mercoledì 31 maggio 2017

#Ferrara: Libretto e revisione falsi, assolto

Dal Resto del Carlino Ferrara...#Tribunale #Penale #Ferrara #Assoluzione #Ilfattononcostituiscereato #StudioLegaleMancino #AvvEmilianoMancino

Madre stizzita, colpisce il figlio col telecomando: condannata

La donna è stata ritenuta responsabile per il reato di lesioni personali. Secondo i giudici è irrilevante il fatto che ella abbia agito per nervosismo, provocato, a suo dire, dagli atteggiamenti del ragazzo.
Nessuna giustificazione possibile. Condannata la madre che lancia il telecomando contro il figlio, colpendolo e ferendolo. Per i giudici non regge l’alibi secondo cui la donna avrebbe reagito, seppur in modo eccessivo, alla mancanza di rispetto manifestata dal ragazzo (Cassazione, sentenza n. 25936/17, depositata il 24 maggio).
Dolo. Prima in Tribunale e poi in appello la donna viene ritenuta responsabile di «lesioni personali» ai danni del figlio, procurate «colpendolo al volto con un telecomando scagliato da breve distanza».
A inchiodare la madre è stata la ricostruzione dell’episodio, poggiata su due elementi: «le dichiarazioni dell’altro figlio» della donna e il riscontro fornito dalla «consulenza tecnica di un medico legale».
La condanna è resa definitiva ora dalla Cassazione. Nessun dubbio, secondo i Giudici del Palazzaccio, sul «dolo» attribuibile alla donna, alla luce della «infima distanza da cui ella ha scagliato il telecomando», della «consistenza dell’oggetto scagliato» e della «forza impressa, desumibile dall’entità delle lesioni inferte» al ragazzo e giudicate dai medici «guaribili in venti giorni».
Respinta infine l’ipotesi difensiva, secondo cui la madre avrebbe agito per «stizza», per «irritazione momentanea» nei confronti del figlio, resosi protagonista di «mancanza di rispetto» e «atteggiamenti violenti». Per i giudici, difatti, il «nervosismo» non può rendere meno grave la condotta della donna.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Madre stizzita, colpisce il figlio col telecomando: condannata - La Stampa

Cani randagi: il Comune è responsabile per i danni alla popolazione

La responsabilità per i danni causati dai cani randagi spetta esclusivamente all’ente, o agli enti, cui è attribuito dalla legge il compito di prevenire il pericolo specifico per l’incolumità della popolazione connesso al randagismo. Esclusa quindi, per la Regione Sicilia, la responsabilità dell’ASP.
Il caso. Una bambina viene aggredita e ferita da due cani randagi lungo una strada del suo paese. I suoi genitori ricorrono al Tribunale di Gela chiedendo al Comune e all’ASP di Caltanissetta il risarcimento dei danni. Il giudice di merito accoglie la domanda e la Corte d’Appello di Caltanissetta conferma la sentenza di primo grado: Comune e ASP sono intimati a pagare 6000€ ciascuno come risarcimento. L’ASP ricorre ora in Cassazione, sulla base di due motivi.
Oneri di mera natura sanitaria. La Cassazione accoglie il primo motivo di ricorso, che denunciava la violazione dell’art. 14 della l. Reg. Sicilia 3 luglio 2000 n. 15, che attribuisce ai Comuni il servizio di cattura dei cani randagi ed il loro conseguente affidamento a canili pubblici o privati convenzionati. Dal momento che, sostiene l’ASP, i suoi doveri sono solo di natura sanitaria, non è possibile il configurarsi di una sua diretta responsabilità per i danni causati alla popolazione da tali animali. La Corte d’Appello, secondo la Corte di Legittimità, aveva errato nell’affermare la responsabilità dell’ASP in base all’art. 18 della l. Reg. n. 15/2000, che attribuisce alla competenza della ASL gli interventi relativi al controllo delle nascite della popolazione felina e canina, e da cui aveva fatto discendere una generale competenza, unitamente al Comune, di prevenzione del randagismo e la conseguente responsabilità solidale dei due enti per i danni causati dai cani randagi.
Oneri stabiliti ex lege. Secondo la Corte, la responsabilità per i danni causati dai cani randagi spetta esclusivamente all’ente, o agli enti, cui è attribuito dalla legge il compito di prevenire il pericolo specifico per l’incolumità della popolazione connesso al randagismo, ossia la cattura dei cani vaganti. La legge quadro demanda alle Regioni la regolamentazione concreta della materia, e la Corte afferma che la Regione Sicilia affida esclusivamente ai Comuni il compito di catturare e custodire i cani randagi, demandando all’ASL solo generali compiti di controllo della popolazione canina, ritenendo esclusa la responsabilità dell’Azienda sanitaria. Inoltre, nel caso concreto, un veterinario dell’ASL, due giorni prima dell’aggressione, aveva constatato la presenza di cani randagi, potenzialmente pericolosi per la popolazione, sul territorio e redatto verbale in cui ne chiedeva la cattura al Comune.
Ciò posto, la Corte accoglie il ricorso e decide nel merito la controversia ex art. 384, comma 2, c.p.c..

Fonte: www.ridare.it/Cani randagi: il Comune è responsabile per i danni alla popolazione - La Stampa

mercoledì 24 maggio 2017

Anche la legnaia e l'ex porcile nell’abitazione “di lusso”

La Cassazione, con l’ordinanza n. 12531/2017: anche gli ambienti di servizio e la cantina devono essere conteggiati al fine di stabilire se l’abitazione è o meno di lusso.
Il caso. Cantina, legnaia ed ex porcile rientrano nel novero dei locali da computare al fine di stabilire la superficie complessiva di un immobile ai fini agevolativi e, quindi, il suo carattere “di lusso” o meno. Lo dice la Corte di Cassazione con l’ordinanza del 18 maggio 2017, n. 12531, con la quale la Suprema Corte ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate avverso la decisione della tribunale favorevole a due contribuenti. L’Ufficio aveva incluso tra i locali da calcolare anche quelli adibiti a legnaia, cantina, stalla, porcile e ricovero di animali da cortile presenti al piano terreno di un ex fabbricato rurale acquistato dai contribuenti. Secondo i giudici della CTR, tali locali non avevano il requisito della destinazione abitativa e, dunque, non andavano conteggiati.
Abitazione di lusso. Non così per la Cassazione: secondo gli Ermellini, «al fine di stabilire se una abitazione sia di lusso e, quindi, sia esclusa dall’agevolazione prima casa, occorre fare riferimento alla nozione di superficie utile complessiva di cui all’art. 6, decreto 2 agosto 1969, in forza del quale è irrilevante il requisito dell’abitabilità dell’immobile, siccome da esso non richiamato, mentre quello dell’utilizzabilità degli ambienti, a prescindere dalla loro effettiva abitabilità, costituisce parametro idoneo ad esprimere il carattere lussuoso di una abitazione».
Per tali motivi, la Suprema Corte ha accolto il ricorso presentato dall’Agenzia delle Entrate cassando la precedente sentenza di appello.

Fonte: www.fiscopiu.it/Anche la legnaia e l'ex porcile nell’abitazione “di lusso” - La Stampa

Una liaison extraconiugale non basta per l’addebito della separazione

La pronuncia di addebito della separazione personale non può fondarsi sulla sola violazione dei doveri coniugali di cui all’art. 143 c.c. («diritti e doveri reciproci dei coniugi»). E’ necessario, invece, accertare se tale violazione abbia assunto efficacia causale nel determinarsi della crisi del rapporto coniugale.
Così si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 12392/17 depositata il 17 maggio.
Il caso. La Corte d’appello di Trieste ha rigettato la domanda dell’ex marito che chiedeva l’addebito della separazione alla moglie, tenendo conto di una sua relazione extraconiugale nonché dell’abbandono della casa familiare. Tale domanda veniva rigettata e l’affidamento del figlio minore veniva disposto dal giudice ad entrambi i genitori, con l’assegnazione, inoltre, della casa coniugale all’attore.
Quest’ultimo, però, proponeva ricorso in Cassazione.
L’affidamento del figlio. I motivi di doglianza vertevano attorno al contenuto dell’affidamento del figlio. Secondo il ricorrente, infatti, le modalità decise dalla Corte erano «inopportune e non confacenti ai suoi interessi», nonché prive di ragioni giustificative per il mancato collocamento prevalente del figlio presso il padre e per il mancato ascolto della volontà del minore.
Secondo la Corte di Cassazione, questo motivo è parzialmente inammissibile, nella parte in cui vorrebbe innescare un riesame del merito, e parzialmente infondato, nella parte in cui non ha riguardo per il fatto che il figlio in realtà era stato ascoltato dal giudice.
Il mantenimento. Secondariamente il ricorrente lamentava la violazione e falsa applicazione degli artt. 151 e 156 c.c.: relativamente a quest’ultimo («Effetti della separazione sui rapporti patrimoniali tra i coniugi») la Cassazione ricorda che non è di sua competenza una valutazione comparativa delle risorse dei due coniugi, al fine di stabilire se e in quale misura l’uno debba integrare i redditi insufficienti dell’altro.
Per quanto attiene invece all’addebito della separazione alla moglie sarebbe dovuta discendere, a detta dell’ex marito, dalla relazione extraconiugale. Ma la Corte di Cassazione ricorda che la pronuncia di addebito della separazione personale non può fondarsi sulla sola violazione dei doveri coniugali di cui all’art. 143 c.c., «essendo, invece, necessario accertare se tale violazione abbia assunto efficacia causale nel determinarsi della crisi del rapporto coniugale».
Anche questo motivo è rigettato, così come il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Una liaison extraconiugale non basta per l’addebito della separazione - La Stampa

sabato 20 maggio 2017

Lesioni stradali e stato di ebbrezza: domiciliari solo con prelievo tempestivo

No alla presunzione di superamento del tasso alcolemico di 1,5 grammi per litro, se l'accertamento dello stato di ebbrezza sia avvenuto molte ore dopo il momento del fatto. Per l'applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari, in conseguenza dell'accertamento del reato lesioni stradali aggravate dallo stato di ebbrezza di cui all’art. 590-bis, comma 2, c.p., è necessario che i prelievi su liquidi biologici siano effettuati tempestivamente.
E' quanto afferma la Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza del 28 aprile 2017, n. 20373.
L'art. 590-bis, comma 2, c.p., dispone che “Chiunque, ponendosi alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza alcolica o di alterazione psicofisica conseguente all'assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope, ai sensi rispettivamente del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 186, comma 2, lett. c) e art. 187, cagioni per colpa a taluno una lesione personale, è punito con la reclusione da tre a cinque anni per le lesioni gravi e da quattro a sette anni per le lesioni gravissime”.
L'applicazione dell'aggravante in commento presuppone l'accertamento positivo di un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro, ovvero dello stato di alterazione derivante dall'uso di sostanze stupefacenti. Con riferimento a quest'ultimo accertamento, la Corte Costituzionale con sentenza n. 277 del 27 luglio 2004, ebbe modo di affermare come la norma non vieti di guidare dopo l'assunzione di droghe, ma assoggetta a sanzione penale chi si metta alla guida in uno stato di alterazione, rilevabile dagli agenti di polizia ed accertabile anche da indici sintomatici e dall'accertamento di tracce di dette sostanze nei liquidi fisiologici del conducente, essendo rilevante non tanto il dato quantitativo quanto gli effetti che l'assunzione di dette sostanze possa provocare nei soggetti assuntori.
Con riferimento allo stato di ebbrezza, nella fattispecie i giudici del riesame riteneva che il tasso alcolemico pari a 0,7 grammi per litro, all'esito degli accertamenti biologici effettuati a diverse ore di distanza dal fatto, dovesse essere ben superiore al momento del fatto, rispetto a quello riscontrato, dando per scontato che al momento del fatto sussistesse, con elevata probabilità, un tasso alcolemico superiore ad 1,5 grammi per litro.
Secondo gli ermellini, non è possibile sottoporre il conducente in stato di ebbrezza alle misure cautelari di cui all'art. 590-bis, comma 2, c.p., qualora l'accertamento di tale stato sia avvenuto dopo molte ore dal momento del fatto ed abbia fornito un risultato inferiore a 1,5 grammi per litro, posto che, per avere valore probatorio, l'accertamento medesimo deve essere tempestivo, ovvero collocato temporalmente al momento del fatto o in prossimità di esso.

Fonte:www.altalex.com/Lesioni stradali e stato di ebbrezza: domiciliari solo con prelievo tempestivo | Altalex

Stalking: anche due soli episodi per integrare il reato

Confermando il consolidato orientamento della giurisprudenza, la Cassazione, con la sentenza n. 22194 (depositata l’8 maggio 2017), ha ribadito i seguenti principi in materia di atti persecutori: «Integrano il delitto di atti persecutori anche due sole condotte tra quelle descritte dall’art. 612-bis c.p., come tali idonee a costituire la reiterazione richiesta dalla norma incriminatrice. Invece, un solo episodio, per quanto grave e da solo anche capace, in linea teorica, di determinare il grave e persistente stato d’ansia e di paura che è indicato come l’evento naturalistico del reato, non è sufficiente a determinare la lesione del bene giuridico protetto dalla norma in esame, potendolo essere, invece, alla stregua di precetti diversi: e ciò in aderenza alla volontà del legislatore il quale, infatti, non ha lasciato spazio alla configurazione di una fattispecie solo ‘eventualmente’ abituale.
Il delitto, inoltre, è configurabile anche quando le singole condotte sono reiterate in un arco di tempo molto ristretto, a condizione che si tratti di atti autonomi e che la reiterazione di questi sia la causa effettiva di uno degli eventi considerati dalla norma incriminatrice ».
Atteggiamento persecutorio. La Corte precisa inoltre che con l’introduzione del reato di stalking il Legislatore ha colmato un vuoto di tutela rispetto a condotte non violente ma idonee a recare un apprezzabile turbamento nella vittima. In particolare, si è preso atto che la violenza spesso è l’esito di una pregressa condotta persecutoria e si è voluto in qualche modo anticipare la tutela della libertà personale e dell’incolumità fisio-psichica attraverso l’incriminazione di condotte che, precedentemente, potevano sembrare sostanzialmente inoffensive e quindi non sussumibili in alcuna fattispecie penalmente rilevante o in fattispecie “minori” come la minaccia o la molestia alle persone.
Nel reato punito dall’art. 612-bis c.p. è dunque l’atteggiamento persecutorio ad assumere specifica autonoma offensività ed è la condotta persecutoria nel suo complesso che deve guardarsi per valutarne la tipicità, anche sotto il profilo della produzione dell’evento richiesto per la sussistenza del reato.
Ne consegue che «il fatto che tale evento si sia in ipotesi manifestato in più occasioni e a seguito della consumazione di singoli atti persecutori è non solo non discriminante, ma addirittura connaturato al fenomeno criminologico alla cui repressione la norma incriminatrice è finalizzata, giacché alla reiterazione degli atti corrisponde nella vittima un progressivo accumulo del disagio che questi provocano, fino a che tale disagio degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi nelle forme descritte nell’art. 612-bis c.p.».

Fonte: www.ilpenalista.it/Stalking. Quanti episodi servono per integrare il reato? - La Stampa

giovedì 18 maggio 2017

Reato di tortura, il Senato approva. Il testo passa ora alla Camera

Dopo 4 anni di travaglio il disegno di legge che introduce il reato di tortura nell'ordinamento italiano è approvato dal Senato con 195 sì, 8 no e 34 astenuti.
Non ha partecipato al voto il presidente della Commissione per i diritti umani e primo firmatario del disegno di legge, Luigi Manconi, ritenendo che il testo (presentato fin dal 2013) non ricalcasse più lo spirito originario del disegno di legge.
Questa legge introduce due nuovi articoli nel codice penale (il 613 bis e il 613 ter), l’articolo 191 del codice di procedura penale e l’articolo del T.U. sull’immigrazione.
La tortura è definita come la condotta di chi  agendo con“violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico”.
Questi i punti salienti della proposta:
- la pena è da 4 a 10 anni, aumentata da 5 a 12 se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale;
- la pena è aumentata fino alla metà se dal fatto deriva una lesione grave o gravissima;
- se ne deriva la morte la pena è aumentata a trenta anni;
- l’istigazione da parte del pubblico ufficiale a commettere atti di tortura (si pensi al poliziotto o carabiniere, che dà un ordine in tal senso al suo sottoposto) è punita con la pena da sei mesi a tre anni.
L’origine del testo di legge va ricercato nella necessità di regolamentare meglio vicende come quella, ormai note, del caso Aldovrandi, Cucchi, o della scuola Diaz.
E la grossa novità sta nell’introdurre una nuova figura di reato da parte dei pubblici ufficiali.
Nulla da ridire sulla necessità di regolare meglio queste vicende ma una domanda sorge legittima: era proprio necessaria una legge, e non anche, invece, una riforma del costume, della mentalità e degli iter giudiziari necessari per arrivare a fare chiarezza su queste vicende? In altre parole: per evitare fatti gravi come quelli menzionati, era preferibile modificare la legge, o non, forse, modificare le procedure di accertamento, nonché mentalità e preparazione di tutti gli operatori coinvolti nel settore della sicurezza della cittadino?
E’ probabile comunque che il testo possa subire delle modifiche, stante il rilevante numero di critiche ad esso proveniente un po’ da tutti i settori, dal primo firmatario Manconi, alle varie associazioni e organismi coinvolti nella tutela dei diritti umani.
“Grottesco, il codice militare è più severo” dichiara Ilaria Cucchi all’Huffington Post.
Secondo Manconi, per come li riporta l’Huffington Post, sono almeno quattro i punti contestati della legge:
- in primis, il reato viene considerato comune e non proprio, slegandolo quindi nella sua definizione dall'operato dei pubblici ufficiali o di incaricati di pubblico servizio;
- al Senato è stato introdotto un emendamento per il quale il reato non sussiste "nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall'esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti". Un punto che creerebbe confusione nell'applicazione della legge.
- rispetto al testo originale, il requisito delle violenze "reiterate" è stato sostituito con l'espressione "più condotte": secondo Manconi, in questo caso il singolo atto di violenza potrebbe non essere punito.
Infine, il capitolo delle torture psicologiche. I traumi psichici dovranno essere verificati ma, dice Manconi, "i processi per tortura avvengono per loro natura anche a dieci anni dai fatti commessi. Come si fa a verificare dieci anni dopo un trauma avvenuto tanto tempo prima?".
Contrari Sinistra Italiana e anche la Lega Nord mentre il M5S ha optato per la firma; ma contraria è anche l'Associazione Nazionale dei Funzionari di polizia secondo cui si tratta di “un disegno di legge che falsamente sotto la bandiera ideologica della civiltà giuridica contiene un manifesto ideologico contro le forze di polizia.
Un’altra farloccheria del partito dell’anti-polizia”. E nel giornale diffuso dal sindacato si legge: “saremo gettati nelle mani dei delinquenti grazie al progetto di legge per l’introduzione del reato di tortura”.
Su Repubblica si legge che Amnesty International e l'associazione Antigone hanno dichiarato: Questa legge qualora venisse confermata anche dalla Camera sarebbe difficilmente applicabile. Il limitare la tortura ai soli comportamenti ripetuti nel tempo e a circoscrivere in modo inaccettabile l’ipotesi della tortura mentale è assurdo per chiunque abbia un minimo di conoscenza del fenomeno della tortura nel mondo contemporaneo, nonché distante e incompatibile con la Convenzione internazionale contro la tortura".
“Con rammarico prendiamo atto del fatto che la volontà di proteggere, a qualunque costo, gli appartenenti all’apparato statale, anche quando commettono gravi violazioni dei diritti umani, continua a venire prima di una legge sulla tortura in linea con gli standard internazionali che risponda realmente agli impegni assunti 28 anni fa con la ratifica della Convenzione”.
Una legge truffa, provocatoria e inaccettabile, è definita in un appello di vari firmatari, tra cui il PM che condusse le indagini presso la scuola Diaz.
Il Manifesto scrive: Scritta così, «tecnicamente male», secondo l’ex pm e giudice istruttore Felice Casson, «è inapplicabile», soprattutto perché «le condizioni poste alla punibilità, reintroducendo il concetto di reiterazione del reato, renderanno i processi una corsa ad ostacoli sempre più complicata».
Insomma, per una volta una legge su cui sono tutti d’accordo, perché scontenta tutti, ma proprio tutti.

Fonte:www.altalex.com/Reato di tortura, il Senato approva. Il testo passa ora alla Camera | Altalex

Nessun indennizzo: lo stupratore è indigente

Venne rapinata e violentata sotto casa, ma non avrà alcun risarcimento. Né dall’aggressore né dallo Stato. Un diritto che le è stato negato da un’interpretazione discrezionale di una direttiva della Comunità Europea che riconosce alle vittime di reati violenti un indennizzo se l’autore non può pagare. Per i giudici torinesi la donna non avrebbe fatto tutto quello che era in suo potere per ottenere quel risarcimento direttamente dall’uomo che l’ha violentata.
IN GARAGE
Il 22 ottobre del 2011 Roberta stava rientrando a casa dopo una giornata di lavoro. Era appena scesa dall’auto per aprire il garage della sua abitazione quando è stata aggredita alle spalle. Poco settimane dopo il suo stupratore, un 40enne italiano, è stato arrestato. La giustizia penale ha fatto il suo corso: l’uomo è stato condannato a 8 anni e due mesi di carcere. Roberta ha avuto solo la soddisfazione di vedere il suo aggressore dietro alle sbarre. E così si è rivolta allo Stato, trascinando davanti al Tribunale civile di Torino la Presidenza del Consiglio dei ministri chiedendo che venisse condannata a pagarle un indennizzo per l’omessa attuazione della «Direttiva Ce numero 80 del 2004», che impone agli Stati membri di garantire un adeguato ed equo ristoro alle vittime di reati violenti intenzionali. Il giudice ha respinto il ricorso presentato dagli avvocati della donna, Stefano Commodo e Gaetano Catalano dello studio Ambrosio & Commodo. Il perché è da ricercarsi in un tecnicismo.
L’AUTORE DEL REATO
La questione ruota intorno a quella direttiva Ce per la quale l’Italia nell’ottobre scorso è stata condannata dalla Corte di Giustizia europea perché inadempiente nella sua applicazione. La norma prevede che le vittime di reati violenti intenzionali debbano essere risarcite dallo Stato perché in molti casi «non possono ottenere un risarcimento dall’autore del reato, in quanto questi non può essere identificato o non possiede le risorse necessarie». Ma per i giudici aver subito un stupro e una rapina non dà diritto di per sè al risarcimento, la vittima deve anche dimostrare che il colpevole non sia in grado di pagare di tasca propria.
La sentenza, depositata la scorsa settimana, si scontra con un altro verdetto, diametralmente opposto, a Milano. Negli stessi giorni in cui il giudice torinese negava l’indennizzo a Roberta, la Corte d’Appello civile del capoluogo lombardo condannava la Presidenza del Consiglio a risarcire con 220mila euro due donne, madre e figlia, vittime di rapina e stupro. Un caso drammatico: la figlia è stata violentata davanti alla madre durante una rapina nel loro negozio. Nella sentenza si evidenzia come gli stupratori, sei romeni che stanno scontando 11 anni di carcere, non fossero pacificamente in grado di risarcire la vittima perché detenuti. Così come lo stupratore di Roberta. Ma nel caso milanese non è stato necessario alcun tipo di accertamento patrimoniale da parte dei legali.

Fonte:www.lastampa.it/Nessun indennizzo: lo stupratore è indigente - La Stampa

Le usanze religiose non giustificano la violazione di norme penali

La sentenza. «In una società multietnica, la convivenza tra soggetti di etnia diversa richiede necessariamente l’identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza si debbono riconoscere. Se l’integrazione non impone l’abbandono della cultura di origine, in consonanza con la previsione dell’art. 2 Cost. che valorizza il pluralismo sociale, il limite invalicabile è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante. È quindi essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi, e di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina. La decisione di stabilirsi in una società in cui è noto, e si ha consapevolezza, che i valori di riferimento sono diversi da quella di provenienza ne impone il rispetto e non è tollerabile che l’attaccamento a ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante. La società multietnica è una necessità, ma non può portare alla formazione di arcipelaghi culturali confliggenti, a seconda delle etnie che la compongono, ostandovi l’unicità del tessuto culturale e giuridico del nostro paese che individua la sicurezza pubblica come un bene da tutelare e, a tal fine, pone il divieto del porto di armi e di oggetti atti a offendere ».
Con queste motivazioni la Corte di Cassazione, sentenza n. 24048, depositata il 15 maggio 2017, ha confermato la condanna alla pena di euro 2000 di ammenda nei confronti di un indiano sikh perché portava fuori dalla propria abitazione senza giustificato motivo, un coltello della lunghezza complessiva di cm 18,5 (kirpan), idoneo all’offesa.
Porto di armi od oggetti atti ad offendere. Il reato di porto di armi od oggetti atti ad offendere, di natura contravvenzionale e punito a titolo di colpa, è escluso qualora ricorra un giustificato motivo; secondo la costante giurisprudenza di legittimità il giustificato motivo ricorre quando le esigenze dell’agente siano corrispondenti a regole relazionali lecite rapportate alla natura dell’oggetto, alle modalità di verificazione del fatto, alle condizioni soggettive del portatore, ai luoghi dell’accadimento e alla normale funzione dell’oggetto. Il ricorrente aveva invocato tale scriminante in ragione del suo credo religioso per essere il kirpan uno dei simboli della religioni monoteista sikh.
Tale lettura non è stata condivisa dal Collegio che ha rigettato il ricorso e affermato il principio secondo cui: nessun credo religioso può legittimare il porto in luogo pubblico di armi o di oggetti atti ad offendere.
Spiegano infatti i Giudici di legittimità che « nessun ostacolo viene in tal modo  posto alla libertà di religione, al libero esercizio del culto e all’osservanza dei riti che non si rivelino contrari al buon costume. Proprio la libertà religiosa, garantita dall’articolo 19 invocato, incontra dei limiti, stabiliti dalla legislazione in vista della tutela di altre esigenze, tra cui quelle della pacifica convivenza e della sicurezza, compendiate nella formula dell’ordine pubblico».

Fonte: www.ilpenalista.it/Le usanze religiose non giustificano la violazione di norme penali - La Stampa

E' reato installare strumenti di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, anche in presenza di un accordo sottoscritto da tutti i dipendenti

La Corte di Cassazione, Sezione Penale, n. 22148 del 31 gennaio 2017, depositata in data 8 maggio 2017 , ribadisce il principio fondamentale di cui all'art. 4 dello Statuto dei lavoratori (come modificato dall'art. 23, D.Lgs.151/2017), per cui l'installazione di impianti audiovisivi e di altri strumenti dai quali derivi anche solo la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori deve necessariamente essere preceduta da un accordo tra la parte datoriale e le rappresentanze sindacali.
Laddove l'accordo collettivo non venga raggiunto, il datore di lavoro dovrà far precedere l'installazione dalla richiesta di un provvedimento autorizzativo da parte dell'autorità amministrativa (Direzione Territoriale del Lavoro).
In carenza di accordo con le rappresentanze sindacali o del provvedimento di autorizzazione, installazione dovrà essere considerata illegittima e verrà sanzionata penalmente.
Al netto di tale premessa, il punto innovativo della pronuncia è però il seguente: nella impostazione della Suprema Corte, risulta irrilevante il fatto che l'installazione del sistema di sorveglianza fosse stata preventivamente autorizzata da tutti i dipendenti attraverso un consenso di carattere espresso secondo la normativa privacy.
Sulla base della sentenza in esame, il consenso manifestato dai lavoratori alla implementazione degli strumenti di controllo (reso sia in forma scritta che in forma orale), non può in alcun modo valere a scriminare la condotta del datore di lavoro che abbia installato i predetti impianti in violazione delle prescrizioni di legge.
Su questo specifico punto, la sentenza si pone in netta contrapposizione con l'orientamento giurisprudenziale precedentemente consolidato.
Da ultimo, la sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Penale, n. 22611 del 2012 , aveva statuito come fosse illogico negare validità ad un consenso chiaro ed espresso proveniente dalla totalità dei lavoratori e non soltanto da una loro rappresentanza.
Ciò in quanto, se la procedura di cui all'art. 4 dello Statuto risulta finalizzata a tutelare i lavoratori contro forme subdole di controllo da parte del datore di lavoro attraverso il consenso di organismi di categoria rappresentativi, a fortiori, tale consenso dovrà essere considerato validamente prestato quando sia diretta espressione della volontà di tutti i dipendenti.
Secondo questa prospettazione, l'esistenza di un consenso validamente prestato da parte del titolare del bene protetto (il lavoratore), esclude la integrazione dell'illecito.
Tale ragionamento viene totalmente sovvertito dalla pronuncia oggetto di esame con pesanti implicazioni per le aziende interessate.
Nell'impostazione espressa oggi dalla Suprema Corte, infatti, la procedura di cui all'art.4 dello Statuto è preordinata alla tutela di "interessi di carattere collettivo e superindividuale".
Secondo questa linea interpretativa, la mancata consultazione delle rappresentanze sindacali determinerebbe "l'oggettiva lesione degli interessi collettivi di cui le rappresentanze sindacali sono portatrici", in quanto deputate, da un lato, a riscontrare se gli impianti audiovisivi siano o meno idonei a ledere la dignità dei lavoratori e, dall'altro, a verificare l'effettiva rispondenza di detti impianti alle esigenze tecnico-produttive o di sicurezza.
Lo stesso Garante della Privacy – continua la Suprema Corte – avrebbe ritenuto illecito il trattamento dei dati personali mediante sistemi di videosorveglianza, in assenza del rispetto delle garanzie di cui all'art. 4 dello Statuto e nonostante la sussistenza del consenso dei lavoratori (relazione Garante per la protezione dei dati personali, per l'anno 2013, pubblicata nel 2014).
La necessità di coinvolgimento delle rappresentanze sindacali troverebbe peraltro la propria ratio nella "diseguaglianza di fatto e quindi l'indiscutibile e maggiore forza economico - sociale dell'imprenditore, rispetto a quella del lavoratore".
La Corte arriva quindi a sostenere come la procedura risulti necessaria in quanto "a conferma della sproporzione esistente tra le rispettive posizioni, basterebbe al datore di lavoro fare firmare a costoro, all'atto dell'assunzione, una dichiarazione con cui accettano l'introduzione di qualsiasi tecnologia di controllo per ottenere un consenso viziato dal timore della mancata assunzione".
In conclusione, sulla base di quest'ultima pronuncia, il consenso scritto o orale concesso dai singoli lavoratori alla implementazione degli impianti di controllo non potrà avere alcuna rilevanza, in quanto la tutela penale è apprestata per la salvaguardia di interessi collettivi di cui le rappresentanze sindacali sono portatrici, ove invece i lavoratori, in ragione della posizione di debolezza contrattuale che li caratterizza, potrebbero rendere un consenso viziato.
Il percorso argomentativo della Corte non dà adito a dubbi interpretativi: nel nuovo contesto normativo la Cassazione resta salda sui propri principi ed individua nella via dell'accordo con le rappresentanze sindacali o della autorizzazione amministrativa la sola strada percorribile.
La pronuncia si focalizza sulla linea di demarcazione che separerebbe, da un lato, il consenso espresso dalla totalità dei lavoratori (passibile di essere viziato in ragione della debolezza contrattuale caratterizzante il dipendente) e, dall'altro, l'accordo siglato dalle rappresentanze sindacali (organo di rappresentanza e tutela dello stesso personale aziendale).
La Corte sembra certamente voler innalzare il livello di garanzia, non permettendo in alcun modo di qualificare il semplice consenso dei lavoratori quale esimente idonea ad escludere l'integrazione della fattispecie di reato.
La pronuncia sembra pertanto chiudere ogni possibilità di apertura ad una accettazione della strumentazione di controllo da parte dei lavoratori e legittimerebbe esclusivamente il pieno rispetto della procedura individuata dallo Statuto e quindi il vaglio sindacale o amministrativo.
Interessante spunto di riflessione e dibattito resta in ogni caso il ruolo ed il significato da attribuire alla volontà dei lavoratori, che nella prassi hanno possibilità di consultare ad hoc le proprie rappresentanze sindacali, certamente devono avere modo di esprimere una opinione in piena cognizione di causa e la cui volontà non sembra poter essere posta nel nulla in quanto di per sé astrattamente coartabile.
Peraltro, il rischio di alterazione della volontà negoziale dell'intero organico della compagine aziendale sembra un'ipotesi in realtà di difficile attuazione.
In ogni caso, alla luce della sensibilità dei beni in gioco in tema di controlli a distanza ed a fronte del recente orientamento giurisprudenziale commentato, il corretto rispetto della procedura attraverso i necessari passaggi del consenso sindacale e della eventuale autorizzazione amministrativa, sembra oggi essere la strada più lineare per evitare rischi.

Fonte:www.ilsole24ore.com/E' reato installare strumenti di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, anche in presenza di un accordo sottoscritto da tutti i dipendenti

Approvata la Legge per il contrasto al cyberbullismo

Ieri, 17 maggio, l’Aula della Camera ha approvato, in quarta lettura ed in via definitiva (con 432 voti favorevoli, nessuno contrario ed un solo astenuto), la tanto attesa Legge sul cyberbullismo, contenente “Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno”.
La Presidente Laura Boldrini, nel discorso tenuto prima di dare il via alla votazione del provvedimento, rivolgendosi a Paolo Picchio (padre di Carolina, prima vittima riconosciuta di cyberbullismo in Italia, morta suicida a soli 14 anni), pure presente a Montecitorio, ha dedicato la Legge alla giovane ed a tutte le altre vittime di tale drammatico fenomeno.
Nel merito, la versione definitiva del testo elaborato dalla Senatrice PD Elena Ferrara (e definito da molti tra gli stessi deputati “una buona legge, ma non la migliore legge possibile”, da altri come “un punto di partenza”) ricalca integralmente quella approvata lo scorso 31 gennaio, in terza lettura, dal Senato della Repubblica.
Il Relatore, Paolo Beni, ha infatti evidenziato come le Commissioni Giustizia ed Affari Sociali della Camera abbiano convenuto all’unanimità, “dopo un’attenta valutazione”, di non apportare modifiche al testo licenziato dal Senato, “anche al fine di evitare il ricorso ad una quinta lettura e garantire così un più rapido iter della proposta di legge”.
L’obiettivo dichiarato, infatti, era quello di approvare la Legge (che, ricordiamolo, si limita a dettare disposizioni in tema di cyberbullismo e non è, dunque, né allargata al bullismo, né estesa ai maggiorenni) prima dell’inizio del prossimo anno scolastico, così da assicurare “qualche strumento in più di tutela per i ragazzi”, evitando di iniziare con un vuoto legislativo ancora da colmare.
La Legge in argomento, va ancora rammentato, prevede l’adozione di azioni a carattere preventivo, che puntano all’educazione dei minori attraverso un uso responsabile e consapevole dei nuovi media (a partire dalla scuola, luogo principale di formazione, di inclusione e accoglienza)e mirano a favorire una maggiore consapevolezza tra i giovani quanto al disvalore di comportamenti persecutori in danno di vittime in situazioni di particolare fragilità, evitando tuttavia, al contempo (sono parole del Relatore), “inopportune derive repressive”.
Per tali ragioni, diversamente rispetto alla prima versione approvata dalla Camera lo scorso 20 settembre 2016, sono spariti dal testo i richiami, ivi contenuti, a strumenti di natura penale.
Come forse si rammenterà, infatti, il testo approvato in seconda lettura dalla Camera lo scorso settembre prevedeva l’introduzione, nel Disegno di Legge, dell’articolo 8 (assente nella prima versione approvata dal Senato), in cui veniva prevista una specifica aggravante per il reato di stalking (o atti persecutori) cui all’art. 612 bis del Codice Penale.
Tale aggravante sarebbe divenuta operante nel caso in cui il fatto fosse commesso attraverso strumenti informatici o telematici o utilizzando tali strumenti mediante la sostituzione della propria all’altrui persona e l’invio di messaggi o la divulgazione di testi o immagini, ovvero mediante la diffusione di dati sensibili, immagini o informazioni private, carpiti attraverso artifici, raggiri o minacce o comunque detenuti, o mediante la realizzazione o divulgazione di documenti contenenti la registrazione di fatti di violenza e di minaccia.
Pena prevista, la reclusione da uno a sei anni.
Infine, veniva disposta la confisca obbligatoria per gli strumenti informatici o telematici che fossero risultati essere stati utilizzati per tali fattispecie di stalking telematico.
E’ tuttavia, condivisibilmente, prevalsa la linea di pensiero che ha riportato il testo della Legge ad una impostazione più “prevenzionista” che repressiva: in caso contrario, infatti, si sarebbe, di fatto, snaturato il senso e lo spirito del provvedimento in questione, ispirato ad un “diritto mite”, per come era stato immaginato dai suoi promotori e promulgatori.
Art. 1: finalità e definizione normativa
Nello specifico, nella Legge in commento, l’art. 1, comma 1, individua i propri (sopra già sintetizzati) obiettivi e finalità, nonché i soggetti (i minori di età, per intendersi) per la tutela dei quali essa vuole approntare “apposite azioni a carattere preventivo”.
Nel secondo comma, il testo normativo fornisce finalmente una definizione del termine “cyberbullismo”, che comprende in sè, stando al tenore letterale della norma:
a) “qualunque forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto d’identità, alterazione, acquisizione illecita, manipolazione, trattamento illecito di dati personali in danno di minorenni, realizzata per via telematica”;
b) nonché la “diffusione di contenuti on line aventi ad oggetto anche uno o più componenti della famiglia del minore il cui scopo intenzionale e predominante sia quello di isolare un minore o un gruppo di minori ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso, o la loro messa in ridicolo”.
Per inciso, pare doveroso in proposito rilevare, quale “nota stonata”, il fuorviante riferimento, nel comma della norma appena citato, ai comportamenti ingiuriosi, essendo il reato di ingiuria stato recentemente depenalizzato: sarebbe stato certamente più corretto espungere del tutto detto inciso dalla frase.
Art. 2: istanze a tutela della dignità del minore
Con il successivo art. 2 il legislatore ha invece ribadito la propria intenzione di agevolare la rimozione di contenuti che ledano la dignità del minore da siti internet e da social network e di accelerare il blocco dei siti o dei profili sulla base delle segnalazioni inviate anche dagli adolescenti, che sino ad oggi non potevano sporgere denuncia autonomamente.
Ciò perché, effettivamente, una parte consistente degli effetti negativi del cyberbullismo consiste proprio nell’amplificazione della risonanza di un fatto o un avvenimento che solo il web permette.
È pertanto stato disposto che tanto il minore ultraquattordicenne vittima di atti di cyberbullismo, quanto il genitore o colui che ne esercita la responsabilità possa chiedere al gestore del sito internet o del social media, ovvero al titolare del trattamento, l'oscuramento, la rimozione, il blocco di qualsiasi dato personale del minore, nonché dei contenuti diffusi in rete, se rientranti nelle condotte di cyberbullismo, previa conservazione dei dati originali.
Se il gestore non provvede all'esecuzione della richiesta entro 48 ore, chiunque sia interessato può rivolgersi al Garante per la protezione dei dati personali, che deve intervenire direttamente entro le 48 ore successive al ricevimento della richiesta.
Si può osservare a caldo, in proposito, che nella fattispecie il legislatore, pur munito di lodevoli intenti, ha tuttavia circoscritto la portata della condotta incriminatrice alle sole vittime ultraquattordicenni, così inopinatamente escludendo, in modo non condivisibile, tutte le fasce d’età inferiori ai 14 anni, entro le quali, al contrario, si trova un numero sempre più elevato di vittime di episodi di bullismo e cyberbullismo.
Art. 3: tavolo tecnico, piano di azione integrato, campagne informative
L’art. 3 prevede, invece, l’istituzione, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri da adottarsi entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della Legge, di un apposito tavolo tecnico, atto:
1) a predisporre un “piano di azione integrato per il contrasto e la prevenzione del cyberbullismo” (da predisporsi, a sua volta, entro sessanta giorni dall’insediamento del suddetto tavolo), di cui faranno parte rappresentanti ministeriali, nonché esponenti: a) della Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281; b) dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni; c) del Garante per l’infanzia e l’adolescenza; d) del Comitato di applicazione del codice di autoregolamentazione media e minori; e) del Garante per la protezione dei dati personali; f) di associazioni con comprovata esperienza nella promozione dei diritti dei minori e degli adolescenti e nelle tematiche di genere; g) degli operatori che forniscono servizi di social networking e degli altri operatori della rete internet; h) una rappresentanza delle associazioni studentesche e dei genitori; i) una rappresentanza delle associazioni attive nel contrasto del bullismo e del cyberbullismo;
2) a realizzare un sistema di raccolta di dati finalizzato al monitoraggio del fenomeno del cyberbullismo.
L’articolo in commento prevede, ancora, che il piano di azione integrato di cui sopra preveda iniziative di informazione e di prevenzione rivolte ai cittadini, ed inoltre che la Presidenza del Consiglio dei Ministri predisponga periodiche campagne informative di prevenzione e di sensibilizzazione sull’argomento, con il supporto dei principali media e degli organi di comunicazione e di stampa e di soggetti privati.
Art. 4: linee guida e referente scolastico
Ai fini della prevenzione e del contrasto del fenomeno in ambito scolastico, l’art. 4 prevede, anzitutto, che il MIUR, di concerto con il Ministero della Giustizia, adotti, entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore della Legge, avvalendosi anche della collaborazione della polizia postale, apposite linee guida, definite “linee di orientamento”, da aggiornare ogni due anni, che per il prossimo triennio includono, tra l’altro:
a) la formazione del personale scolastico, prevedendo la partecipazione di un proprio referente per ogni autonomia scolastica;
b) la promozione di un ruolo attivo degli studenti, nonché di ex studenti che abbiano già operato all’interno dell’istituto scolastico in attività di peer education, nella prevenzione e nel contrasto del cyberbullismo nelle scuole;
c) la previsione di misure di sostegno e rieducazione dei minori coinvolti (comma 2).
È poi prevista da parte degli Uffici Scolastici Regionali la pubblicazione di bandi per il finanziamento di progetti elaborati dagli istituti scolastici per promuovere sul territorio azioni integrate di contrasto al cyberbullismo, nonché campagne di educazione alla legalità (comma 4) ed all’uso consapevole di internet (comma 5).
Ma il nodo cruciale (e che desta maggiori dubbi e perplessità) concerne la previsione di cui al terzo comma, secondo cui ogni istituto scolastico deve individuare fra i docenti un referente con il compito di coordinare le iniziative di prevenzione e contrasto del cyberbullismo, che potrà avvalersi della collaborazione delle Forze di polizia insieme alle associazioni e ai centri di aggregazione giovanile presenti sul territorio).
Se, infatti, il ministro Valeria Fedeli ha assicurato di voler dare immediatamente piena attuazione alla legge, e di avere a tal fine già avviato (previa convocazione della Conferenza dei Coordinatori regionali degli Uffici Scolastici sul bullismo) la ricognizione dei docenti referenti per ciascuna scuola, come richiesto dal provvedimento appena approvato, resta da comprendere (sul punto, la normativa è oscura) a chi verrà affidato il delicato compito di assicurare, al riguardo, adeguata e completa formazione (pedagogica, psicologica e legale) ai suddetti referenti, come pure non è chiaro entro che tempi e con quali modalità verrà espletata detta formazione (mancano, in fondo, pochi mesi dall’inizio del nuovo anno scolastico).
Come pure, pare quanto meno curioso che questa legge abbia disposto l’individuazione, tra i docenti, di un apposito referente per il cyberbullismo, mentre invece nessuna figura analoga sia stata prevista (in questo o in altro provvedimento) per il coordinamento di iniziative di prevenzione dei fenomeni di mero bullismo nelle scuole, pure frequentissimi: la scollatura, appare, indubbiamente evidente, e si prevede che tale carenza produrrà, nella pratica, numerose problematiche interpretative ed applicative.
Gli artt. 5 e 6
I dirigenti scolastici, invece, dovranno informare tempestivamente le famiglie dei minori coinvolti in episodi di cyberbullismo, ed attivare adeguate azioni di carattere educativo (art. 5).
L’art. 6, invece, dispone uno stanziamento pari a circa duecentomila euro annui per lo svolgimento delle attività di formazione in ambito scolastico e territoriale “finalizzate alla sicurezza dell’utilizzo della rete internet e alla prevenzione e al contrasto del cyberbullismo”.
Art. 7: la procedura di ammonimento
In conclusione, a conferma ulteriore dell’approccio rieducativo del provvedimento appena approvato (e della intenzione del legislatore di licenziare un testo pensato sì per le vittime, ma anche per quei ragazzi che, spesso inconsapevolmente, si rendono responsabili di condotte dai risvolti penali), è stata introdotta la procedura di ammonimento, seguendo lo stesso criterio utilizzato per lo stalking.
E ciò, come più volte ripetuto, con l’obiettivo di responsabilizzare i minori ultraquattordicenni che, di fatto, si rendono autori autori di reati, tenendoli però, nei casi consentiti dalla legge, fuori da implicazioni di tipo penale.
Così si prevede che, fin quando non venga presentata querela o denuncia dalla vittima, il questore potrà convocare il responsabile della condotta illecita (purchè, come detto, si tratti di un giovane di età superiore a 14 anni), commessa nei confronti di altro minorenne, ed ammonirlo oralmente, invitandolo a rispettare la legge: il tutto, in presenza di un genitore o di chi ne faccia le veci.
Gli effetti dell’ammonimento, in ogni caso, cessano con il compimento della maggiore età.

Fonte:www.quotidianogiuridico.it/Approvata la Legge per il contrasto al cyberbullismo | Quotidiano Giuridico

Maxi multa da 110 milioni a Facebook per collegamento account Whatsapp

L'Antitrust Ue ha deciso di infliggere una maximulta da 110 milioni di euro a Facebook per aver fornito informazioni fuorvianti nel momento dell'acquisto di Whatsapp. Nel 2014 Facebook aveva assicurato alla Commissione Ue di non poter fare collegare gli account Facebook con quelli di Whatsapp, cosa invece realizzata nel 2016. Si tratta di "un chiaro segnale alle società che devono rispettare le regole Ue, incluso l'obbligo di fornire informazioni corrette", ha dichiarato la commissaria alla concorrenza Margrethe Vestager.   "La decisione di oggi manda un chiaro segnale alle società, che devono rispettare tutti gli aspetti delle norme sulle fusioni, incluso l'obbligo di fornire informazioni corrette. Inoltre sanziona Facebook con una multa proporzionata e che ha un effetto deterrente". Così la commissaria europea alla Concorrenza Margrethe Vestager spiega le ragioni che hanno portato la Commissione a multare Facebook per 110 mln di euro per aver fornito informazioni "scorrette o fuorvianti" durante l'indagine portata avanti nel 2014 dalla stessa Commissione sull'acquisizione di WhatsApp da parte della casa di Menlo Park.  "La Commissione Europea - continua la Vestager - deve poter prendere decisioni sugli effetti delle fusioni sulla concorrenza avendo piena conoscenza dei fatti. Il regolamento Ue sulle fusioni obbliga le società durante un'indagine su un'aggregazione a fornire informazioni corrette che non siano ingannevoli o fuorvianti, poiché ciò è essenziale affinché la Commissione possa esaminare fusioni e aggregazioni in maniera tempestiva ed efficace".       "L'obbligo si applica a prescindere dal fatto se l'informazione abbia o meno un impatto sul risultato ultimo della valutazione della fusione", sottolinea la Vestager. E' la prima volta che la Commissione impone una multa ad una società per aver fornito informazioni scorrette o ingannevoli da quando il regolamento sulle fusioni è entrato in vigore, nel 2004 (in precedenza tuttavia sanzioni simili erano state comminate sulla base di un regolamento differente, del 1989).  Quando Facebook ha notificato l'acquisizione di WhatsApp nel 2014, ha informato la Commissione che non sarebbe stata in grado di stabilire un efficace e automatico 'matching' tra gli account degli utilizzatori di Facebook e quelli degli utenti di WhatsApp. Facebook ha espresso questa valutazione sia nel modulo di notifica sia in risposta ad una richiesta di informazioni arrivata dalla Commissione. Tuttavia, nell'agosto 2016 WhatsApp ha annunciato un aggiornamento delle condizioni di servizio e della politica della privacy, includendovi la possibilità di connettere i numeri telefonici degli utenti di WhatsApp con l'identità degli utenti di Facebook. Il 20 dicembre 2016 la Commissione ha inviato a Facebook una dichiarazione di opposizione, in cui dettagliava le proprie preoccupazioni. La Commissione ha stabilito che, contrariamente alle dichiarazioni di Facebook durante il procedimento di revisione, la possibilità tecnica di 'matchare' automaticamente le identità degli di utenti di Facebook e di WhatsApp esisteva già nel 2014 e che i manager di Facebook erano al corrente di tale possibilità. La decisione di oggi non ha alcun impatto sull'autorizzazione dell'acquisizione di Whatsapp, che risale all'ottobre del 2014 e che era basata su una serie di altri elementi, al di là del 'matching' automatico degli utenti. La Commissione aveva anche condotto una simulazione che presumeva la possibilità del matching.

Fonte:www.rainews.it/Maxi multa da 110 milioni a Facebook per collegamento account Whatsapp - Rai News

mercoledì 17 maggio 2017

La Buona scuola: i decreti attuativi in GU

La pubblicazione nella GU di ieri di otto dei decreti attuativi, D.Lgs. 13 aprile 2017, n. 59–60–61–62–63–64–65–66, previsti per il compimento della Legge n. 107 del 2015, cd. della Buona scuola, permette di completare il mosaico complessivo di tasselli essenziali per il conseguimento delle sue finalità. Non si tratta di una riforma della riforma, ma di un compimento della sua intensa portata innovativa sul sistema d’istruzione e di formazione.
I decreti attuativi della Legge n. 107 del 2015. Il compimento del mosaico complessivo della riforma. Il reclutamento e la formazione iniziale (art. 1, comma 180 e 181, lett. b) e d) della Legge n. 107 del 2015. — D. Lgs. 13 aprile 2017, n. 59 (GU n. 112 del 16-5-2017)
L’approvazione, da parte del Consiglio dei Ministri, di otto dei decreti attuativi previsti per il compimento della Legge n. 107 del 2015, permette di completare il mosaico della riforma cd. della Buona scuola dotandone il disegno complessivo di tasselli essenziali per il raggiungimento delle relative finalità. Non una riforma nella riforma, dunque, ma un compimento della sua intensa portata innovativa sul sistema d’istruzione e di formazione. Ė soprattutto il profilo dell’autonomia scolastica che viene rilanciato e valorizzato intensificando il suo dialogo con le famiglie e i soggetti collettivi presenti sul territorio.
Al perfezionamento di tale disegno, peraltro, non potrà che offrire un impulso decisivo l’esercizio della delega al Governo a ordinare la normativa sulla scuola in un testo unico che potrebbe avere una portata innovativa e non meramente ricognitiva. Tale previsione di delega, in effetti, rivela la consapevolezza dell’estrema frammentarietà e complessità dell’assetto normativo relativo al sistema nazionale di istruzione e di formazione e la necessità di una sua semplificazione e sistematizzazione.
Il decreto sul reclutamento e la formazione iniziale dei docenti è diretto a risanare due vizi antichi del sistema di reclutamento in ruolo del personale docente: il perpetuarsi del precariato attraverso il sistema delle graduatorie permanenti e la carenza di una professionalità specifica dei docenti riguardo alle capacità richieste dall’insegnamento.
In tal senso il decreto attuativo dovrebbe portare a compimento la parabola avviata dalla nuova disciplina che, attraverso l’introduzione dell’organico potenziato, ha cercato di connettere l’immissione in ruolo di più di centomila precari attinti dalle graduatorie permanenti, resa obbligatoria dalla pronuncia del giudice europeo, con il rilancio dell’autonomia progettuale di ciascuna istituzione scolastica. A questa stessa logica è improntata la responsabilizzazione dei dirigenti scolastici nella chiamata diretta dei docenti presso ciascuna istituzione scolastica. La soluzione di continuità con l’assetto normativo precedente, infine, è insito nella soppressione delle graduatorie ad esaurimento e nella creazione di una pianta organica regionale in sostituzione del precedente sistema, fondato su una pianta organica di diritto e di fatto.
Il canale ordinario di accesso alla professione docente diviene il concorso pubblico, bandito con cadenza triennale nel rispetto della programmazione del fabbisogno delle scuole e aperto ai laureati che abbiano superato alcuni esami di pedagogia e didattica, per ventiquattro crediti complessivi.
I vincitori dei concorsi saranno avviati ad un percorso triennale di formazione, tirocinio e inserimento nella funzione docente. Nel corso del primo anno seguiranno un percorso di specializzazione universitaria che li formerà nelle materie antropologiche e psicopedagogiche e sulle metodologie didattiche. Nel secondo anno proseguiranno la formazione, svolgeranno tirocini nelle scuole e inizieranno a svolgere la professione come supplenti. Il terzo anno verrà affidata loro la piena responsabilità di una classe e affronteranno una valutazione sul campo, superata la quale, diverranno docenti di ruolo.
Si prevede anche una fase transitoria, destinata ad offrire una risposta alle aspettative di chi ha già acquisito un’abilitazione o svolto molti anni di servizio presso le istituzioni scolastiche. A tali categorie saranno riservati alcuni posti disponibili, ferma restando la loro valutazione sul campo per un periodo di almeno un anno prima dell’immissione in ruolo.
Rafforzamento dell’inclusione scolastica degli studenti con disabilità (art. 1, commi 180 e 181, lett. c) della Legge n. 107 del 2015. — D. Lgs. 13 aprile 2017, n. 66 (GU n. 112 del 16-5-2017)
Il decreto mira a rafforzare l’inclusione scolastica dei soggetti portatori di disabilità, attraverso il coinvolgimento, in tale processo, di tutte le componenti scolastiche, delle loro famiglie e delle associazioni che ne tutelano i diritti.
Tale obiettivo è affidato a molteplici strategie fra cui, anzitutto: l’incremento della partecipazione e della collaborazione delle famiglie e delle associazioni nei processi di inclusione scolastica. A tale accrescimento è correlata la definizione più specifica dei compiti spettanti a ciascun attore istituzionale coinvolto nei processi di inclusione, ovvero Stato, Regioni ed enti locali.
Sempre a tal fine le commissioni mediche per l’accertamento della disabilità si arricchiscono di nuove professionalità fra cui quella di un medico legale e di due medici specialisti scelti fra quelli in pediatria e neuropsichiatria infantile.
La novità più significativa, tuttavia, sarà l’utilizzo, a fini dell’accertamento e della gestione dello studente con disabilità, del modello della Classificazione internazionale del Funzionamento della Disabilità e della Salute all’interno del nuovo Profilo di funzionamento. Tale Profilo, elaborato dall’Unità di Valutazione Multidisciplinare, con la partecipazione della famiglia e di coloro che hanno in carico la persona disabile, definirà la tipologia delle misure di sostegno e delle risorse strutturali necessarie per l’inclusione scolastica. Lo stesso Profilo sarà un documento essenziale per l’elaborazione del Piano Educativo individualizzato.
Sotto il versante più propriamente istituzionale, vengono definiti le modalità e i contenuti del Piano per l’inclusione che costituisce il principale documento programmatico-attuativo delle istituzioni scolastiche in materia di inclusione. Tale Piano verrà ricompreso nel Piano triennale dell’offerta formativa.
Per ogni ambito territoriale, inoltre, verrà istituito il Gruppo per l’inclusione territoriale che rivestirà un ruolo decisivo nell’individuazione delle risorse per il sostegno didattico dei soggetti portatori di disabilità.
Ė interessante, inoltre, che la proposta di quantificazione delle ore di docenza di sostegno, a cura del dirigente scolastico, avverrà dopo una fase di analisi dei singoli Pei e la determinazione del piano di inclusione dell’istituto scolastico. Un’ulteriore novità assai significativa è il fatto che si terrà conto della presenza in ciascuna scuola di alunni con disabilità, nonché del genere di ogni studente per l’attribuzione del personale ATA.
La garanzia dell’effettività di godimento del diritto all’istruzione anche al portatore di disabilità, in effetti, svolge una funzione anche rispetto all’organizzazione e al personale scolastico. Tali risorse, al fine di realizzarne l’inclusione scolastica, devono essere adeguate a favorire «lo sviluppo delle potenzialità della persona handicappata nell’apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e della socializzazione (art. 12, terzo comma, l. 5 febbraio 1992, n. 104)». Il servizio dell’istruzione, pertanto, non potrà essere improntato a logiche di mera efficienza ed economicità finanziaria ma conformarsi alle peculiari caratteristiche delle persone destinatarie, specialmente quelle portatrici di disabilità. Tali caratteristiche, dunque, potranno comprimere e orientare sia la discrezionalità del legislatore sia quella dell’amministrazione nell’individuazione delle necessarie risorse organizzative, finanziarie e personali.
Rafforzamento dell’istruzione professionale e suo raccordo con i percorsi dell’istruzione e della formazione professionale (art. 1, commi 180 e 181, lett. d) della Legge n. 107 del 2015. — D. lgs. 13 aprile 2017, n. 61 (GU n. 112 del 16-5-2017)
Il decreto riafferma e rafforza la specifica identità degli istituti professionali attraverso una maggiore articolazione dei percorsi, al fine di rispondere alle esigenze delle filiere produttive del territorio e di incrementare la loro autonomia didattica e gestionale rispetto all’istruzione tecnica e ai percorsi di istruzione e Formazione Professionale di competenza delle Regioni.
Anche su tale versante viene potenziato uno dei profili dell’autonomia scolastica, ossia il rafforzamento della capacità delle istituzioni scolastiche di interpretare le vocazioni e le richieste del mondo produttivo e le necessità e le prospettive del mondo del lavoro.
Tale logica di rafforzamento dei legami delle scuole con il tessuto produttivo presente sul territorio, peraltro, era già insita nella legge delega, laddove, all’art. 1, comma 33, si contemplava un ampliamento dei soggetti con cui era possibile stipulare convenzioni per progettare ed attuare percorsi di alternanza scuola-lavoro.
Nella stessa direzione, l’art. 1, comma 60, prevedeva che le istituzioni scolastiche potessero dotarsi di «laboratori territoriali per l’occupabilità» attraverso la partecipazione, anche in qualità di soggetti cofinanziatori, di enti pubblici e locali sia per l’orientamento della didattica ai settori strategici del made in Italy, in base alla vocazione produttiva, culturale e sociale di ciascun territorio, sia per la fruibilità di servizi propedeutici al collocamento al lavoro sia per aprire le scuole al territorio e permettere l’utilizzo dei relativi spazi al di fuori dell’orario scolastico.
Oltre al tradizionale assetto organizzativo, caratterizzato da una struttura quinquennale articolata in un biennio e in un successivo triennio, le istituzioni scolastiche potranno attivare, in via sussidiaria, percorsi di istruzione e di formazione anche quadriennale per il rilascio della qualifica e del diploma professionale da realizzare nel rispetto degli standards formativi definiti da ciascuna Regione.
Il rafforzamento dell’autonomia degli istituti professionali è affidato ad una duplice direttrice: la quota del 20%, sia nel biennio sia nel triennio per potenziare gli insegnamenti obbligatori con specifico riguardo alle attività di laboratorio e la quota di flessibilità del 40% dell’orario complessivo per il terzo, quarto e quinto anno per articolare gli indirizzi del triennio in profili formativi. Ulteriori strumenti per l’attuazione dell’autonomia saranno la stipula di contratti d’opera con esperti del mondo del lavoro e delle professioni e l’attivazione di partenariati per il miglioramento dell’offerta formativa.
Istituzione del sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita fino ai sei anni (art. 1, commi 180 e 181, lett. e) della Legge n. 107 del 2015. — D. Lgs. 13 aprile 2017, n. 65 (GU n. 112 del 16-5-2017)
Il decreto è diretto a far uscire i servizi educativi dell’infanzia dalla dimensione assistenziale per ricomprenderli a pieno titolo nella sfera educativa garantendo continuità tra il segmento di età da 0-3 a 3-6 e ridurre gli svantaggi culturali, sociali e relazionali della relativa utenza. L’intento della nuova disciplina è quello di estendere e di qualificare questo segmento della formazione dei bambini e delle bambine, offrendo alle famiglie strutture e servizi ispirati a standard uniformi sull’intero territorio nazionale organizzati all’interno di un assetto di competenze fra i differenti attori istituzionali chiaro ed efficiente.
Questa finalità viene declinata, rispettivamente, nell’ampliamento dei servizi educativi per l’infanzia al 33% della copertura della popolazione sotto i tre anni di età, a livello nazionale, e la sua più equa distribuzione sul territorio nazionale, mirando ad una generalizzazione qualitativa e quantitativa della scuola dell’infanzia per i bambini e le bambine dai tre ai sei anni di età. La qualificazione del modello formativo, inoltre, è affidata all’introduzione della qualifica universitaria quale titolo di accesso.
Riforma del diritto allo studio (art. 1, commi 180 e 181, lett. f) della Legge n. 107 del 2015). — D. Lgs. 13 aprile 2017, n. 63 (GU n. 112 del 16-5-2017)
La revisione della disciplina in materia di diritto allo studio mira a garantire maggiormente l’uguaglianza sostanziale delle alunne e degli alunni, delle studentesse e degli studenti, attraverso una più specifica definizione delle prestazioni offerte e delle competenze dei diversi soggetti coinvolti.
La garanzia del diritto allo studio, per quanto riguardava gli studenti universitari, era già stata rafforzata dalle misure introdotte dalla Legge di bilancio per il 2017 attraverso il ridisegno della contribuzione studentesca, la rimodulazione dell’area di esenzione e l’introduzione di nuove borse di studio per il merito e la mobilità (In tal senso mi si consenta il rinvio a M. Cocconi, L’istruzione, in Gior. dir. amm. 2017, 2, 200 ss.). Come già rilevato, le misure intraprese investivano sia il merito sia l’equità, in modo coerente con il disegno costituzionale, all’art. 34 della Costituzione.
Le misure introdotte per gli alunni e le alunne delle scuole, viceversa, mirano ad assicurare più un supporto economico e materiale alla frequenza degli studenti e quindi a soddisfare istanze di equità, che a premiare il conseguimento di requisiti di merito. Si tratta di misure miranti non solo a fornire un sostegno di natura economica ma anche prestazioni materiali e concrete a supporto della frequenza di alunni e alunne.
Più concretamente, si contempla l’esonero dalle tasse scolastiche degli studenti e delle studentesse del quarto e quinto anno dell’istruzione secondaria di secondo grado sulla base di fasce dell’ISEE determinate dal Miur.
Si assicura, inoltre, a tutte le alunne e gli alunni delle scuole statali il trasporto per raggiungere la scuola più vicina e si assicura il servizio mensa a tutti gli alunni delle scuole pubbliche dell’infanzia, primarie e secondarie di primo grado, sempre su istanza di parte.
Si riconferma la gratuità dei libri di testo per tutte le alunne e gli alunni delle scuole primarie, nonché degli altri strumenti didattici. Le scuole, attraverso la stipula di convenzioni con gli Enti locali, possono promuovere servizi di comodato d’uso gratuito per la messa a disposizione di libri di testo e/o dispositivi digitali. Viene rifinanziato, inoltre, il fondo previsto dall’art. 1, comma 258, della l. 8 dicembre 2015, n. 208 (legge di bilancio per il 2017) attraverso il versamento di 10 milioni di euro finalizzati all’acquisto di libri di testo e altri contenuti didattici relativi ai corsi di studio fino all’assolvimento dell’obbligo.
Per favorire l’accoglienza di una disabilità certificata ai sensi della l. n. 104 del 1992, sono destinati tre milioni di euro per sussidi didattici alle istituzioni scolastiche che accolgano alunni e alunne, studentesse e studenti portatori di disabilità. Per supportare le attività scolastiche svolte all’interno degli ospedali e l’istruzione domiciliare vengono stanziati 2,5 milioni di euro all’anno, a decorrere dall’anno 2017 per offrire servizi didattici, anche digitali al fine di garantire il diritto all’istruzione degli alunni ricoverati in ospedale, case di cura e riabilitazione e l’istruzione domiciliare.
Agli studenti iscritti alle scuole secondarie di secondo grado vengono riconosciute borse di studio per libri di testo, mobilità e trasporto, nonché per l’accesso a servizi di natura culturale esentate da ogni imposizione fiscale. Tali contributi, per cui vengono stanziati 30 milioni di euro per l’anno 2017, sono erogati tramite la Carta dello studente.
A tutti gli studenti censiti dall’Anagrafe Nazionale degli studenti e frequentanti le scuole primarie, secondarie, statali o paritarie, statali o paritarie, una tessera nominativa che attesta lo status di studente.
Promozione della cultura umanistica, valorizzazione del patrimonio e sostegno alla creatività (art. 1, commi 180 e 181, lett. g) della Legge n. 107 del 2015). — D.Lgs. 13 aprile 2017, n. 60 (GU n. 112 del 16-5-2017)
Il decreto permette di assicurare alle alunne e agli alunni, sin dalla scuola primaria, una formazione artistica che comprenda la cultura musicale, le arti dello spettacolo e quelle visive sia in forma tradizionale sia innovativa. Si mira, altresì, a sviluppare la conoscenza storico-critica del patrimonio culturale italiano. Si intende, infine, promuovere la pratica artistica nel Piano triennale dell’offerta formativa di ciascuna istituzione scolastica autonoma mediante percorsi curriculari e tramite l’alternanza scuola lavoro.
Complessa risulta, altresì, la governance definita per la promozione di tale componente culturale, coordinata dal Miur e dal Mibact e che collabora con le istituzioni scolastiche per la realizzazione dei temi della creatività in una prospettiva di apertura ai soggetti che collaborano sul territorio a tali tematiche.
Il decreto introduce, inoltre, il Piano delle arti, da adottarsi con cadenza triennale, su proposta del Miur di concreto con il Mitbac, in cui sono contenute una serie di misure per agevolare lo sviluppo dei temi della creatività da parte delle istituzioni scolastiche e accostare le studentesse e gli studenti alle differenti forme artistiche.
A supporto del Piano viene istituito un apposito Fondo dedicato, con una dotazione finanziaria pari a due milioni di euro a decorrere dall’anno 2017.
Valutazione, certificazione delle competenze e revisione degli esami di Stato (art. 1, commi 180 e 181, lett. i) della Legge n. 107 del 2015). — D. Lgs. 13 aprile 2017, n. 62 (GU n. 112 del 16-5-2017)
Il decreto modifica il modello di valutazione utilizzato nella scuola del primo ciclo e la struttura degli esami di Stato a conclusione del ciclo secondario. La riforma non intende rivoluzionare il paradigma esistente quanto apportare ad esso gli affinamenti di cui la comunità dei pedagogisti ha da tempo condiviso l’opportunità.
Anche questo profilo, peraltro, è orientato a supportare il decollo dell’autonomia scolastica, intesa come accountability dei docenti e del personale amministrativo verso il resto della collettività risiedente sul territorio, rappresentata anche dai risultati conseguiti dagli studenti, misurabili in termini di accrescimento delle loro competenze e attitudini.
Più nello specifico, tuttavia, la valutazione dello studente appare funzionale a realizzare la piena formazione della personalità degli alunni, a favorire un loro autonomo percorso di autovalutazione e di responsabilizzazione e costituisce, su tale versante, un fattore necessario delle funzioni proprie del personale docente.
In tale prospettiva, nel primo ciclo d’istruzione, la valutazione descrive le competenze raggiunte e gli apprendimenti acquisiti dagli alunni, preservando il modello dei voti in decimi ma, nel contempo, valorizzandone la finalità formativa.
La valutazione, dunque, asseconda e supporta i processi di apprendimento, costituisce uno stimolo al loro continuo miglioramento, in modo che i percorsi didattici siano orientati all’acquisizione di competenze disciplinari, personali e sociali. In tale direzione va letta la disposizione che prevede una valutazione in decimi correlata all’esplicazione dei livelli di apprendimento conseguiti dall’alunno.
Si rafforza, altresì, la rilevanza della valutazione delle attività svolte nell’ambito dell’insegnamento di Cittadinanza e Costituzione, preservando il carattere trasversale di quest’insegnamento.
L’ammissione alle classi successive, per gli alunni e le alunne della scuola primaria, avviene anche in presenza di livelli di apprendimento parzialmente acquisiti o in via di prima acquisizione. La non ammissione alla classe successiva, come già prevede la disciplina vigente, è riservata a casi eccezionali e viene deliberata all’unanimità dai docenti contitolari.
L’ammissione alla classe successiva o all’esame di Stato, per gli alunni e le alunne della scuola secondaria di primo grado, è deliberata dal Consiglio di classe, anche in caso di parziale o mancata acquisizione dei livelli di apprendimento, dunque anche in caso di attribuzione di voti inferiori a sei decimi. La valutazione del comportamento, infine, viene operata in positivo, attraverso un richiamo esplicito allo sviluppo delle competenze in materia di cittadinanza e la sostituzione al voto di condotta di un giudizio sintetico.
L’esame di Stato conclusivo del primo ciclo viene semplificato a partire dall’anno scolastico 2017-2018 e si articola in tre prove scritte ed un colloquio. La composizione della valutazione finale viene operata dando un peso maggiore al percorso scolastico compiuto dall’alunno e dall’alunna.
Alla semplificazione concorre il fatto che la prova Invalsi fuoriesce dall’esame di Stato sebbene resti necessario il suo superamento per l’ammissione all’esame. Si introduce, inoltre, una prova al fine di verificare l’apprendimento della lingua inglese, affiancata alle prove di italiano e matematica. Si contempla, altresì, la restituzione individuale alle famiglie, attraverso un giudizio descrittivo, del livello di apprendimento conseguito in italiano, matematica e inglese.
Viene riformato, altresì, l’esame di Stato conclusivo dei corsi di studio di scuola secondaria di secondo grado, rispetto alla cui ammissione diviene requisito essenziale lo svolgimento delle prove Invalsi e l’alternanza scuola-lavoro.
L’ammissione all’esame di Stato richiede, di regola, il conseguimento di una votazione pari a sei decimi in ogni disciplina e nel voto di comportamento, la possibilità di essere ammessi, in via eccezionale, nel caso si riporti un’insufficienza in una disciplina, è affidata ad una deliberazione motivata del consiglio di classe.
La struttura dell’esame viene semplificata attraverso la riduzione a due prove scritte, una sulla padronanza della lingua italiana ed una avente ad oggetto una o più discipline caratterizzanti. Il colloquio orale conterrà l’esposizione dell’esperienza maturata nei percorsi di alternanza scuola lavoro e la necessità di accertare il possesso delle competenze acquisite nell’insegnamento Cittadinanza e Costituzione.
Il sistema delle scuole italiane all’estero (art. 1, commi 180 e 181, lett. h) della Legge n. 107 del 2015). — D. Lgs. 13 aprile 2017, n. 64 (GU n. 112 del 16-5-2017)
Il decreto attua il riordino e l’adeguamento della disciplina vigente in materia di istituzioni e iniziative scolastiche italiane all’estero. Lo stesso disegna un’offerta formativa complessiva al fine di superare la frammentazione esistente e trasferire all’estero il modello formativo del nostro Paese, quale riformato dalla Legge n. 107 del 2015.
La creazione del «sistema della formazione italiana nel mondo» crea sinergie fra le scuole italiane all’estero e le altre iniziative formative nazionali presenti al di fuori del Paese al fine di promuovere e diffondere la lingua e la cultura italiana all’estero. La stessa sinergia fra il Miur e il Ministero degli affari economici e della cooperazione internazionale viene rafforzata attraverso l’istituzione di un’apposita Cabina di Regia. Allo stesso sistema partecipano, nel contempo, altri soggetti pubblici e privati, inclusi gli istituti italiani di cultura e gli enti gestori attivi nella diffusione e promozione della lingua e della cultura italiana nel mondo.
Il Ministero dell’istruzione e della ricerca viene incaricato di selezionare e di destinare all’estero il personale e pubblicare sul portale della scuola i dati relativi al sistema della formazione italiana nel mondo, al fine di accrescerne la trasparenza e la valorizzazione.
La rafforzata sinergia fra Miur e Maeci permette di istituire, di trasformare e di ridefinire le scuole statali all’estero, di riconoscerne la parità e, infine, istituire sezioni italiane all’interno di scuole non italiane. Vengono promosse, altresì, iniziative per la lingua e la cultura italiana all’estero, inviati lettori presso università o scuole all’estero e individuati i nuovi requisiti culturali e professionali fondamentali del personale da inviare all’estero. Sono individuati, infine, gli obiettivi, le modalità e i criteri per la nuova valutazione dell’offerta formativa delle scuole italiane all’estero, nonché delle altre iniziative.

Fonte:www.quotidianogiuridico.it/La Buona scuola: i decreti attuativi in GU | Quotidiano Giuridico

martedì 16 maggio 2017

No al coltello per motivi religiosi

Portare il coltello, anche se per motivi religiosi, viola l’ordine pubblico. Ecco cosa conclude, con la sentenza 24084/17, depositato ieri in cancelleria, la Corte suprema di Cassazione in merito al caso dell’indiano sikh trovato in possesso di un coltello, portato alla cintola, in una zona centrale di Mantova. Di fonte all’invito della polizia locale a consegnarlo, il giovane si era opposto poiché riteneva semplicemente di conformarsi ai propri costumi religiosi. Ma il tribunale di Mantova lo ha condannato, il 5 febbraio 2015, al pagamento di 2 mila euro di ammenda per aver, senza giustificato motivo, portato al di fuori della propria abitazione un coltello, che per le sue caratteristiche era atto all’offesa, in violazione dell’art. 4 della legge 110/1975. L’indiano ha presentato ricorso, chiedendo l’annullamento della decisione, sostenendo che in base all’art. 19 della costituzione il porto dell’arma fosse giustificato dalla religione.

Fonte:www.italiaoggi.it/No al coltello per motivi religiosi - News - Italiaoggi

Giudici di pace: riforma umiliante, in corso lo sciopero di un mese

E' iniziato ieri lo  sciopero dei Giudici di Pace che durerà 4 settimane consecutive, per contestare lo schema di riforma della magistratura onoraria varato in esame preliminare dal Governo il 5 maggio scorso.
L’Unione Nazione dei Giudici di pace ha contestato la riforma come “umiliante, che persegue il solo fine di schiavizzare la magistratura onoraria e rottamare la Giustizia in Italia”.
I giudici di pace ricordano che il loro apporto insieme a quello dei magistrati onorari rappresenta una risorsa insostituibile per il Paese: già oggi trattano e definiscono il 60% dei processi penali e civili, con un impegno a tempo pieno al servizio della Giustizia che per la maggior parte dei magistrati in servizio si protrae da oltre 15 anni; senza il loro fondamentale apporto la magistratura di carriera non sarebbe mai in grado di assolvere ai suoi compiti e la Giustizia in Italia si fermerebbe.
Altro punto di contestazione riguarda lo stipendio: a stento arriva a 600 euro nette al mese, senza congedi retribuiti di maternità o per motivi di salute, senza assicurazione per infortuni sul lavoro, senza trattamento di fine rapporto.
Nella riforma – osservano i giudici di pace - è addirittura previsto un ulteriore e considerevole aumento delle competenze dei giudici di pace e dei magistrati onorari, che nel futuro si occuperanno di non meno dell'80% della giurisdizione civile e penale.
Per tali ragioni l’Unione Nazionale dei giudici di pace si appella al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, quale garante della Costituzione e dell'indipendenza della magistratura.

Fonte:www.altalex.com/Giudici di pace: riforma umiliante, in corso lo sciopero di un mese | Altalex

Ecografia morfologica: nessun risarcimento se medico non rileva l'assenza di un arto

Nessun risarcimento spetta ai genitori se il medico non ha rilevato dall’ecografia, l’assenza di un arto del nascituro, trattandosi di un’anomalia fetale non idonea a consentire l’interruzione di gravidanza.
E’ quanto disposto dalla Corte di Cassazione, Sezione Terza Civile, con la sentenza dell’11 aprile 2017, n. 9251.
Nella vicenda in esame, una coppia di coniugi aveva proposto ricorso in Cassazione avverso la sentenza con cui, la Corte d'Appello di Milano, aveva rigettato la domanda di risarcimento dei danni, lamentati dai ricorrenti per la mancata rilevazione, da parte del medico, durante l’ecografia, della malformazione del nascituro, venuto alla luce "completamente privo della mano sinistra".
Il ricorso, articolato sulla scorta di quattro motivi, è stato respinto.
Esaminando congiuntamente le argomentazioni proposte, la Suprema Corte ha rilevato come la Corte di merito avesse applicato correttamente i principi relativi al tema della responsabilità medica da nascita indesiderata, seguendo l’indirizzo dei giudici delle Sezioni Unite, secondo i quali, qualora un genitore  agisca per ottenere il risarcimento del danno, deve provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà d'interrompere la gravidanza, in presenza delle condizioni di legge, se  fosse stata tempestivamente informata dell'anomalia fetale. Tale onere può essere assolto presuntivamente in base ad elementi di prova, mentre grava sul medico la prova contraria.
Orbene, la Cassazione ha evidenziato come il giudice di prime cure avesse accertato, alla luce del dato normativo e delle risultanze processuali, che nella vicenda in oggetto non vi fosse una situazione tale da poter legittimare, secondo i termini di legge, un'eventuale scelta di interruzione della gravidanza da parte della madre, non ricorrendo un grave pericolo per la salute psichica della stessa.
Dunque, attesa l'insussistenza di rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, tali da comportare un grave pericolo per la salute della donna, i giudici di merito hanno negato che "il primo giudice non abbia considerato che i coniugi, se tempestivamente e correttamente informati, sarebbero arrivati al parto preparati, a differenza di quanto è avvenuto", escludendo poi "che la sofferenza psichica dagli stessi manifestata potesse essere evitata o lenita ove si fossero potuti trovare nella condizione - che in concreto è invece mancata - di conoscere tempestivamente la presenza della malformazione".
La Suprema Corte, ha precisato che il nostro ordinamento non prevede il c.d. "aborto eugenetico", prescindente dal "serio" o dal "grave pericolo" per la "vita" o la "salute fisica o psichica" della donna. A tal riguardo, ha poi osservato che, il nostro Stato tutela la vita umana fin dal suo inizio ( L. n. 194 del 1978, art. 1), e l'interruzione della gravidanza "non è mezzo per il controllo delle nascite" (Cass., Sez. Un., 22/12/2015, n. 25767). Dunque, mentre entro i primi novanta giorni l'interruzione della gravidanza può essere ammessa se vi sono “previsioni di anomalie o malformazioni del concepito", o se la prosecuzione della gravidanza o il parto comportino un "serio pericolo" per la "salute fisica o psichica" della gestante (L. n. 194 del 1978, art. 4), dopo i primi novanta giorni, essa può essere consentita eccezionalmente solo in alcuni casi, ovvero quando: a) la gravidanza o il parto comportino un "grave pericolo" per la "vita della donna" ovvero b) siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un "grave pericolo" per la "salute fisica o psichica della donna".
In effetti, l'interruzione volontaria di gravidanza è diretta solo ad evitare un pericolo per la salute della gestante, serio (entro i primi 90 giorni di gravidanza) o grave (dopo i i primi 90 giorni di gravidanza); le malformazioni o anomalie del feto rilevano solo qualora possano causare un danno alla salute della stessa gestante, e non sono considerate con riferimento al nascituro.
Dunque, l'interruzione della gravidanza è ammissibile solo qualora  sussista un pericolo per la salute o per la vita della gestante, ma l’esistenza di malformazioni del feto che non incidono sulla vita o sulla salute della donna, non consentono l'accesso all'aborto, in quanto non idonei a determinare "un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna" .
In conclusione,la Suprema Corte, considerando che i giudici del doppio grado di merito abbiano correttamente ritenuto che la mancanza di una mano non rientri tra i presupposti previsti normativamente per configurare il requisito del "grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna" legittimante l'eccezionale possibilità di ricorrere, dopo i primi 90 giorni di gravidanza, all’interruzione di gravidanza, ha rigettato il ricorso.

Fonte:www.altalex.com/Ecografia morfologica: nessun risarcimento se medico non rileva l'assenza di un arto | Altalex

Cassazione: “I migranti devono conformarsi ai nostri valori, anche se diversi dai loro”

In una società multietnica, l’immigrato ha l’obbligo di «conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi, e di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano». È quanto stabilisce la Corte di Cassazione nella sentenza con cui respinge il ricorso di un indiano sikh contro la condanna a 2 mila euro di ammenda per aver portato fuori di casa, senza un motivo giustificato, un coltello lungo 18,5 cm, comportamento conforme - secondo l’uomo - ai precetti della sua religione. In realtà, sottolineano i giudici, «la decisione di stabilirsi in una società in cui è noto, e si ha consapevolezza, che i valori di riferimento sono diversi da quella di provenienza ne impone il rispetto e non è tollerabile che l’attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante».
Limite costituito da civiltà giuridica del nuovo Paese
«In una società multietnica, - prosegue il verdetto della Suprema Corte - la convivenza tra soggetti di etnia diversa richiede necessariamente l’identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza si debbono riconoscere. Se l’integrazione non impone l’abbandono della cultura di origine, in consonanza con la previsione dell’art. 2 della Costituzione che valorizza il pluralismo sociale, il limite invalicabile è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante». Con questa sentenza, i supremi giudici hanno respinto il ricorso di un indiano sikh condannato a duemila euro di ammenda dal Tribunale di Mantova, nel 2015, perchè il sei marzo del 2013 era stato sorpreso a Goito (Mn), dove c’è una grande comunità sikh, mentre usciva di casa armato di un coltello lungo quasi venti centimetri. L’indiano aveva sostenuto che il coltello (kirpan), come il turbante «era un simbolo della religione e il porto costituiva adempimento del dovere religioso». Per questo aveva chiesto alla Cassazione di non essere multato, e la sua richiesta era stata condivisa dalla Procura della Suprema Corte che, evidentemente ritenendo tale comportamento giustificato dalla diversità culturale, aveva chiesto l’annullamento senza rinvio della sentenza di condanna.
“Con trasferimento consapevolezza di valori sono diversi”
Ad avviso della Prima sezione penale della Suprema Corte, invece, «è essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi, e di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina». Il verdetto aggiunge che «la decisione di stabilirsi in una società in cui è noto, e si ha la consapevolezza, che i valori di riferimento sono diversi da quella di provenienza, ne impone il rispetto e non è tollerabile che l’attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante».

Fonte:www.lastampa.it/Cassazione: “I migranti devono conformarsi ai nostri valori, anche se diversi dai loro” - La Stampa

Semaforo giallo, sanzionato il conducente che non ferma il veicolo

Respinte tutte le obiezioni mosse da una donna. Ricostruito l’episodio: pare evidente che ella in tutta sicurezza poteva rallentare e fermare la corsa della vettura. Lo ha fatto proprio la vettura della Polizia municipale che era davanti a lei.
‘Verde’ al semaforo. L’automobilista, ancora lontano dall’incrocio, tiene la velocità, ma, una volta scattato il ‘giallo’, deve arrestare la propria vettura. A maggior ragione quando ha la possibilità di farlo in sicurezza, come testimoniato, in questo caso, dallo stop del veicolo della Polizia municipale gli era davanti. Legittimo, quindi, il verbale stilato dai vigili urbani (Cassazione, sentenza n. 11702/17, sez. VI Civile, depositata l’11 maggio).
Diligenza. Inutili anche in Cassazione le contestazioni mosse dall’automobilista sanzionata per «la prosecuzione della marcia nonostante la luce semaforica gialla». Inequivocabile il resoconto desumibile dal «verbale» relativo alla condotta imprudente tenuta dalla donna.
È stato accertato, difatti, che ella «aveva la possibilità di fermarsi in condizioni di sicurezza, tanto che i verbalizzanti, che la precedevano, si erano fermati». E comunque, annotano i magistrati, «l’automobilista che impegna un incrocio disciplinato da semaforo, ancorché segnalante a suo favore luce gialla, non è esonerato dall’obbligo di diligenza nella condotta di guida» che «pur non potendo essere richiesta nel massimo, stante la situazione di affidamento generata dall’indicazione semaforica, deve tuttavia tradursi nella necessaria cautela riconducibile all’ordinaria prudenza e alle concrete condizioni esistenti nell’incrocio».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Semaforo giallo, sanzionato il conducente che non ferma il veicolo - La Stampa

domenica 14 maggio 2017

Circonvenzione di incapace: contratto nullo anche senza giudizio penale

Il reato di circonvenzione di incapace punisce chi, "per procurare a sé o ad altri un profitto, abusando dei bisogni, delle passioni o della inesperienza di una persona minore, ovvero abusando dello stato d'infermità o deficienza psichica di una persona, anche se non interdetta o inabilitata, la induce a compiere un atto che importi qualsiasi effetto giuridico per lei o per altri dannoso" (art. 643 c.p.).
Qual è il regime giuridico del contratto concluso per effetto di una condotta di circonvenzione?
E' necessario che l'esistenza del reato sia stata riconosciuta nel giudizio penale o è sufficiente che sia accertata anche solo incidenter tantum dal giudice civile?
A queste domande risponde la Corte di Cassazione, Sezione Seconda Civile, con la sentenza 20 marzo 2017, n. 7081 con la quale procede a delineare in punto di diritto il perimetro applicativo delle fattispecie di cui all’art. 643 c.p. ed art. 428 c.c.
La quaestio iuris sottoposta al vaglio della Suprema Corte involge le sorti del contratto posto in essere per effetto di una condotta di circonvenzione di incapace, con particolare riferimento al configurarsi in capo al Giudice civile del potere di accertamento incidenter tantum dell’esistenza del reato nel giudizio di annullamento contrattuale.
La circonvenzione d’incapaci è un reato previsto dall’art. 643 c.p. e integrato quando “chiunque, per procurare a sé o ad altri un profitto, abusando dei bisogni, delle passioni o della inesperienza di una persona minore, ovvero abusando dello stato d’infermità o deficienza psichica di una persona, anche se non interdetta o inabilitata, la induce a compiere un atto che importi qualsiasi effetto giuridico per lei o per altri dannoso”.
Il delitto è inquadrato nel Codice Penale tra i reati contro il patrimonio ed il bene giuridico tutelato è da ravvisarsi più che nella tutela della incapacità del soggetto in sé e per sé considerata, nella tutela della autonomia privata quale libertà di autodeterminarsi in ordine alla stipula di contratti, e della libera esplicazione della attività negoziale delle persone in stato di menomazione psichica.
Diversa è l’ipotesi di annullamento del contratto ex art. 428 c.c., il quale dispone che:
 “1. Gli atti compiuti da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace di intendere o di volere al momento in cui gli atti sono stati compiuti, possono essere annullati su istanza della persona medesima o dei suoi eredi o aventi causa, se ne risulta un grave pregiudizio all' autore.
2. L' annullamento dei contratti non può essere pronunziato se non quando, per il pregiudizio che sia derivato o possa derivare alla persona incapace d' intendere o di volere o per la qualità del contratto o altrimenti, risulta la malafede dell' altro contraente.
3. L'azione si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui l' atto o il contratto è stato compiuto.”
La Suprema Corte pone in evidenza che la fattispecie di reato ex art. 643 c.p. e l’ipotesi civilistica di annullamento del contratto disciplinata dall’art. 428 c.c. hanno presupposti applicativi differenti: “L'ipotesi di annullamento disciplinata dall'art. 428 c.c. e la fattispecie di reato prevista dall'art. 643 c.p., hanno presupposti differenti, a tal punto che il giudicato formatosi sull'insussistenza dell'incapacità naturale richiesta per l'annullamento contrattuale ex art. 428 c.c., è inopponibile nel giudizio volto a far dichiarare la nullità del medesimo contratto per circonvenzione di incapace, atteso che, mentre l'art. 428 c.c., richiede l'accertamento di una condizione espressamente qualificata di incapacità di intendere e di volere, ai fini dell'art. 643 c.p., è, invece, sufficiente che l'autore dell'atto versi in una situazione soggettiva di fragilità psichica derivante dall'età, dall'insorgenza o dall'aggravamento di una patologia neurologica o psichiatrica anche connessa a tali fattori o dovuta ad anomale dinamiche relazionali che consenta all'altrui opera di suggestione ed induzione di deprivare il personale potere di autodeterminazione, di critica e di giudizio (così, di recente, Sez. 1, Sentenza n. 10329 del 19/05/2016).”
Qual è il regime giuridico del contratto concluso per effetto di una condotta di circonvenzione?
Al contratto posto in essere a seguito di una condotta penalmente rilevante di circonvenzione di incapace segue la sanzione penale e la nullità del contratto stesso.
Più in generale il contratto stipulato per effetto diretto della consumazione di un reato (nel caso di specie sottoposto all’attenzione della Suprema Corte trattasi di circonvenzione d'incapace, punito ex art. 643 c.p.) deve essere dichiarato nullo ai sensi dell'art. 1418 c.c., per contrasto con norma imperativa.
Ciò in quanto in tale condotta va ravvisata una violazione di disposizioni di ordine pubblico poste a tutela  delle più ampie e superiori esigenze di interesse collettivo sottese alla tutela penale, esigenze che trascendono quelle della mera salvaguardia patrimoniale individuale dei singoli contraenti perseguite dalla disciplina sulla annullabilità dei contratti (Sez. 2, Sentenza n. 2860 del 07/02/2008).
La Suprema Corte precisa che “la fattispecie incriminatrice della circonvenzione d'incapace prevista all'art. 643 c.p., (il cui scopo va ravvisato, più che nella tutela dell'incapacità in sè e per sè considerata, nella tutela dell'autonomia privata e della libera esplicazione dell'attività negoziale delle persone in stato di menomazione psichica) deve annoverarsi tra le norme imperative la cui violazione comporta, ai sensi dell'art. 1418 c.c., oltre alla sanzione penale, la nullità del contratto concluso in spregio della medesima (Sez. 2, Sentenza n. 1427 del 27/01/2004).”
E' necessario che l'esistenza del reato sia stata riconosciuta nel giudizio penale o è sufficiente che sia accertata anche solo incidenter tantum dal giudice civile?
Ai fini della declaratoria di nullità dell'atto dispositivo a contenuto patrimoniale, il Giudice civile è tenuto, ed al tempo stesso abilitato, ad accertare incidenter tantum l'effettiva sussistenza di tutti gli elementi costitutivi del reato,  incluso l’elemento soggettivo, pertanto valutandone incidenter tantum l’astratta configurabilità.
La Suprema Corte adduce a corredo di tale assunto argomentativo la circostanza che “a seguito della introduzione del nuovo testo dell'art. 295 c.p.c., per effetto della modifica introdotta con L. n. 353 del 1990, deve ritenersi non più operativo il riferimento all'art. 3 c.p.p. abrogato, con la conseguenza che, al principio della unità della giurisdizione e della prevalenza del giudizio penale, si è sostituito quello della autonomia e separazione tra i giudizi.”
Inoltre nel caso in cui il processo penale per il reato di circonvenzione di incapace, comportante il conseguimento di un ingiusto profitto a seguito della stipulazione di atti di compravendita, si concluda con una sentenza di assoluzione dell’imputato in ragione della sussistenza della causa di non punibilità di cui all'art. 649 c.p. (rapporti di parentela), l'azione volta al risarcimento del danno derivante da tale condotta illecita proposta dalla persona offesa in sede penale, può dallo stesso essere riproposta in sede civile e non trova ostacolo nella suddetta sentenza penale di assoluzione (Sez. 3, Sentenza n. 532 del 27/01/1986).

Fonte:www.altalex.com/Circonvenzione di incapace: contratto nullo anche senza giudizio penale | Altalex

Violenza sessuale: costituisce ''induzione'' qualsiasi forma di sopraffazione della vittima

 L’induzione necessaria ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale non si identifica solo con la persuasione subdola ma si...