domenica 28 luglio 2019

Sciopero portavalori l’1 e 2 agosto: a rischio i prelievi ai bancomat

Dalle principali banche sono già partite le mail per avvisare i clienti in vista dello sciopero dei portavalori e dei possibili disagi per il prelievo bancomat l'1 e 2 agosto. L'astensione dal lavoro nazionale della categoria, per chiedere il rinnovo del contratto fermo da tre anni e mezzo, potrebbe creare problemi ai distributori che erogano contante.
Istituti di credito come Intesa Sanpaolo hanno inviato ai loro correntisti una mail: «A causa dello sciopero nazionale del trasporto valori proclamato per le giornate dell'1 e 2 agosto 2019, il prelievo di contanti alle Casse veloci automatiche e in filiale potrebbe non essere disponibile», si legge in una mail di sabato.
Il rischio disservizi si teme particolarmente perché l'1 e il 2 agosto segnano le grande partenze per le vacanze con il primo esodo estivo. Sono 70 mila gli addetti della vigilanza privata e dei servizi fiduciari in attesa del nuovo contratto nazionale del settore scaduto nel 2015, ricorda il sindacato Filcams Cgil. Per i soli addetti dei siti aeroportuali lo sciopero è differito per l'intero turno del 6 settembre. La mobilitazione è stata indetta dai sindacati di categoria «per sollecitare un avanzamento dei negoziati, allo stato al palo nonostante le proteste degli ultimi mesi e le sollecitazioni alle associazioni imprenditoriali di settore e delle imprese cooperative sul necessario rinnovo contrattuale nel comparto dei servizi in appalto particolarmente esposto al dumping contrattuale».
Il negoziato avviato ormai da più di 3 anni, non ha ancora sciolto i nodi in ordine a incremento salariale, cambio di appalto, bilateralità, contrattazione di secondo livello, classificazione del personale e salute e sicurezza. «Temi sui quali - sottolinea Filcams - i sindacati hanno presentato una concreta proposta di riforma. Ulteriori distanze si sono registrate negli ultimi incontri sul tema dell'orario di lavoro».

fonte: www.lastampa.it

Amazon, no a obbligo di numero telefonico o mail al consumatore

In materia di contratti a distanza e negoziati fuori dai locali commerciali – nel caso di specie, si tratta di acquisti su Amazon – la direttiva comunitaria di riferimento, nella fase precontrattuale, non impone l’obbligo, in capo al professionista, di attivare una linea telefonica, o di fax, o di creare un nuovo indirizzo e-mail per consentire ai consumatori di contattarlo. Al contrario, essa prevede che il professionista metta a disposizione del consumatore un mezzo che garantisca una comunicazione diretta ed efficace, anche impiegando strumenti diversi da quelli elencati – ad esempio la chat utilizzata da Amazon – purché idonei a soddisfare i criteri di una comunicazione semplice ed efficace. Spetta, poi, al giudice nazionale valutare l’idoneità degli strumenti con le finalità della direttiva.

Così ha deciso la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Sezione Prima, con la sentenza del 10 luglio 2019, nella causa C-649/17 (testo integrale in calce).

La vicenda
Un’associazione di consumatori tedesca citava in giudizio Amazon, la celebre piattaforma di acquisti on line, affermando la violazione – da parte sua – della direttiva europea sui diritti dei consumatori (2011/83/UE del Parlamento europeo e del Consiglio). Sul sito di Amazon, infatti, tra le informazioni che consentono al consumatore di contattare la società, non era indicato chiaramente il numero telefonico e di fax. Le corti di merito tedesche, in primo e secondo grado, rigettavano l’azione inibitoria presentata dall’unione dei consumatori; la vicenda, giunta in sede di legittimità, provoca un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, articolato in ben cinque questioni, in merito all’interpretazione dell’art. 6, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2011/83/UE. Prima di analizzare la decisione del giudice comunitario, riassumiamo brevemente il quadro normativo di riferimento.
Il quadro normativo
Viene qui in rilievo la Direttiva 2011/83/UE del Parlamento UE e del Consiglio, del 25 ottobre 2011, sui diritti dei consumatori [1]. In particolare, le questioni pregiudiziali vertono sull’interpretazione dell’art. 6, in tema di informazioni per il consumatore e diritto di recesso per i contratti a distanza e per i contratti negoziati fuori dai locali commerciali. Di seguito, il testo della norma.
Art. 6 paragrafo 1, lett. c):
«Prima che il consumatore sia vincolato da un contratto a distanza o negoziato fuori dei locali commerciali o da una corrispondente offerta, il professionista fornisce al consumatore le informazioni seguenti, in maniera chiara e comprensibile:
[…] c) l’indirizzo geografico dove il professionista è stabilito e il suo numero di telefono, di fax e l’indirizzo elettronico, ove disponibili, per consentire al consumatore di contattare rapidamente il professionista e comunicare efficacemente con lui e, se applicabili, l’indirizzo geografico e l’identità del professionista per conto del quale agisce [...]»
In particolare, la Corte di Giustizia è chiamata a chiarire la portata applicativa dell’espressione “ove disponibili”.
Le informazioni fornite da Amazon
Ut supra ricordato, la direttiva, a tutela del consumatore, prevede che il professionista debba fornire varie informazioni per rendere più agevole al contraente debole la possibilità di contattare la controparte e, se del caso, esercitare il diritto di recesso. La direttiva indica espressamente tre strumenti di comunicazione:
numero di telefono;
numero di fax;
indirizzo di posta elettronica.
Orbene, sul sito di Amazon, nella sezione “contatti”, all’epoca dei fatti (2014), era prevista la possibilità di:
inviare un’e-mail;
entrare in contatto telefonico con un operatore;
avviare una chat.
Secondo le rimostranze dell’unione dei consumatori tedesca, sul sito di Amazon:
mancava il numero di telefono per le trasmissioni a mezzo fax;
non era immediatamente visualizzabile un numero telefonico per la chiamata, ma il sito offriva l’opportunità di lasciare il proprio recapito per essere successivamente ricontattati;
tramite un link, raggiungibile dopo una serie di “clic”, era possibile accedere alla pagina con il numero del servizio clienti, con l’avvertimento che il contatto con l’operatore richiedeva una serie di domande per accertare l’identità del chiamante.
Secondo le censure mosse dall’associazione tedesca, il servizio di richiamata di Amazon non soddisfaceva i requisiti d’informazione, giacché il consumatore doveva superare numerosi passaggi per entrare in contatto con un interlocutore. Infatti, la legge tedesca impone al professionista, prima di concludere con un consumatore un contratto a distanza o negoziato fuori dei locali commerciali, di fornire, in ogni caso, il proprio numero di telefono. Ebbene, secondo la Cassazione tedesca, per valutare se le doglianze sollevate siano fondate, occorre precisare la portata letterale della disposizione contenuta nella direttiva, anche per acclarare se la disciplina nazionale sia con essa compatibile, laddove imponga al professionista di dotarsi degli strumenti di comunicazione summenzionati.
Contesto e scopi perseguiti dalla direttiva
La Corte di Giustizia rileva come la disposizione in oggetto (art. 6, par. 1, lett.c) sia passibile di due diverse interpretazioni:
la norma prevede un obbligo in capo al professionista di comunicare al consumatore il numero di telefono e di fax, solo ove disponga di tali numeri;
la norma prevede un obbligo in capo al professionista di comunicare al consumatore il numero di telefono e di fax, solo ove disponga di tali numeri e li usi per i contatti con i consumatori.
Invero, il sintagma «ove disponibili» contenuto nell’art. 6 della direttiva non consente di perimetrare la portata della disposizione con certezza; pertanto, nell’analisi esegetica, occorre porre mente al contesto e alle finalità perseguite dal legislatore europeo. Ebbene, la direttiva impone un obbligo di informazione precontrattuale in capo al professionista nell’ambito dei contratti negoziati fuori dai locali commerciali e a distanza; inoltre, mira a garantire un elevato livello di tutela dei consumatori assicurando la loro informazione e la loro sicurezza nelle transazioni con i professionisti. Del resto, la protezione dei consumatori trova espressione nel Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (art. 169 TFUE) nonché nella Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (art. 38). In particolare, riveste importanza la possibilità, per il consumatore, di contattare il professionista rapidamente e di comunicare efficacemente con lui; infatti, solo in tal modo si realizza la salvaguardia e l’effettiva attuazione dei diritti del consumatore e, soprattutto, del diritto di recesso. Non a caso, il modulo per l’esercizio del recesso, prevede proprio l’indicazione del numero di telefono, di fax e e-mail.
Conclusioni
La Corte di Giustizia, in base al percorso delibativo sopra esposto, ha risposto cumulativamente alle cinque questioni pregiudiziali sollevate dal giudice tedesco, affermando che l’art. 6, paragrafo 1, lett. c), della direttiva 2011/83/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2011, sui diritti dei consumatori, debba essere interpretato nel senso che:
osta a una normativa nazionale – come quella tedesca – che impone al professionista, prima di concludere con un consumatore un contratto a distanza o negoziato fuori dei locali commerciali, di fornire, in ogni caso, il proprio numero di telefono;
non implica un obbligo per il professionista di attivare una linea telefonica, o di fax, o di creare un nuovo indirizzo di posta elettronica per consentire ai consumatori di contattarlo;
impone di comunicare tale numero o quello del fax o il suo indirizzo di posta elettronica soltanto nel caso in cui il professionista già disponga di tali mezzi di comunicazione con i consumatori;
non impedisce al professionista di utilizzare mezzi di comunicazione alternativi e diversi da quelli elencati, purché idonei a soddisfare i criteri di una comunicazione diretta ed efficace.
fonte: www.altalex.com

sabato 27 luglio 2019

Sigarette elettroniche, secondo l’Oms sono "indubbiamente dannose”

Le sigarette elettroniche sono «indubbiamente dannose» e vanno regolamentate: lo afferma l'Organizzazione mondiale della Sanità che ha messo in guardia i fumatori che vi ricorrono per smettere di fumare. In un rapporto globale sul fumo, l'Oms ha spiegato che anche se il contenuto di nicotina è inferiore e si evitano il catrame e i molti gas tossici contenuti nel fumo di pipa, sigari e sigarette, le «e-cig» pongono «rischi per la salute».
L'intervento dell'Oms arriva dopo le preoccupazioni espresse da molti governi per la nuova forma di dipendenza che sta creando la sigaretta elettronica. «Anche se il livello di rischio non è stato ancora stimato in modo definitivo», si legge nel comunicato dell'Oms, le sigarette elettroniche sono indubbiamente dannose e andrebbero quindi regolamentate».
Non ci sono inoltre prove sufficienti per dimostrare che siano di aiuto per i fumatori che intendono smettere, anche perché «la maggior parte le usa in parallelo alle sigarette tradizionali». Inoltre «la disinformazione» delle compagnie di tabacco sulle «e-cig» viene definita «una minaccia presente e reale». L'Oms ha comunque sollecitato un aumento dei servizi per chi intende smettere di fumare, osservando che ha la possibilità di accedervi «solo il 30% della popolazione mondiali».
Senza aiuto, solo il 4% dei tentativi di smettere di fumare va a buon fine. Nel mondo ogni anno sono otto milioni le persone che muoiono a causa del fumo, compreso quello passivo. I fumatori nel mondo sono un miliardo e 400 milioni, per lo più uomini.
fonte: www.lastampa.it

Tempi più lunghi per la dichiarazione dei redditi, invio fino al 30 novembre

Tempi più lungi per la consegna della dichiarazione dei redditi Unico. La scadenza slitta di due mesi e passa da settembre a fine novembre: quest’anno, poi, la coincidenza del fine settimana consente la consegna fino al 2 dicembre. È una delle novità in campo fiscale previste dal decreto Crescita che, dopo la conversione in legge, scattano da subito. Ma tra le novità, che impattano sulla vita dei contribuenti, ce ne sono anche altre che potrebbero migliorare il rapporto con il fisco, come quella che non potranno essere richiesti dati già in possesso dell’amministrazione finanziaria (come quelli sui medicinali forniti dalle farmacie) o la possibilità di non pagare imposte sugli affitti non incassati.

- UN NUOVO CALENDARIO PER REDDITI, IMU E TASI. Per l’invio telematico delle dichiarazioni dei redditi ci saranno due mesi di tempo in più: dal 30 settembre al 30 novembre. Cambia anche la data per le dichiarazioni relative a Imu e Tasi, che si fanno quando c’è un cambiamento di proprietà o valore la scadenza si sposta dal 30 giugno al 31 dicembre.
- RIAPERTURA ROTTAMAZIONE: Fino al 31 luglio si potrà aderire, pagando in un’unica soluzione al 30 novembre, o in 17 rate, la prima sempre il 30 novembre. Riaperto anche il saldo e stralcio. Possibile anche per gli enti locali che lo deliberano.
- IMU-TASI, NIENTE DICHIARAZIONE PER CASA AL FIGLIO: Non bisognerà più dichiarare al fisco il possesso dei requisiti per fruire delle agevolazioni Imu e Tasi per gli immobili concessi in comodato gratuito a parenti in linea retta di primo grado, come figli o genitori. Non servirà nemmeno per fruire degli sconti per gli immobili affittati a canone concordato.
- NIENTE DOCUMENTI SE IL FISCO GIÀ LI HA: In caso di controllo formale sulle dichiarazioni dei redditi, l’amministrazione finanziaria non può chiedere ai contribuenti certificazioni e documenti che siano già disponibili nell’anagrafe tributaria (girati già da banche, farmacie o assicurazioni, ad esempio per la precompilata). Questo vale anche per gli Isa, i nuovi indici di affidabilità che hanno sostituito gli studi di settore: non ci sarà bisogno di inserire i dati già indicati.
- AFFITTI E SEMPLIFICAZIONI: Per non pagare imposte sulle rette mai incassate, i proprietari di casa, incappati in inquilini morosi, non dovranno più aspettare la convalida di sfratto: basterà l’intimazione. La novità riguarderà i contratti stipulati dal 2020. Viene inoltre meno l’obbligo di rinnovo della cedolare secca.
- PROROGA ISA E MORATORIA MULTE SCONTRINI: I versamenti Isa slittano al 30 settembre. Moratoria di sei mesi delle sanzioni sugli scontrini elettronici. Raddoppiano le chance di vincere alla lotteria degli scontrini per chi paga col bancomat.
- ARRIVANO BONUS, DA BENI RICICLATI A RIAPERTURA BOTTEGHE. Sconti pari al 25% del costo per chi acquista prodotti che derivano per i tre quarti dal riutilizzo di rifiuti. Per le imprese l’aiuto si traduce in un credito d’imposta. La misura è finanziata con 20 milioni per il 2020. Rimborso totale dei tributi comunali, per un massimo di quattro anni, a chi rialza le saracinesche di negozi chiusi, da almeno sei mesi, in cittadine sotto i 20 mila abitanti. Anche qui il budget a regime è di 20 milioni annui.
fonte: www.lastampa.it

Il #CodiceRosso è legge: ecco che cosa prevede

Con 197 sì e 47 astenuti è stato definitivamente approvato al Senato il testo composto da 21 articoli che prevede modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, meglio noto come Codice Rosso.
Il provvedimento introduce la nuova categoria dei reati di violenza domestica o di genere nell’ambito della quale rientrano il reato di maltrattamenti contro conviventi o familiari, violenza sessuale aggravata o di gruppo, atti sessuali con minorenne, atti persecutori e lesioni aggravate commessi in contesti familiari o nell’ambito di relazioni di convivenza e introduce delle nuove disposizioni penali, volte all’irrigidimento del trattamento sanzionatorio e nuove previsioni processuali.

Maltrattamenti e atti persecutori. L’articolo 9 interviene sui delitti di maltrattamenti contro familiari e conviventi e di atti persecutori, elevando la pena minima a 3 anni, fino a una massima di sette. Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da 4 a 9 anni; con una lesione gravissima, la reclusione da 7 a 15 anni. In caso di morte, la reclusione raddoppia da 12 a 24 anni. La fattispecie viene ulteriormente aggravata quando il delitto di maltrattamenti è commesso in presenza o in danno di minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità.
Analogamente a quanto previsto per lo stalking, anche per tale reato sarà possibile applicare la misura della sorveglianza speciale.
Revenge porn, punito anche chi solo condivide immagini. La legge introduce il nuovo reato di Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (art. 612-ter c.p.), c.d. revenge porn, che punisce chi realizza e diffonde immagini o video privati, sessualmente espliciti, senza il consenso delle persone rappresentate per danneggiarle a scopo di vendetta o di rivalsa personale. È punito anche colui che, più semplicemente, condivide le immagini online, con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 5mila a 15mila euro e prevede una serie di aggravanti nel caso, ad esempio, se il reato di pubblicazione illecita è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato o da una persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa.
Deformazione dell'aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso. Il provvedimento prevede per chi commette la deformazione dell'aspetto della persona mediante lesioni permanenti la pena della reclusione da 8 a 14 anni. Se lo sfregio causa la morte della vittima la pena è quella dell'ergastolo. In caso di condanna, scatta l'interdizione perpetua da qualsiasi ufficio attinente alla tutela, alla curatela ed all'amministrazione di sostegno.
Matrimonio forzato. Rappresenta una novità l’introduzione del delitto di Costrizione o induzione al matrimonio (art. 558-bis c.p.) che colpisce chi con violenza o minaccia, costringe una persona a contrarre vincolo di natura personale o unione civile, approfittando delle condizioni di vulnerabilità o di inferiorità psichica o di necessità di una persona. La fattispecie è punita con la reclusione da 1 a 5 anni. Viste le caratteristiche del fenomeno si stabilisce che il reato sia punito anche quando il fatto è commesso all’estero da cittadino italiano o da straniero residente in Italia.
Ergastolo per omicidio aggravato. L’articolo 11 modifica il codice penale intervenendo sull’omicidio aggravato dalle relazioni personali, di cui all’art. 577 c.p., per estendere il campo d’applicazione delle aggravanti consentendo l’applicazione dell’ergastolo anche in caso di relazione affettiva senza stabile convivenza o di stabile convivenza non connotata da relazione affettiva.
Lesioni permanenti personali. Per chi causa delle lesioni permanenti personali gravissime, come la deformazione o lo sfregio permanente del viso, è stabilita la pena da 8 a 14 anni di carcere.
Violenza sessuale, fino a 24 anni di reclusione. L’articolo 13 inasprisce le pene per i delitti di violenza sessuale che, in caso di violenza su un minore di 10 anni, parte da un minimo di 12 fino a un massimo di 24 anni di reclusione.
Sul versante processuale, la legge ottempera a quanto imposto dalla Corte Europea nella sentenza Talpis, che ha condannato il nostro Paese anche in ragione della inerzia investigativa concretizzatasi nell’inaccettabile ritardo con cui la vittima è stata ascoltata dagli inquirenti (circa 7 mesi dopo la presentazione della prima denuncia).
Attuando una politica di pronta protezione della vittima, il testo si prefigge di garantire la priorità nella trattazione delle indagini e l’immediata instaurazione del procedimento al fine di pervenire nel più breve tempo all’adozione di provvedimenti “di protezione o di non avvicinamento”, secondo quanto prescrive, fra l’altro, la Direttiva 2012/29/UE.
Velocizzazione delle indagini e dei procedimenti giudiziari. Gli articoli da 1 a 3 intervengono sul codice di rito estendendo alla delineata categoria dei reati di violenza di genere o domestica il regime speciale attualmente previsto per i più gravi delitti. La polizia giudiziaria sarà tenuta a comunicare al pubblico ministero le notizie di reato immediatamente anche in forma orale. La polizia giudiziaria dovrà infatti attivarsi immediatamente, vale a dire d’urgenza: è esclusa ogni possibilità di valutazione delle ragioni o meno dell’urgenza. Imponendo l'immediata comunicazione della notizia di reato si introduce una presunzione assoluta di urgenza rispetto ai fenomeni criminosi per i quali l'inutile decorso del tempo può portare spesso ad un aggravamento delle conseguenze dannose o pericolose. Il pubblico ministero, entro 3 giorni dall’iscrizione della notizia di reato, assume informazioni dalla persona offesa o da chi ha denunciato i fatti di reato e si stabiliscono tempi più rapidi (senza ritardo) per la conduzione delle indagini delegate alla polizia giudiziaria e la trasmissione dei relativi atti all’organo inquirente. È introdotto, così, un canale preferenziale nella trattazione delle investigazioni.
Rafforzamento del divieto di allontanamento della casa familiare o avvicinamento. Le misure dell’allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, vengono rafforzate attraverso la predisposizione del c.d. braccialetto elettronico. La violazione degli obblighi o dei divieti previsti dall’autorità giudiziaria nei provvedimenti dà luogo ad una nuova fattispecie di reato, punita con la reclusione da sei mesi a tre anni.
Obbligo di comunicazione alla persona offesa e al suo difensore e al giudice civile. Il testo impone la comunicazione alla persona offesa e al difensore dei provvedimenti di scarcerazione, di volontaria sottrazione e cessazione della misura cautelare o della misura sicurezza detentiva.
Il testo prevede, altresì, che, se sono in corso procedimenti civili di separazione dei coniugi o cause relative ai figli minori di età o relative alla potestà genitoriale, il giudice penale deve trasmettere, senza ritardo, al giudice civile copia dei seguenti provvedimenti, adottati in relazione a un procedimento penale per un delitto di violenza domestica o di genere: ordinanze relative a misure cautelari personali, avviso di conclusione delle indagini preliminari, provvedimento di archiviazione, sentenza.
Percorsi di recupero psicologico per condannati per reati sessuali. Al fine di ridurre la recidiva, si prevede la possibilità per i condannati di sottoporsi a un trattamento psicologico con finalità di recupero e di sostegno, suscettibile di valutazione ai fini della concessione dei benefici penitenziari.
Più risorse per orfani del femminicidio. Sul fronte delle risorse, la legge recepisce il finanziamento di 7 milioni a partire dal 2020, già previsto nella Legge di Bilancio a tutela degli orfani.
Formazione specifica per polizia e carabinieri. Al fine di garantire le dovute cognizioni specialistiche necessarie a trattare, sul piano della prevenzione e/o al perseguimento dei reati di violenza domestica e di genere che assumono rilevanza penale, da parte degli organi di pubblica sicurezza, si prevede l’attivazione di specifici corsi di formazione per il personale della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri e della Polizia penitenziaria.

Fonte: il www.penalista.it

Il tempo per indossare e dismettere la divisa da infermiere deve essere retribuito

La Corte di cassazione civile con ordinanza n. 17635 del 1 luglio 2019 ha stabilito che le attività di vestizione/svestizione compiute da infermieri dipendenti di una ASL attengono a comportamenti integrativi della obbligazione principale e funzionali al corretto espletamento dei doveri di diligenza preparatoria; - trattasi di attività che non sono svolte nell'interesse dell'Azienda ma dell'igiene pubblica e, come tali, esse devono ritenersi implicitamente autorizzate da parte dell'Azienda stessa; - per il lavoro all'interno delle strutture sanitarie, anche nel silenzio della contrattazione collettiva integrativa, il tempo di vestizione e svestizione dà diritto alla retribuzione, essendo tale obbligo imposto dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene riguardanti sia la gestione del servizio pubblico sia la stessa incolumità del personale addetto.
Svolgimento del processo
1. con sentenza n. 644/2014, pubblicata in data 3 luglio 2014, la Corte d'Appello di L'Aquila confermava la decisione del Tribunale di Chieti che aveva accolto la domanda proposta dagli odierni intimati indicati in epigrafe, tutti dipendenti dell'ASL 2 (Omissis) con la qualifica di infermieri, e riconosciuto in loro favore il diritto alla retribuzione del tempo impiegato per indossare e dismettere la divisa, trattandosi di attività obbligatoria, accessoria e propedeutica alla prestazione di lavoro;
1.1. rilevava la Corte territoriale che, in punto di fatto, non fosse contestato che il personale infermieristico doveva necessariamente indossare e dismettere la divisa di lavoro (camice e mascherina protettiva), per intuibili ragioni di igiene, negli stessi ambienti dell'Azienda - e non ovviamente da casa - prima dell'entrata e dopo l'uscita dai relativi reparti, rispettivamente, prima e dopo i relativi turni di lavoro;
1.2. richiamava, poi, i principi affermati da questa Corte secondo i quali ove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo per indossare la divisa stessa (e quindi anche presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro) la relativa attività fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell'attività lavorativa, e come tale non deve essere retribuita, mentre se tale operazione è diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina tali tempo e luogo, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito (citava, al riguardo, Cass. n. 19358/2010; Cass. n. 15492/2009; Cass. n. 15734/2003);
1.3. riteneva che i principi generali ricavabili dalle norme interne, di ispirazione comunitaria, poste dal d.lgs. n. 661/2003, sorreggessero a pieno l'approdo giurisprudenziale per cui il 'tempo divisa' costituisce lavoro effettivo (retribuibile) tutte le volte in cui risulta essere eterodiretto dal datore di lavoro, che dirige ed organizza, tra le altre, anche le modalità di esecuzione di tale operazione: in tal caso l'esatto adempimento preteso, anche in via implicita, dal potere datoriale non riguarda soltanto l'attività lavorativa in senso stretto, ma anche tutte quelle operazioni complementari o strumentali a quell'attività;
1.4. sottolineava il dato che, nella presente fattispecie, gli indumenti di lavoro adottati fossero specifici e ben caratterizzati così da escludere che potessero essere indossati anche all'esterno dell'ambito lavorativo e da far ritenere, al contrario, che l'atto di vestizione costituisse lavoro effettivo e desse diritto a retribuzione;
1.5. precisava che l'incombente, ancorché correlato alla fase preparatoria, non fosse rimesso alla libertà del lavoratore, tanto che il datore poteva rifiutare la prestazione lavorativa senza di esso;
1.6. il tempo impiegato era dunque, strettamente funzionale all'esecuzione della prestazione lavorativa de qua ed integrava un'attività costituente corretto adempimento di un obbligo nascente dal rapporto di lavoro;
1.7. correttamente, pertanto, il giudice di primo grado ne aveva previsto la retribuibilità;
1.8. riteneva che la quantificazione del tempo impiegato dai lavoratori appellati per anticipare, prima dell'inizio del turno, e posticipare, a fine turno, la timbratura del cartellino al fine di potere completare l'orario previsto, fosse stata in modo attendibile valutata equitativamente dal primo giudice nella misura di circa 15 minuti per la vestizione ed altrettanti per la svestizione, evidenziando, in ogni caso, che la stessa non fosse stata contestata dalla parte appellante, se non in modo generico ed indeterminato;
1.9. considerava, infine, infondata l'eccezione di inammissibilità delle domande dei ricorrenti per la mancata impugnazione del regolamento aziendale disciplinante l'orario di lavoro, non ravvisando alcun rapporto di propedeuticità tra tale impugnazione e le rivendicazioni di cui al giudizio;
2. per la cassazione di tale decisione ha proposto ricorso l'ASL, affidando l'impugnazione a quattro motivi;
3. le parti intimate non hanno svolto attività difensiva;
4. l'ASL ricorrente ha presentato istanza di rimessione della causa alle Sezioni unite ex art. 376 e 139 dip. att. c.p.c..
Motivi della decisione
Considerato che:
1. con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 6 R.D.L. 5 marzo 1923 numero 692, dell'art. 10 del R.D. 10 settembre 1923, n. 1955, dell'art. 2, comma 2, del D.L.vo 30 marzo 2001, n. 165 e dell'art. 2, comma 1, della direttiva UE 23/11/1993 n. 98/104/CE, dell'art. 1, comma 2, lett. a), del d.lgs. 8 aprile 2003 numero 66, dell'art. 18 del c.c.n.l. normativo 1994-1997 economico 1994-1995, comparto sanità 1/9/1975; censura la sentenza impugnata per aver qualificato il tempo occorrente per la vestizione come strettamente funzionale all'esecuzione della prestazione e costituente corretto adempimento di un obbligo nascente dal rapporto di lavoro e per non aver applicato correttamente i principi enunciati da questa Corte in ordine alla etero-direzione della prestazione di vestizione e svestizione preparatoria dell'adempimento della prestazione lavorativa; deduce che l'elemento qualificante la eterodirezione è la determinazione da parte del datore di lavoro delle modalità e della tempistica dell'esecuzione e che nella specie era mancata la prova dell'esistenza di puntuali disposizioni dell'Azienda ricorrente che imponessero ai lavoratori determinate modalità di effettuazione delle operazioni vestizione e svestizione;
2. con il secondo motivo la ricorrente denuncia omesso esame circa l'esistenza di un obbligo in capo ai resistenti di indossare e dismettere l'abbigliamento da lavoro prima dell'inizio del turno ordinario e dopo la fine dello stesso ed omesso esame circa la mancata prova dell'effettivo svolgimento degli stessi di tali attività nei su citati spazi temporale;
3. con il terzo motivo la ricorrente denuncia omesso esame in ordine all'eccepita violazione ed erronea applicazione della normativa anche contrattuale in materia di lavoro straordinario e rileva che le attività aggiuntive, riconosciute retribuibili dalla sentenza, dovevano essere qualificate come lavoro straordinario, in quanto eccedenti l'orario ordinario come previsto dal contratto collettivo; rileva che la gestione del lavoro straordinario nel pubblico impiego è, tuttavia, soggetta alla necessità di specifica autorizzazione;
4. con il quarto motivo la ricorrente denuncia erronea e/o insufficiente motivazione in ordine alla quantificazione del tempo occorrente per la materiale effettuazione delle operazioni di vestizione oggetto della controversia; rileva che la sentenza impugnata non evidenzia alcun elemento oggettivo cui ancorare in complessivi 15 minuti la misura del tempo occorrente per l'effettuazione delle operazioni di cambio camice;
5. i primi tre motivi di ricorso, da trattarsi congiuntamente in quanto intrinsecamente connessi, sono infondati;
6. in questa sede va data continuità ai precedenti specifici di questa Corte (v. Cass. 11 febbraio 2019, n. 3901; Cass. 24 maggio 2018, n. 12935; Cass. 22 novembre 2017, n. 27799) nei quali si è affermato che: - le attività di vestizione/svestizione attengono a comportamenti integrativi della obbligazione principale e funzionali al corretto espletamento dei doveri di diligenza preparatoria; - trattasi di attività che non sono svolte nell'interesse dell'Azienda ma dell'igiene pubblica e, come tali, esse devono ritenersi implicitamente autorizzate da parte dell'Azienda stessa; - per il lavoro all'interno delle strutture sanitarie, anche nel silenzio della contrattazione collettiva integrativa, il tempo di vestizione e svestizione dà diritto alla retribuzione, essendo tale obbligo imposto dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene riguardanti sia la gestione del servizio pubblico sia la stessa incolumità del personale addetto;
6.1. tali affermazioni non si pongono in contrasto con il principio di cui a Cass. 7 giugno 2012, n. 9215, secondo cui, nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo necessario a indossare l'abbigliamento di servizio ('tempo-tuta') costituisce tempo di lavoro soltanto ove qualificato da eterodirezione, in difetto della quale l'attività di vestizione rientra nella diligenza preparatoria inclusa nell'obbligazione principale del lavoratore e non dà titolo ad autonomo corrispettivo (principio ribadito anche da Cass., sez. Un., 16 maggio 2013, n. 11828);
6.2. ed infatti il più recente orientamento rappresenta uno sviluppo del precedente indirizzo (del tutto in linea con il principio) ed una integrazione della relativa ricostruzione, ponendo l'accento sulla funzione assegnata all'abbigliamento, nel senso che l'eterodirezione può derivare dall'esplicita disciplina d'impresa ma anche risultare implicitamente dalla natura degli indumenti - quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell'abbigliamento - o dalla specifica funzione che devono assolvere e così dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene riguardanti sia la gestione del servizio pubblico sia la stessa incolumità del personale addetto (si vedano anche Cass. 28 marzo 2018, n. 7738 e Cass. 26 gennaio 2016, n. 1352);
6.3. pur con definizioni non sempre coincidenti, essendosi fatto riferimento, in alcuni casi al concetto di 'eterodirezione implicita', in altri all'obbligo imposto dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene, discendente dall'interesse all'igiene pubblica, in altri ancora all'esistenza di 'autorizzazione implicita', l'orientamento della giurisprudenza di legittimità è, dunque, saldamente ancorato al riconoscimento dell'attività di vestizione/svestizione degli infermieri come rientrante nell'orario di lavoro e da retribuire autonomamente, qualora sia stata effettuata prima dell'inizio e dopo la fine del turno;
6.4. tale soluzione, del resto, è stata ritenuta in linea con la giurisprudenza comunitaria in tema di orario di lavoro di cui alla direttiva n. 2003/88/CE (Corte di Giustizia UE del 10 settembre 2015 in C-266/14; v. Cass. n. 1352/2016 cit. alla quale si rinvia per ulteriori approfondimenti sul punto);
7. sugli esposti principi non incidono le censure svolte in questa sede sotto il profilo del difetto di prova dell'esistenza di puntuali disposizioni dell'Azienda (Regolamento disciplinante l'orario di lavoro, specifiche disposizioni di servizio);
7.1. ciò che rileva, come evidenziato nei precedenti citati, è unicamente che le attività preparatorie di cui trattasi siano state svolte all'interno dell'orario di lavoro - e come tali retribuite - o piuttosto, come accertato dalla sentenza impugnata, in aggiunta ed al di fuori dell'orario del turno, dovendo in tal caso essere autonomamente retribuite;
8. quanto all'effettuazione delle indicate prestazioni al di fuori del normale orario di lavoro (secondo la sentenza impugnata 'prima e dopo i relativi turni di lavoro') la censura della ricorrente scivola, in modo inammissibile, sul piano dell'appezzamento del merito;
9. con riguardo, poi, alle invocate norme, di legge e di contratto collettivo, relative alla disciplina del lavoro straordinario, si è già evidenziato che si tratta di attività che, in quanto svolte nell'interesse del servizio pubblico oltre che a tutela dell'incolumità del personale addetto, devono ritenersi implicitamente autorizzate dall'Azienda (v. Cass. n. 27799/2017 cit., in motivazione) ed anzi da essa imposte, potendo in mancanza l'Azienda rifiutare di ricevere la prestazione; dette attività avrebbero dovuto, pertanto, essere comprese all'interno del debito orario;
10. non essendo riscontrabile alcun contrasto tra le pronunce di questa Corte sopra citate, ove rettamente intese nei loro rispettivi dicta, non si ravvisano gli estremi per la rimessione della presente controversia alle Sezioni Unite;
11. è infine inammissibile il quarto motivo sia perché la denuncia di una 'erronea e/o insufficiente motivazione' non è conforme alla nuova formulazione dell'art. 350, n. 5, cod. proc. civ, disposta dall'art. 54, co. 1, lett. b) d.l. n. 83/12, convertito in I. n. 134/12, sia perché non ha formato oggetto di doglianza l'ulteriore argomentazione della Corte d'appello secondo cui la valutazione equitativa del primo giudice non era stata contestata dalla parte appellante, se non in modo generico ed indeterminato;
13. il ricorso deve essere conclusivamente respinto;
14. nulla va disposto per le spese non avendo l'intimata svolto attività difensiva;

15. va dato atto dell'applicabilità dell'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228 considerato che, in base al tenore letterale della disposizione, l'obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo - ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione - del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l'impugnante, dell'impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell'ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell'apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass., sez. Un., n. 22035/2014).

sabato 20 luglio 2019

Coppie omosessuali: legittimo vietare la procreazione assistita

Con un comunicato del 18 giugno 2019 l’Ufficio stampa della Corte Costituzionale ha annunciato che la Consulta, in pari data, ha statuito che non è illegittimo il divieto di procreazione assistita, posto a carico delle coppie omosessuali, dalla Legge sulla procreazione medicalmente assistita.
La Consulta, in camera di consiglio, ha infatti discusso le questioni sollevate dai Tribunali di Pordenone e di Bolzano in ordine alla legittimità costituzionale della Legge n. 40 del 19 febbraio 2004 (recante “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”), nella parte in cui vieta alle coppie omosessuali di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita.
In attesa del deposito della sentenza, completa di motivazione, l’Ufficio stampa della Corte ha quindi anticipato che al termine della discussione le questioni sono state dichiarate infondate.
In altre parole, i giudici delle leggi hanno ritenuto che le disposizioni censurate non siano in contrasto coi principi costituzionali invocati dai due Tribunali.
Si ricorderà che lo stesso articolato è stato più volte sottoposto alla lente di legittimità:
nel 2009, i commi II e III dell’articolo 14 venivano dichiarati parzialmente illegittimi (sentenza n. 151): più in dettaglio il comma II veniva giudicato illegittimo laddove prevedeva un limite di produzione di embrioni “comunque non superiore a tre” e finanche nella parte ove prevedeva l’obbligo di “un unico e contemporaneo impianto”. Il comma III, che statuiva di poter crioconservare gli embrioni “qualora il trasferimento nell’utero degli embrioni non risulti possibile per grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione”, veniva dichiarato illegittimo nella parte ove non prevedeva che il trasferimento di siffatti embrioni, “da realizzare non appena possibile”, dovesse essere effettuato anche senza pregiudizio per la salute della donna;
nel 2014 la stessa Corte Costituzionale sanciva l’illegittimità della Legge n. 40 rispetto agli articoli 2, 3, 29, 31, 32, e 117 della Costituzione e agli articoli 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nella parte ove vietava il ricorso a un donatore esterno di ovuli o spermatozoi in ipotesi di infertilità assoluta;
nel 2015, infine, gli stessi giudici dichiaravano illegittimo l’articolo 13, commi III, lettera b, e IV, che sanzionava penalmente la condotta dell’operatore medico preordinata a consentire il trasferimento nell’utero della donna dei soli embrioni sani, o portatori sani di malattie genetiche, per contrasto rispetto agli articoli 3 e 32 della Costituzione, facendo in tal modo salva quella parte della norma che vieta la soppressione degli embrioni malati e non inutilizzabili, non potendo essere ridotti alla stregua di mero materiale biologico.
fonte: www.altalex.com

mercoledì 3 luglio 2019

Condannato per l’incidente l’automobilista, anche se accecato dal sole

In caso di sinistro stradale con investimento del pedone che attraversava al di fuori delle strisce pedonali, la repentinità nell’attraversamento non esclude la responsabilità del conducente che non abbia osservato una condotta diligente. Sul punto è tornata ad esprimersi la Corte di Cassazione con sentenza n. 27876/19, depositata il 26 giugno.
Il fatto. Dopo la dichiarazione nei primi gradi di giudizio di non doversi procedere nei confronti dell’imputata per il reato di lesioni colpose gravi con violazione della disciplina sulla circolazione stradale, per essere il reato estinto per intervenuta remissione di querela da un lato e insussistenza del fatto dall’altro (in particolare l’imputata avrebbe urtato violentemente i pedoni che stavano attraversando la strada provocando ad entrambi lesioni gravi), le parti civili ricorrono in Cassazione.
La penale responsabilità del conducente. Secondo i costanti principi della giurisprudenza, poiché l’esercizio del diritto di precedenza non può considerarsi illimitato, dovendo essere subordinato al principio del “neminem laedere” dove un pedone attraversi la carreggiata fuori dalle strisce pedonali, il conducente è tenuto a rallentare e ad interrompere la marcia per evitare incidenti che potrebbero derivare dalla mancata cessione della precedenza a suo favore. In caso contrario, il conducente è responsabile per l’evento colposo verificatosi. Inoltre, il fatto che l’automobilista fosse abbagliato dal sole non integra un caso fortuito e non esclude la penale responsabilità per i danni che ne derivano alle persone.
Da ciò consegue l’annullamento della sentenza impugnata.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it


TARI: chi non conferisce rifiuti paga solo la quota fissa

La Cassazione, con sentenza innovativa, stabilisce quando è possibile evitare di pagare la quota variabile della TARI.
Tassa sui rifiuti. La tassa sui rifiuti è corrisposta in base a tariffa commisurata ad anno solare coincidente con un’autonoma obbligazione tributaria.
La tariffa fa riferimento alla superficie dei locali e delle aree oggetto della tassa ed è commisurata alle quantità e qualità medie ordinarie di rifiuti prodotti per unità di superficie, in relazione agli usi e alla tipologia di attività svolte. La tariffa è composta da una parte fissa, determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio, e da una parte variabile, rapportata alle quantità di rifiuti conferiti; la tariffa inoltre è articolata nelle fasce di utenza domestica e non domestica.
A tale riguardo la Cassazione, con la sentenza 23 maggio 2019 n. 14038, ha chiarito che mentre la quota fissa è sempre dovuta, quella variabile non è dovuta se il contribuente dimostra, alternativamente:
– di non produrre rifiuti suscettibili di smaltimento, in quanto riciclati o venduti a terzi;
– di produrre esclusivamente rifiuti speciali non assimilati o non assimilabili agli urbani.

Fonte: fiscopiu.it

È diritto del detenuto in carcere richiedere una visita specialistica a proprie spese

Con la pronuncia Cass. pen. del 20 giugno 2019, n. 27499 è stata rigettata la decisione del Gip del tribunale di Roma che respinge la richiesta di un detenuto di autorizzazione all’accesso dei suoi due medici presso l'istituto penitenziario ove si trova ristretto al fine di essere sottoposto ad una visita specialistica.
La richiesta di essere sottoposto ad una visita specialistica a suo spese rappresenta un diritto e non una pretesa come invece motivato dal Gip.
Il detenuto lamenta, dunque, la grave ed evidente violazione di uno dei diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione: il diritto alla salute (art. 11, comma 12, della legge n. 354/1975 - nella vigente formulazione introdotta dall'art. 1 del d.lgs. n. 123/2018).
Invero, i detenuti e gli internati possono chiedere di essere visitati a proprie spese da un medico di fiducia senza che ricorrano limiti o condizioni, se non la necessità di curarsi, necessità che presuppone l'accertamento sanitario delle proprie condizioni.
Ne consegue che il provvedimento impugnato viola la normativa di riferimento là dove opina l'esigenza di sindacare le ragioni della effettiva necessità della visita medica esterna e là dove stigmatizza come "pretesa" quello che costituisce un vero e proprio diritto del richiedente, costituzionalmente garantito.

lunedì 1 luglio 2019

Lascia l’auto in sosta con il finestrino aperto, viene multato per “induzione al reato”

È stato multato per induzione a commettere reato un turista che aveva dimenticato aperto il finestrino dell’auto parcheggiata ad Alghero (Sassari). A raccontare della singolare multa - 41 euro - è “La Nuova Sardegna” di oggi. All’automobilista in vacanza nella città del nord Sardegna il vigile ha applicato un articolo del codice della strada che obbliga i conducenti, durante la sosta e la fermata, ad adottare «opportune cautele atte a evitare incidenti e impedire l’uso del veicolo senza il suo consenso». Chi non segue la prescrizione, può essere considerato responsabile di induzione a commettere reato.
«Mi sembra tutto così assurdo» commenta il diretto interessato, Renato Ricci, nato a Sassari, 77 anni, ma che vive a Superga, periferia di Torino, da sessant’anni. Dopo essersi consultato con l’avvocato, e constatato che non c’è alternativa a quel che prescrive il codice della strada all’articolo 158, ha pagato la multa entro i cinque giorni che garantiscono uno sconto: 29 euro anziché 41. Ma la notizia di quella contravvenzione ha fatto il giro d’Italia e lui è in qualche modo ripagato, perché si sente vittima di «un eccesso di zelo, troppa severità, non capisco proprio - spiega ai giornalisti - Mi chiedo cosa dovrebbe succedere a chi ha una moto o una decapottabile».
Artista giramondo, scenografo, insegnante, titolare di una bottega di restauro, da bambino veniva in vacanza ad Alghero e ora che è in pensione ha acquistato un appartamento in centro storico. «Se c’è il cane viaggio sempre con i finestrini aperti - racconta - Sono uscito di mattina presto per fare un giro con lui, ho fatto la spesa e poi ho posteggiato, ho preso l’animale, le buste della spesa e ho dimenticato di chiudere l’auto», scherza. Appreso dall’avvocato che la multa e la motivazione non erano un refuso o un’esagerazione, ha cercato conforto tra commercianti e ausiliari del traffico. «Tutti trasecolavano», riferisce.
Non però il maggiore Carmelo Pais della Polizia locale, che attualmente regge il comando di via Mazzini. «Un agente esperto e competente ha fatto quel che dice il codice della strada - sostiene - Ci aveva segnalato la presenza di un auto sospetta, forse rubata, perché lasciata con i finestrini aperti e senza la sicura agli sportelli - ricostruisce Pais - la pattuglia è arrivata e ha constatato che, oltre al rischio di furto, qualche malintenzionato avrebbe potuto tirare giù il freno a mano e far finire la vettura, che era in discesa, in mezzo alla strada». Di certo, sottolinea, «il signore, che forse non conosceva il codice della strada, non si scordera’ più di chiudere la macchina».

fonte: www.lastampa.it

Responsabilità professionale medica, stop alle "liti temerarie" contro i medici

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