giovedì 31 ottobre 2013

Al via i controlli sui conti correnti

Con la fine di ottobre scatta il controllo sui conti correnti. L'Anagrafe tributaria riceverà tutti i dati su saldo di inizio e fine anno, totale dei bonifici in entrata e in uscita, acquisti fatti con carta di credito, ricariche telefoniche, informazioni sui titoli e depositi. La riforma dell'Anagrafe tributaria, istituita nel 2006 ma che finora si limitava a raccogliere il numero dei conti correnti intestati ad ogni persona, è stata voluta nel 2011 dall'allora Governo Monti con il decreto legge Salva Italia per creare una rete antievasione. In realtà le banche stavano già raccogliendo da tempo quanto richiesto dal Governo ed entro oggi dovranno trasmettere l'enorme mole di informazioni al Fisco. I controlli partiranno dai dati del 2011, mentre l'anagrafe sarà aggiornata con i dati del 2012 già da marzo 2013, per i dati dell'anno in corso invece la trasmissione avverrà entro il 20 aprile 2014. Il nuovo database servirà a costruire i cosiddetti “elenchi di rischio”, indicando al Fisco la platea di soggetti su cui concentrare maggiormente verifiche e controlli. Per la trasmissione dei dati viene utilizzata una rete dedicata, criptata, tracciabile e con limitate possibilità di accesso. I dati sui conti correnti degli italiani, stimati in 600 milioni, potranno essere conservati al massimo per sei anni.

Fonte: http://fiscopiu.it/La Stampa - Al via i controlli sui conti correnti

Non risponde di reato di invasione di terreni pubblici il parcheggiatore abusivo

INVASIONE DI TERRENI PUBBLICI
Il reato di invasione di terreni o edifici è integrato soltanto dalla turbativa del possesso che realizzi un apprezzabile depauperamento delle facoltà di godimento del terreno o dell’edificio da parte del titolare dello ius excludendi, secondo quella che è la destinazione economico-sociale del bene o quella specifica ad essa impressa dal dominus.
 
Con sentenza del 3 giugno 2013 il Tribunale di Napoli si è pronunciato nei confronti di Tizio, accusato del reato di invasione di terreni pubblici ai sensi degli articoli 633 e 639 bis del codice penale. La Polizia Municipale di Napoli lo aveva sorpreso a svolgere l’attività di parcheggiatore abusivo, e per questo motivo gli aveva subito comminato una sanzione amministrativa e sequestrato il denaro provento dell’attività. Era seguito, poi, un procedimento penale, al termine del quale Tizio era stato assolto con formula piena per insussistenza del fatto.

Il Tribunale di Napoli è giunto a tale decisione seguendo un duplice ordine di motivazioni.

Innanzitutto alla luce della disciplina prevista dal Codice della Strada, che configura tale condotta come illecito amministrativo.

In secondo luogo, richiamando la consolidata giurisprudenza in materia che, ad un’attenta analisi degli elementi costitutivi del reato, esclude che il caso in esame possa essere ricondotto alla fattispecie normativa. Il reato di invasione di suolo pubblico richiede, in primo luogo, il dolo, che si esplica non solo nella coscienza e volontà di invadere un terreno altrui, ma anche nella consapevolezza dell’arbitrarietà di tale condotta.

Tale dolo deve essere specifico, poiché la condotta deve avere come scopo quello di trarre un profitto o di occupare il suolo stesso.

L’elemento soggettivo del reato parrebbe integrato nel caso di Tizio, ma in verità manca una caratteristica ritenuta fondamentale dalla giurisprudenza di legittimità: il carattere della permanenza.

La condotta di chi commetta il reato di invasione di suolo pubblico deve, infatti, corrispondere ad una concreta turbativa del possesso, ad un apprezzabile depauperamento della facoltà di godimento da parte del soggetto che abbia lo ius excludendi; è necessario, quindi, che chi commette tale reato ponga in essere un potere di fatto sul suolo pubblico, e non una semplice e precaria introduzione nello stesso; tale potere, inoltre, deve avere una durata apprezzabile e, perciò, carattere permanente.

Nessuno di tali elementi è ravvisabile nel caso di Tizio, poiché non sono dimostrati il carattere di permanenza e lo scopo di occupare parte del territorio del Comune di Napoli. Al contrario, paiono provati solamente i caratteri di precarietà dell’invasione e di occasionalità dell’utilizzo dell’area per lo svolgimento dell’attività di parcheggiatore abusivo.

Per questi motivi, il Tribunale di Napoli ha assolto Tizio non ritenendo provata la materialità del reato contestatogli.

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fonte: ilsole24ore//Non risponde di reato di invasione di terreni pubblici il parcheggiatore abusivo

Lavorare nella propria residenza con uso di adsl: è dipendenza aziendale

Con l’ordinanza  15 luglio 2013, n. 17347 della Sez. VI-Lavoro la Suprema Corte risolve la questione interpretativa circa il concetto giuridico di “dipendenza aziendale alla quale è addetto il lavoratore”, sposando una interpretazione estensiva della summenzionata espressione.

Il casus iuris sottoposto all’attenzione della Corte di Cassazione attraverso proposizione di regolamento di competenza è relativa all’impugnativa di una ordinanza con la quale il Tribunale di Locri ha declinato la propria competenza territoriale nella controversia proposta dal ricorrente nei confronti della azienda per conto della quale egli svolgeva la propria attività lavorativa  ed ha indicato come giudice competente il Tribunale di Firenze (nel cui circondario ha sede l’azienda farmaceutica convenuta).

Il ricorrente era stato assunto "con la qualifica di impiegato e con mansione di informatore scientifico del farmaco", con "zona di lavoro in Catanzaro, Reggio Calabria e relative province". A tal fine egli aveva, nella sua abitazione un computer, una stampante, un telefono, alcuni campioni e materiali di propaganda aziendali.

Nello specifico l’art. 413 c.p.c. individua il giudice territorialmente competente per le controversie di lavoro indicando tre fori speciali alternativi: il luogo in cui è sorto il rapporto, quello in cui si trova l'azienda, quello in cui si trova la dipendenza aziendale alla quale è addetto il lavoratore.

La Corte di Cassazione al fine della risoluzione della questione interpretativa sottopostale perviene ad una interpretazione estensiva della espressione “ dipendenza aziendale alla quale è addetto il lavoratore” in ragione di una duplice motivazione:

1.” In primo luogo, perchè ormai da tempo l'evoluzione dell'organizzazione del lavoro tende a rendere elastico il rapporto tra lavoro e luoghi e strutture materiali. Molti lavori, specie nei servizi, vengono svolti fuori dai luoghi tradizionali (l'azienda agricola, la fabbrica, l'ufficio, ecc.) e vengono svolti con l'ausilio di pochi mezzi e strumenti materiali. Molte persone lavorano a casa propria e solo con un "personal computer" e tuttavia lavorano alle dipendenze di una organizzazione aziendale, flessibile ma non per questo evanescente: si pensi alle penetranti possibilità di controllo dei tempi e dei contenuti della prestazione che un collegamento informatico consente. L'interprete nel valutare il concetto di dipendenza non può non tener conto di tale evoluzione.”

2. In secundis  in virtù della "ratio" dell'art. 413 c.p.c.. “Il legislatore del 1973 ha concepito le regole sulla competenza territoriale del giudice del lavoro guidato dalla finalità di coniugare il rispetto del principio del giudice naturale con la possibilità di rendere il meno difficoltoso possibile l'accesso alla giustizia del lavoro. Ha sicuramente usato come bussola il principio costituzionale sul diritto di difesa (art. 24 Cost.) e il particolare rispetto dovuto al lavoro, quale si evince da numerose norme della Costituzione, a cominciare dall'art. 1 e dall'art. 4 che riconosce il diritto al lavoro e impegna la Repubblica a "promuovere le condizioni che rendano effettivo questo diritto".

Ciò in ragione della scelta del Legislatore che è stato ispirato dal perseguimento di  un duplice obiettivo: in primis quello di offrire una molteplicità di soluzioni, individuando più fori alternativi, tra i quali il ricorrente può scegliere. Il secondo è relativo alla ratio dell'art. 413 c.p.c. Difatti il legislatore del 1973 ha concepito e disciplinato le regole sulla competenza territoriale del giudice del lavoro avendo come obbiettivo l’intento  di coniugare il rispetto del principio del giudice naturale con la possibilità di rendere il meno difficoltoso possibile l'accesso alla giustizia del lavoro. Ciò alla stregua e nel rispetto del diritto di difesa costituzionalmente garantito (ex art. 24 Cost.) nonchè il particolare rispetto conferito all’attività lavorativa , come si evince da numerose norme della Costituzione, in primis  dall'art. 1 Cost. e dall'art. 4  Cost. che riconosce il diritto al lavoro e impegna la Repubblica a "promuovere le condizioni che rendano effettivo questo diritto". Tali intenti ben possono essere perseguiti attraverso una disciplina legislativa che miri a “favorire il radicamento del foro speciale nel luogo della prestazione lavorativa".

Alla luce di quanto esposto la Corte di Cassazione risolve la quaestio iuris propostale con regolamento di competenza affermando che “sussiste la c.d. "dipendenza aziendale alla quale è addetto il lavoratore" anche nella residenza di quest'ultimo, quando questi svolga l'attività lavorativa in tale luogo, avvalendosi di strumenti destinati all'attività aziendale, individuati in genere in un "computer" collegato con l'azienda e nei relativi strumenti di supporto (stampante, adsl, ecc.). “

Più precisamente “tali elementi sono idonei a distinguere queste situazioni da quelle, concernenti i lavoratori parasubordinati di cui all'art. 414 c.p.c., n. 3, in cui il foro competente è individuato con il mero riferimento al domicilio del lavoratore, senza alcun bisogno che in tale luogo venga svolta l'attività lavorativa e sia individuabile una articolazione aziendale da intendersi comunque in senso lato, in armonia con la mens legis mirante a favorire il radicamento del foro speciale nel luogo della prestazione lavorativa. ”

fonte: Altalex.com//Lavorare nella propria residenza con uso di adsl: è dipendenza aziendale

mercoledì 30 ottobre 2013

I criteri di determinazione dell’assegno di mantenimento per il coniuge

L’istituto dell’assegno di mantenimento è disciplinato dall’articolo 156 del codice civile a mente del quale “il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a carico del coniuge cui non sia addebitabile la separazione, il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri”.

I presupposti che devono concorrere affinché il giudice conceda l’assegno di mantenimento sono sostanzialmente tre: la non addebitabilità della separazione al coniuge a cui favore viene disposto il mantenimento, la mancanza per il beneficiario di adeguati redditi propri, la sussistenza di una disparità economica tra i due coniugi.

La nozione di reddito
Occorre concentrarsi su cosa il legislatore abbia inteso riferendosi al concetto di “reddito”. Certamente il termine reddito è stato utilizzato nella sua accezione più ampia. Il riferimento va, innanzitutto, al denaro ma si intendono comprese anche altre utilità differenti dal denaro, purché economicamente valutabili (Cassazione civile n. 19291/2005; Cassazione civile n. 4543/1998; Cassazione civile n. 961/1992). A titolo esemplificativo, il giudice dovrà tener conto anche dei beni immobili posseduti, sia dal punto di vista del valore implicito che essi hanno, sia dal punto di vista del ricavato di una eventuale locazione o vendita degli stessi; dei crediti esigibili di cui il coniuge obbligato sia ancora titolare; dei risparmi investiti o produttivi; della disponibilità della casa coniugale, dei titoli di credito, delle partecipazioni in società, della titolarità di aziende. La reale difficoltà nell’applicazione di questo articolo risiede nell’esigenza di trovare un parametro in base al quale valutare l’inadeguatezza dei redditi propri di un coniuge.

Il tenore di vita in costanza di matrimonio
Per molto tempo si è ritenuto che il fondamento per l’erogazione dell’assegno di mantenimento fosse la necessità di assicurare al coniuge beneficiario un tenore di vita pari o almeno simile a quello che possedeva in costanza di matrimonio. Una impostazione di tale tipo era soggetta a diverse critiche e perplessità.
Innanzitutto, la prima è di ordine logico – pratico: ben si sa che la convivenza ha riflessi economicamente positivi. Vi è, di fatti, la possibilità di ammortizzare le spese, di dividerle equamente. Il mantenimento di un determinato tenore di vita risulta certamente più facile se a contribuire alle casse del nucleo familiare vi sono due soggetti, con due stipendi che si cumulano.

Nel caso di separazione, certamente le spese aumentano: basti pensare alla necessità, per il coniuge che non benefici della casa coniugale, di cercarsi una nuova sistemazione, con le conseguenti spese per l’affitto e per la gestione dell’alloggio. È ovvio che, in una situazione di tale tipo, caratterizzata da un sicuro aumento delle spese, non sarà facilmente ipotizzabile la possibilità di mantenere lo stesso standard di vita che si aveva in regime di comunione. E questo vale sia per il coniuge obbligato che per il coniuge beneficiario. Se si accetta questa ricostruzione, non si può non notare come sarebbe eccessivamente penalizzante per il coniuge obbligato assicurare al coniuge beneficiario il medesimo stile di vita che si conduceva durante il matrimonio.
Inoltre, si devono considerare le ipotesi in cui i coniugi, in costanza di matrimonio, avevano un tenore di vita eccessivo rispetto alle proprie possibilità: anche in questa ipotesi sarebbe depenalizzante imporre al coniuge obbligato di assicurare che il coniuge beneficiario conservi il medesimo tenore di vita, proprio perché eccessivo.

Ancora, ben può accadere che i coniugi decidano di avere un tenore di vita ridotto, minore alle proprie potenzialità, per esempio investendo e risparmiando capitale; in questa ipotesi, la regola del mantenimento del medesimo tenore di vita suona quanto mai iniqua, in questo caso a sfavore del coniuge beneficiario (Cassazione civile n. 3490/1998).

Verificare i mezzi a disposizione di ciascuno
La giurisprudenza, in tempi recenti, ha provveduto a individuare un parametro di riferimento sicuramente più corretto: “il giudice di merito deve anzitutto accertare il tenore di vita dei coniugi durante il matrimonio, per poi verificare se i mezzi economici a disposizione del coniuge gli permettano di conservarlo indipendentemente dalla percezione di detto assegno e, in caso di esito negativo di questo esame, deve procedere alla valutazione comparativa dei mezzi economici a disposizione di ciascun coniuge al momento della separazione” (Cassazione civile 12.06.2006 n. 13592).

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fonte: ilsole24ore//I criteri di determinazione dell’assegno di mantenimento per il coniuge

Fa causa allo Stato per dividere la Sicilia. La Corte gli dà torto perché si presenta senza avvocato

Corte di cassazione - Sezione I civile - Sentenza 9 luglio-30 ottobre 2013 n. 24517
   
Ricorso su ricorso arrivano fino in Cassazione le velleità secessioniste di un uomo che si è  autoproclamato "reggente provvisorio" di un nuovo stato, nato dalla separazione in due della Sicilia. Tanto che gli ermellini hanno dovuto pronunciarsi in punta di diritto sulla causa intentata da un signore siciliano contro lo Stato per dividere l'isola in due.  

Giuseppe Mignemi, questo il nome dell'ardimentoso ricorrente, ha portato in tribunale un prefetto e un magistrato della Corte dei Conti per ottenere "la condanna dello Stato italiano alla spartizione della Sicilia in due zone", la Sicilia orientale, "indipendente e neutrale", e quella orientale, "autonoma a statuto incompleto da sessant'anni per ostruzionismo e complotto politico del governo unitario accentrato a Roma".  

 La Suprema Corte ha potuto togliersi dall'imbarazzo di pronunciarsi sulla divisione o di rinviare alla Consulta, come richiesto in subordine dal Mignemi, per il fatto che ai tre gradi di giudizio l'uomo si è presentato senza un difensore. Cosa impossibile secondo il codice di procedure penale.  

 Nella sentenza pubblicata oggi, la 24517 della Sesta Sezione Civile, viene riassunto punto per punto il piano. Il ricorrente chiedeva che in via giudiziaria fosse riconosciuta la condanna dell'Italia a comunicare alle Nazioni Unite la sentenza, affinchè la comunità internazionale potesse inviare degli ispettori per accompagnare la transizione. Lui stesso si sarebbe riconosciuto reggente provvisorio della Sicilia orientale e dopo sei mesi avrebbe proclamato le elezioni. Il nuovo stato sarebbe stato fuori dalla moneta unica, e le tasse sarebbero confluite nelle casse del "Nuovo Stato Sovrano", in pace con il resto del paese. Chiede anche alla Cassazione di riconoscere l'ordine di sfratto alla base navale dei Sigonella, che sarebbe diventata un aeroporto civile. Il ricorso si conclude con la richiesta di citazione dell'ex presidente della Regione Raffaele Lombardo e dell'ex premier Silvio Berlusconi, nonchè del presidente degli Stati Uniti Barack Obama.

    Del caso si era occupato in prima istanza il giudice di pace che aveva dichiarato la carenza di legittimità di Mignani a muovere la causa. Mentre il Tribunale di Catania, pronunciatosi in Appello, ne aveva dichiarato l'impossibilità di costituirsi personalmente, senza un avvocato. Tesi su cui si basa anche la sentenza della Cassazione che offre una disamina precisa dei casi in cui è possibile presentarsi senza avvocati e le varie pronunce a suffragio. La presenza di un avvocato è necessaria, scrive la Suprema Corte, da un lato per la complessità delle norme e il tecnicismo nella redazione degli atti che richiedono la preparazione di un tecnico, dall'altro perchè la "collaborazione di un espero serve a filtrare il processo dalle emozioni e dalla passionalità dei diretti protagonisti delle lite e che potrebbero privarli delle necessaria lucidità". (Fonte: Ansa)

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fonte: ilsole24ore//Fa causa allo Stato per dividere la Sicilia. La Corte gli dà torto perché si presenta senza avvocato

Si para davanti al motorino: lo stop forzato è violenza privata

Come definire la strada? Forse ‘Far west’ in salsa moderna... Perché lì, in Italia, (quasi) tutto sembra essere consentito, e sempre lì le regole, in fondo, più che rispettate, vengono interpretate a seconda dei casi. Ciò nonostante, però, anche un comportamento scorretto all’apparenza lieve – per la precisione, fermare, colla propria presenza, la marcia di un motorino – può essere valutato come gravissimo, tanto da essere sanzionato come «violenza privata» (Cassazione, sentenza 23945/13).Ad adottare la linea dura sono, innanzitutto, i giudici di primo e secondo grado: questi ultimi, difatti, sanciscono la condanna, nei confronti di un uomo, «per i delitti di violenza privata e minacce». Casus belli è un ‘faccia a faccia’ stradale, caratterizzato non solo da comportamenti discutibili ma anche da parole ‘pesanti’. Per l’uomo finito sotto accusa – e che ora ricorre per cassazione –, però, la valutazione dell’episodio è stata eccessiva: a suo avviso non si può parlare di «violenza privata» per l’essersi semplicemente posto dinanzi a un motorino, bloccandone la marcia. Tale osservazione, però, viene ritenuta erronea dai giudici del Palazzaccio, i quali ricordano che si può parlare di «violenza privata» anche di fronte a una «minaccia, ancorché non esplicita, che si concreti in un qualsiasi comportamento o atteggiamento idoneo ad incutere timore». E tale è catalogabile, sempre secondo i giudici, l’azione dell’uomo, «paratosi» dinanzi un motorino, tanto da impedirne la prosecuzione della marcia. Peraltro, a dare forza a questa visione, aggiungono in conclusione i giudici – confermando la condanna emessa in Appello –, anche il ricorso, da parte dell’uomo, alla espressione «...avrebbe saputo lui come fargliela pagare»: si può parlare, a ragion veduta, di «minacce aggravate», essendo evidente l’ipotesi del «danno ingiusto» e del relativo «timore» provocato nei confronti della persona destinataria della frase.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Si para davanti al motorino: lo stop forzato è violenza privata

lunedì 28 ottobre 2013

“Ignorante”: il docente apostrofa la collega. Critica professionale? No, ingiuria

Piccoli pilastri resistono... Come le sane regole della convivenza civile, che impongono un adeguato contegno, e che, se violate, possono legittimamente condurre a una sanzione penale. Esemplare la condanna comminata nei confronti di un docente che ha apostrofato in malo modo una collega di lavoro durante un consiglio di classe (Cassazione, sentenza 9318/13). A scatenare la bagarre sono alcune frasi, per nulla gentili, pronunciate da un docente nei confronti di una collega durante un consiglio di classe. Gli epiteti utilizzati non paiono clamorosamente offensivi, ma sono sicuramente lontani dal concetto di complimento: nell’ordine, “imbecille, ignorante, cretina, tonta”. Basta, e avanza, secondo i giudici, per una condanna, nei confronti dell’uomo, per il reato di ingiuria: questa la linea seguita non solo dal Giudice di pace ma anche dal Tribunale. Lapalissiana l’offesa nei confronti della donna. Ma l’uomo ritiene comunque necessario proseguire la battaglia giudiziaria, proponendo ricorso per cassazione e chiedendo una ‘rivalutazione’ più lieve delle parole utilizzate nei confronti della collega. Più precisamente, il docente sostiene che egli «stava esponendo una strategia rieducativa motoria» che la collega mostrava di non condividere «con argomentazioni incongrue»: di conseguenza, il termine “ignorante” era da intendere come «difetto di competenze e conoscenze nel campo delle strategie didattiche, che un docente ha il dovere giuridico, istituzionale e deontologico di possedere». Secondo l’uomo, quindi, più che di offesa si poteva parlare di critica professionale. Ma questa visione viene ritenuta assolutamente non legittima dai giudici di Cassazione, i quali, invece, ritengono prevalente il contesto di «sprezzante aggressività» creato dall’uomo, e caratterizzato non solo dagli epiteti ‘incriminati’ ma addirittura anche da «critiche all’aspetto fisico della donna». Ciò emerge dalla chiara ricostruzione dell’episodio, che consente di evidenziare che l’uomo «non si è limitato a una improvvida e smodata lezione di strategia didattica nei confronti della collega, che gli appariva inadempiente al dovere giuridico, istituzionale, deontologico di conoscenza della materia, ma si è spinto in assolutamente ingiustificabili aggressioni, dai connotati brutali e mortificanti, sulle complessive qualità intellettive e conoscitive della donna», così venendo meno al doveroso «rispetto delle «elementari regole di civile convivenza».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - “Ignorante”: il docente apostrofa la collega. Critica professionale? No, ingiuria

Con l’assegno divorzile spetta anche una quota del Tfr


L'art. 12 bis della legge sul divorzio stabilisce che “il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze ed in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell'art. 5, ad una percentuale dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro all'atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l'indennità viene a maturare dopo la sentenza. Tale percentuale è pari al 40% dell'indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio”. Tale percentuale è pari al 40% dell'indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio”.

Ristabilire una condizione di uguaglianza
Il legislatore con tale disposizione ha inteso eliminare gli eventuali effetti negativi e  ristabilire una condizione di uguaglianza sostanziale tra gli ex coniugi anche dopo la dissoluzione del vincolo coniugale
La disposizione prevede tre presupposti necessari affinchè sorga il diritto in capo al potenziale beneficiario. Essi sono:
- il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio;
- il mancato passaggio a nuove nozze;
- la titolarità dell'assegno divorzile.
La dottrina prevalente tende ad attribuire alla norma una portata estensiva, fino a ricomprendervi sia il trattamento di fine rapporto che l'indennità di buona uscita del pubblico impiego; oltre che le varie liquidazioni che spettano al lavoratore, anche parasubordinato, a seguito della cessazione del lavoro.

La quota di indennità di fine rapporto da destinarsi al coniuge più debole può essere intesa come una parte di retribuzione destinata al sostentamento nel nucleo familiare durante la convivenza dei coniugi, percepita in forma differita.

La morte del coniuge ed i soggetti obbligati
Nel caso in cui si verifichi il decesso del coniuge obbligato nelle more fra la cessazione del rapporto di lavoro e la effettiva corresponsione, assistiamo alla sostituzione del soggetto obbligato: non più il coniuge defunto ma gli eredi dello stesso.
Se invece il rapporto di lavoro si estingue proprio per la morte del lavoratore - coniuge divorziato, viene ad instaurarsi un conflitto tra l'art. 12 bis esaminato e l'art. 2122 c.c. che indica una diversa distribuzione delle somme a più soggetti titolari.
La quantificazione della quota di indennità di fine rapporto è basata su un calcolo matematico, le cui poste sono rappresentate dalla durata del matrimonio, dalla durata del rapporto di lavoro e dalla loro coincidenza.
La norma, come detto, fonda la sua ragione d'essere nella solidarietà a favore del coniuge più debole economicamente che ha contribuito all'incremento del patrimonio familiare ed il cui apporto anche dopo lo scioglimento del matrimonio deve trovare adeguata remunerazione, seppure percepita in forma differita.

Un credito che sorge in via progressiva
A giudizio dello scrivente si tratta di un diritto di credito che sorge in via progressiva durante il rapporto matrimoniale la cui esigibilità è differita ad un periodo successivo all’eventuale divorzio e sottoposto alla condizione sospensiva dell’esistenza dei presupposti per il percepimento dell’assegno divorzile.
In ossequio al principio solidaristico che lega i coniugi e che non si esaurisce  in toto con il divorzio la norma tende a valorizzare il contributo  che il coniuge  più debole normalmente continua a fornire durante il periodo di separazione, soprattutto nel caso in cui sia affidatario di figli minori, e nel contempo ancorando il periodo di riferimento ad un dato giuridicamente certo ed irreversibile, quale la durata del matrimonio.

Quando matura il diritto
Il diritto del coniuge più debole a percepire una quota del trattamento di fine rapporto lavorativo percepito dall'altro coniuge, può essere attribuito con lo stesso provvedimento determinativo dell'assegno di divorzio, visto che, se il diritto alla quota permane anche se l'indennità viene a maturare dopo la sentenza di divorzio, secondo il tenore letterale della norma, tale diritto deve conseguentemente riconoscersi pure nel caso in cui l'indennità sia maturata prima di detta sentenza, quando ovviamente al coniuge non è stato ancora attribuito in modo definitivo (con sentenza passata in giudicato) l'assegno divorzile.

Il diritto alla quota sorge solo se il trattamento spettante all'altro coniuge sia maturato successivamente alla proposizione della domanda introduttiva del giudizio di divorzio, e quindi anche prima della sentenza di divorzio, e non anche se esso sia maturato e sia stato percepito in data anteriore, come in pendenza del giudizio di separazione potendo in tal caso la riscossione della indennità incidere solo sulla situazione economica del coniuge tenuto a corrispondere l'assegno ovvero legittimare una modifica delle condizioni stabilite in separazione e/o divorzio (Cass. Civ. 29 settembre 2005, n. 19046).

Anticipo sul Tfr
È bene ricordare che per la Cassazione, il coniuge titolare dell'assegno di divorzio non ha diritto a conseguire una quota dell'anticipo del trattamento di fine rapporto (lavorativo) spettante all'altro coniuge, quando il coniuge obbligato al versamento dell'assegno abbia percepito un anticipo sull'indennità prima di tale data: l'anticipo predetto, invero, previsto dall'art. 2120 c.c., una volta che sia stato accordato dal datore di lavoro e sia stato riscosso dal lavoratore, entra nel suo patrimonio e non può essere revocato, determinando la definitiva acquisizione del relativo diritto.

Concorso tra coniuge divorziato e superstite
Riguardo al trattamento di fine rapporto, in caso di concorso tra coniuge divorziato e coniuge superstite, la somma dovuta all'ex coniuge, ai sensi dell'art. 12 bis legge sul divorzio, deve essere determinata tenendo conto dell'intera somma percepita dall'ex coniuge e dal coniuge superstite, quale essa risulta maturata a titolo di capitale, con l'aggiunta degli interessi e rivalutazione monetaria; nel caso di morte di persona divorziata e passata a nuove nozze, il Tfr. spettante agli eredi del de cuius si divide tra coniuge divorziato e coniuge superstite in base alla durata del rispettivo rapporto matrimoniale, ma apportando al risultato opportuni correttivi, fondati su ulteriori elementi, quali l'ammontare dell'assegno goduto dal coniuge divorziato prima del decesso dell'ex coniuge, le condizioni dei soggetti coinvolti nella vicenda, o l'eventuale esistenza di un periodo di convivenza prematrimoniale del secondo coniuge.
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Illegittimo il concorso per vigile riservato al personale interno

Consiglio di Stato - Sezione V - Sentenza 26 marzo-7 ottobre 2013 n. 4919

La figura professionale del vigile urbano non è oggettivamente sussumibile tra quelle per cui è possibile derogare, in ragione della necessità di garantire particolari profili o figure professionali con esperienza all'interno dell'ente (articolo 91 del Tuel), al regime ordinario dei concorsi pubblici aperti agli esterni. L'effettuazione di una selezione concorrenziale in caso di mansioni di agente di pubblica sicurezza risulta, anzi, lo strumento più idoneo all'individuazione del soggetto più qualificato. Questi i profili di principio di maggior rilievo giuridico sanciti da Consiglio di Stato decisione n. 4919 del 7 ottobre 2013.

La vicenda
Un privato presenta istanza di partecipazione a un concorso relativo un posto di istruttore, categoria C1, servizio di polizia municipale, ma è escluso poiché il Comune sostiene che si tratta di una selezione riservata al solo personale interno.
Il ricorso al Tar
Il candidato escluso ricorre al Tar, il quale accoglie il gravame, chiarendo che l'indizione di selezioni, riservate in via esclusiva al personale già in servizio, è ammissibile solo qualora sia comunque garantito l'accesso anche agli esterni, essendo il concorso pubblico la forma generale e ordinaria di reclutamento di dipendenti. In particolare, il Tar, ritiene non applicabile la norma regolamentare comunale che riserva il 35% dei posti al personale interno. Di conseguenza, dichiara illegittima l'assegnazione in favore dell'unico partecipante, già dipendente dell'ente.
Il vincitore del concorso ricorre al Consiglio di Stato, chiedendo la riforma della sentenza di primo grado. Vediamo, pertanto, i contenuti espressi nella decisione 4919/2013.

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sabato 26 ottobre 2013

Nella notte torna l'ora solare. Grazie a quella legale sono stati risparmiati 94 milioni di euro di elettricità

Dopo 120 giorni di ora legale, nella notte fra sabato 26 e domenica 27 ottobre torna l'ora solare. L'ora legale tornerà il prossimo 30 marzo 2014. Secondo quanto rilevato da Terna, durante il periodo di ora legale, iniziato il 31 marzo 2013, grazie proprio a quell'ora quotidiana di luce in più che ha portato a posticipare l'uso della luce artificiale, l'Italia ha risparmiato complessivamente 568,2 milioni di kilowattora (613 milioni di kWh il minor consumo del 2012), un valore pari al consumo medio annuo di elettricità di 210.000 famiglie.

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Caso Maisano: no al "carcere duro" per i boss affetti da gravissime malattie

Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 1°-25 ottobre 2013 n. 43890

   No al “carcere duro” per i boss affetti da diverse e gravi patologie invalidanti. Lo ha stabilito una sentenza della   Cassazione che oggi ha accolto il ricorso di Filiberto Maisano, 81   anni, ritenuto un capomafia della 'ndrangheta reggina, per il quale  l'allora ministro Giustizia Angelino Alfano nel dicembre 2010 dispose  il regime carcerario del 41-bis. Maisano è detenuto nel carcere di Novara e si è rivolto alla Cassazione per chiedere di modificare la misura cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari "per  gravi motivi di salutè". Piazza Cavour ha accolto il suo ricorso e ha  disposto un nuovo esame davanti al Tribunale della Libertà di Reggio Calabria.

   In particolare, la Suprema Corte sottolinea che ''le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità'' e  che anche quando si è in presenza di esponenti di spicco della criminalità, è necessario equilibrare '' le esigenze di giustizia,  quelle di tutela sociale con i diritti individuali riconosciuti dalla  Costituzione". Maisano, come sottolinea la sentenza 43890, presenta ''un quadro patologico serio caratterizzato da patologie cardiache,  artrosiche, discali e neurologiche" che nel tempo lo hanno portato  anche alla depressione.

La Cassazione, accogliendo il ricorso di Filiberto Maisano, ricorda che il nostro ''ordinamento penitenziario'' prevede   che le pene non possano ''consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e che devono tendere alla rieducazione del condannato'',   attenendosi sempre al principio che ''quello alla salute è diritto  fondamentale dell'individuo''.    

Piazza Cavour ricorda che ''è nel rispetto di un siffatto quadro normativo che il legislatore, pur nel contesto nazionale di   fenomeni diffusi e radicati di criminalità organizzata di estremo   allarme socio-economico, fenomeni sconosciuti ai maggiori Paesi   occidentali, ha articolato una disciplina della carcerazione   preventiva attraverso la quale equilibrare le esigenze di giustizia,   quelle di tutela sociale con i diritti individuali riconosciuti dalla  Costituzione”.        

 A Filiberto Maisano il tribunale della libertà di Reggio Calabria lo scorso 20 marzo aveva negato la modifica della misura   cautelare in carcere con quella dei domiciliari ritenendo che le   patologie di cui era affetto, pure se serie, potessero essere curate   in carcere. Contro il no ai domiciliari la difesa di Maisano ha fatto   ricorso con successo in Cassazione sostenendo che ''il diritto alla   salute del detenuto è prevalente anche sulle esigenze di sicurezza”'.

Piazza Cavour ha giudicato il ricorso ''fondato''. In particolare, la prima sezione penale sottolinea che ''e' fatto  divieto di disporre o mantenere la medesima custodia carceraria in costanza di persona affetta da malattia particolarmente grave tale da  rendere le sue condizioni di salute incompatibili con lo stato  detentivo ovvero non adeguatamente curabili''. Anche in quest'ultima  ipotesi, evidenzia il relatore Francesco Maria Bonito, ''la ricorrenza di esigenze cautelari di 'eccezionale rilevanza' giustificano forme  detentive ma soltanto di minore rigore (arresti domiciliari in luogo  di cura)''.

      Nel caso in questione la Cassazione fa notare che Maisano è ''persona ultra 80enne affetto da un complesso patologico di sicuro  rilievo, di forte incidenza individuale, sicuramente debilitante di  essenziali funzioni vitali: l'apparato cardiovascolare, quello  articolare deputato alla deambulazione, quella neurologica incidente  direttamente sulla percepibilità della funzione emendativa della pena e quella, infine, psicologica, essenziale per la condizione stessa  della vivibilità quotidiana''.  (Fonte: Adnkronos)

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Caso Maisano: no al "carcere duro" per i boss affetti da gravissime malattie

venerdì 25 ottobre 2013

Piatto e cucchiaino giù dal balcone, per colpire l’aggiudicatario della sua casa: 300 euro di danni morali

Il Tribunale ha motivatamente e logicamente valorizzato il pregiudizio morale derivante dalla manifestazione di disprezzo e, dunque, dal discredito, insiti nella condotta. Le motivazioni del gesto? Ritorsione per l’affronto della persona offesa che, partecipando ai pubblici incanti, si era aggiudicato l’immobile dell’imputato stesso. Con la sentenza 23051/13 la Cassazione ha confermato la responsabilità penale dell’imputato.

Il caso
Lancio del piatto … e del cucchiaino. Un uomo di quasi 70 anni viene condannato per il reato di getto pericoloso di cose, ex art. 674 c.p.. Deve pagare 300 euro a titolo di danni in favore della persona offesa, che, pur non colpita, era stata bersaglio del lancio di un piatto e di un cucchiaino da parte dell’imputato, dal balcone di casa. Il condannato ricorre per cassazione, dolendosi della mancata considerazione di alcune testimonianze, tra cui quella della moglie, secondo le quali sarebbe stata proprio la donna a far cadere accidentalmente le stoviglie, essendo obbligata a lavarle in balcone per una disfunzione dei rubinetti interni alla casa. Anche a ritener provata la condotta, non provati sarebbero i danni. Si lamenta poi dell’ammontare esagerato della rifusione delle spese processuali in favore della parte civile, pari a 1.600 euro. La Suprema Corte rileva che il ricorrente si è limitato a riportare soltanto alcuni passaggi della testimonianza della donna, senza dare così modo di valutarne, in sede di legittimità, la decisività. Gli Ermellini ricordano poi che la valutazione del giudice di merito, circa la liquidazione del danno morale, «non può essere analitica, ma è rimessa, in via equitativa, al suo prudente apprezzamento». In maniera logica, in questo caso, il Tribunale ha «valorizzato il pregiudizio morale derivante dalla manifestazione di disprezzo e, dunque, dal discredito, insiti nella condotta di getto di cosa posta in essere». L’imputato ha così reagito ritenendo di aver subìto un affronto: il suo bersaglio si era infatti aggiudicato, ai pubblici incanti, la sua casa. La Cassazione conferma quindi la responsabilità dell’uomo, ma annulla la sentenza impugnata nella parte in cui ha determinato in 1.600 euro le spese giudiziali da liquidare in favore della parte civile, poiché non ne ha dato congrua giustificazione.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it //La Stampa - Piatto e cucchiaino giù dal balcone, per colpire l’aggiudicatario della sua casa: 300 euro di danni morali

Con l’assoluzione l’auto in leasing sequestrata torna all’imputato

Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 24 ottobre 2013 n. 43541

L’assoluzione da un reato che ha previsto il dissequestro del bene in leasing impone che il bene stesso debba rimanere nella disponibilità dell’imputato assolto e non tornare alla società di leasing. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 43541/2013, chiarendo però che il mezzo per riottenere l’auto non può essere l’impugnazione ma l’incidente di esecuzione.

Secondo la Suprema corte, infatti: “Qualora la cosa sottoposta a sequestro preventivo sia stata successivamente restituita all’avente diritto, individuato in un soggetto diverso da quello che aveva la disponibilità della cosa al momento del sequestro, quest’ultimo, a seguito del venir meno del vincolo sulla cosa, perde interesse alla impugnazione, che deve pertanto essere dichiarata inammissibile, non potendo il medesimo conseguire, per effetto dell’eventuale accertamento della illegittimità del sequestro, il ripristino della disponibilità del bene, essendone impedito dal distinto provvedimento di restituzione, aggredibile attraverso incidente di esecuzione”.

A questo punto, si impone l’annullamento con rinvio dell’ordinanza che ha deciso diversamente. Il giudice dovrà tenere conto del fatto che “non si discute più del dissequestro, non contestabile e non contestato”, ma in qualità del giudice dell’emesso provvedimento “specificherà se lo stesso è stato correttamente eseguito”. Se nel frattempo la sentenza assolutoria fosse passata in giudicato, allora interverrà in funzione di giudice dell’esecuzione. Se non vi è stato accordo e le parti ancora controvertono sul diritto alla restituzione, potrà sempre rimettere la questione al giudice civile.
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fonte: ilsole24ore//Con l’assoluzione l’auto in leasing sequestrata torna all’imputato

Alcol, anche il tamponamento preclude la pena sostitutiva

Corte costituzionale - Sentenza 24 ottobre 2013 n. 246

Non si può accedere alla pena sostitutiva del lavoro socialmente utile se condannati per aver guidato in stato di ebbrezza si sia causato un incidente, anche senza esiti letali o con danni alle persone. Lo ha stabilito la Corte costituzionale, rigettando per manifesta infondatezza l'eccezione di costituzionalità sollevata dal tribunale di Prato in un caso, appunto, di incidente stradale causato da un uomo alla guida sotto effetto di alcol, "con l'aggravante - si legge - di aver commesso il fatto dopo le ore 22 e prima delle ore 7".

Il motivi del ricorso
Il tribunale aveva espresso dubbi sulla costituzionalità dell'articolo 186 nella parte in cui consente, per il reato di guida sotto l'influenza dell'alcool, la sostituzione della pena pecuniaria e detentiva con quella del lavoro di pubblica utilità "solo al di fuori -si legge - dei casi previsti dal comma 2-bis del presente articolo".  In particolare, il rimettente riteneva che la norma impugnata violasse l’art. 3 Cost., “in quanto, precludendo l’accesso al lavoro di pubblica utilità in ogni caso in cui il conducente in stato di ebbrezza abbia cagionato un incidente stradale, equipara e disciplina in modo eguale fattispecie diverse, come quella in cui la condotta imprudente abbia determinato un lieve tamponamento con danni alle cose o, al limite, alla sola persona dello stesso conducente e quella di un grave sinistro stradale con esiti letali o con danni arrecati alle persone”.

La motivazione della Consulta
La Corte, invece, rileva che "non si riscontra alcuna irragionevolezza intrinseca nella scelta del legislatore di escludere la possibilità di sostituire la pena detentiva e pecuniaria irrogata per il reato di guida in stato di ebbrezza con quella del lavoro di pubblica utilita'".

Secondo la Consulta "la ratio dell'aggravante è da ricercarsi nella volontà del legislatore di punire più gravemente qualsiasi turbativa delle corrette condizioni di guida, in quanto ritenuta potenzialmente idonea a porre in pericolo l'incolumità personale dei soggetti e dei beni coinvolti nella circolazione a causa della strutturale pericolosità connessa alla circolazione dei veicoli che richiedono una particolare abilitazione alla guida"; e, infine, "la previsione di limiti all'applicazione di sanzioni sostitutive è, come si è detto, valutazione che spetta al legislatore, e che la scelta di non distinguere, ai fini dell'operatività della preclusione, in funzione della gravità dell'incidente sembra corrispondere a un criterio di prevenzione generale non irragionevole".
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giovedì 24 ottobre 2013

Etilometro a 2,7 g/l, non indispensabile il secondo rilevamento: è talmente ubriaco da non riuscire a farlo

L’accertamento del tasso alcoolemico non deve essere dimostrato necessariamente con l’etilometro. Lo stato di ubriachezza può essere dimostrato anche tramite elementi sintomatici: i carabinieri hanno riscontrato un’eclatante manifestazione di ebbrezza dall’andatura irregolare dell’autocarro e dall’incapacità di stare in piedi del guidatore. Con la sentenza 23306/13 la Cassazione ha confermato la condanna.

Il caso: tasso alcoolemico da 2,71 g/l alla guida di un autocarro. Dopo essere stato assolto in primo grado, un uomo di 30 anni viene condannato dalla Corte d’Appello per aver guidato ubriaco un autocarro. L’etilometro ha riscontrato un livello alcoolemico pari a 2,71 g/l: contravvenzione, con sospensione di patente di guida, ex art. 186, comma 2, lett. c), codice della strada. L’uomo ricorre per cassazione, dolendosi del fatto che la propria responsabilità penale sia stata dedotta senza che fosse stata compiuta la necessaria doppia misurazione. L’accertamento dell’ubriachezza può essere fatto anche su base sintomatica. La Suprema Corte ribadisce che, «in difetto della prova legale, ma valendo il principio del libero convincimento del giudice in materia di valutazione della prova, l’accertamento del tasso alcoolemico può essere dimostrato con qualsiasi mezzo e non necessariamente con l’etilometro». A seguito della modifica apportata all’art. 186 da parte del d.l. n. 92/2008, lo stato di ebbrezza, accertato con ogni mezzo e quindi anche su base sintomatica, può essere riferito non solo all’ipotesi più lieve di cui alla fascia a), già depenalizzata, ma anche alle ulteriori e più gravi ipotesi, «ove si dimostri che la condotta dell’agente a talune di queste sia riconducibile, al di là di ogni ragionevole dubbio». La ratio normativa è finalizzata a «contrastare il correlativo aumento della pericolosità per l’incolumità degli altri utenti della strada insita nella circolazione di veicoli guidati da chi si trovi in stato di ebbrezza». E’ vero che l’unica rilevazione effettuata con l’etilometro non soddisfa le prescrizioni di prova legale dettate dall’art. 379 del regolamento di esecuzione del codice della strada, che prevede la doppia misurazione a distanza di 5 minuti l’una dall’altra, ma la corte territoriale correttamente ha ritenuto come ragionevolmente plausibile che il successivo accertamento, reso peraltro impossibile dalle condizioni fisiche dell’imputato, avrebbe dato un esito certamente superiore a 1,5 g/l. Tale deduzione è stata correttamente fatta sulla base del riscontro dei Carabinieri, che hanno evidenziato un eclatante stato di ebbrezza: l’autocarro procedeva ad andatura irregolare, fermandosi in mezzo alla strada non essendo in grado di impegnare un’intersezione stradale, e il guidatore pronunciava frasi sconnesse senza essere in grado di reggersi sulle gambe. Per queste ragioni la Corte rigetta il ricorso, confermando la responsabilità penale dell’uomo.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Etilometro a 2,7 g/l, non indispensabile il secondo rilevamento: è talmente ubriaco da non riuscire a farlo

SEPARAZIONE - No alla restituzione delle somme percepite erroneamente dalla ex

Con la sentenza in esame, la Suprema Corte conferma il proprio orientamento, teso a considerare “le somme incassate dal coniuge” in forza di un provvedimento presidenziale di separazione, di fatto, non ripetibili in assoluto; anche se, come nel caso di specie, corrisposte, sull’erroneo presupposto della convivenza dei figli con la madre, mentre questi si trovati a vivere con il padre, tanto da portare il Giudice di merito alla “revoca con decorrenza retroattiva” del provvedimento che statuiva il contributo.

Ancora una volta, la Corte di Cassazione si trova ad dover esaminare la doglianza di un marito onerato di un contributo “di mantenimento” disposto a suo carico, ed in favore della moglie o dei figli, contributo poi, alla luce degli accertamenti svolti dal giudice del processo, ri-considerato “coma mai dovuto” e quindi “retroattivamente revocato”.

È bene ricordare come la questione di fondo sia costituita dal fatto che il provvedimento con il quale il giudice del merito dispone la “retroattività” della statuizione economica, (disposizione che i giudici del merito continuano correttamente ad emettere) inserisce nelle dinamiche delle parti della separazione, da un lato la corretta aspettativa di ottenere quanto “erroneamente” versato in precedenza, e dall’altra la “preoccupazione” di dover restituire, un importo, che si sostiene, sia stato già speso per le esigenze della famiglia.

Tale ultimo “argomento” è stato poi considerato assorbente, sin dalle prime dalle sentenze di Cassazione che si sono occupate della questione (Cass. 18.09.91 nr. 9728, Cass. 23.04.1998 nr. 4198, Cass. 5.10.99 nr. 11029), che hanno rilevato come il fatto che “l’assegno provvisorio è ontologicamente destinato ad assicurare i mezzi adeguati al sostentamento del beneficiario” porti di conseguenza “tali somme si presumono consumate per il suo sostentamento”.

IL CASO

Nel caso in commento veramente singolari appaiono due circostanze, la prima è quella, di non poco momento, per la quale lo stesso Pubblico Ministero si era trovato a concludere, cita testualmente la sentenza de quo, “per l’accoglimento del ricorso” evidentemente condividendo le propettazioni del ricorrrente, ma anche questa condivisione prospettica tra il ricorrente e l’Ufficio del Pubblico Ministero, non ha portato i Giudici della Corte a riconsiderare il dictum della giurisprudenza formatasi in argomento, per la quale i limiti della possibilità di richiedere la “restituzione delle somme pagate” alla moglie, in forza di un provvedimento presidenziale sono, nei fatti, da considerare come perdute per sempre, e questo, come abbiamo visto, non ostante la specifica previsione nel provvedimento che “corregge” la disposizione onerosa della retroattività della valenza degli effetti, che viene considerato di rango inferiore all’uso che si presuppone siano state destinati gli importi, ovvero quello della loro “consumazione per il sostentamento”.

Altro aspetto singolare, è quello costituito dal fatto che la richiesta di “restituzione”, formulata già al giudice del merito, era relativa a somme corrisposte, in forza di un provvedimento presidenziale che disponeva il pagamento in favore dei figli del ricorrente, sull’errato  presupposto che questi, vivessero con la madre mentre, al contrario, i figli si erano trovati a vivere con il padre.

Dunque gli importi erano stati versati “immotivatamente”, tant’è che il giudice del merito si era peritato di “revocare” con decorrenza retroattiva, l’ordine di contribuire al mantenimento dei figli nella mani della madre (per carenza del requisito della convivenza) .

Con una prima pronuncia la Corte di Appello nulla aveva stabilito sull’immediata richiesta di “restituzione delle somme” corrisposte in mancanza di un presupposto, tant’è che la Corte di Cassazione intervenendo in tema, aveva “accolto” il primo ricorso (2006) per omessa pronuncia, re-inviando la questione al merito.

La seconda sentenza sul punto della “restituzione” delle somme, (ribadiamo incamerate dalla moglie del ricorrente  sul presupposto “inesistente” della convivenza dei figli presso di lei) si è poi limitata a richiamare, pedissequamente, i principi giurisprudenziali esistenti in tema di ripetizione delle somme pagate a titolo di mantenimento, citando (correttamente) la sentenza nr. 11029 del 1999, per la quale, ricorda la Corte di Appello: “le somme corrisposte in esecuzione dei provvedimenti emessi in sede presidenziale, non sono ripetibili”.

Ma vediamo più specificamente cosa sia stato statuito, con la Sentenza in esame, in ordine al secondo “motivo di ricorso” : quello della richiesta della restituzione delle somme.

Il Ricorrente aveva, infatti, richiesto al Supremo Collegio di provvedere ad una pronuncia che assicurasse la “restituzione delle somme indebitamente pagate” questo sul presupposto che parte avversa “aveva tenuto una “condotta processuale menzognera”, tanto da essere poi smentita dalle risultanze istruttorie, e tale suo comportamento processuale  aveva “indotto in errore” il Presidente che si era convinto di attribuire, anche se non dovuta, un somma perequativa per il mantenimento dei figli, ponendola come onere sulle spalle del padre.

Questo specifico rilievo alla “condotta processuale menzognera” si deve sottolineare perché la Corte di Cassazione nelle stesse sentenze dianzi richiamate aveva specificato e ribadito (Cass. 18.09.91 nr.9728 e Cass. 12 aprile del 2006, la nr. 8512) come “la presunzione” operante in favore della parte che ha beneficiato dal pagamento, trovasse il proprio limite nella “dimostrazione” di aver tenuto una condotta processuale aggravata ex art.96 cpc, per aver il coniuge “richiesto il provvedimento cautelare in eccedenza alle sue esigenze” o per aver “agito in giudizio con malafede o colpa grave”.

La Sentenza in commento, pur rilevando come l’istanza contenesse la richiesta di “considerare l’evidenza di una mala fede processuale” si limita a dedurre la semplice “inammissibilità del punto del ricorso” perché “non ha colto” la ratio decidendi della sentenza della Corte di Appello, che aveva ritenuto infondata la questione delle “false dichiarazioni della parte in sede di comparizione dei coniugi”.

In buona sostanza, nell’affrontare la doglianza si è richiamata la datatissima sentenza del 1999 (tanto da citarla, per errore, come nr. 11029 del 5 ottobre 2009) e se ne è ripetuto pedissequamente il principio : “sono irripetibili le somme versate a titolo di mantenimento nelle ipotesi in cui questo sia escluso o diminuito a seguito di una pronuncia passata in giudicato”, stigmatizzando poi come il ricorrente non avesse “impugnato” la motivazione dei giudici di appello sul punto della “responsabilità aggravata” ex art. 96 c.p.c.

Questo, non ostante altre diverse sentenze della Cassazione avessero, medio tempore, esaminato la domanda di “ripetizione” delle somme pagate al coniuge e successivamente caducate, giungendo a formulare articolati distinguo e specificazioni, anche di accoglimento.

In tema è opportuno ricordare come sia intervenuta da ultimo (Cass. Sezione Prima del 4.12.12) la Sentenza nr. 21675, che nell’affrontare la “revoca per le dichiarazioni mendaci” le ha ritenute sussistenti, tanto da cassare la pronuncia di appello (Sentenza n.1232 del 27.11.2007 Corte di Appello di Bologna) e rinviare ad altra sezione, in un caso posto alla sua attenzione che vedeva la richiesta di restituzione di somme “corrisposte ad un figlio” poi acclarato non essere figlio dell’onerato, ma della sola beneficiaria dell’assegno.

fonte: ilsole24ore//SEPARAZIONE - No alla restituzione delle somme percepite erroneamente dalla ex

Con il rosso non si passa, con il giallo attenzione, con il verde… anche

Partenza sprint allo scattare del semaforo verde, ma il conducente avrebbe dovuto accertarsi che non ci fossero pedoni nel cono d’ombra anteriore del camion. Anche perché la posizione del mezzo era in posizione irregolare. La Cassazione, con la sentenza 23307/13, ha dunque rigettato il ricorso dell’imputato.

Il caso
Semaforo con luce verde, e l’autocarro parte ma, purtroppo, il conducente non si accorge della presenza di un pedone in fase di attraversamento e l’investe, cagionandone la morte. I giudici di merito ritengono che la condotta del guidatore sia stata negligente, imprudente e in violazione dell’art. 191, comma 1, del codice della strada, che disciplina il comportamento dei conducenti nei confronti dei pedoni. Risultato? 6 mesi di reclusione e sospensione della patante di guida. Questo perché, spiegano i giudici, la vittima aveva iniziato l’attraversamento pedonale con la luce gialla del semaforo, ma l’imputato aveva fermato il mezzo in posizione irregolare, in modo da occludeva completamente l’attraversamento pedonale. Nel ricorso per cassazione presentato dall’imputato, si evidenzia che i giudici avevano, erroneamente, dato per scontata la possibilità di avvistamento laterale del pedone, senza indicare il comportamento che l’imputato avrebbe dovuto tenere nelle circostanze di luogo e di tempo. La Corte di legittimità, però, sottolinea che la posizione irregolare del mezzo, seppur non volontariamente cagionata dal conducente, arrecava un sensibile intralcio, «fonte di grave pericolo per l’incolumità dei pedoni in fase di attraversamento». Di conseguenza – spiegano gli Ermellini – l’imputato «avrebbe dovuto ispezionare attraverso tutti gli specchietti la situazione della strada intorno a sé e, nuovamente scattato il verde, avrebbe dovuto ipotizzare che qualcuno potesse ancora trovarsi nel cono d’ombra anteriore del camion, ovvero nei pressi dello stesso e, quindi, attendere qualche secondo prima di partire e non invece partire immediatamente allo scattare del verde». Insomma, con tali motivazioni, la Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Con il rosso non si passa, con il giallo attenzione, con il verde… anche

Stupefacenti: se il principio attivo è praticamente nullo, non c'è spaccio

Principio attivo irrilevante, tale da non poter indurre la modificazione dell’assetto necroscopico dell’utilizzatore: lo spaccio è escluso. E' l’estrema sintesi del caso affrontato dalla Cassazione con la sentenza 23319/13.

Il caso
Dopo la condanna alla pena di un anno e 3 mesi di reclusione e 4mila euro di multa per aver detenuto, a fine di spaccio, 12,50 grammi di hashish, l’imputato, tramite il proprio avvocato, presentava ricorso per cassazione. In primis, perché non era stato accertato il grado di purezza della sostanza stupefacente sequestrata e, in secundis, perché mancavano le prove in ordine alla detenzione della droga per finalità di spaccio. Motivi, questi, che vengono accolti entrambi. Tant’è vero che la Cassazione non ritiene corretta l’affermazione secondo cui – come affermato dai giudici di merito - l’accertamento della purezza della sostanza non è necessario in presenza di «circostanze di fatto indicative della destinazione allo spaccio». Infatti – precisano gli Ermellini – «l’accertamento del principio attivo può influire sulla stessa sussistenza dell’offensività della condotta di detenzione a fini di spaccio». È da escludere, dunque, il reato di cessione di sostanze stupefacenti qualora si tratti di quantitativi «talmente tenui e con principio attivo irrilevante tale da non poter indurre, neppure in maniera trascurabile, la modificazione dell’assetto necroscopico dell’utilizzatore» (Cassazione, 16154/11 e 21814/10).

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Stupefacenti: se il principio attivo è praticamente nullo, non c'è spaccio

Colpevole la madre separata che si trasferisce in altra regione

Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 23 ottobre 2013 n. 43292

Viola le disposizioni del giudice la madre separata di una bambina di otto mesi che si trasferisce in Sicilia in cerca di un lavoro mentre un provvedimento del tribunale di Trento aveva collocato la minore presso l’ex abitazione coniugale a Capriana (Tn) stabilendo il diritto di visita anche infrasettimanale del padre. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 43292/2013, dichiarando inammissibile il ricorso della madre.

Per la Suprema corte, infatti, “l’elusione dell’esecuzione di un provvedimento del giudice civile che riguardi l’affidamento di minori può concretarsi in un qualunque comportamento da cui derivi la ‘frustrazione’ delle legittime pretese altrui, ivi compresi gli atteggiamenti di mero carattere omissivo, quando questi siano finalizzati ad ostacolare ed impedire di fatto l’esercizio del diritto di visita e di frequentazione della prole (cfr. in termini: cass. pen. sez. 6, 33719/2010, fattispecie in cui vi erano stati frequenti e non comunicati spostamenti dei luogo di dimora senza preavviso al marito separato non affidatario)”.
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fonte: ilsole24ore//Colpevole la madre separata che si trasferisce in altra regione

L’infortunio c.d. in itinere ed il trasporto con mezzi propri

L'indennizzabilità dell'infortunio in itinere, subito dal lavoratore mentre si reca al lavorocon un proprio mezzo di trasporto, può essere riconosciuta nella sola ipotesi in cui l'uso del mezzo diverso da quello pubblico sia reso necessario dalla impossibilità di altra ragionevole scelta. L'infortunio predetto, invero, non può intendersi ravvisabile qualora il lavoratore si rechi sul luogo di svolgimento della prestazione lavorativa con un proprio mezzo non per necessità, in assenza di soluzioni alternative, bensì per libera scelta, rilevato che il mezzo di trasporto pubblico costituisce lo strumento normale per la mobilità delle persone e comporta il grado minimo di esposizione al rischio della strada. Nella fattispecie concreta, l'incontestato verificarsi dell'infortunio in area metropolitana, pertanto servita da mezzi di trasporto compatibili con l'orario di entrata ed uscita del ricorrente dal lavoro e ricondotto, dunque, l'utilizzo del mezzo privato a libera scelta, deve escludersi la chiesta indennizzabilità dell'infortunio subito.
 
Il Tribunale del capoluogo ligure, con la Sentenza n. 733 del 2013 , torna a pronunciarsi in relazione al c.d. infortunio in itinere, ossia quegli infortuni in cui può incorrere il lavoratore durante il tragitto casa – luogo di lavoro (ma non solo come si vedrà meglio più avanti), sui criteri di indennizzabilità dei danni patiti e l’operatività, quindi, dall’assicurazione sociale INAIL.

Va anzitutto premesso come la materia sia attualmente regolata dal D. Lgs. 38 del 2000 che ha, in buona sostanza, recepito e fatto propri i criteri di indennizzabilità che, nel vuoto normativo, erano stati elaborati dalla Giurisprudenza onde verificare la sussistenza della copertura assicurativa sociale in siffatte situazioni e che il rischio inerente il percorso fatto dal lavoratore per recarsi al lavoro è protetto dalla legge in quanto ricollegabile, pur in modo indiretto, allo svolgimento dell'attività lavorativa con il solo limite del rischio elettivo.

L’infortunio in itinere è definito dall’art. 12 del D. Lgs. 38 del 2000, come quello occorso alle persone assicurate durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro. Ma non solo. Rientrano, altresì, in detta ipotesi, gli infortuni occorsi al lavoratore durante il normale percorso che collega due luoghi di lavoro (qualora abbia in essere più rapporti lavorativi) così come quelli accorsogli durante il normale tragitto di andata e ritorno dal luogo di lavoro a quello di consumazione abituale dei pasti (qualora non sia presente un servizio mensa interno).

La Legge pone particolare accento al concetto di “normalità” del percorso precisando come l’assicurazione non operi nel caso di interruzioni o deviazioni del tutto indipendenti dal lavoro o, comunque, non necessitate precisando come queste si debbano intendere necessitate qualora dovute a cause di forza maggiore, ad esigenze essenziali ed improrogabili o all’adempimento di obblighi penalmente rilevanti.
Infine, la norma precisa che l’assicurazione opera anche nel caso di utilizzo del mezzo di trasporto privato sempre purché necessitato.

In definitiva, gli elementi che dovranno essere presi in considerazione dal Giudice, onde verificare la sussistenza della copertura assicurativa, saranno:
-          la normalità del percorso;
-          la mancanza di un servizio mensa interno o convenzionato (nella particolare ipotesi di infortunio occorso in pausa pranzo);
-          la necessità di eventuali soste o deviazioni;
-          la necessità di utilizzo del mezzo privato.

Quanto al percorso, la normalità viene individuata nell’essere il tragitto il più breve e diretto possibile tra il luogo di abitazione (che può non coincidere con quello di residenza) essendo il più lungo giustificato solo da particolari condizioni (per esempio lavori in corso, traffico).
Quanto ai mezzi da utilizzarsi per muoversi lungo il percorso, la normativa prevede che il mezzo privato rientri nella casistica unicamente purché necessitato per l’assenza di soluzioni alternative.

Difatti, quali mezzi tipici di spostamento sono previsti quelli pubblici che sono presi come mezzi di riferimento oltre quali strumenti normali per la mobilità delle persone anche perché comportano il livello minimo di esposizione ai rischi della strada.

Più precisamente, condizioni di risarcibilità affinché ci si trovi avanti ad un infortunio in itinere occorso al lavoratore durante la conduzione di mezzi propri, sono:
- la finalità lavorativa del tragitto;
- la normalità del percorso stesso (nei limiti sopra visti);
- l’assenza di interruzioni e deviazioni per motivi personali;
- la necessità di utilizzo del mezzo privato negli spostamenti.

Nello specifico, quest’ultimo requisito si riterrà soddisfatto allorquando:
-          non esistono mezzi pubblici che colleghino il luogo di lavoro e quello d’abitazione;
-          non vi è compatibilità tra l’orario di lavoro e quello dei mezzi pubblici. Detto requisito risulterà soddisfatto qualora l’utilizzo del mezzo privato consenta un risparmio, in termini di tempo, di almeno un’ora per tragitto a condizione che sia oggettivamente riscontrabile ad assuma carattere regolare;
-          il tragitto da percorrere, eventualmente, a piedi sia superiore ad 1 km per tratta risultando, pertanto, la distanza tra i due luoghi notevole.

Il tutto, poi, andrà analizzato alla stregua anche del c.d. criterio di ragionevolezza che impone di verificare la necessità di utilizzo del mezzo privato in base ai seguenti parametri:
-          lunghezza dei percorsi;
-          tempi di attesa dei mezzi pubblici;
-          possibilità del lavoratore di abitare in un luogo diverso da quello lavorativo;
-          distanza delle più vicine fermate o stazioni di mezzi pubblici dal luogo di lavoro e di abitazione.

Proprio questi ultimi aspetti sono stati al centro della motivazione con cui il Tribunale di Genova, Sez. Lavoro, ha respinto il ricorso presentato dal lavoratore ai fini di ottenere l’indennizzo dei danni patiti a seguito di un sinistro in cui occorse mentre era a bordo di un motociclo di sua proprietà e rientrava a casa dal lavoro.

Difatti, l’Ill.mo Tribunale adito, ha ritenuto che non fosse soddisfatto il requisito della necessità dell’utilizzo del mezzo di trasporto privato proprio sulla scorta dei criteri sopra evidenziati che, beninteso, trovano conferma anche nel più recente e consolidato orientamento in seno alla Suprema Corte di Cassazione (cfr. ex plurimis: Cass. Civ. Ordinanze del 3.11.2011, n. 22759, 24.4 – 18.5.2012, n. 7970 e del 7.9.2012, n. 15059).

In particolare, poiché dagli elementi emersi in sede istruttoria è risultato che l’infortunio è occorso in un area metropolitana servita da mezzi pubblici e che gli orari degli autobus erano compatibili con gli orari di lavoro del ricorrente, il Tribunale ha ritenuto che la fattispecie sottoposta al suo vaglio non rientrasse tra gli infortuni sul lavoro per insussistenza dei presupposti necessari per la qualificabilità degli stessi.

A nulla è valsa, infine, la pretesa incompatibilità del tragitto con le condizioni di salute del lavoratore (che per sua stessa ammissione avrebbe dovuto percorrere a piedi unicamente la distanza di 600-700 metri, solo parzialmente in salita) poiché in sede di consulenza tecnica d’ufficio è risultato che l’affanno cardiaco da sforzo di cui avrebbe sofferto il lavoratore (non oggettivamente apprezzabile, diagnosticato con una relazione successiva all’infortunio e mai precedentemente documentato) non sarebbe ricollegabile ad un tragitto a piedi con il passo meglio ritenuto.
D’altronde, conclude il Giudice, il lavoro svolto del ricorrente implica frequenti spostamenti a piedi nonché la salita di scale o di tratti in salita e mai ha comportato disturbi soggettivi o limitazioni di idoneità da parte del competente medico aziendale portando, quindi, ad escludere la sussistenza dei presupposti per qualificare l’incidente come infortunio sul lavoro.

 
fonte: ilsole24ore/L’infortunio c.d. in itinere ed il trasporto con mezzi propri

mercoledì 23 ottobre 2013

Vietato ai dipendenti pubblici offrire o accettare regali dai colleghi

I rapporti tra dipendente e subordinati e sovraordinati, sono disciplinati dal Codice di comportamento nell'articolo 4, comma 2, che stabilisce, nella prima parte: "Il dipendente non accettare, per sé o per altri, da un proprio subordinato, direttamente o indirettamente, regali o altre utilità, salvo quelli d'uso di modico valore".
Nella seconda parte è poi precisato che: "Il dipendente non offre, direttamente o indirettamente, regali o altre utilità a un proprio sovraordinato, salvo quelli d'uso di modico valore".
Questo comma si collega al comma 2 dell'articolo 3 del precedente Codice di comportamento, che stabiliva:
"2. Il dipendente non chiede, per sé o per altri, né accetta, regali o altre utilità da un subordinato o da suoi parenti entro il quarto grado. Il dipendente non offre regali o altre utilità ad un sovraordinato o a suo parente entro il quarto grado, o conviventi, salvo quelli d'uso di modico valore".

Tra i due testi vi sono delle differenze, che hanno eliminato alcuni dubbi nei rapporti tra dipendenti e subordinati e sovraordinati, ma vi sono ancora alcuni punti che possono sollevare degli interrogativi.

Divieto di accettare regali
Consideriamo innanzitutto il divieto di accettare regali o altre utilità da un proprio subordinato.
Nel precedente Codice di comportamento era prevista "da un subordinato o da suoi parenti entro il quarto grado".
Questa formulazione è stata eliminata, e il divieto è ora esteso a tutti i parenti, affini, amici, conoscenti ed è stata introdotta la formula: "Il dipendente non accetta (…) da un proprio subordinato direttamente o indirettamente (…)".
Ma il punto che può sollevare dei dubbi riguarda l'inciso" "proprio subordinato" che non era presente nel precedente comma 2 dell'articolo 3. L'espressione "proprio subordinato" dovrebbe fare riferimento all'ufficio, ed indicare quindi un subordinato che fa parte, in posizione subordinata, dell'ufficio del dipendente. In questo modo, però, il divieto di accettare regali e altre utilità non dovrebbe valere per i subordinati che non fanno parte dell'ufficio ma che appartengono ad altri uffici, e tale affermazione potrebbe essere sostenuta dall'argomento che ogni previsione negativa e imitatrice di posizioni giuridiche soggettive è di stretta interpretazione.
Sia la tesi sia l'argomento di sostegno non sarebbero persuasivi, per varie ragioni.
In primo luogo, perché il diniego che è previsto nella prima parte del comma 3 dell'articolo 4 non si riferisce ad una posizione soggettiva di diritto, perché non vi è, per il dipendente, il diritto di accettare regali.
In secondo luogo, perché proprio il comma 2 dell'articolo 4 stabilisce espressamente che: "Il dipendente non accetta (…) regali o altre utilità", e quindi la regola generale è quella che il dipendente non accetta, e quindi non deve accettare, regali o altre utilità.
In terzo luogo, perché il divieto dell'accettazione dei regali o altre utilità è precisato con l'espressione: "direttamente o indirettamente", e ciò significa che il dono di questi regali o altre utilità può essere effettuato direttamente dal "proprio" subordinato, o anche "indirettamente", e quindi effettuato da altre persone, o tramite altre persone, fisiche o giuridiche.
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fonte: ilsole24ore//Vietato ai dipendenti pubblici offrire o accettare regali dai colleghi

Non luogo a procedere per l’extracomunitario già espulso

Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 22 settembre 2013 n. 43257

Non luogo a procedere per il reato di immigrazione clandestina per lo straniero che dopo essere stato espulso una prima volta rientra nel territorio dello stato ma viene nuovamente respinto, il giorno successivo al suo ingresso, grazie al decreto del prefetto.

La Suprema corte spiega la doppia finalità della normativa sulle espulsioni nel caso di stranieri sottoposti a procedimento penale in Italia: “da una parte si vuole allontanare il più presto possibile dal territorio dello Stato lo straniero irregolare in Italia che abbia commesso un reato; dall’altra si vuole evitare un giudizio inutile ogni volta che il cittadino straniero non si trova più sul territorio nazionale (e non può rientrarvi se non munito della speciale autorizzazione del Ministro dell’Interno o dopo li periodo indicato dalla legge)”.

“È peraltro evidente - prosegue la sentenza - che, se lo straniero è rimasto in Italia - dopo aver commesso il reato - fino a quando è stato rinviato a giudizio, a quel punto il processo deve essere celebrato, poiché non sono state raggiunte le suddette finalità, e non vi sarebbe ragione di interrompere un processo, anche se nel corso dello stesso lo straniero imputato fosse stato espulso dal territorio dello Stato”.
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fonte: ilsole24ore/Non luogo a procedere per l’extracomunitario già espulso

martedì 22 ottobre 2013

Femminicidio: i dubbi della Cassazione sulla nuova legge

Nella legge sul femminicidio il Parlamento ha ingranato la retromarcia proprio sul tassello più importante: l'irrevocabilità della querela. In una relazione firmata dal vice direttore Giorgio Fidelbo e redatta dal consigliere Luca Pistorelli, l'Ufficio del Massimario della Cassazione fa le pulci al testo del 15 ottobre scorso che ha definitivamente convertito in legge il decreto con le misure contro la violenza sulle donne.

La presenza dei minori
I tecnici della Suprema Corte - che già avevano analizzato il decreto legge di agosto - rilevano positivamente il superamento dei dubbi sulle aggravanti nei casi di "violenza assistita", quando cioè i minori assistano a episodi di violenza. Nel testo originario previste solo per maltrattamenti in famiglia e rapina, e non invece per reati più gravi. "Riserve di cui il Parlamento si è fatto carico", osserva la Cassazione, provvedendo a "configurare una nuova aggravante comune" a tutela dei minori di 18 anni e anche delle donne in gravidanza. Ciò non toglie che, nell'applicazione concreta, possa esserci qualche "interferenza" con altre disposizione del codice penale.

Stalking nella “relazione affettiva”
Un passo avanti anche riguardo alla formulazione del reato di atti persecutori, superando un precedente limite contenuto già nella legge del 2009 sullo stalking: quello che delimitava il reato al coniuge legalmente separato o divorziato o all'ex partner della vittima. Qualche modifica, insufficiente, era arrivata col decreto di agosto. La legge di conversione, invece, "ha ora definitivamente recepito le osservazioni critiche" e ha preso come parametro unicamente la relazione tra due persone, convivenza o vincolo matrimoniale, attuale o pregressa. E questo è giudicato positivamente dalla Cassazione, anche se restano "perplessità" sulla nozione di "relazione affettiva", che, piuttosto sfuggente, "si presta a incontrollate estensioni interpretative dell'aggravante" stessa.

La querela revocabile
Ma l'aspetto più critico riguarda la possibilità di revocare la querela. L'irrevocabilità prevista nel decreto era uno dei suoi punti qualificanti. "Scelta che però ha avuto vita breve - fa notare la Cassazione - giacché la legge di conversione è nuovamente tornata sulla disposizione citata, cercando un compromesso tra le opposte esigenze di rispettare la libertà della vittima del reato e di garantirle una tutela effettiva contro il menzionato rischio di essere sottoposta ad indebite pressioni". Si è fatta così "una parziale retromarcia". "Il Parlamento ha deciso di ripristinare la revocabilità della querela, salvo nel caso in cui il reato sia stato realizzato 'mediante minacce reiterate '", e ha posto dei paletti: la remissione deve essere esclusivamente processuale. L'intenzione del legislatore era quella di "affidare al giudice il compito di svolgere una verifica effettiva sulla spontaneità remissione della querela". Ma siccome "è remissione processuale della querela anche quella resa alla polizia giudiziaria o mediante procuratore speciale", lo strumento introdotto per delimitare i casi in cui la querela resta revocabile e per "prevenire illeciti condizionamenti, non sembra particolarmente funzionale allo scopo" e presenta dubbi interpretativi.

fonte: ilsole24ore/Femminicidio: i dubbi della Cassazione sulla nuova legge

Cade sul tombino dissestato: la distrazione del pedone interrompe il nesso

La Corte d’Appello di Taranto confermava la sentenza con la quale, il Tribunale aveva rigettato la pretesa della parte attrice avente ad oggetto il risarcimento dei danni subiti a seguito di caduta nei pressi di un tombino dissestato, motivando il rigetto con l’incidenza della condotta della ricorrente nella determinazione dell’accadimento, qualificabile quale diretta conseguenza della distrazione e della mancanza di diligenza della stessa, che consentiva di escludere la responsabilità del custode.

Avverso la sentenza di secondo grado, l’istante presentava ricorso per Cassazione, fondando il proprio gravame su quattro motivi:

violazione di legge quanto alla ripartizione dell’onere della prova con riguardo al risarcimento del danno da cose in custodia e contraddittoria motivazione;
omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio costituito dalla condotta colposa del Comune, ravvisabile nella mancata manutenzione del tombino;
omessa motivazione quanto alla valutazione delle circostanze del fatto, data l’erronea attribuzione, da parte del Tribunale, di un rilievo decisivo e determinante alla condotta della ricorrente, omettendo di considerare la ragionevole aspettativa del pedone della sicurezza del manto stradale che limita o esclude la necessità di un continuo e scrupoloso controllo dello stato dei marciapiedi;
vizio di motivazione della sentenza, costituita dall’aderenza ad un orientamento del Tribunale di Taranto contrario alle ragioni della ricorrente.
La Corte di Cassazione rigettava il gravame, fondando la propria decisione sull’analisi del profilo causale dell’evento.

La Suprema Corte evidenziava che l’accertamento relativo all’efficienza causale della condotta del danneggiato nella determinazione dell’evento dannoso era demandato al giudice di merito, la cui valutazione doveva ritenersi insindacabile, in sede di legittimità, se congruamente motivata.

Indi riteneva ampliamente motivata la sentenza e congruamente considerato il profilo causale dell’evento anche alla luce dell’inversione dell’onere della prova operata dall’art. 2051 c.c. Invero l’onere spettante al custode, di dimostrare il fortuito per sottrarsi alle conseguenze del danno cagionato dalle cose custodite, non esonera il danneggiato dalla prova del nesso causale tra la cosa custodita e il danno.

Nel caso di specie, l’analisi del nesso causale consentiva di ritenere configurabile e provato un comportamento colposo del danneggiato, connotato da distrazione e mancanza di diligenza ed idoneo ad interrompere il nesso eziologico tra la causa del danno e l’evento.

L’ordinanza giunge in tal modo a circoscrivere la portata della responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia entro i limiti dell’efficienza causale valutata in concreto, attribuendo un rilievo determinante alla condotta del danneggiato, richiedendo, ai fini dell’attribuzione della responsabilità all’Ente, una situazione di pericolo, cagionata dalla cosa custodita, che l’utente medio non è in grado di prevedere o evitare facendo uso della normale diligenza. Tale valutazione consente di valutare nel caso concreto l’efficienza causale del comportamento del danneggiato nella progressione dei fatti, escludendo la presunzione di colpa del custode.

Trattasi invero di una responsabilità oggettiva che la Suprema Corte ha ritenuto configurabile solo previa esclusione di due fattori costituiti dal caso fortuito e dall’incidenza causale della condotta del danneggiato.


SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE VI - 3 CIVILE
Ordinanza 25 settembre - 4 ottobre 2013, n. 22684
Presidente Finocchiaro – Relatore Giacalone

 In fatto e in diritto

Nella causa indicata in premessa, é stata depositata la seguente relazione: "1- La sentenza impugnata (Tribunale di Taranto, 08/06/2011, non notificata), ha confermando la statuizione di primo grado, che rigettava la pretesa dell'odierna ricorrente in merito ai danni da lei subiti in seguita alla caduta nei pressi di un tombino a suo giudizio dissestato. Nel disattendere la richiesta risarcitoria, il Giudice di merito riconosceva che indipendentemente dalla norma applicabile al caso (art. 2043 o 2051 c.c.), il fatto era diretta conseguenza della distratta condotta dell'istante, la quale, con la minima diligenza avrebbe ben potuto scorgere la presenza del tombino e lo stato in cui si trovava. Inoltre, si evidenziava che, neanche in sede di appello, venivano chiariti i lamentati dissesti del tombino.

2. - Ricorre per cassazione M.A. , sulla base di quattro motivi di ricorso. Gli intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede.

3. - Col I motivo di ricorso, la ricorrente lamenta violazione degli artt. 2043, 2051, 2697 e 1227 c.c., artt. 112 e 115 c.p.c., nonché contraddittoria motivazione.: il giudice di merito avrebbe ritenuto non provata, contrariamente dalle risultanze di causa, il lamentato dissesto presentato dal tombino, onere della prova, comunque a suo giudizio non incombente su di essa a cui viceversa competerebbe solo la dimostrazione del nesso tra danno e cosa in custodia. - Col II motivo di ricorso, la ricorrente censura la sentenza per violazione degli artt. 2051 e 2043 c.c., artt. 14 e 21 C.d.S. art. 40 Reg. edilizio comune di Taranto, nonché omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio: il giudice territoriale, riconoscendo prevalente la condotta negligente dell'odierna ricorrente, avrebbe omesso di considerare (e quindi di motivare) la condotta colposa del comune, ravvisabile nella mancata manutenzione del tombino. - Col III motivo di ricorso, lamenta violazione dell'art. 2051 c.c., anche in relazione all'art. 1176 c.c., violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Il Tribunale, attribuendo rilievo decisivo alla condotta negligente dell'odierna ricorrente, non avrebbe tenuto conto della massima di esperienza secondo cui "chi cammina regolarmente sui marciapiedi ha la ragionevole aspettativa di circolare in un posto sicuro soprattutto con riferimento alla manutenzione del pavimento posto che l'attenzione dei pedoni, proprio perché la loro circolazione avviene in un luogo pubblico, può essere catturata da una serie di circostanze idonee ad abbassare il loro livello di vigilanza [....]; sicché non si può certamente esigere da parte del pedone un continuo e scrupoloso controllo dello stato dei marciapiedi, dovere, questo che esulerebbe da quello di ordinaria diligenza". - Col IV motivo di ricorso, la ricorrente lamenta violazione dell'art. 132 c.p.c. e motivazione illogica, avendo il Giudice di merito aderito a un orientamento del Tribunale di Taranto contrario alle ragioni della ricorrente.

4. - Il ricorso è manifestamente privo di pregio.

4.1- I primi tre motivi di ricorso, data l'intima connessione, possono essere trattati in modo congiunto. Circa la responsabilità civile per i danni cagionati da cose in custodia, con riferimento alla fattispecie di cui all'art. 2051 c.c., il consolidato orientamento di questa S. C, individua un'ipotesi di responsabilità oggettiva, essendo sufficiente per l'applicazione della stessa la sussistenza del rapporto di custodia tra il responsabile e la cosa che ha dato luogo all'evento lesivo. Pertanto non assume rilievo in sé la violazione dell'obbligo di custodire la cosa da parte del custode, la cui responsabilità è esclusa solo dal caso fortuito, fattore che attiene non ad un comportamento del responsabile, ma al profilo causale dell'evento, riconducibile in tal caso non alla cosa che ne è fonte immediata ma ad un elemento esterno. Ne consegue, l'inversione dell'onere della prova in ordine al nesso causale, incombendo comunque sull'attore la prova del nesso eziologico tra la cosa e l'evento lesivo e sul convenuto la prova del caso fortuito. Sia l'accertamento in ordine alla sussistenza della responsabilità oggettiva che quello in ordine all'intervento del caso fortuito che lo esclude involgono valutazioni riservate al giudice del merito, il cui apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici (Cass. n. 6753/2004). L'attore che agisce per il riconoscimento del danno ha, quindi, l'onere di provare l'esistenza del rapporto eziologico tra la cosa e l'evento lesivo, mentre il custode convenuto, per liberarsi dalla sua responsabilità, deve provare l'esistenza di un fattore estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale (Cass. n. 858/2008; 8005/2010; 5910/11, ord., secondo cui la norma dell'art. 2051 cod. civ., che stabilisce il principio della responsabilità per le cose in custodia, non dispensa il danneggiato dall'onere di provare il nesso causale tra queste ultime e il danno, ossia di dimostrare che l'evento si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta dalla cosa). La sentenza impugnata, ha invece congruamente spiegato le ragioni della propria decisione, facendo corretta applicazione dei principi sopra enunciati. Correttamente ha ritenuto non provato il nesso eziologico tra la cosa in custodia (tombino) e la caduta della ricorrente, ascrivendo questa a sua negligenza, non risultando tra le altre cose, nemmeno chiarita la condizione di lesività posseduta dal tombino in oggetto. In altri termini: la responsabilità prevista dall'art. 2051 c.c. per i danni cagionati da cose in custodia presuppone la sussistenza di un rapporto di custodia della cosa e una relazione di fatto tra un soggetto e la cosa stessa, tale da consentire il potere di controllarla, di eliminare le situazioni di pericolo che siano insorte e di escludere i terzi dal contatto con la cosa; detta norma non esonera il danneggiato dall'onere di provare il nesso causale tra cosa in custodia e danno, ossia di dimostrare che l'evento si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta dalla cosa mentre resta a carico del custode offrire la prova contraria alla presunzione iuris tantum della sua responsabilità mediante la dimostrazione positiva del caso fortuito, cioè del fatto estraneo alla sua sfera di custodia, avente impulso causale autonomo e carattere di imprevedibilità e di assoluta eccezionalità costituisce caso fortuito anche la riferibilità dell'evento a una condotta colposa dello stesso danneggiato (Cass., 17 gennaio 2008, n. 858, cit.) e nella specie è stato escluso un nesso causale tra la cosa in custodia e il sinistro occorso alla ricorrente;

Senza contare che il caso fortuito cui fa riferimento l'art. 2051 c.c. deve intendersi nel senso più ampio, comprensivo del fatto del terzo e del fatto dello stesso danneggiato (Cass. 19 febbraio 2008 n. 4279). Deve ribadirsi -infatti - che nel caso in cui l'evento di danno sia da ascrivere esclusivamente alla condotta del danneggiato, la quale abbia interrotto il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno, si verifica un'ipotesi di caso fortuito che libera il custode dalla responsabilità di cui all'art. 2051 c.c. (Cass. 19 febbraio 2008 n. 4279, cit.; v. anche Cass. n. 21727/2012).

4.2 - Palesemente inammissibile è invece il quarto motivo di ricorso, poiché generico e formulato in violazione dei principi di specificità ed autosufficienza del ricorso per cassazione. In poche righe la ricorrente denuncia l'adesione da parte del Tribunale ad un orientamento del Tribunale di Taranto, contrario alle sue ragioni, senza neanche indicare tale orientamento e non evidenziando come detta adesione possa integrare la violazione della norma denunciata.

5. - Si propone la trattazione in Camera di consiglio e il rigetto del ricorso." La relazione é stata comunicata al Pubblico Ministero e notificata ai difensori delle parti costituite.

Non sono state presentate memorie, né conclusioni scritte. Ritenuto che:

a seguito della discussione sul ricorso in camera di consiglio, il collegio ha condiviso i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione; che il ricorso deve perciò essere rigettato essendo manifestamente infondato; Nulla per le spese, non avendo l'intimato svolto attività difensiva, visti gli artt. 380-bis e 385 cod. proc. civ..

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.


 fonte: Altalex.com//Cade sul tombino dissestato: la distrazione del pedone interrompe il nesso

Nullo il rinvio a giudizio se manca la notifica all’imputato

Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 21 ottobre n. 43115

Non è ricorribile per cassazione il provvedimento del tribunale che dichiara nullo il decreto di conclusione delle indagini preliminari e restituisce gli atti al Pm. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 43115/2013, dichiarando inammissibile il ricorso del procuratore generale di Ragusa.

Il Tribunale siciliano, infatti, con una ordinanza avendo rilevato che l’avviso di conclusione indagini all’imputato era stato notificato dal Pubblico ministero tramite invio di fax al difensore senza che ciò fosse stato disposto dal magistrato, e comunque in un’ipotesi in cui tale forma di notificazione non sarebbe consentita (essendo la stessa riservata ai soli avvisi spettanti ai difensori), ha dichiarato la nullità della notifica dell’avviso e ha disposto la restituzione degli atti al pubblico ministero.

Secondo la Suprema corte, infatti: “non è abnorme, e quindi non è ricorribile per Cassazione, il provvedimento con cui il giudice del dibattimento, rilevata la mancata notificazione all’imputato dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, dichiara la nullità del decreto di citazione a giudizio, disponendo la restituzione degli atti al p.m. (Fattispecie in cui il p.m., a seguito di declaratoria di incompetenza del giudice di pace, aveva emesso il decreto penale di condanna, senza procedere alla previa notifica dell’avviso di cui all’art. 415 bis c.p.p.)”.
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fonte: ilsole24ore/Nullo il rinvio a giudizio se manca la notifica all’imputato

Pestone accidentale, reazione aggressiva del cane: padrone condannato

Evidente l’accidentalità dell’episodio, capitato in occasione di una festa con numerosi ospiti, ma ciò non può ridurre il carico di responsabilità del padrone dell’animale, il quale non ha assolutamente rispettato la norma prudenziale che impone una adeguata custodia, anche col ricorso alla museruola. E tale norma è ancora più stringente se l’animale non è certo da salotto...

Il caso
Contano le dimensioni? Assolutamente sì, quando si tratta, sia chiaro, di accudire un animale, dovendo garantire, allo stesso tempo, che esso non si ‘trasformi’ in un pericolo. Perché, inutile girarci attorno, il concetto di «custodia di un animale» ha un significato sicuramente più stringente quando ci si trova di fronte a «un cane di grossa taglia e tendenzialmente pericoloso». ‘Bucare’ tale custodia, abbassare la guardia, lasciare l’animale libero di scorrazzare, pur in presenza di altre persone è un errore, che può essere pagato a carissimo prezzo (Cassazione, sentenza 23352/13). Semplice e sintetica la ricostruzione del fattaccio. Tutto si svolge in pochi secondi: nello scenario di una festa in giardino, il cane – un pastore tedesco, di proprietà del padrone di casa – viene «pestato accidentalmente», e reagisce d’istinto, aggredendo e mordendo la ragazza che lo aveva involontariamente colpito. Nessun dubbio, secondo il Giudice di pace, sulla responsabilità del padrone del cane, a cui viene addebitato il reato di «lesioni personali colpose» e quello di «omessa custodia di animali». Ma, ribatte l’uomo, è evidente la «accidentalità» dell’episodio, non collegabile alla presunta «omessa custodia» del cane. Tale osservazione, però, viene ritenuta assolutamente irrilevante dai giudici del Palazzaccio, i quali, anzi, sottolineano che di fronte a un «cane, di razza pastore tedesco», non esattamente «da salotto o da grembo», è ancora più significativo il fatto che «l’animale non sia stato custodito in un luogo non accessibile agli ospiti», presenti alla festa, o, almeno «munito di museruola». Principio non discutibile, difatti, sottolineano i giudici, è proprio quello «prudenziale», che impone «la custodia di un animale», a maggior ragione di un cane «di grossa taglia e tendenzialmente pericoloso». E questo principio, invece, è stato completamente ignorato dal padrone dell’animale: legittima, e confermata, quindi, la condanna comminata dal Giudice di pace.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Pestone accidentale, reazione aggressiva del cane: padrone condannato

lunedì 21 ottobre 2013

CRISI DI IMPRESA: A Ferrara al via l’INSOLVENZFEST

Si terrà a Ferrara il 25 ed il 26 ottobre prossimi la seconda edizione di “If – INSOLVENZFEST Confronti pubblici interdisciplinari sull’insolvenza”, promosso dall’Oci (Osservatorio sulle crisi di impresa), un’associazione culturale di magistrati, e dall’Università di Ferrara.

Scopo della due giorni è quello di “aprire il diritto ad una riflessione pubblica ed interdisciplinare sui temi dell'insolvenza”, attraverso una serie di dialoghi tra giuristi, giornalisti, esperti del lavoro e studiosi di economia. Al centro del dibattito le “intersezioni tra crisi economica, formazione delle classi dirigenti, insolvenze dei mercati, debito pubblico, rischi finanziari, destinazione del risparmio, così da creare un incontro trasversale tra mondi che raramente si confrontano, se non per controversie su casi singoli”.

Ma IF ospiterà anche libri e film sulla giustizia, le crisi finanziarie e l’indebitamento che saranno ulteriori occasioni "per decifrare il linguaggio tecnico sulle molte e complesse questioni del fenomeno dell’insolvenza".

Un incontro, dunque, non solo per gli addetti ai lavori ma rivolto soprattutto ai giovani, agli studenti delle università e delle scuole superiori.  Si inizia venerdì con Raffaele Cantone, ex magistrato della Dia di Napoli noto per la sua azione investigativa contro il clan dei casalesi, intervistato da Liana Milella di Repubblica.

L’Oci
Osservatorio sulle crisi di impresa (osservatorio-oci.org) è un’associazione culturale di magistrati che si occupano della materia concorsuale. Come gruppo di studio interdisciplinare, ha promosso ricerche scientifiche ed empiriche sull’insolvenza, la crisi delle imprese e i relativi processi, mettendo a confronto i dati giuridici e quelli economico-aziendali, in collaborazione con docenti di varie università.
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fonte: ilsole24ore/CRISI DI IMPRESA: A Ferrara al via l’INSOLVENZFEST

Violenza sessuale: costituisce ''induzione'' qualsiasi forma di sopraffazione della vittima

 L’induzione necessaria ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale non si identifica solo con la persuasione subdola ma si...