quanto all'attività di verifica dei beni degli alunni, per ravvisarla invece in un comportamento che incidendo sulla dignità e riservatezza personale degli stessi, si connotava in termini di ben diversa gravità, immediatamente percepibile anche da parte di chi poteva, in relazione al primo segmento di condotta, avere erroneamente ritenuto di agire all'interno dei poteri disciplinari finalizzati ad un retto comportamento scolastico". Spiegano gli ermellini che sebbene sia identico l'obiettivo perseguito con "l'attività di perquisizione dei beni e quella di ispezione degli alunni", lo stesso non può dirsi quanto alla "materialità della condotta e della natura dei beni sacrificati".

Insomma un conto è rovistare tasche e zaini, controlli sui quali si può chiudere un occhio, mentre altra cosa, inescusabile, è sottoporre bambini a ispezioni corporali. La maestra condannata, nel novembre 2005, "aveva costretto gli alunni a restare in slip e canottiera, mediante minaccia consistita nel condurli a due alla volta all'interno del locale utilizzato dal personale scolastico e nell'intimare loro di togliersi i vestiti". Assolta invece per non aver commesso il fatto un'altra docente, Piera P., condannata in appello con verdetto del cinque giugno 2012, anche lei a venti giorni.

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fonte: ilsole24ore/Condannata la maestra che fa spogliare gli allievi per scoprire un furto

Non c’è legittima difesa senza il pericolo per la propria incolumità

La legittima difesa esige che il fatto sia commesso per la necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta. A ricordarlo è la Cassazione nella sentenza 26595/13.

Il caso
Un uomo è stato condannato per il reato di lesioni personali gravi, in quanto, dopo aver scavalcato arbitrariamente nella fila che si era formata in un impianto caseario, al fine di caricare del siero di latte, alle proteste dello “scavalcato” aveva reagito violentemente, colpendolo ripetutamente al volto con pugni. L’imputato ha presentato ricorso in Cassazione, lamentando l’errata applicazione dei principi della legittima difesa. È stato lo stesso imputato a provocare la vittima con il proprio comportamento. La Suprema Corte ha sottolineato che per l’operare della scriminante è necessario difendere un diritto contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, mentre, nel caso concreto, un’offesa non era in atto e nessun pericolo correva il ricorrente per la propria incolumità. Infatti, la persona offesa, pur protestando per l’abuso subito, non era affatto in condizione, per l’età e le condizioni fisiche, di misurarsi con l’autore della violenza, persona molto più giovane e prestante. Inoltre, secondo i giudici di legittimità, la sentenza impugnata ha ampiamente spiegato che la vittima, in concreto, non ha posto in essere alcuna azione idonea a porre in pericolo l’incolumità dell’imputato, ma è stata, invece, malmenata dall’avversario con pugni assestati al volto. Pertanto, gli Ermellini, hanno rigettato il ricorso, ritenendo del tutto assertiva la tesi del ricorrente, secondo il quale egli era stato costretto dalla necessità di respingere un’offesa ingiusta. Infine, Piazza Cavour ha considerato improponibile anche la tesi subordinata dell’eccesso colposo in legittima difesa, posto che di quest’ultima non esistevano i presupposti legali.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Non c’è legittima difesa senza il pericolo per la propria incolumità

martedì 26 novembre 2013

Magistrati: sì alla responsabilità in caso di ritardo nel deposito delle sentenze

 
Riconosciuta la responsabilità del magistrato per gravi ritardi nel deposito di numerose sentenze con punte di 100-200 giorni: è questo il caso deciso dalle sezioni Unite civili con la sentenza del 25 novembre 2013 n. 26284.

La vicenda
La Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, con decisione del 2013, aveva inflitto a un magistrato la sanzione della perdita di anzianità di due mesi per avere depositato “nel periodo giugno 2003-marzo 2010 numerose sentenze con gravi ritardi, molte superiori ai 100-200 giorni, in un caso ai 300 giorni, mentre nel caso più grave il ritardo aveva raggiunto i 2.246 giorni”.

Il Csm aveva rilevato che il ritardo nel deposito “appariva grave, ingiustificato e reiterato”, soprattutto nel periodo in cui magistrato aveva svolto la funzione di giudice. In relazione, alle funzioni esercitate “ben 10 sentenze erano state depositate con un ritardo di circa tre anni”. Ma non è finita. Sempre secondo il Csm  “il ritardo era altresì reiterato, riguardando almeno 40 sentenze, nonché grave, perché almeno per la metà dei depositi, superiore all’anno, con una punta di 1400 giorni”. In conclusione,  i carichi e l’organizzazione del lavoro  non potevano giustificare tali ritardi.

La motivazione
Il magistrato nel ricorso in Cassazione ha sostenuto un difetto di motivazione del provvedimento del Consiglio, che ha determinato la perdita dell’anzianità. Secondo le sezioni Unite la motivazione della sezioni disciplinare del Csm è immune da vizi logici e giuridici.
“Dalla lettura – fanno presente le sezioni Unite - della sentenza impugnata emerge infatti che la Sezione disciplinare, dopo avere evidenziato sia il considerevole numero di provvedimenti depositati in ritardo nonché la durata dl detti ritardi ‘per periodi di oltre tre anni, con punte superiori al 4 anni” ha dimostrato da un lato che tali comportamenti avevano caratterizzato tutta la carriera del magistrato, iniziando nel triennio 1982-1985 e procurandogli due procedimenti disciplinari tuttavia conclusi con esito a lui favorevole:
menzionati non certamente per ricavarne elementi di addebito nei suoi confronti,ovvero per essere rivalutati in senso sfavorevole,ma per dimostrare come egli abbia sempre sofferto di carenze strutturali nell’organizzazione del suo lavoro divenute una costante nel suo percorso professionale sia in occasione dl eventi (e di processi) particolari, sia nella normale gestione dei processi penali allo stesso affidati:e ciò tanto allorché aveva svolto funzioni istruttorie, quanto allorché era passato a comporre (ovvero a presiedere) una sezione penale del Tribunale. Ha rilevato dall’altro che tale costante negativa non era cessata neppure in occasione del presente procedimento disciplinare,in conseguenza del quale Il magistrato era stato obbligato a presentare un piano di rientro del depositi tuttavia rimasto inadempiuto perché buona parte del provvedimenti erano stati depositati assai dopo la scadenza dei termini Indicati nel piano.
Sulla base ditali elementi di fatto la Sezione ha quindi concluso nel senso che i fatti oggetto di contestazione erano oggettivamente molto gravi e le omissioni costanti sì da non permettere Il contenimento della sanzione nei limiti dei minimo edittale, e di rendere necessaria l’applicazione di quella Immediatamente successiva”.

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fonte: ilsole24ore/Magistrati: sì alla responsabilità in caso di ritardo nel deposito delle sentenze

Delitto di furto se il bene conserva i segni del legittimo possesso altrui

Chi si impossessa di una cosa smarrita che contenga chiari e intatti i segni esteriori di un possesso legittimo altrui, i quali consentano l’individuazione del titolare del diritto, commette un delitto di furto e non di appropriazione indebita, tale da integrare il reato presupposto della ricettazione di cui all’articolo 648 del codice penale. Lo ha stabilito la seconda sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza 46991/13.

La vicenda
Il caso riguardava la condanna per ricettazione, inflitta dal Tribunale e confermata dalla Corte di Appello, nei confronti di un soggetto che, tra alcuni oggetti smarriti, aveva rinvenuto anche un assegno bancario, dal quale poteva risalirsi agevolmente al titolare del conto corrente.

Le motivazioni
Secondo la Corte, il titolare dell’assegno “nonostante lo smarrimento, non aveva perso la propria signoria sulla cosa, permanendo il suo diritto alla restituzione in caso di rinvenimento della stessa”. Inoltre, in relazione alla mancata successiva restituzione dell’assegno dopo il suo rinvenimento, i giudici affermano che “il soggetto che abbia trovato l’oggetto smarrito, deve provvedere alla restituzione dello stesso ove siano presenti segni che consentano di individuarne il legittimo titolare; il non farlo integra una condotta appropriativa illecita idonea ad integrare sotto il profilo materiale e quello psicologico il delitto di furto, che costituisce il delitto presupposto della ricettazione”.

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fonte: ilsole24ore/Delitto di furto se il bene conserva i segni del legittimo possesso altrui

Ebbrezza alcolica accertata solo dai sintomi? Fattispecie depenalizzata

La guida in stato d’ebbrezza, se accertata soltanto in chiave sintomatica, deve essere ricondotta all’ipotesi più lieve di cui alla lettera a ), del comma 2, dell’art. 186 del Codice della strada. E' quanto emerge dalla sentenza 10 ottobre 2013, n. 41399 della Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione.
Il caso vedeva un conducente essere fermato in stato di ebbrezza, quest'ultimo accertato solo su base sintomatologica, con conseguente condanna, da parte del giudice di prime cure, per il reato di cui all'art. 186, comma 2, lett. a), cod. strad.
Con ricorso per Cassazione l'imputato lamenta l'avvenuta depenalizzazione della fattispecie in questione. Come noto, la novella intervenuta con la legge 120/2010 ha trasformato la guida in stato di ebbrezza (presunta) in mero illecito amministrativo, non essendo più la il fatto previsto dalla legge come reato.
Secondo gli ermellini, in omaggio al principio del favor rei, la fattispecie, depenalizzata dalla riforma del codice della strada, ad opera della legge 29 luglio 2010, n. 120, fa sì che il giudice penale non sia più competente, con la conseguente trasmissione degli atti al Prefetto della provincia, per quanto di competenza, relativamente alla sospensione della patente di guida.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE-SEZIONE IV PENALE
Sentenza 26 settembre - 7 ottobre 2013, n. 41399

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BLAIOTTA Rocco Marco - Presidente -
Dott. CIAMPI Francesco Mari - Consigliere -
Dott. PICCIALLI Patrizia - Consigliere -
Dott. DOVERE Salvatore - Consigliere -
Dott. MONTAGNI Andrea - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente sentenza sul ricorso proposto da:
1) PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D'APPELLO DI BARI;
nei confronti di:
D.F.A. N. IL (OMISSIS) imputato;
inoltre:
2) D.F.A. N. IL (OMISSIS) - imputato;
avverso la sentenza n. 2576/2007 TRIBUNALE di BARI, del 21/01/2009;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 26/09/2013 la relazione fatta dal Consigliere Dott. ANDREA MONTAGNI estensore Dott. ROCCO MARCO BLAIOTTA;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Geraci Vincenzo, che ha concluso per l'annullamento senza rinvio perchè il fatto non è più previsto dalla legge come reato; invio degli atti al Prefetto in ordine alla sospensione della patente di guida.

Svolgimento del processo - Motivi della decisione
1. Il Tribunale di Bari ha affermato la responsabilità dell'imputato in epigrafe in ordine al reato di cui all'art. 186 C.d.S., comma 2, lett. A, commesso il (OMISSIS) e lo ha condannato alla pena di Euro 500 di ammenda.
2. Ha proposto appello l'imputato con atto qualificato come ricorso per cassazione, lamentando che la fattispecie in questione è stata depenalizzata sicchè erroneamente è stata pronunziata sentenza di condanna.
2.1 Ha fatto seguito la presentazione di una memoria per prospettare l'intervenuta prescrizione del reato.
3. Ha proposto altresì ricorso per cassazione il Procuratore Generale della Repubblica lamentando la mancata applicazione della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida.
4. Il ricorso dell'imputato è fondato. Il reato, infatti, è stato accertato in chiave sintomatica, sicchè correttamente, in conformità all'insegnamento di questa Suprema Corte, il giudice ha ritenuto, pel principio del favor rei, l'esistenza della fattispecie di cui al novellato art. 186 C.d.S., comma 2, lett. a), la più lieve tra quelle previste dalla disciplina della guida in stato di ebbrezza.
Tuttavia, per effetto della L. 29 luglio 2010, n. 120, la fattispecie in questione è stata trasformata in illecito amministrativo.
In conseguenza, ai sensi dell'art. 2 c.p. e art. 129 c.p.p., la sentenza deve essere annullata senza rinvio perchè il fatto non è più previsto dalla legge come reato.
5. Per l'effetto è privo di pregio il ricorso dell'accusa pubblica posto che da una lettura integrata degli artt. 221, 222 e 224 C.d.S. emerge che la competenza del giudice penale in ordine alla violazione amministrativa viene meno se il procedimento si conclude per estinzione del reato o per difetto di una condizione di procedibilità; e che in ogni caso la sanzione stessa è applicata dal giudice solo con la sentenza di condanna. In tal senso, del resto, questa Corte suprema si è ripetutamente pronunziata (ad es. Sez. 4, 16/3/2004, Rv. 229384; Sez. 4, 23/12/2003 Rv. 229382).
Gli atti vanno trasmessi al prefetto di Bari per quanto di competenza in ordine alla detta sanzione amministrativa accessoria.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non è più previsto dalla legge come reato.
Rigetta il ricorso del Procuratore generale della Repubblica e dispone trasmettersi gli atti al prefetto di Bari per quanto di competenza in ordine alla sospensione della patente di guida.

fonte: Altalex.com//Ebbrezza alcolica accertata solo dai sintomi? Fattispecie depenalizzata

lunedì 25 novembre 2013

AVVISI CONSEGNATI NELLE MANI DEL FAMILIARE, MA NON ALL’INDIRIZZO DEL DESTINATARIO: NOTIFICA INESISTENTE, CONTRIBUENTE SALVO

Cartelle di pagamento in ‘regalo’ per il contribuente: in ballo “Iva e Irpef relative agli anni d’imposta dal 2003 al 2004”. Ma il Fisco commette un errore nella consegna degli “avvisi di accertamento”, ‘bussando’ alla porta sbagliata, non quella del contribuente, bensì quella della madre.
Questo errore si rivela decisivo, e assolutamente propizio per il contribuente, che vede annullate definitivamente le “cartelle di pagamento”.
A dare tale giudizio tranchant sono i giudici della Cassazione, i quali smentiscono l’ottica adottata dalle Commissioni tributarie, laddove si era sottolineato che va considerata “validamente effettuata la notifica a familiare, ancorché non convivente e residente in luogo diverso, nella presunzione che l’atto venga portato poi a conoscenza dell’effettivo destinatario in tempi ragionevoli, sebbene l’organo accertatore non può dar prova del tempestivo ed effettivo recapito”.
Tale visione è assolutamente erronea, chiariscono i giudici della Cassazione, ricordando che, in questa vicenda, “le notifiche” sono state “effettuate a mani della madre del contribuente ed in luogo diverso da quello della sua residenza”.
Questo particolare non può essere trascurato, perché, in caso di “notifica effettuata a mani di un familiare del destinatario”, la “presunzione di convivenza non meramente occasionale non opera nel caso in cui la notificazione sia stata eseguita nella residenza propria del familiare, diversa da quella del destinatario dell’atto, non potendosi ritenere avverato il presupposto della frequentazione quotidiana sul quale si basa l’ipotesi della presumibile consegna”.
Per questo motivo, come detto, deve essere considerata acclarata la “inesistenza della notifica”, con conseguente azzeramento delle “cartelle di pagamento”.
E assolutamente irrilevante, concludono i giudici, è il richiamo, fatto dal Fisco, al “pagamento delle sanzioni” effettuato dal contribuente: da tale atto, difatti, nulla si può dedurre “in ordine alla effettiva conoscenza degli atti di accertamento”.

Il testo integrale dell’ordinanza: clicca
AVVISI CONSEGNATI NELLE MANI DEL FAMILIARE, MA NON ALL’INDIRIZZO DEL DESTINATARIO: NOTIFICA INESISTENTE, CONTRIBUENTE SALVO (CASSAZIONE N. 26189 DEL 21 NOVEMBRE 2013) | Fisco e Diritto

Gip ignora fax dell'avvocato che annuncia il ritardo? Violato diritto di difesa

Il giudice non può celebrare l’udienza se l’avvocato ha annunciato un ritardo di quaranta minuti. E' quanto emerge dalla sentenza 8 novembre 2013, n. 45190 della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione, chiamata a decidere su un ricorso avverso una ordinanza con la quale il Gip presso il Tribunale di Lecco disponeva l'archiviazione del procedimento a carico di un soggetto indagato per il reato di cui all'art. 609-quater c.p.
Il caso vedeva il Gip non attendere, per un breve lasso di tempo, ovvero quaranta minuti, la parte offesa ed il suo difensore, prima di svolgere l'udienza ex art. 127 c.p.p., sull'opposizione all'archiviazione proposta dalla medesima parte offesa, procedendovi immediatamente e nominando un sostituto processuale del difensore per la parte offesa, ex art. 97, comma 4, c.p.p.; il tutto nonostante che detto ritardo, limitato dal punto di vista temporale e dovuto a caso fortuito, fosse stato oggetto di avviso da parte del difensore prima dell'orario in cui l'udienza era fissata.
Nella specie, il Gip non si trovava, come correttamente rinvenuto dagli ermellini, dinanzi ad una istanza di rinvio dell'udienza per legittimo impedimento, bensì alla comunicazione della necessità di una limitata attesa per poter espletare nell'udienza il diritto di partecipazione e di difesa, il cui esercizio era stato preordinato l'avviso dell'udienza stessa. Trattavasi, quindi, di una breve procrastinazione temporale nella stessa giornata, non assimilabile ad un rinvio, ma riconducibile, dal punto di vista del giudice, ad una mera rettifica organizzativa.
Il procedere del Gip, continuano i giudici di legittimità, invece, come se la comunicazione via fax non fosse mai pervenuta, svolgendo l'udienza immediatamente ed altrettanto immediatamente nominando un sostituto processuale del difensore della parte offesa, ha integrato una violazione, in termini sostanziali, del diritto alla partecipazione ed alla difesa all'udienza che viene incluso e tutelato quale consequenziale garanzia offerta alla parte, incorrendo in una nullità riverberatasi sulla sequenza procedurale successiva, finanche sulla ordinanza impugnata.
In conclusione, l'ordinanza impugnata risulta affetta da nullità perché conseguente proceduralmente a una lesione del diritto di difesa, non essendo stato consentito alla parte offesa e al suo difensore di avvalersi concretamente dell'avviso dell'udienza per parteciparvi, in quanto a essi si è negato per il concreto esercizio del diritto un lasso di tempo adeguato rispetto all'orario in cui era fissata l'udienza, lasso di tempo ragionevole - alla luce del notorio e del senso comune - per superare gli imprevisti e i brevi ritardi scusabili da essi derivati, pur essendo stata tale situazione preventivamente e tempestivamente comunicata al Tribunale dal difensore.


SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE III PENALE
Sentenza 10 ottobre – 8 novembre 2013, n. 45190
(Presidente Fiale – Relatore Graziosi)

Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza del 7 marzo 2013 il gip del Tribunale di Lecco, all'esito dell'udienza camerale del 6 marzo 2013, ha disposto l'archiviazione del procedimento a carico di M.C.F. , indagato per il reato di cui all'articolo 609 quater c.p. per preteso compimento di atti sessuali alle minori Valentina e Va..Ve. , la cui madre M..V. si era opposta all'archiviazione.
2. Ha presentato ricorso il difensore di M..V. adducendo tre motivi. Il primo motivo denuncia violazione degli articoli 127 e 409 c.p.p. per mancata partecipazione della persona offesa e del difensore all'udienza camerale. Essendo stata proposta l'opposizione alla richiesta di archiviazione, veniva fissata l'udienza del 30 gennaio 2013, poi rinviata al 6 marzo per omessa notifica; in tale data il difensore e la sua assistita non riuscivano a parteciparvi per un ritardo di 14 minuti determinato da caso fortuito, comunicato però per tempo sia telefonicamente sia per fax alla cancelleria. Il gip nominava un sostituto processuale del difensore ex articolo 97, comma 4, c.p.p., e procedeva senza attendere né il difensore né la parte offesa, ledendo così il diritto di difesa. Se è vero che la partecipazione del difensore nella camera di consiglio a seguito di opposizione all'archiviazione è facoltativa, ciò non toglie che il difensore della persona offesa ha l'interesse e il dovere riconosciutigli dalla legge di partecipare all'udienza per tutelare l'interesse della vittima al prosieguo del procedimento. Inoltre, fissata l'udienza camerale la persona offesa deve non solo essere avvisata ma anche sentita dal giudice se compare e lo richiede; il diritto è stato negato la parte offesa "a causa di un ritardo per cause indipendenti dalla volontà della stessa e, comunque, comunicato per tempo" (ricorso, pagina 11). Ne deriva, per il combinato disposto degli articoli 127, commi 3 e 5, e 409, comma 2, c.p.p., nullità intermedia, da eccepire dopo il mancato compimento dell'atto e dunque prima della conclusione dell'udienza camerale, salva la prova che ciò sia stato in concreto impossibile come nel caso in esame perché "non veniva data la possibilità" all'avvocato di presenziare all'udienza, così impedendogli, tra l'altro, di prendere visione della memoria difensiva che in tale sede depositava la difesa dell'indagato. È dunque nulla l'udienza camerale e il provvedimento emesso all'esito di essa.
Il secondo motivo denuncia violazione del principio del contraddittorio e inerzia del PM: sussistevano ancora ampi spazi di indagine ma il PM preferiva non procedere per la convinzione che "non erano emersi indizi di abusi". Non è comprensibile perché il PM abbia preferito procedere direttamente all'escussione di Ve.Va. in modalità protetta e non in incidente probatorio e perché non abbia sentito il padre delle minori, che il 6 novembre 2011 aveva sporto un'autonoma denuncia degli stessi fatti. Il gip erra laddove nell'ordinanza esclude ogni utilità di una nuova escussione a s.i.t. del padre e delle zie materne delle minori, e nega che due fotografie, nn. 102 e 68, rinvenute nel fascicolo di un primo procedimento penale a carico del M. (condannato con sentenza irrevocabile alla pena di anni quattro e mesi otto di reclusione), nonostante le dichiarazioni delle zie e della madre delle minori in tal senso, rappresentino le bambine.
Il terzo motivo denuncia violazione degli articoli 408 ss. c.p.p. perché il gip ha impedito l'esercizio dell'azione penale non espletando il dovuto controllo sull'attività del PM a custodia del principio di obbligatorietà dell'azione penale.
Considerato in diritto
3. Il ricorso è fondato nei limiti che si viene ad esporre.
Il primo motivo denuncia una lesione del diritto di difesa per non avere il gip atteso per un breve tempo la parte offesa e il suo difensore prima di svolgere l'udienza ex articolo 127 c.p.p. sull'opposizione all'archiviazione proposta dalla stessa parte offesa, procedendovi invece immediatamente e nominando un sostituto processuale del difensore per la parte offesa ex articolo 97, comma 4, c.p.p.: e ciò nonostante che il ritardo, temporalmente limitato e originato da caso fortuito, era stato oggetto di avviso da parte del difensore prima dell'orario in cui l'udienza era fissata. In particolare, l'udienza era fissata il 6 marzo 2013 alle 13:20; risulta dall'allegato al ricorso che il difensore aveva inviato un fax al Tribunale il 6 marzo 2013 ad ore 12:38 annunziando che "a causa di un ritardo" della sua assistita "cagionato da un imprevisto improvviso" della stessa, "come già comunicato telefonicamente" sarebbe arrivato all'udienza, fissata alle 13:20, alle 14:00.
L'articolo 409, comma 6, e.p.p. dispone che l'ordinanza di archiviazione è ricorribile per cassazione solo nei casi di nullità di cui all'articolo 127, comma 5, e.p.p., il quale a sua volta presidia con la sanzione della nullità le disposizioni dei commi 1, 3 e 4 dello stesso articolo 127. Il primo comma dell'articolo 127 riguarda l'avviso della data dell'udienza camerale alle parti, alle altre persone interessate e ai difensori; il terzo comma stabilisce che il pubblico ministero, gli altri destinatari dell'avviso e i difensori "sono sentiti se compaiono"; il comma quarto impone il rinvio dell'udienza in caso di legittimo impedimento "dell'imputato o del condannato che ha chiesto di essere sentito personalmente e che non sia detenuto o internato in luogo diverso da quello in cui ha sede il giudice". Nessuna di queste ipotesi, dunque, letteralmente comprende gli eventi processuali descritti dal primo motivo. Tuttavia, la pertinenza dei commi primo e terzo è chiara, qualora se ne consideri la ratio di tutela del contraddittorio, ovvero del diritto di difesa di tutte le parti nell'udienza camerale. Invero, il combinato disposto del primo comma (l'obbligo di avviso) e del terzo comma (l'obbligo di sentire chi è stato avvisato se compare) delinea una tutela del diritto di difesa che riguarda anche la parte offesa opponente e il suo difensore. Applicando, peraltro, dette norme in termini di formalismo, cioè svincolandole dalla ratio a esse sottesa, si elide la suddetta tutela perché all'avviso non fa seguito una concreta possibilità di partecipare all'udienza nel caso in cui si verifichi un imprevisto generante modesto ritardo, preventivamente comunicato, qualora appunto in tal caso venga ignorata la comunicazione e un'ulteriore norma che presidia il diritto di difesa, l'articolo 97, comma 4, c.p.p., sia utilizzata per una sostituzione automatica del difensore che prescinde dalla configurazione del caso concreto di esercizio del diritto di difesa tecnica. Allorquando le norme non mantengano, nella loro applicazione, contatto con l'intenzione effettiva del legislatore, la ratio, che da linfa alla corretta interpretazione del contenuto - in particolare per le norme processuali evidenziandone la specifica strumentalità -, può accadere di invertirne l'incidenza, utilizzandole nel senso contrario o comunque in senso difforme rispetto a quello che il legislatore per esse ha scelto (summum jus summa iniuria).
Nel caso di specie, tre quarti d'ora prima dell'orario fissato per l'udienza il difensore comunicava via fax un ritardo di dimensioni tollerabili (sarebbe arrivato 40 minuti dopo). Il gip - che non fa menzione di ciò nell'ordinanza, pur ampiamente motivata - non si trovava, quindi, dinanzi a una istanza di rinvio d'udienza per legittimo impedimento (che avrebbe dovuto ricondursi all'articolo 127, quarto comma, c.p.p.), bensì alla comunicazione della necessità di una limitata attesa per espletare nell'udienza il diritto di partecipazione e di difesa al cui esercizio era stato preordinato l'avviso dell'udienza stessa: una breve procrastinazione temporale nella stessa giornata, quindi, non assimilabile a un rinvio, bensì riconducibile, dal punto di vista del giudice, a una mera rettifica organizzativa (l'organizzazione del giudice, ovviamente, deve sempre espletarsi tanto in modo efficiente quanto in modo collaborativo e tutelativo delle parti). Il procedere del gip, invece, come se la comunicazione via fax non fosse pervenuta, e dunque svolgendo l'udienza immediatamente e immediatamente nominando il sostituto processuale del difensore della parte offesa, anche a prescindere dal fatto che il ricorso adduce poi un effettivo ritardo di soli 14 minuti, ha invece integrato una violazione, in termini sostanziali, del diritto alla partecipazione e alla difesa all'udienza che viene incluso e tutelato, quale consequenziale garanzia offerta alla parte, nel diritto all'avviso (prodromo procedurale) della fissazione e della data dell'udienza stessa di cui al primo comma dell'articolo 127 c.p.p., così incorrendo il giudice in una nullità riverberatasi sulla sequenza procedurale successiva, e dunque anche sull'ordinanza impugnata. Premesso, invero, che la tempestività del ricorso è stata correttamente attuata in relazione al fatto che, trattandosi di nullità intermedia, come il ricorso stesso evidenzia deve eccepirsi dopo il mancato compimento dell'atto affetto da essa e dunque prima della conclusione dell'udienza camerale, salva la prova che ciò sia stato in concreto impossibile - che è appunto la fattispecie in esame, consistente nella preclusione della partecipazione all'udienza camerale patita sia dal difensore della parte offesa sia dalla parte offesa stessa -, è poi indubbio che tale ricorso non è affetto dalla inammissibilità che inficia il ricorso per cassazione avverso il provvedimento di archiviazione, poiché attiene a una violazione del contraddittorio. Del tutto consolidata, al riguardo, è la giurisprudenza di questa Suprema Corte, che riconosce, ex articolo 409, sesto comma, c.p.p., l'ammissibilità del ricorso per cassazione contro l'ordinanza di archiviazione (solo) nel caso in cui siano denunciate, appunto, violazioni del contraddittorio, rimanendo preclusa la proposizione del ricorso per vizi di motivazione o per violazione di norme sostanziali (Cass. sez. I, 3 febbraio 2010 n. 9440, per cui "è inammissibile il ricorso per cassazione proposto avverso il provvedimento di archiviazione per vizi di motivazione che non si risolvano in violazioni del contraddittorio ovvero per "errores in iudicando" fondati su una diversa interpretazione della legge sostanziale"; Cass. sez. I, ord. 7 febbraio 2006, per cui contro l'ordinanza di archiviazione il ricorso è ammissibile solo nei casi di "mancato rispetto delle regole poste a garanzia del contraddittorio", rimanendo quindi escluso il vizio di motivazione o il travisamento dell'oggetto o la omessa considerazione di circostanze di fatto già acquisite; più risalenti, v. S.U., 9 giugno 1995 n. 24 - per cui l'articolo 409 e.p.p., "nel fare espresso e tassativo richiamo ai casi di nullità previsti dall'art. 127, comma quinto, e.p.p., legittima il ricorso per cassazione soltanto nel caso in cui le parti non siano state poste in grado di esercitare le facoltà ad esse attribuite dalla legge, e cioè l'intervento in camera di consiglio per i procedimenti da svolgersi dinanzi al tribunale"-, Cass. sez. VI, 20 giugno 1994 n. 2918 - che dichiara l'ordinanza di archiviazione ricorribile "solo per violazione dei diritti di difesa" - e Cass. sez. VI, ord. 23 ottobre 1992 n. 3774, che sottolinea come l'articolo 127, quinto comma, c.p.p. "sanziona con la nullità la mancata osservanza delle norme concernenti la citazione delle parti e la possibilità delle stesse di intervenire" - e proprio la possibilità di intervenire per la parte offesa e il suo difensore, nel caso di specie, pur a seguito di regolare avviso è stata in effetti pregiudicata).
Assorbiti quindi il secondo e il terzo motivo, l'ordinanza impugnata risulta affetta da nullità perché conseguente proceduralmente a una lesione del diritto di difesa, non essendo stato consentito alla parte offesa e al suo difensore di avvalersi concretamente dell'avviso dell'udienza per parteciparvi, in quanto a essi si è negato per il concreto esercizio del diritto un lasso di tempo adeguato rispetto all'orario in cui era fissata l'udienza, lasso di tempo ragionevole - alla luce del notorio e del senso comune - per superare gli imprevisti e i brevi ritardi scusabili da essi derivati, pur essendo stata tale situazione preventivamente e tempestivamente comunicata al Tribunale dal difensore. In tal modo, invero, la tutela del contraddittorio evincibile dall'articolo 127 c.p.p. si è attestata a un livello formalistico e pertanto non è stata garantita in modo effettivo alla parte ora ricorrente.
In conclusione, l'ordinanza impugnata deve essere annullata e deve disporsi la trasmissione degli atti al gip del Tribunale di Lecco per l'ulteriore corso del procedimento.
P.Q.M.
Annulla il provvedimento impugnato e dispone trasmettersi gli atti al gip del Tribunale di Lecco per l'ulteriore corso.

fonte: Altalex.com//Gip ignora fax dell'avvocato che annuncia il ritardo? Violato diritto di difesa

domenica 24 novembre 2013

Evade l'Irpef per pagare fornitori e dipendenti:assolto e niente multa

Evade l’Irpef per pagare dipendenti e fornitori: assolto. Nuova sentenza storica a favore di un imprenditore vessato dalla crisi e da una pressione fiscale elevatissima, che ha scelto la via dell’evasione a fin di bene, venendo premiato dal giudice.
Qualche tempo fa, un imprenditore di Milano era stato scagionato in seguito a una maxi evasione di Iva, che, se regolarmente saldata, lo avrebbe obbligato a chiudere l’azienda. Questa volta, la sentenza pro contribuente è arrivata a Padova, dove un imprenditore di Monselice è stato chiamato in giudizio per il mancato versamento di circa 59mila euro di Irpef, Bper i quali la Procura aveva chiesto il pagamento con sanzione relativa e reclusione fino a sei mesi.
Denaro con cui, il titolare dell’attività, aveva preferito saldare gli arretrati con i fornitori, pagando gli stipendi ai dipendenti e versando le regolari quote di mutui o fidi bancari. Da qualche parte, insomma, l’imprenditore avrebbe dovuto lasciare un vuoto e ha optato per le casse pubbliche, rimaste a bocca asciutta.
Secondo il giudice che ha esaminato il caso, la condotta del contribuente non sarebbe punibile poiché non sussiste il dolo, cioè la volontà di arrecare danno alle finanze pubbliche, per tenere in piedi la propria azienda in un momento di difficoltà.
Come accaduto a Milano, del resto, all’imprenditore veneto non restavano molte alternative: pagare l’Irpef e fallire, chiudendo l’attività, oppure evadere il denaro dell’imposta e darlo a fornitori e dipendenti, in modo da continuare l’operatività della ditta. Ha scelto la seconda strada e il contenzioso con il fisco si è chiuso a suo favore, dopo che il giudicie ha constatato la mancata intenzione a mettersi in tasca il denaro non pagato allo Stato.
A impugnare il decreto di pagamento consegnato al contribuente imprenditore, era stato l’avvocato contrario al provvedimento ordinato dal Gip di pagamento di una multa di 2.280 euro. Comunque, l’imprenditore non può stare troppo tranquillo: il pagamento della mancata imposta dovrà avvenire a rate, con maggiorazione del 30% più gli interessi da corrispondere a Equitalia: in sostanza, il doppio di quanto non versato in origine.

fonte: leggioggi.it//Evade l'Irpef per pagare fornitori e dipendenti:assolto e niente multa

venerdì 22 novembre 2013

Accordi tra coniugi in sede di separazione o divorzio: inammissibili i trasferimenti immobiliari

I coniugi, per effetto della loro autonomia contrattuale, possono integrare le clausole consuete di separazione e divorzio, ma devono ricorrere alla tecnica obbligatoria e non a quella reale, pena la possibile vanificazione dello strumento di tutela prescelto (Tribunale di Milano, sez. IX Civile).

Il caso
Nel 1999, un uomo e una donna contraevano matrimonio, con rito civile, da cui nascevano dei figli. Nel 2013, però, la convivenza diventa intollerabile, quindi decidono di separarsi. Comparendo dinanzi al Presidente del Tribunale, i due confermano le condizioni di separazione: l’affidamento condiviso dei figli con collocamento presso la madre, alla quale è assegnata la casa coniugale; il libero diritto di visita del padre, secondo accordi con la madre;la corresponsione, da parte del padre, di un assegno di mantenimento per la prole, pari a 125 euro per ciascuno dei figli, da versare alla madre mensilmente.Condizioni di separazione modificate. I due coniugi, comparendo dinanzi al Presidente, modificavano una clausola delle condizioni di separazione, prevedendo, «a titolo solutorio per l’assolvimento dell’obbligo di mantenimento del marito nei confronti della moglie», che l’uomo trasferisse a titolo gratuito alla moglie la proprietà superficiaria per 90 anni della quota del 50% dell’appartamento coniugale sito in Milano. Il giudice, da parte sua, precisa che le parti, «per effetto della loro autonomia contrattuale e della conseguente interpretazione dell’art. 711 c.p.c. e 4, comma 16, legge div.», possono integrare le clausole consuete di separazione e divorzio (figli, assegni, casa coniugale) «con clausole che si prefiggono di trasferire tra i coniugi o in favore di figli diritti reali immobiliari o di costituire iura in re aliena su immobili». Tuttavia, i coniugi devono ricorrere alla tecnica obbligatoria e non a quella reale, pena la possibile vanificazione dello strumento di tutela prescelto. La tecnica obbligatoria, peraltro, consente pacificamente l’applicazione dell’art. 2932 c.c. (esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto) e, quindi, di porre rimedio ad eventuali inadempimenti successivi alla pattuizione. È lo stesso Legislatore (art. 19, comma IV, legge n. 122/2010, di conversione del d.l. n. 78/2010) che demanda in modo espresso al «notaio» e non ad altri operatori, il compito della individuazione e della verifica catastale, nella fase di stesura degli atti traslativi così concentrando, nell’alveo naturale del rogito notarile, il controllo indiretto statale a presidio degli interessi pubblici coinvolti. In conclusione - si legge nel decreto - «il controllo del notaio non può certo essere sostituito da quello del giudice, ostandovi l’evidente quanto pacifica diversità di ruolo e funzioni. Soprattutto, comunque, si versa in un ambito governato dal principio di tassatività e legalità in cui la figura professionale scelta dal legislatore (notaio) è insuscettibile di interpretazione analogica».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Accordi tra coniugi in sede di separazione o divorzio: inammissibili i trasferimenti immobiliari

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