martedì 31 marzo 2020

Coronavirus: sì alla camminata genitore-figlio minore, ammesso il jogging

«È da intendersi consentito, a un solo genitore, camminare con i propri figli minori in quanto tale attività può essere ricondotta alle attività motorie all'aperto, purché in prossimità della propria abitazione. La stessa attività può essere svolta nell'ambito di spostamenti motivati da situazioni di necessità o per motivi di salute». È quanto precisa la circolare con la quale il Viminale dà ai prefetti «taluni chiarimenti in merito a profili applicativi in tema di divieto di assembramento o di spostamenti di persone fisiche».
E «l'attività motoria generalmente consentita», precisa il testo, «non va intesa come equivalente all'attività sportiva (jogging)». Il Viminale ha poi successivamente comunicato una precisazione: il jogging continua a essere ammesso, ma la possibilità di uscire con il bambino non deve essere considerata come attività sportiva, ossia jogging.
Il rispetto delle misure, spiega il documento firmato dal capo di gabinetto Matteo Piantedosi, impone la necessità di «valutazioni ponderate rispetto alla specificità delle situazioni concrete». Ad esempio, «il divieto di assembramento non può ritenersi violato dalla presenza in spazi all'aperto di persone ospitate nella medesima struttura di accoglienza (ad esempio, case-famiglia) anche se «chiunque acceda dall'esterno (operatori, fornitori, familiari, etc) sarà comunque tenuto al rispetto del divieto, della distanza interpersonale di un metro e all'utilizzo dei presidi sanitari (mascherine e guanti)». Potranno altresì «essere consentiti spostamenti nei pressi della propria abitazione giustificati da esigenze di accompagnamento di anziani o inabili da parte di persone che ne curano l'assistenza, in ragione della riconducibilità dei medesimi spostamenti a motivazioni di necessità o di salute». In ogni caso, tutti gli spostamenti restano «soggetti al divieto generale di assembramento e all'obbligo di rispettare la distanza di sicurezza minima di un metro da ogni altra persona».
Garante Infanzia: l’«ora d'aria» ai bambini possibile, con cautele
«I bambini possono uscire di casa se accompagnati da un genitore, purché rimangano nei pressi dell'abitazione, nella misura strettamente necessaria e siano rispettate scrupolosamente le regole di distanziamento sociale. È responsabilità del genitore evitare in modo rigoroso qualsivoglia contatto con gli altri». Prima del chiarimento del Viminale, sul tema delle passeggiate con i bambini era intervenuta l'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza Filomena Albano.
«È vero - dice la Garante - che le misure di contenimento consentono solo uscite “individuali” e, quindi, sembrano escludere la possibilità di fare una passeggiata attorno a casa per i minorenni, almeno quelli con meno di 14 anni, poiché questi per poter uscire devono per legge essere accompagnati da un familiare. Tuttavia un'interpretazione sistematica delle norme vigenti porta a ritenere che lo svolgimento dell'attività motoria nei pressi dell'abitazione sia consentito anche ai più piccoli in compagnia del genitore o del familiare convivente, purché questo avvenga nel rispetto delle regole sul distanziamento sociale, lo stretto necessario e con tutte le dovute cautele. Anche perché, se ciò non fosse possibile, si finirebbe per negare ai bambini, che più di altri necessitano di movimento all'aria aperta in ragione della loro età, una possibilità già concessa agli adulti».
(fonte: www.lastampa.it)

Lascia il tetto coniugale per accudire la madre malata: separazione a suo carico

Confermato a carico dell’uomo l’addebito per la rottura con la moglie. Per i Giudici è evidente che la scelta compiuta dal marito ha reso impossibile la prosecuzione della convivenza con la consorte. Irrilevante il richiamo ai problemi manifestati dalla donna, ossia ipocondria, depressione e gelosia.
Nessuna giustificazione per il marito ‘mammone’ che abbandona – momentaneamente – il tetto coniugale per stare vicino alla madre. Addebitabile a lui, di conseguenza, la rottura con la moglie (Cassazione, ordinanza n. 1448/20, sez. VI Civile).

Allontanamento. Ufficializzata la separazione della coppia, i Giudici la addebitano al marito, che viene anche obbligato a versare il mantenimento alla moglie e a fornire un adeguato contributo economico alle due figlie. Sia in primo che in secondo grado viene ritenuto decisivo «l’allontanamento» dell’uomo dal «domicilio coniugale»: quella azione, non giustificabile dalla «esigenza di accudire la madre», è ritenuta la causa scatenante del conflitto con la consorte.
L’uomo punta a mettere in discussione la valutazione compiuta in Appello, e pone in evidenza, nel contesto della Cassazione, i problemi manifestati dalla moglie, cioè «depressione, ipocondria e gelosia smisurata», problemi che, a suo dire, avrebbero reso insostenibile la prosecuzione della convivenza sotto lo stesso tetto.
Convivenza. La visione alternativa proposta dall’uomo viene però respinta dai Giudici della Cassazione, che mostrano di condividere l’ottica adottata in Appello, laddove si è sostenuto che la mancata «prosecuzione della convivenza» coniugale «era ascrivibile alla condotta del marito», ossia «il suo allontanamento dal domicilio coniugale» che non poteva essere «giustificato dalla esigenza di accudire la madre».
Irrilevanti, invece, i richiami alle difficoltà della donna, concretizzatesi in «ipocondria e depressione» e in una «smisurata gelosia» nei confronti del marito.
Per quanto concerne, poi, il lato economico, i Giudici confermano il diritto della moglie a percepire un piccolo «assegno di mantenimento» – di 100 euro mensili, per la precisione -, una volta preso atto della «indubbia disparità economica tra i coniugi».
Non in discussione, infine, anche «il contributo» dell’uomo in favore delle due figlie – per una cifra pari a 650 euro – oltre a «spese straordinarie». Inutile il richiamo fatto alla presunta «indipendenza economica» di una delle due figlie, nonostante ella abbia raggiunto la maggiore età e si sia trasferita in un’altra città.
(fonte: www.dirittoegiustizia.it)

Reati stradali: in caso di incidente non basta solo fermarsi, bisogna “mettersi a disposizione”

In tema di reati “stradali”, affinché possa dirsi rispettato il precetto posto dell'art. 189, comma 6, del d.Igs. n. 285 del 1992, l'agente deve effettuare una fermata che, per le concrete modalità, sia in grado di soddisfare le esigenze di genere potenzialmente pubblicistico, oltre che certamente privatistiche, di ricostruire compiutamente accaduto ed eventuali responsabilità, oltre che di verificare, sia pure con valutazione atecnica e sommaria, l'eventuale presenza di feriti, accertamento che sarebbe impossibile ove il soggetto si allontani e che costituisce il presupposto per l'applicazione del comma successivo. Scopo avuto di mira da tale norma, valutato nel suo complesso, è dunque quello di imporre ai consociati in genere, anzitutto, di fermarsi con atteggiamento costruttivo e solidale, per poi, con espressione di sintesi, "mettersi a disposizione" civilmente di chi abbia ipoteticamente subito danni reali o personali per effetto di un incidente, addirittura contribuendo, per quanto possibile, nell'attesa dell'intervento della polizia stradale, a porre in essere le misure idonee a salvaguardare la sicurezza della circolazione e a conservare immodificato lo stato dei luoghi (Cassazione penale, Sez. IV, sentenza 9 marzo 2020, n. 9212).

Il fatto
La vicenda processuale segue alla sentenza con la quale la Corte di appello, confermando la pronuncia emessa dal Tribunale, aveva riconosciuto il conducente di un’autovettura responsabile del reato di "fuga" ex art. 189, comma 6, del d.Igs. 30 aprile 1992, n. 285, per essersi allontanato dopo avere investito, essendo alla guida di un'auto senza copertura assicurativa, un pedone che aveva riportato, in conseguenza dell'impatto, lesioni giudicate guaribili in venticinque giorni.
Il ricorso
Contro la sentenza proponeva ricorso davanti alla Corte di Cassazione l’imputato, in particolare sostenendo che la Corte di appello aveva errato nel ritenere configurabile il reato. Premesso in fatto che, come accertato dai giudici, l'imputato si era fermato ed aveva atteso i soccorsi, allontanandosi solo dopo che l'ambulanza del "118" aveva condotto via la persona offesa, si sosteneva che gli obblighi sanzionati penalmente dall'art. 189, commi 6 e 7, del d.Igs. n. 285 del 1992, sono solo quelli, rispettivamente, di fermarsi e soccorrere feriti, mentre l'obbligo di fornire le proprie generalità e le informazioni utili ai fini risarcitori sarebbe assistito da mera sanzione amministrativa ex art. 189, comma 9, del codice della strada. In conseguenza, la condotta posta in essere aveva rilievo amministrativo, non penale, come invece erroneamente ritenuto dai giudici di appello che, ad avviso dell’imputato, avevano interpretato analogicamente in malam partem la disposizione incriminatrice.
La decisione della Cassazione
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha accolto la tesi difensiva, in particolare rilevando come affinché́ la previsione di cui al comma 6 dell'art. 189 del d.Igs. n. 285 del 1992 (che impone all'utente della strada, in caso di incidente con danno alle persone ricollegabile al suo comportamento, di fermarsi), abbia un senso, essa deve essere interpretata non già formalisticamente ma teleologicamente, con riguardo, cioè, allo scopo che il legislatore si prefigge, che è quello di far sì che il destinatario del precetto, in primo luogo, si fermi per rendersi conto dell'accaduto, inoltre eventualmente per mettersi in condizione di prestare assistenza ai feriti (comma 7 dell'art. 189 del codice della strada, costituente sviluppo logico-cronologico del comma precedente) e, comunque, per poter essere identificato nella prospettiva di eventuali azioni risarcitorie e/o di compiuta ricostruzione dell'accaduto: ciò, naturalmente, ove sia possibile. Con la conseguenza – secondo la S.C. - che ottempererebbe soltanto formalisticamente, ma non realmente, colui che, pur fermatosi, mantenga, tuttavia, un atteggiamento ostile alla identificazione o concretamente impeditivo o elusivo ovvero colui che (come già ritenuto in più occasioni dalla S.C.: Cass. pen. sez. IV, n. 42308 del 07/06/2017, M., CED Cass. 270885; Cass. pen. sez. IV, n. 9128 del 02/02/2012, B., CED Cass. 252734; Cass. pen. sez. IV, n. 20235 del 25/01/2006, M., CED Cass. 234581; Cass. pen. sez. IV, n. 34621 del 27/05/2003, C., CED Cass. 225622) si fermi solo momentaneamente, per poi ripartire. Così come, per converso, non rispetterebbe il precetto dell'art. 189, comma 6, del codice della strada, che impone di "fermarsi" ma non si esaurisce in ciò, ad esempio, colui che non si fermi ma prosegua la marcia pur gettando dal finestrino dell'auto il proprio biglietto da visita recante le indicazioni utili alla sua completa identificazione o che si allontani dal luogo dell'incidente pur essendo stato esattamente individuato, senza incertezze, da uno o più testimoni oculari ovvero ancora colui la cui immagine e la targa del mezzo siano state efficacemente videoriprese, sì da rendere, nel concreto contesto, estremamente agevole la compiuta identificazione dell'agente.
Non avendo però la Corte d’appello svolto un accertamento approfondito sul punto, la sentenza è stata annullata.
Da qui, dunque, l’accoglimento del ricorso.

sabato 28 marzo 2020

Sorpasso troppo stretto sul ciclista: la sua caduta è colpa dell’automobilista

Confermata la condanna per una donna che alla guida della propria vettura ha provocato il capitombolo di un ciclista. Evidente l’imprudenza da lei compiuta con una manovra azzardata e realizzata non in condizioni di sicurezza.

Sorpasso. Azzardato e troppo stretto il sorpasso compiuto dall’automobilista. Legittima, quindi, la sua condanna per la caduta riportata da un ciclista, vistosi affiancare, in curva, dalla vettura. (Cassazione, sentenza n. 2873/2020, Sezione Quarta Penale, depositata il 24 gennaio).
Il fattaccio si verifica lungo una strada provinciale nella zona di Voghera. La ricostruzione tracciata tra primo e secondo grado viene ritenuta sufficiente per condannare l’automobilista, ritenuta colpevole del «reato di lesioni colpose» ai danni di un uomo in sella alla propria bici, reato commesso «con violazione delle norme in materia di circolazione stradale».
In sostanza, si è appurato che il ciclista «procedeva tenendosi a destra, sul ciglio della strada» quando «nell’affrontare una curva a destra era stato travolto» dalla vettura condotta dalla donna che «procedeva nella stessa direzione e aveva posto in essere una manovra di sorpasso» pericolosa, con «un affiancamento eccessivo» rispetto alla bicicletta.
Distanza. In Appello, in particolare, si è sostenuto che «anche solo uno spostamento d’aria, causato dall’auto durante la manovra di sorpasso, aveva cagionato sicuramente la perdita di equilibrio» per il ciclista e «la conseguente collisione tra i due veicoli».
Questa visione, checché ne dica l’automobilista, è ritenuta plausibile anche dai Giudici della Cassazione.
A inchiodare la donna alle proprie responsabilità, però, è soprattutto il fatto che ella «era consapevole della presenza del ciclista che la precedeva tenendo un’andatura non regolare» e perciò, spiegano i magistrati, «ella avrebbe dovuto astenersi dal sorpasso» oppure «compiere tale manovra in assoluta sicurezza, mantenendo una distanza laterale adeguata ad evitare ogni possibile urto, anche tenendo conto che il sorpasso stava avvenendo all’altezza di una curva».
Fonte: www.dirittoegiustizia.it 

giovedì 26 marzo 2020

Affida il cane alla moglie che lo abbandona in strada: colpevole anche il marito

Evidenti per i Giudici le responsabilità dell’uomo, che si è assentato per quasi un mese e ha deciso di lasciare l’amato quadrupede alla consorte, pur consapevole dell’astio della donna verso l’animale. Responsabile penalmente anche lui, punito, come la moglie, con 800 euro di ammenda.

Cane abbandonato. Se la coppia scoppia, e i coniugi si dicono addio, a rimetterci può essere anche l’animale domestico, amato dall’uomo ed odiato dalla donna, che, ritrovatasi a doverlo gestire per quasi un mese a causa dell’assenza per ragioni di lavoro del marito, decide di portarlo lontano dalla loro casa.
Evidente la responsabilità della moglie per il reato di “abbandono di animale”. Ma colpevole è anche l’uomo, che non avrebbe mai dovuto lasciare l’adorato quadrupede alla consorte, proprio perché consapevole della malcelata antipatia da parte di lei verso l’animale (Cassazione, sentenza n. 6609/20, sez. III Penale).
Al palo. Scenario dell’assurda vicenda è l’isola di Ischia. Lì, in una giornata di ottobre del 2012, un cane – un bulldog, per la precisione – dotato di regolare microchip, viene ritrovato “legato a un palo, sito all’interno di un presidio sanitario”. E proprio grazie al piccolo circuito elettronico è facile risalire al padrone, Carlo – nome di fantasia – , anche se poi si scopre che quest’ultimo è assente da tempo per lavoro, e il quadrupede è stato affidato alla moglie, Federica – nome di fantasia –, nonostante tra i due coniugi la relazione abbia subito una rottura, almeno momentanea.
Quest’ultimo dettaglio viene ritenuto irrilevante, e così moglie e marito finiscono tutti e due sotto processo per “abbandono di animali”.
Il quadro probatorio è chiaro, secondo i giudici del Tribunale che condannano i coniugi alla “pena di 800 euro di ammenda ciascuno”
A non accettare questa decisione è però solo il marito. Ecco spiegato il suo ricorso in Cassazione, finalizzato a ridimensionare, se non addirittura a cancellare, la colpa addebitatagli in Tribunale.
Più precisamente, l’uomo richiama il principio secondo cui “il proprietario, che abbia affidato il cane a una terza persona, risponde dell’abbandono solo quando detto abbandono sia concretamente prevedibile” e osserva che in questa vicenda “l’abbandono” del suo bulldog non era prevedibile, poiché “il cane si trovava nella disponibilità della moglie da quasi due anni”.
Peraltro, sempre secondo l’uomo, è difficile anche sostenere la tesi dell’”abbandono di animale”, poiché “il cane è stato lasciato per due ore all’ingresso di un centro veterinario” e quindi “non si trovò sprovvisto di custodia e cura, né comunque esposto a pericoli per la propria incolumità”.
Rischio. Non ci sono però giustificazioni plausibili per l’uomo, almeno secondo i giudici della Cassazione, che ne confermano la condanna per “abbandono di animale”.
In premessa viene ricordato che “integra la contravvenzione” punita dal Codice Penale “la condotta di distacco volontario dall’animale, condotta che consiste nell’interruzione della relazione di custodia e di cura instaurata con l’animale precedentemente detenuto, lasciandolo in un luogo ove non riceverà alcuna cura, a prescindere dalla verificazione di eventi ulteriori conseguenti all’abbandono, quali le sofferenze o la morte dell’animale”.
Passando dalla teoria alla pratica, è evidente, per i giudici, in questa vicenda la concretizzazione del “reato di abbandono di animale”, poiché si è appurato che “il cane fu casualmente trovato legato a un palo nella zona del presidio sanitario da un dipendente”. Nessun dubbio, quindi, sul fatto che “il cane fu abbandonato, lasciato in balia di sé stesso per un apprezzabile lasso di tempo, legato a un palo e senza essere affidato alla custodia e alla cura di altro soggetto”.
Come detto, fu poi accertato che “il cane era nella materiale disponibilità della moglie di Carlo, risultato assente dall’isola per motivi di lavoro”. Allo stesso tempo, è stata anche verificata “l’inesistenza di accordi tra i coniugi, che avevano deciso di separarsi legalmente e di interrompere la coabitazione, riguardo a chi di loro due dovesse prendere in custodia ed accudire il cane in modo esclusivo”.
E a inchiodare l’uomo alle proprie responsabilità è, secondo i giudici, il fatto che egli “si sia chiaramente rappresentato la verificazione dell’abbandono dell’animale”. In sostanza, Carlo ha, secondo i giudici, “accettato che la moglie, cui aveva affidato la custodia del cane, abbandonasse l’animale”.
La decisione della donna era, sempre secondo i giudici, preventivabile, soprattutto tenendo presente che “era stato proprio il marito a portare in casa il cane, nonostante il dissenso della consorte” causato “sia dal costo dell’animale, che era stato pagato 1.400 euro benché le condizioni economiche della famiglia non fossero floride, sia dal fatto che la donna non amava gli animali, e, oltretutto, il cane in casa rompeva le sedie e sbavava continuamente, tanto che ella era esasperata da questa situazione”.
In sostanza, l’uomo “si è rappresentato la circostanza che la moglie, a cui aveva affidato il cane durante il suo periodo di assenza per motivi di lavoro, potesse concretamente abbandonare il quadrupede”, ma nonostante ciò egli non ha trovato una collocazione alternativa per il suo animale, assumendosi, in sostanza, il rischio “che si verificasse l’abbandono, come poi è avvenuto”. 
(Fonte: www.dirittoegiustizia.it)

Dinamica del sinistro incerta? Si applica la presunzione di corresponsabilità

In tema di scontro tra veicoli, la presunzione di eguale concorso di colpa stabilita dall'art. 2054, comma 2 c.c. ha funzione sussidiaria, operando soltanto nel caso in cui le risultanze probatorie non consentano di accertare in modo concreto in quale misura la condotta dei due conducenti abbia cagionato l'evento dannoso e di attribuire le effettive responsabilità del sinistro.

Il fatto
P. P., danneggiato in un incidente stradale avvenuto in data 27/8/2015 sulla strada provinciale di Porto Ercole tra la moto da lui guidata ed un presunto (perché rimasto sconosciuto) veicolo bianco che invadendo la corsia di marcia del P. ne aveva determinato la perdita di controllo del mezzo e l'impatto con un guardrail, ricorre per la cassazione della sentenza della Corte d'Appello di Firenze, che, confermando la pronuncia di prime cure, ha applicato la presunzione di pari responsabilità nella produzione del sinistro, di cui all'art. 2054, comma 2, c.p.c.
L'applicazione della presunzione di pari responsabilità è stata disposta dalla Corte territoriale, all'esito di ben due perizie cinematiche, nell'impossibilità di addivenire ad una ricostruzione certa dei fatti di causa.
Il Giudice d'Appello, per quel che ancora rileva in questa sede, dato atto che, sulla scorta delle prove testimoniali acquisite, il veicolo antagonista aveva invaso la corsia di marcia del P., provocandone lo sbandamento e l'impatto con un gardrail, in assenza di elementi certi ed inconfutabili sulla dinamica del sinistro, ha ritenuto di applicare l'art. 2054, 2° co. c.c. in ottemperanza alla giurisprudenza, secondo la quale l'accertamento in concreto della responsabilità di uno dei due conducenti, nel caso di scontro tra veicoli, non esonera l'altro dall'onere di provare di essersi conformato alle norme sulla circolazione stradale ed a quelle di comune prudenza.
Avverso la sentenza il P. propone ricorso per cassazione.
Con l'unico motivo di ricorso il ricorrente solleva violazione e falsa applicazione dell'art. 2054, comma 2, c.c. in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. e pone una questione di diritto: se l'art. 2054, comma 2, c.c. sia applicabile anche nel caso in cui vi sia stato, da parte dell'organo giudicante, un accertamento positivo sulla responsabilità di uno dei conducenti coinvolti nel sinistro e non vi sia alcuna certezza circa l'eventuale corresponsabilità del danneggiato.
Secondo il ricorrente, la presunzione di pari responsabilità non potrebbe applicarsi in casi siffatti.
Il motivo non è fondato in ragione della giurisprudenza di legittimità che fa del criterio di imputazione presuntiva della pari responsabilità di cui all'art. 2054, comma 2, c.c. un criterio residuale che si applica in tutti i casi in cui non è possibile stabilire l'esatta misura delle diverse responsabilità nella produzione del sinistro. La ratio dell'art. 2054, comma 2, c.c. è proprio quella di offrire un criterio fittizio di imputazione della responsabilità laddove non sia possibile pervenire ad una esatta ricostruzione dei fatti di causa.
Ciò che emerge con chiarezza nel caso in esame è proprio l'impossibilità di ricostruire con esattezza cosa sia effettivamente avvenuto, tanto che ben due CTU cinematiche non hanno consentito di sciogliere i dubbi.
In questa situazione di assoluta incertezza, il Giudice di merito ha correttamente applicato l'art. 2054, comma 2, c.c., non potendo avere rilevanza, perché afferente al mero campo delle ipotesi, privo di fattuale riscontro, che nell'eziologia dell'incidente sia certamente ravvisabile la responsabilità del conducente di uno dei veicoli coinvolti nel sinistro.
In ogni caso, anche laddove la responsabilità prevalente o esclusiva di uno dei due veicoli coinvolti fosse stata acclarata senza alcun ragionevole dubbio - il che si ripete non è dato affermare nel caso in esame - anche in tal caso il giudice non sarebbe esonerato dall'onere di accertare che il veicolo danneggiato si fosse attenuto al rispetto delle norme del codice della strada ed a quelle di comune prudenza.
La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nel senso di ritenere non superata la presunzione di pari responsabilità nella produzione del sinistro nel caso in cui sia accertata la colpa di uno dei conducenti
In ogni caso la ratio dell'art. 2054, comma 2, c.c. è proprio quella di fornire un criterio sussidiario in tutti i casi in cui l'accertamento delle condotte non consenta di giungere a conclusioni certe circa l'imputazione della responsabilità del sinistro.

Rubare il portone di un condominio è furto in abitazione

Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la sentenza con cui la Corte d’appello, nel confermare la sentenza di primo grado, aveva condannato un soggetto per il reato di furto in abitazione per aver rubato due portoni di altrettanti stabili condominiali, la Corte di Cassazione (sentenza 2 marzo 2020, n. 8421) – nel disattendere la tesi difensiva secondo cui errata doveva ritenersi la qualificazione giuridica del fatto in relazione alla nozione di privata dimora, atteso che il portone di ingresso del condominio, insistendo su una pubblica via, è privo di qualsiasi carattere di riservatezza, stante la sua intrinseca funzione - ha, sul punto, affermato che rientra nel concetto di "pertinenza" di privata dimora il portone dell’edificio condominiale, atteso che il portone, ubicato all'ingresso dell’edificio condominiale, assolve con l'androne ad una funzione strumentale e complementare alle abitazioni dello stabile condominiale ed il dato secondo cui il portone, per la parte esterna, si trovi a delimitazione della pubblica via, non esclude la funzione dal portone assolta, nonché il fatto che per la sua asportazione occorre la necessaria introduzione nell’androne del palazzo.

Prima di soffermarci sulla pronuncia resa dalla Suprema Corte, è opportuno qui ricordare che l’art. 624-bis, c.p., sotto la rubrica «Furto in abitazione e furto con strappo», punisce, per quanto di interesse in questa sede, con la reclusione da quattro a sette anni e con la multa da euro 927 a euro 1.500 la condotta di chiunque si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, mediante introduzione in un edificio o in altro luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora o nelle pertinenze di essa.
Tale norma, posta a salvaguardia dei beni sottratti da edifici o luoghi destinati in tutto od in parte a privata dimora (concetto questo più ampio di quello di abitazione, rientrandovi i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico, né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale: Cass. pen. sez. U, n.26889 del 28/04/2016; Cass. pen. sez. V, n. 34475 del 21/06/2018, CED Cass. 273633), si estende anche ai beni sottratti dalle "pertinenze" della privata dimora ("...o nelle pertinenze di essa...."). Il riferimento contenuto nell'art. 624 bis c.p. "...o nelle pertinenze di essa...." (privata dimora), tenuto conto delle ragioni di maggior tutela apprestata per i beni collocati nei luoghi di privata dimora o in quelli "vicini", che di tale tutela estensivamente beneficiano, non ricomprende solo il luogo rientrante nella nozione civilistica di pertinenza ex art. 817 c.c., ma anche quello più ampio, avente un rapporto di strumentalità con l'abitazione (o le abitazioni) od anche solo di servizio, arrecando una "utilità" al bene principale (ovvero ai beni principali). È stato, all'uopo, evidenziato che la nozione di pertinenza, valevole ai fini dell'art. 624 bis c.p., non coincide con quella civilistica, non richiedendo essa l'uso esclusivo del bene da parte di un solo proprietario (Cass. pen. sez. IV, n. 4215 del 10/01/2013). Piuttosto, essa deve essere accostata alla nozione di "appartenenza", di cui all'art. 614 c.p., sicchè elemento caratterizzante è, dunque, quello della strumentalità, anche non continuativa e non esclusiva, del bene alle esigenze di vita domestica del proprietario (Cass. pen. sez. IV, n. 4215 del 10/01/2013). In proposito, è stato ritenuto rientrante nel concetto di "pertinenza" di privata dimora il pianerottolo condominiale, antistante la porta dell'abitazione di uno dei condomini, avente, come gli altri, diritto di escludere l'intruso (Cass. pen. sez. V, n. 12751 deI 20/10/1998, CED Cass. 213418), nonché l'androne del palazzo "per la sua natura pertinenziale delle abitazioni collocate nello stabile", sebbene pro quota, per tutti gli appartamenti dell'anzidetto complesso" (Cass. pen. sez. V, n. 28192 del 25/03/2008, T., CED Cass. 240442) e le aree condominiali in genere, ivi comprese quelle destinate a parcheggio che non siano nella disponibilità dei singoli condomini (Cass. pen. sez. IV, n.4215 del 10/01/2013, CED Cass. 255080). Nel concetto di edificio o altro luogo di abitazione sono stati ricompresi, ai fini dell'applicabilità dell'aggravante, anche locali che, pur non comunicando direttamente con l'abitazione, sono tuttavia destinati a soddisfare esigenze della vita domestica e familiare (Cass. pen. sez. V, 14/10/1992), come le autorimesse (Cass. pen. sez. II, 29/5/2012, n. 22937; Cass. pen. sez. V, 2/2/2001); così nel concetto devono ritenersi compresi i cortili i quali, pur non essendo adibiti a vera e propria abitazione, costituiscono parte integrante del luogo abitato per essere destinati, con carattere di indispensabile strumentalità, all'attuazione delle esigenze della vita abitativa (Cass. pen. sez. II, 29/10/1990); pertanto, per la configurabilità dell'aggravante, è stata ritenuta sufficiente l'introduzione in un cortile attraverso un cancello aperto, mentre è stato ravvisato il concorso con l'aggravante di cui al successivo n. 2 qualora il colpevole si sia introdotto con mezzo violento o fraudolento, avendo trovato il cancello chiuso (Cass. pen. sez. II, 28/10/1987). Lo stesso dicasi per gli androni (Cass. pen. sez. V, 31/10/2018-11/1/2019, n. 1278 Aggiornamento), le scale (Cass. pen. sez. II, 6/6/1988) e il negozio intercomunicante con alcuni vani adibiti ad abitazione (Cass. pen. sez. II, 25/11/1980), le imbarcazioni (Cass. pen. sez. V, 28/3/2019, n. 13687). Integra il reato di cui all'art. 624 bis colui che si introduce all'interno dell'appartamento o di un'area privata di pertinenza dell'abitazione detenuta, concessa in uso ovvero locata dallo stesso autore del fatto (Cass. pen. sez. V, 27/2/2019, n. 8540; Cass. pen. sez. II, 22/5/2012, n. 22909) ovvero in un edificio in ristrutturazione avvenuto in orario notturno (Cass. pen. sez. V, 1/10/2014, n. 2768). Il reato è configurabile se commesso all'interno di una farmacia quando l'introduzione clandestina avvenga nelle parti dell'immobile destinati, per l'uso che in concreto ne è fatto, a privata dimora (Cass. pen. sez. IV, 13/11/2014, n. 51749).
Nelle ipotesi descritte la giurisprudenza di legittimità ha, nella sostanza, posto l'accento sulla strumentalità del rapporto tra il luogo violato e di collocazione del bene asportato con la privata dimora, valorizzando appunto il collegamento o la relazione di accessorietà e comunque la contiguità, anche solo di servizio tra i luoghi, come appunto per le parti comuni di un edificio condominiale rispetto alle private dimore in tale edificio esistenti.
Tanto premesso, nel caso in esame, la Corte d'Appello aveva confermato la sentenza del Tribunale, con la quale l’imputato era stato condannato per il reato di cui agli artt. 110, 624 bis, 625 n. 2 e 7 c.p., per aver sottratto in concorso con un complice due portoni di ingresso di altrettanti edifici condominiali. Ricorrendo in Cassazione, l'imputato sosteneva che errata doveva ritenersi la qualificazione giuridica del fatto in relazione alla nozione di privata dimora, atteso che il portone di ingresso del condominio, insistendo su una pubblica via, è privo di qualsiasi carattere di riservatezza, stante la sua intrinseca funzione, tanto che l'imputato aveva portato a compimento l'attività delittuosa senza dover fare ingresso all'interno dello stabile.
La Cassazione, nel disattendere la tesi difensiva, ha anzitutto osservato che i portoni asportati erano ubicati proprio all'ingresso - negli androni - degli edifici condominiali, a servizio e protezione anche delle private dimore in essi ubicate, oltre che degli spazi condominiali e, comunque, erano posti in un luogo di "appartenenza" di private dimore, sicchè gli stessi rientrano pienamente nella tutela apprestata dalla norma.
Facendo quindi applicazione della giurisprudenza di legittimità relativa al concetto di pertinenza, i Supremi Giudici hanno rilevato che, nella fattispecie in esame i portoni sottratti, ubicati all'ingresso degli edifici condominiali, assolvevano con l'androne la suddetta funzione strumentale e complementare alle abitazioni degli stabili condominiali, ed il dato secondo cui essi per la parte esterna si trovassero a delimitazione della pubblica via non escludeva, per la S.C., la funzione dagli stessi assolta, nonché il fatto che per la loro asportazione occorreva la necessaria introduzione negli androni dei palazzi.
Da qui, dunque, l’inammissibilità del ricorso.

sabato 21 marzo 2020

Bonus autonomi e partite IVA: l’INPS spiega come presentare le domande

Pubblicate le prime istruzioni dell'INPS sulle indennità previste dal decreto Cura Italia a favore di particolari categorie di lavoratori autonomi, parasubordinati e subordinati. Nel comunicare l'emanazione di una prossima circolare che definirà i criteri di applicazione dei benefici, l'Istituto chiarisce quali sono i destinatari delle indennità dell’importo di 600 euro riconosciute per il mese di marzo 2020.

"L’Inps è pronto a dare attuazione a tutte le misure del Decreto Cura Italia". E' quanto aveva dichiarato l'Istituto nella serata del 19 marzo con comunicato stampa per rassicurare aziende e lavoratori su un celere avvio delle nuove misure contenute nel decreto legge n. 18 del 2020, in vigore dalla scorso 17 marzo.
E' così è stato. Le prime istruzioni sono arrivate con i messaggi del 20 marzo 2020:
· n. 1281, su congedi parentali, permessi legge n. 104/92, bonus baby-sitting,
· n. 1286, sulla proroga del termine di presentazione delle domande di NASpI, di DIS-COLL e di disoccupazione agricola
· n. 1287, su cassa integrazione ordinaria, assegno ordinario e cassa integrazione in deroga,
· n. 1288, sulle indennità previste per particolari categorie di lavoratori autonomi, parasubordinati e subordinati.
Quest'ultimo (atteso) messaggio pone definitivamente fine alla querelle dai toni accesi sorta sull'ipotesi di un possibile click day, smentita dal Governo e dall'INPS.
Con il messaggio n. 1288 del 2020 l'INPS fornisce una prima sintetica illustrazione relativa alle cinque indennità previste, per il mese di marzo 2020, a favore di particolari categorie di lavoratori autonomi, parasubordinati e subordinati.
Vediamo nel dettaglio chi sono i beneficiari delle indennità, evidenziando che l'INPS si riserva di fornire istruzioni operative e procedurali in merito all’applicazione dei benefici con una circolare illustrativa, che sarà pubblicata a seguito del parere favorevole del Ministero del Lavoro.
Liberi professionisti e collaboratori coordinati e continuativi (art. 27)
L'indennità è riconosciuta ai:
- liberi professionisti con partita IVA attiva alla data del 23 febbraio 2020 compresi i partecipanti agli studi associati o società semplici con attività di lavoro autonomo (articolo 53, comma 1, del T.U.I.R.) iscritti alla Gestione separata dell’INPS (sono pertanto esclusi i liberi professionisti iscritti ad Albi e,quindi, alle Casse di previdenza professionale).
- collaboratori coordinati e continuativi con rapporto attivo alla data del 23 febbraio 2020 e iscritti alla Gestione separata dell’INPS.
Entrambe le categorie di lavoratori non devono essere titolari di un trattamento pensionistico diretto e non devono avere altre forme di previdenza obbligatoria.
Autonomi iscritti alle gestioni speciali dell’Assicurazione generale obbligatoria (art. 28)
Si tratta dei lavoratori iscritti alle seguenti gestioni:
- Artigiani
- Commercianti
- Coltivatori diretti, coloni e mezzadri
Entrambe le categorie di lavoratori non devono essere titolari di un trattamento pensionistico diretto e non devono avere altre forme di previdenza obbligatoria ad esclusione della Gestione separata INPS.
L'indennità è erogata dall'INPS nel limite di spesa complessivo di 2.160 milioni di euro per l'anno 2020.
Indennità lavoratori stagionali dei settori del turismo e degli stabilimenti termali (art. 29)
Si tratta dei lavoratori dipendenti stagionali dei settori del turismo e degli stabilimenti termali che hanno cessato il rapporto di lavoro nell’arco temporale che va dal 1° gennaio 2019 alla data del 17 marzo 2020.
Tali lavoratori non devono essere titolari di un trattamento pensionistico diretto e non devono essere titolari di rapporto di lavoro dipendente alla data del 17 marzo 2020.
Con riferimento a questa categoria di lavoratori, nel messaggio n. 1288 del 2020, l'INPS preannuncia che, nella circolare di prossima emanazione, si valuterà l’opportunità di fare riferimento alle attività svolte dai lavoratori impiegati in tali settori.
Lavoratori agricoli (art. 30)
A tale indennità possono accedere gli operai agricoli a tempo determinato e le altre categorie di lavoratori iscritti negli elenchi annuali purché: o possano fare valere nell’anno 2019 almeno 50 giornate di effettivo lavoro agricolo dipendente; o non siano titolari di pensione.
Lavoratori dello spettacolo (art. 38)
Si tratta dei lavoratori dello spettacolo iscritti al Fondo pensioni dello spettacolo con i seguenti requisiti:
· almeno 30 contributi giornalieri versati nell’anno 2019 al medesimo Fondo;
·con reddito non superiore a 50.000 euro nell’anno 2019;
· non titolari di un trattamento pensionistico diretto né di rapporto di lavoro dipendente alla data del 17 marzo 2020.
Domande
I lavoratori indicati, per ricevere l'indennità, dovranno presentare in via telematica all’INPS la domanda utilizzando i consueti canali telematici messi a disposizione per i cittadini e per i patronati nel sito internet dell’Inps, www.inps.it.
L'INPS non ha ancora rilasciato i moduli per le domande che saranno disponibili, entro la fine del mese di marzo, dopo l’adeguamento delle procedure informatiche.

venerdì 20 marzo 2020

Infiltrazioni: il condominio può rispondere in solido con i singoli condomini

Il condominio di un edificio, quale custode dei beni e dei servizi comuni, è obbligato ad adottare tutte le misure necessarie affinché tali cose non rechino pregiudizio ad alcuno e risponde in base all'art. 2051 c.c. dei danni da queste cagionati alla porzione di proprietà esclusiva di uno dei condomini, ancorché tali danni siano causalmente imputabili altresì al concorso del fatto di un terzo (quale, nella specie, l'omessa manutenzione a sua volta ascrivibile ai proprietari dei due giardini privati di proprietà esclusiva). È quanto si legge nell’ordinanza della Cassazione del 12 marzo 2020, n. 7044.

Il fatto
La Corte d'appello di Roma ha confermato il rigetto della domanda risarcitoria della S. R. E. s.r.l. nei confronti del Condominio per il mancato godimento dell'immobile, affermando che l'accertata responsabilità di quest'ultimo exart. 2051 c.c. per l'omessa manutenzione dell'impianto di smaltimento delle acque e del campo da tennis non fosse la causa esclusiva delle infiltrazioni subite dalla proprietà della ricorrente, concorrendovi, altresì, la mancata impermeabilizzazione di due giardini privati di proprietà esclusiva, quanto meno con riguardo al corridoio di accesso all'immobile danneggiato.
La sentenza impugnata ha così deciso la sottesa questione di diritto senza uniformarsi al costante orientamento interpretativo della giurisprudenza di legittimità.
Il condominio di un edificio, quale custode dei beni e dei servizi comuni, è obbligato ad adottare tutte le misure necessarie affinché tali cose non rechino pregiudizio ad alcuno, e risponde in base all'art. 2051 c.c. dei danni da queste cagionati alla porzione di proprietà esclusiva di uno dei condomini, ancorché tali danni siano causalmente imputabili altresì al concorso del fatto di un terzo (quale, nella specie, l'omessa manutenzione a sua volta ascrivibile ai proprietari dei due giardini privati di proprietà esclusiva).
Si prospetta, in tal caso, la situazione di un medesimo danno (da infiltrazioni all'immobile sottostante), provocato da più soggetti per effetto di diversi titoli di responsabilità (la responsabilità del condominio per la custodia dei beni e dei servizi comuni e la responsabilità dei singoli proprietari per la custodia delle unità immobiliari a loro appartenenti), il che dà luogo ad una situazione di solidarietà impropria, in quanto relativa a rapporti eziologicamente ricollegati a distinti titoli extracontrattuali. La conseguenza della corresponsabilità in solido, ex art. 2055 c.c., comporta tuttavia che la domanda del proprietario dell'appartamento danneggiato va intesa sempre come volta a conseguire per l'intero il risarcimento da ciascuno dei coobbligati, in ragione del comune contributo causale alla determinazione del danno.
Al condomino che abbia agito chiedendo l'integrale risarcimento dei danni solo nei confronti del condominio, il risarcimento non può perciò essere negato in ragione del concorrente apporto casuale colposo imputabile a singoli condomini proprietari individuali di unità immobiliari, applicandosi in tal caso non l'art. 1227, comma 1, c.c., ma l'art. 2055, comma 1, c.c., che prevede, appunto, la responsabilità solidale degli autori del danno. Né la concorrente mancata manutenzione di porzioni di proprietà solitaria è equiparabile alla condotta di un terzo idonea a negare la responsabilità oggettiva del condominio quale custode dei beni e dei servizi comuni exart. 2051 c.c., a meno che essa, rivelandosi autonoma, non risulti dotata di efficacia causale esclusiva nella produzione dell'evento lesivo.

giovedì 19 marzo 2020

Sì alla geolocalizzazione anti-Covid

Sì, ma solo a certe condizioni alla geolocalizzazione anti-Covid. Occorre che ci sia proporzionalità e devono essere garantiti i diritti di difesa gli interessati. È la sintesi delle convergenti risposte del Comitato Europeo per la protezione dei dati e del Garante italiano della privacy al fenomeno della localizzazione delle persone attraverso l'analisi del dispositivo elettronico nelle loro mani.

È di questi giorni la notizia della analisi nella regione Lombardia sulla mobilità dei cittadini con l'utilizzo delle celle telefoniche. E, in effetti, tutti gli operatori telefonici possono individuare la posizione di un telefono cellulare, sia esso dotato oppure no di sistemi Gps.
La Lombardia ha raccolto dati aggregati e anonimi, ma la tecnologia consente di risalire alle persone.
Ritorna in pista, quindi, il problema della compatibilità di misure oggettivamente lesive di libertà e diritti individuai, come quelli alla privacy, rispetto ad obiettivi come la tutela della sicurezza nazionale o della salute pubblica. In materia e in via generale si è pronunciato Antonello Soro, presidente del Garante per la protezione dei dati personali, che così si è espresso: «Non esistono preclusioni assolute nei confronti di determinate misure in quanto tali. Vanno studiate però molto attentamente le modalità più opportune e proporzionate alle esigenze di prevenzione, senza cedere alla tentazione della scorciatoia tecnologia solo perché apparentemente più comoda, ma valutando attentamente benefici attesi e ''costi'', anche in termini di sacrifici imposti alle nostre libertà».
Sulla stessa linea è Andrea Jelinek, presidente del Comitato Europeo per la protezione dei dati (Edpb), il quale ha ricordato che ci sono tre condizioni per usare la geolocalizzazione, quale misura di prevenzione del contagio da Covid-19: una base giuridica normativa; il rispetto dei principio di proporzionalità e di congruità rispetto allo scopo; la possibilità per l'interessato di difendersi in giudizio, per lo meno (aggiungiamo noi) a posteriori.
Per regolamentare il fenomeno, bisogna applicare due discipline: quella della protezione dei dati e quella sulle comunicazioni elettroniche.
Quanto alle norme sulla privacy l'articolo 9, paragrafo 2, lettera i), del Gdpr detta una specifica base giuridica per perseguire motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica, quali la protezione da gravi minacce per la salute, purché siano previste misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti e le libertà dell'interessato. A questo proposito gioca il suo ruolo anche l'articolo 14 del decreto legge 14/2020, dedicato appunto al trattamento dei dati personali nel contesto emergenziale.
Le norme sulla comunicazione elettronica distinguono la possibilità di raccolta di dati aggregati e anonimi, come i report generali sulla concentrazione di dispositivi in una certa area.
Per passare alla raccolta di dati nominativi, l'articolo 15 della direttiva e-privacy (2002/58), ci vuole un apposito intervento del legislatore finalizzato a introdurre misure nell'interesse della sicurezza nazionale e della salute pubblica.
In sostanza, le norme sulla protezione dei dati di per sé non ostacolano certo la salute pubblica, ma si preoccupano di ricordare che le misure straordinarie devono essere temporanee e proporzionate.
Così se una autorità pubblica intende usare la geolocalizzazione, deve andare a stabilire sulla base di quale norma lo fa, come e per quanto tempo lo fa, stabilendo in maniera chiara le operazioni del trattamento e le garanzie per gli interessati. Tutto ciò deve essere comprovato in un atto di documentazione delle scelte, che specifichi gli elementi salienti del trattamento.
fonte: www.italiaoggi.it

Infortunio dell’alunno: sì all’azione diretta dei genitori nei confronti dell’assicurazione

Secondo la Cassazione, ordinanza 12 marzo 2020, n. 7062, poiché, nell’interpretazione del contratto, il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate, può ritenersi che l’assicurazione sia stipulata per conto altrui e, quindi, azionabile direttamente dal danneggiato, se la polizza utilizza il termine “assicurato” con riferimento allo “scolaro” e non all’ “istituto scolastico”.

Il caso
An. D’Au. e Ge. Gr., nella qualità di genitori esercenti la potestà sul figlio minore Lo., convennero in giudizio innanzi al Tribunale di Vallo della Lucania Assicurazioni Generali s.p.a., che garantiva la scuola elementare frequentata dal minore, chiedendo l'indennizzo dovuto per le lesioni personali riportate dal minore medesimo durante l'orario scolastico.
Il Tribunale adito accolse la domanda, condannando la società assicuratrice al pagamento della somma di Euro 12.233,09 oltre interessi.
Avverso detta sentenza propose appello la società assicuratrice.
La Corte d'appello di Salerno accolse l'appello, rigettando la domanda.
Osservò la corte territoriale, premesso che dagli atti emergeva che assicurato era l'istituto scolastico sicché non configurabile era un contratto a favore di terzo, che il danneggiato non poteva agire direttamente contro l'assicuratore, ma solo contro il soggetto responsabile del fatto dannoso, il quale a sua volta poteva chiamare l'assicuratore in garanzia.
Ha proposto ricorso per cassazione Lo. D’Au. sulla base di due motivi.
Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 81, 114 e 115 c.p.c., 1362 ss., 1882 ss., 1891 e 2697 c.c., ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.
Osserva il ricorrente che il dato letterale – in base al quale non una sola volta nella polizza il termine "assicurato" viene riferito all'istituto scolastico, mentre è ripetutamente riferito per indicare lo scolaro - non può non rivestire decisivo rilievo nell'interpretazione della volontà dei contraenti, secondo quanto prescritto dagli artt. 1362 ss., e condurre a ritenere l'assicurazione come stipulata per conto altrui, senza che possa ritenersi indispensabile una esplicita definizione nel contratto di assicurazione per conto altrui.
La decisione
Il motivo è manifestamente fondato.
Il ricorrente ha trascritto le parti rilevanti della polizza assicurativa, indicando la specifica localizzazione processuale del relativo documento.
In tal modo risulta assolto l'onere di cui all'art. 366, comma 1, n. 6 c.p.c.
Va rammentato che, in tema di interpretazione del contratto, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto; il rilievo da assegnare alla formulazione letterale deve essere verificato alla luce dell'intero contesto contrattuale.
La corte territoriale non si è attenuta al canone ermeneutico del senso letterale delle parole, alla luce dell'intero contesto contrattuale, essendosi limitata ad un generico riferimento a quanto emergente dagli atti. Le clausole della polizza, le quali richiamano ripetutamente "gli assicurati" in contrapposizione all'"istituto contraente", non sono state sottoposte al procedimento ermeneutico che, al fine della ricerca della comune intenzione dei contraenti, attinge in primo luogo al senso letterale delle parole, ma sono state immesse in una generica valutazione di quanto "emergente dagli atti" (senza peraltro dare conto del criterio ermeneutico perseguito il quale appare comunque, alla stregua di quanto appena osservato, inottemperante all'evidenziato criterio ermeneutico di legge).
Il giudice di merito dovrà pertanto attenersi al principio di diritto sopra richiamato.
Con il secondo motivo si denuncia omesso esame del fatto decisivo e controverso ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. Osserva il ricorrente che il giudice di appello ha omesso di esaminare il fatto decisivo rappresentato dalla circostanza che la polizza qualifica come "assicurato" lo studente danneggiato e mai una sola volta l'istituto scolastico.
L'accoglimento del precedente motivo determina l'assorbimento del motivo.

Coltivare cannabis è reato vi sono indici che fanno escludere l’uso personale

Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la sentenza con cui la Corte d’appello aveva confermato la condanna inflitta in primo grado ad un soggetto per avere coltivato piante di canapa indiana e detenuto 85 grammi di marijuana, la Corte di Cassazione (sentenza 4 febbraio 2020, n. 4666) – nel disattendere la tesi difensiva secondo cui i giudici avrebbero errato nel non aver riconosciuto la detenzione della sostanza per uso personale - ha, infatti, affermato che, a seguito della recente sentenza delle Sezioni Unite intervenuta in data 19 dicembre 2019, il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente. Devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all'ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell'ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all'uso personale del coltivatore.

L’art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 punisce, tra le altre, anche la condotta di chiunque coltiva senza autorizzazione piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti o psicotrope. Tale previsione normativa è stata oggetto di questioni interpretative, collegate, da un lato, alla ritenuta rilevanza penale della destinazione ad uso personale della sostanza stupefacente per le condotte di coltivazione e fabbricazione, non richiamate dall’art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990 - che prevede un illecito solo amministrativo in caso di uso personale - e, quindi, non ad esso riferibili; dall’altro lato, per le diversità naturali riconducibili alla fenomenologia della condotta, al momento dal quale può ritenersi punibile il fatto, con riferimento al principio di offensività in concreto ed alla necessaria mediazione del giudice, chiamato a verificare l’effettiva idoneità della sostanza ricavata dalla coltivazione a produrre un effetto drogante rilevabile. Secondo le Sez. U, n. 28605 del 24/4/2008, Di Salvia, CED Cass. 239920-239921, ai fini della punibilità della condotta di coltivazione di piante stupefacenti, se è irrilevante la destinazione o meno ad uso personale, tuttavia è indispensabile la verifica da parte del giudice sulla offensività in concreto della condotta, riferita all’idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile.

La giurisprudenza delle Sezioni Unite giunse a tali affermazioni per comporre il contrasto, molto risalente, tra l’orientamento che, anche dopo le modifiche normative intervenute con la legge cd. “Fini-Giovanardi” (d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, conv. con modifiche in legge 21 febbraio 2006, n. 49), individuava una nozione di “coltivazione domestica” per uso personale (distinta da quella penalmente rilevante della “coltivazione in senso tecnicoagrario”), ritenendo comunque la condotta di coltivazione non estranea all’ambito concettuale della “detenzione”, quindi anch’essa sottoposta al canone di rilevanza penale della “destinazione ad uso non personale”, e l’orientamento che, invece, riteneva comunque sussistente il reato, anche nel caso in cui la coltivazione mirasse a soddisfare esigenze di approvvigionamento personale, in ragione, soprattutto, della idoneità della condotta ad accrescere il pericolo di circolazione e diffusione delle sostanze stupefacenti e ad attentare al bene della salute con incremento delle occasioni di spaccio. Aderendo a tale ultima opzione, le Sezioni Unite vollero, però, affiancare un opportuno e più ampio ragionamento sulla stessa punibilità della coltivazione, sulla scia dell’interpretazione costituzionalmente orientata che negli anni il Giudice delle leggi ha proposto della fattispecie di coltivazione di piante stupefacenti, più volte oggetto di dubbi di costituzionalità, sottoposti al suo vaglio. In sintesi, la sentenza delle Sez. U Di Salvia, in ossequio al principio di offensività inteso nella sua accezione concreta, ha stabilito che spetta al giudice verificare se la condotta, di volta in volta contestata all'agente ed accertata, sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto, risultando in concreto inoffensiva, mettendo in luce, tuttavia, un ulteriore atteggiamento interpretativo di non poche conseguenze pratiche in termini di ricadute sulla punibilità effettiva delle singole fattispecie: secondo la citata sentenza, infatti, la condotta è "inoffensiva", soltanto se il bene tutelato non è stato leso o messo in pericolo anche in grado minimo (irrilevante è a tal fine il grado dell'offesa), sicché, con riferimento allo specifico caso della coltivazione di piante, la "offensività" non ricorre soltanto se la sostanza ricavabile non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile. Di recente, tuttavia, il principio affermato dalle Sezioni Unite Di Salvia è stato nuovamente rivisto, con maggiore specificazione, da una ulteriore sentenza delle Sez. U. Caruso (di cui si conosce la sola informazione provvisoria, non essendo state depositate le motivazioni alla data odierna) resa all’ud. 19 dicembre 2019, che ha affermato il principio per cui “il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore“.
Tanto premesso, nel caso in esame, la Corte di appello confermava la condanna del G.u.p. del Tribunale, all'esito di giudizio abbreviato, in relazione al reato di cui all'art. 73, comma 5, DPR 309/90 per avere l’imputato coltivato piante di canapa indiana e detenuto 85 grammi di marijuana. Ricorrendo in Cassazione, l’imputato sosteneva che i giudici di merito avevano errato nel non riconoscere la detenzione della sostanza per uso personale. In sostanza, la difesa sosteneva che la coltivazione era solo presupposta perché non erano state rinvenute piantine in crescita ovvero in essicazione ma unicamente sostanza stupefacente che si poteva solo presumere fosse oggetto di essicazione di una precedente coltivazione domestica. Il dato quantitativo di per sé non poteva peraltro ritenersi determinante in assenza di comprovate condotte di cessione e spaccio.
La Cassazione, nel disattendere la tesi difensiva, ha richiamato non solo il principio affermato dalle Sezioni Unite Di Salvia, ma anche il recente principio affermato dalle Sezioni Unite Caruso, precisando che la tesi difensiva non poteva essere accolta, non si confrontandosi con la motivazione della sentenza di merito che aveva evidenziato, per escludere l'uso personale delle sostanze, il numero di piante coltivato (una parte era già stata asportata e trasferita altrove), l'apprestamento di strumenti professionali (serre; fertilizzante; sistema di ventilazione); il quantitativo di stupefacente prodotto e già predisposto (85 grammi da cui si possono trarre circa 270 dosi), la presenza di strumenti di confezionamento (sacchetti in plastica), tutti elementi ritenuti indicativi della finalità di commercio della condotta.
Da qui, dunque, l’inammissibilità del ricorso.

Legittimo sequestrare la carta per il reddito di cittadinanza in caso di false dichiarazioni

Ai sensi dell'art. 7 del d.l. n. 4 del 2019, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 26 del 2019, il sequestro preventivo della carta reddito di cittadinanza, nel caso di false indicazioni od omissioni di informazioni dovute, anche parziali, da parte del richiedente, può essere disposto anche indipendentemente dall'accertamento dell'effettiva sussistenza delle condizioni per l'ammissione al beneficio (Cassazione penale, sezione III, sentenza 10 febbraio 2020, n. 5290).

Il fatto
In sede di indagini veniva disposto un sequestro preventivo avente ad oggetto una "Carta Postamat RDC", nei confronti di un soggetto indagato, unitamente alla moglie, per il reato previsto dall'art. 7 dall’art. 7 della legge n. 26 del 2019, in base al quale “1. salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di ottenere indebitamente il beneficio di cui all'articolo 3, rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute, è punito con la reclusione da due a sei anni. 2 L'omessa comunicazione delle variazioni del reddito o del patrimonio, anche se provenienti da attività irregolari, nonché di altre informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione del beneficio entro i termini di cui all'art. 3, commi 8, ultimo periodo, 9 e 11, è punita con la reclusione da uno a tre anni”. Nel caso di specie, l’accusa mossa ai due indagati di aver, in concorso tra loro, per ottenere il beneficio economico del "reddito di cittadinanza" dichiarato il falso, attestando lo stato di disoccupazione di entrambi, quando in realtà il marito svolgeva attività lavorativa di addetto al laboratorio di pasticceria e rosticceria in un locale percependo un compenso pari a euro 180,00 a settimana.
Il Tribunale ha ritenuto infondata la prospettazione difensiva, basata sull'assunto che l'ISEE necessario al fine di dimostrare di rientrare nei parametri reddituali indicati dalla legge sarebbe stato richiesto l'8 febbraio 2019 e rilasciato in data 12 febbraio 2019 in concomitanza con l'inizio dell'attività lavorativa dell’indagato, la cui retribuzione non avrebbe comportato il superamento del limite massimo di ISEE annuo per ottenere il beneficio economico e, dunque, l'obbligo di comunicare la variazione. Secondo il Tribunale l'autodichiarazione presentata ai fini della concessione del beneficio è dell'8 marzo 2019 e, perciò, riferita a un momento in cui l'indagato svolgeva attività lavorativa da oltre un mese; ha inoltre evidenziato l'anomalia della situazione, rappresentata dal fatto che - al momento del controllo da parte della polizia giudiziaria - risultava che l’indagato svolgesse lavoro senza regolare contratto; mentre, solo successivamente, era stata documentata l’esistenza di un contratto di lavoro semestrale.
Avverso l'ordinanza la difesa in sede di cassazione ha ribadito che la variazione di reddito ritenuta penalmente rilevante, legata alla nuova attività occupazionale da lui svolta, si sarebbe prodotta in un momento successivo al rilascio della documentazione ISEE necessaria per la domanda del reddito di cittadinanza. Inoltre, secondo la difesa, sarebbe dubbia l'esistenza di un obbligo di comunicare tale variazione di reddito non essendosi comunque verificato il superamento della soglia richiesta dalla legge - pari ad euro 9.360,00 annui (art. 3, comma 4, del d.l. n. 4 del 2019) - per la concessione del beneficio, dal momento che il reddito percepito sarebbe di 180,00 euro settimanali, per un contratto di durata semestrale.
La decisione
La Cassazione ha ritenuto infondato il ricorso.
I due reati previsti dai due commi dell'art. 7 della legge n. 26 del 2019 sono reati di condotta e di pericolo – quello previsto dal primo comma connotato dal dolo specifico - in quanto dirette a tutelare l'amministrazione contro mendaci e omissioni circa l'effettiva situazione patrimoniale e reddituale da parte dei soggetti che intendono accedere o già hanno acceduto al "reddito di cittadinanza". Inoltre, oltre a garantire il rispetto del principio di capacità contributiva (Cass., sez. IV, 16 marzo 2017, n. 18107), la punizione di tali illeciti si rapporta, ben oltre il pericolo di profitto ingiusto, al dovere di lealtà del cittadino verso le istituzioni dalle quali riceve un beneficio economico.
Sulla scorta di tale qualificazione dei suddetti illeciti, la Cassazione afferma che le due fattispecie incriminatrici devono trovare applicazione indipendentemente dall'accertamento dell'effettiva sussistenza delle condizioni per l'ammissione al beneficio e, in particolare, del superamento delle soglie di legge. La norma non richiede infatti un tale accertamento, riferendosi, al primo comma, «al fine di ottenere indebitamente il beneficio» e, al secondo comma, al complesso delle «informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione del beneficio»: entrambi i riferimenti devono essere intesi come diretti a qualificare i dati che sono in sé rilevanti ai fini del controllo, da parte dell'amministrazione erogante, sulla sussistenza dei presupposti per la concessione e il mantenimento del beneficio e a differenziarli da quelli irrilevanti, senza che possa essere lasciata al cittadino beneficiario la scelta su cosa comunicare e cosa omettere e ciò in quanto il legislatore ha inteso creare un meccanismo di riequilibrio sociale, quale il reddito di cittadinanza, il cui funzionamento presuppone necessariamente una leale cooperazione fra cittadino e amministrazione, che sia ispirata alla massima trasparenza, come emerge anche dai successivi commi del richiamato art. 7, che disciplinano, non a caso, un'ampia casistica di fattispecie di revoca, decadenza e sanzioni amministrative.


mercoledì 18 marzo 2020

Assegno divorzile ridotto se l'ex non cerca lavoro

La Cassazione civile, sezione I, con ordinanza 13 febbraio 2020, n. 3661, ha ribadito l’irrilevanza del tenore di vita nella quantificazione dell’assegno divorzile di cui all'articolo 5 della Legge 1° dicembre 1970, n. 898, evidenziando al contempo il dovere per l’ex coniuge di sfruttare la propria capacità lavorativa, cercando un’occupazione.

Il caso
La moglie, all’epoca del matrimonio, aveva un lavoro presso una casa editrice ed era iscritta al corso di laurea in lettere. Al momento della nascita del primo figlio, aveva smesso di lavorare e lasciato gli studi universitari, provvedendo da sola all'accudimento dei figli cui il marito non poteva far fronte per gli impegni della sua carriera dirigenziale.
Il marito, nel frattempo, era andato in pensione e la donna aveva ereditato sia da parte del padre che della madre.
Il tribunale di Roma aveva riconosciuto all’ex coniuge un assegno divorzile di 4.000 euro, ma in appello l’importo era stato ridotto a 1.500 euro mensili, considerando le nuove circostanze.
La donna ricorre in Cassazione.
La Corte territoriale non avrebbe proceduto correttamente nel parametrare l’inadeguatezza dei mezzi economici del coniuge debole, al tenore di vita goduto dai coniugi in costanza di matrimonio.
In particolare sarebbe stata omessa, secondo la ricorrente, la valutazione sul notevole miglioramento dei redditi del marito, nel corso della vita matrimoniale, intervenuto dopo la trasformazione del suo rapporto di lavoro da dipendente ad autonomo.
L’ex coniuge lamentava, inoltre, la rilevanza attribuita all’apertura della successione paterna, senza che fosse provato un apprezzabile miglioramento nelle sue condizioni patrimoniali.
Infine, secondo la ricorrente, la Corte distrettuale avrebbe erroneamente ridotto la misura dell'assegno a causa della sua mancata iniziativa per reperire un'occupazione, non considerando che l'attitudine al lavoro assume rilievo solo se esiste un'effettiva possibilità di svolgimento di un'attività lavorativa retribuita, adeguata alla qualificazione professionale e alla dignità della persona.
La Cassazione ha respinto il ricorso della donna.
Il dovere di sfruttare tutte le potenzialità professionali e reddituali personali per l'ex coniuge
In primis, la Cassazione ha confermato che i principi di cui i giudici di merito non avrebbero fatto corretta applicazione secondo la ricorrente, non corrispondono alla più recente giurisprudenza della Corte.
L'assegno divorzile non deve più consentire all'avente diritto di mantenere lo stesso tenore di vita di cui godeva in costanza di matrimonio.
Il giudice, nello stabilire se e in quale misura deve essere riconosciuto l'assegno divorzile richiesto, una volta comparate le condizioni economico patrimoniali delle parti e se riscontra l'inadeguatezza dei mezzi del richiedente e l'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, deve verificare se la sperequazione sia la conseguenza del contributo fornito dal richiedente alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, con sacrificio delle proprie aspettative professionali e reddituali, in relazione all'età dello stesso e alla durata del matrimonio.
La quantificazione dell'assegno dovrà essere effettuata in modo da garantire all'avente diritto un livello reddituale adeguato a un simile contributo.
Quanto al tema della capacità lavorativa e la mancata attivazione per la ricerca di un’occupazione fin dal momento della separazione, la Corte ha specificato che non rilevano le occasioni concrete di ottenere un lavoro, ma è sufficiente la capacità di procurarsi i propri mezzi di sostentamento e le potenzialità professionali e reddituali.
L’ex coniuge è chiamato, dopo lo scioglimento del matrimonio, a valorizzare tutte le proprie potenzialità con una condotta attiva e non assumendo un “atteggiamento deresponsabilizzante e attendista, di chi si limiti ad aspettare opportunità di lavoro riversando sul coniuge più abbiente l'esito della fine della vita matrimoniale”.
fonte: www.altalex.com

Viaggi e spettacoli, come fare per riavere indietro i soldi

Soggiorni, ma anche biglietti per spettacoli, cinema, musei ed altri eventi culturali: il decreto Cura Italia da il via libera ai rimborsi da parte di operatori turistici, alberghi, enti e organizzatori culturali. In seguito ai provvedimenti adottati coi precedenti decreti dal governo che hanno limitato notevolmente gli spostamenti degli italiani si verifica quella che viene definita «l’impossibilità sopravvenuta della prestazione», sancita anche dall’art. 1463 del Codice civile.

In particolare per i contratti di soggiorno il nuovo decreto rimanda a quanto già disposto per biglietti aerei, ferroviari e pacchetti turistici, vacanze di studio  dal decreto del Presidente del consiglio dell’8 marzo scorso prevedendo tre diverse opzioni: l’organizzatore può infatti offrire al viaggiatore un pacchetto sostitutivo di qualità equivalente o superiore, può procedere al rimborso, oppure può emettere un voucher, da utilizzare entro un anno dalla sua emissione, di importo pari al rimborso spettante.  Se non l’ha già fatto autonomamente la controparte gli interessanti hanno 30 giorni di tempo per sollecitare il rimborso.
Gli spettacoli: teatri, musei, concerti e cinema
Stesso termine di 30 giorni, a partire dalla data di entrata in vigore del dl Cura Italia (il 17 marzo) anche per quanto riguarda invece i contratti di acquisto di “titoli di accesso per spettacoli di qualsiasi natura, ivi inclusi quelli cinematografici e teatrali, e di biglietti di ingresso ai musei e agli altri luoghi della cultura”. Anche in questi casi tutti gli interessati dovranno presentare entro i termini una apposita istanza di rimborso al venditore, allegando il relativo titolo di acquisto (e facendo attenzione a conservare una copia). Il venditore a sua volta, entro 30 giorni dalla presentazione della istanza, deve provvede all'emissione di un voucher di pari importo al titolo di acquisto, da utilizzare entro un anno dall'emissione. Queste disposizioni, specifica infine il decreto, valgono per ora sino al 3 aprile ma verranno protratte nel tempo nel caso il governo disponga la prosecuzione delle misure di emergenza.
fonte: www.lastampa.it

martedì 17 marzo 2020

Coronavirus: nuove misure a sostegno di famiglie e lavoratori

Dal rinvio del pagamento di imposte e tasse ai 100 euro in busta paga per chi ha lavorato in sede a marzo, dai voucher baby sitter all'indennità di 500 euro per i liberi professionisti, fono alla sospensione delle rate di mutui e prestiti. Il Governo vara un pacchetto di misure a sostegno di lavoratori e famiglie. Eccole nel dettaglio. 

Aiuti alle famiglie
Il Governo vara una manovra anti-coronavirus, per salvare l'economia (messa in crisi dalle restrizioni dell'emergenza), ma soprattutto per dare respiro in un momento difficile a famiglie, lavoratori e imprese. 25 miliardi messi sul piatto, una parte dei quali destinati al finanziamento del fabbisogno sanitario e parte destinati alla protezione civile.
Alta l'attenzione alle famiglie, con voucher baby sitter per chi lavora e ha figli piccoli a casa da scuola, ma anche tanti provvedimenti che da un lato mettono liquidità nelle tasche dei lavoratori (dipendenti e autonomi) dall'altra congelano tutti i versamenti di imposte e contributi. E poi ci sono congedi speciali e cassa integrazione allargata a tutti i settori, ma anche l'allargamento della sospensione delle rate del mutuo a tutti i lavoratori.
Vediamo nel dettaglio la misura con tutti i provvedimenti presi.
Pacchetto famiglia
Per quanto riguarda le famiglie il decreto del governo punta particolarmente l'attenzione alle misure per sopperire alle necessità causate dalla chiusura delle scuole, dal 5 marzo al 3 aprile. Ecco le misure nel dettaglio, ricordando che l’Inps attiverà i canali telematici cui far riferimento per beneficiare di queste misure.
Congedo parentale speciale. Viene previsto un congedo parentale di 15 giorni extra per i genitori che lavorano e hanno figli minori di 12 anni o senza limiti di età in caso di figli disabili in situazione di gravità. Il congedo può esser diviso tra papà e mamma anche non continuativamente, ma non fruito contemporaneamente e non può esser ottenuto se uno dei due genitori usufruisce di altri strumenti di sostegno al reddito o non lavora. Attenzione, lo stipendio viene decurtato del 50%. Questa misura vale anche per gli autonomi iscritti alla gestione separata cui è riconosciuta un’indennità massima pari al 50% di quella per maternità, per quelli iscritti all’Inps l’indennità spetta per il 50% della retribuzione convenzionale stabilita dalla norma.
Congedi speciali non retribuiti. Sono previsti Congedi con le stesse caratteristiche di quelli appena visti, ma non retribuiti (e senza contribuzione figurativa) per chi ha figli tra 12 e 16 anni di età, rimane il diritto alla conservazione del posto e il divieto di licenziamento.
Voucher baby sitter. In alternativa al congedo per figli fino a 12 anni è possibile ottenere un voucher di 600 euro per pagare baby sitter, questo contributo viene erogato tramite il libretto di famiglia direttamente dall’Inps. Per i dipendenti del settore sanitario pubblico o privato il bonus è di 1.000 euro.
Più giorni per i disabili o con familiari disabili. Per chi usufruisce di permessi retribuiti dati dalla legge 104/92 (lavoratori disabili o con familiari disabili), per i mesi di marzo e aprile, è possibile ottenere 12 giorni al mese in aggiunta ai 3 ordinari.
Altre misure per i lavoratori
Sul fronte del lavoro poi, con questo decreto il Governo si fa carico di pagare direttamente chi è in malattia per colpa del coronavirus (al posto dell'INPS), stanzia un fondo per i lavoratori danneggiati, mette in busta paga 100 euro nette a chi è stato costretto a presentarsi sul posto di lavoro nel mese di marzo e dispone un'indennità di 500 euro per liberi professionisti, co.co.co e lavoratori stagionali. Ecco il dettaglio delle misure. 
Lavoratori in quarantena equiparati alla malattia. I lavoratori che devono stare in quarantena o in permanenza domiciliare fiduciaria, sono equiparati a quelli che sono in malattia, pertanto sarà necessario un certificato del medico curante come avviene nei normali casi di giornate di malattia, da comunicare al datore di lavoro. La novità è che questi periodi sono a carico diretto dello Stato non di Inps o datori di lavoro e questo periodo non viene calcolato ai fini del comporto.
500 euro per autonomi e stagionali. Il Governo ha predisposto un’indennità di 500 euro una tantum, che non viene considerata reddito, per:
- i liberi professionisti titolari di partita iva (attiva almeno dal 23 febbraio u.s.) e per quelli iscritti alle gestioni speciali dell’Ago;
- chi ha un contratto di collaborazione coordinata continuativa ed è iscritto alla gestione separata dell’Inps;
- i lavoratori stagionali del turismo e degli stabilimenti termali che hanno smesso di lavorare involontariamente dal 1° gennaio 2019 alla data di entrata in vigore di questo decreto;
- agli operai agricoli a tempo determinato, che hanno lavorato almeno 50 giornate nel 2019;
ai lavoratori dello spettacolo che abbiano almeno 30 contributi giornalieri versati nel 2019 al fondo di riferimento (non viene erogata ai lavoratori dipendenti);
- a chi lavora per associazioni sportive dilettantistiche.
Un fondo per i lavoratori danneggiati. E' stato creato un fondo per i lavoratori danneggiati per garantir loro un’indennità in caso di cessazione, riduzione o sospensione dell’attività lavorativa (autonoma o dipendente). Per ottenerla occorre aver prodotto un reddito da lavoro inferiore a 10.000 euro nel 2019.
100 euro per chi ha lavorato in sede. Per i dipendenti con reddito inferiore a 40.000 euro è previsto un premio netto di 100 euro nella busta paga di aprile o entro il conguaglio di fine anno, qualora abbiano lavorato in sede. Il premio viene parametrato ai giorni di lavoro prestati in sede.
Mutui, affitti e biglietti
Novità anche sul fronte delle rate di mutui: la moratoria fino a 18 mesi prevista per i mutui prima casa viene estesa anche a liberi professionisti e lavoratori autonomi che hanno visto ridursi di un terzo il fatturato a causa del coronavirus. Possibilità di rimborso anche per le case prese in affitto. Infine, vista l'impossibilità di usufruire dei servizi, si stabilisce che i biglietti per teatri, cinema ed eventi vengano rimborsati. Ecco nel dettagli le misure.
Mutui sospesi anche per le partite Iva. Il decreto prevede un rifinanziamento del fondo di solidarietà per i mutui per l’acquisto dell’abitazione principale di 500 milioni di euro. La sospensione delle rate dei mutui prima casa in caso di sospensione del lavoro o riduzione dell’orario di lavoro per almeno 30 giorni o per gli altri casi previsti dal Fondo di garanzia viene estesa anche ai lavoratori dipendenti subordinati e parasubordinati anche ai lavoratori autonomi e ai liberi professionisti che autocertifichino di aver registrato, in un trimestre successivo al 21 febbraio 2020 o tra la data della domanda di sospensione e il 21 febbraio 2020, un calo del proprio fatturato, superiore al 33% del fatturato dell’ultimo trimestre 2019, in conseguenza della chiusura o della restrizione della propria attività operata in attuazione delle disposizioni per l’emergenza coronavirus. Per l’accesso al Fondo non è richiesta la presentazione dell’ISEE In deroga al normale accesso al Fondo che prevede un reddito non superiore ai 30 mila euro. Il fondo pagherà il 50% della quota interessi una volta ripreso il pagamento delle rate sospese. 
Cinema, teatri e musei da rimborsare. Data l'impossibilità di fornire il servizio in seguito alle disposizioni dell’8 marzo, il decreto dispone il rimborso di tutti i biglietti per spettacoli di qualsiasi natura, compresi cinema, teatri, ingressi ai musei e agli altri luoghi della cultura.Chi ha acquistato i biglietti può presentare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore del nuovo decreto, richiesta di rimborso al venditore, allegando il titolo di acquisto (biglietto o ricevuta di pagamento). Il venditore, entro trenta giorni dalla presentazione della richiesta provvede all'emissione di un voucher di pari importo al titolo di acquisto, da utilizzare entro un anno dall'emissione.
Tasse: pagamenti rinviati
Sul fronte del fisco, era già stato nei giorni scorsi modificato il calendario di presentazione del modello 730, facendo slittare al 30 settembre il termine ultimo per presentarlo. Ora si stabiliscono anche rinvii sulle scadenze dei lavoratori autonomi e delle partite iva. Rinviati anche al 10 giugno contributi previdenziali e assicurazione domestica, nonché alcune tasse locali (come Tari e Imu) in base al comune di residenza. Ricordati inoltre che l’Agenzia delle entrate ha anche ridotto al minimo la possibilità di accesso agli sportelli, dove è possibile recarsi solo per consegnare documenti. Pertanto, per comunicare con l’Agenzia occorre far riferimento alle indicazioni riportate sul sito alla pagina dedicata. Ecco il dettaglio dei provvedimento in materia di fisco.
Rinviate le scadenze anche per gli autonomi. Il decreto stabilisce il rinvio del pagamento di tasse e contributi dovuti entro il 30 aprile, questa misura ha particolare impatto sulle imprese e sui lavoratori autonomi che vedono prorogate scadenze onerose. Pertanto, i versamenti andranno effettuati senza sanzioni o interessi in un’unica soluzione entro il 31 maggio 2020 o tramite 5 rate mensili di pari importo da versare a decorrere da maggio.
Contributi previdenziali e polizza casalinghe rinviate a giugno. Può sospendere il pagamento chi versa i contributi previdenziali, assistenziali e i premi per l’assicurazione obbligatoria per lavoratori domestici che hanno scadenza tra il 23 febbraio e il 31 maggio 2020. I versamenti dovranno esser effettuati entro il 10 giugno 2020 senza applicazione di sanzioni e interessi.
Sospesi gli accertamenti dell'Agenzia delle Entrate. Sono sospesi accertamenti, verifiche, cartelle esattoriali, avvisi di accertamento e provvedimenti esecutivi, cioè pignoramenti o aste. Questo significa che anche le rate della così detta rottamazione ter e del saldo e stralcio vengono sospese. La sospensione riguarda i termini scadenti tra l’8 marzo e il 31 maggio. Le somme dovranno esser versate entro la fine di giugno.
Imu e tari, dipende dal Comune. A livello locale, molti Comuni si sono impegnati, pur in assenza di normativa statale cui far riferimento a rinviare il pagamento delle imposte legate alla casa, quali Imu e Tari. Pertanto, è bene consultare il sito internet del proprio Comune o dell’azienda che si occupa della gestione dei rifiuti per capire nel proprio caso se ci siano provvedimenti favorevoli in atto.
Carte d'identità, prorogata la scadenza. La validità di carte d’identità scadute o in scadenza viene prorogata al 31 agosto 2020.
Prorogati i certificati. La validità di certificati, permessi, attestati, concessioni, autorizzazioni in scadenza tra il 31 gennaio e il 15 aprile è prorogata al fino al 15 giugno.

Violare la quarantena è “procurata epidemia”: si rischia il carcere. Cambia l’autocertificazione

Con la quarantena non si scherza. Va rispettata. E per chi non lo facesse, si profila una batosta penale: denuncia per “procurata epidemia colposa”, reato che va dai 3 ai 12 anni di carcere. Così cambia anche il modulo di autocertificazione che è stato predisposto dal ministero dell’Interno.

È online https://www.interno.gov.it/it il nuovo modello che integra quello precedente e che contiene una nuova voce. Il modulo, come è noto, va sempre portato con sé quando si esce di casa, o comunque l’hanno le forze di polizia. Va compilato e controfirmato. Nel modulo aggiornato c’è una voce particolarmente significativa: l’interessato deve autodichiarare di non trovarsi nelle condizioni previste dall’articolo 1, comma 1, del decreto dell’8 marzo scorso, quello che ha dichiarato l’Italia intera come zona arancione e impone il divieto assoluto a tutti i cittadini di uscite dalla propria abitazione.
Ora, l’articolo 1, comma 1, riguarda chi si trova in quarantena per ordine dell’autorità sanitaria. O perché affetto dal Covid-19, o perchè particolarmente a rischio. Ebbene, il decreto stabiliva un obbligo assoluto di restare chiusi nella propria dimora. Il nuovo modulo, che in caso di controlli resta in mano alla polizia, ed è alla base di verifiche successive, in pratica diventa una specie di autodenuncia qualora la persona trovata in strada fosse in quarantena. E a quel punto scatterà la denuncia per il reato di “procurata epidemia colposa”.

lunedì 16 marzo 2020

Coronavirus e spostamenti, tutto sull'autocertificazione

Con l'ultimo decreto emanato recentemente dal Governo arriva un'ulteriore stretta sugli spostamenti in tutta Italia e vengono imposte nuove limitazioni per contrastare l'emergenza Coronavirus. Chi è sottoposto alla misura di quarantena in seguito alla positività al virus è soggetto a un divieto assoluto che non ammette eccezioni. Per tutti gli altri, invece, le indicazioni sono quelle di evitare ogni spostamento sia in entrata che in uscita dal Paese e, sul territorio nazionale, consente sotanto spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative, situazioni di necessità o di salute. Motivazioni che devono essere indicate chiaramente in un'autocertificazione che deve essere compilata in ogni sua parte e deve essere portata con sé quando si esce di casa. I dubbi sono tanti, vediamo le risposte ai più comuni.

Quali sono i casi di "comprovata necessità"?
Il decreto ammette gli spostamenti solo in caso di comprovate esigenze lavorative, di necessità o di salute. Per "comprovate" significa che chi esce dalla propria abitazione deve essere in grado di dimostrare che si sta muovendo per una di queste tre circostanze. L'autocertificazione è una prova che viene sottoposta a verifica, quindi deve contenere informazioni veritiere. Quali sono le situazioni di necessità che possono giustificare gli spostamenti? Il decreto non le definisce con precisione, questo perché si rischierebbe di lasciare fuori molte situazioni che dovrebbero comunque essere tutelate. Per questo motivo si lascia al senso civico di ognuno il giudizio su cosa è una situazione di necessità. Secondo la Prefettura di Milano sarebbe utile che il cittadino che seleziona questa voce sul modulo allegasse all'autocertificazione anche una descrizione dettagliata di quello che sta andando a fare, anche in carta bianca. In questo modo si riescono a far rientrare tutti i casi diversi e si dà modo al personale in servizio di veriricare che ci sia davvero una necessità. 
Si può uscire per fare la spesa o fare visita ad anziani non autosufficienti?
Il decreto prevede la possibilità di uscire sempre in alcune circostanze, meglio se rimanendo sempre nella propria zona di domicilio perché, in caso contrario, è difficile dimostrare la necessità dello spostamento:
    - Per l'acquisto di farmaci necessari e di generi alimentari
Non c'è quindi motivo di correre a fare enormi scorte di questi prodotti, perché verranno riforniti costantemente. Il buon senso deve prevalere: evitate di percorrere chilometri per fare la spesa se avete un negozio vicino casa.
    - Per l'acquisto di beni diversi
Oltre a quelli alimentari, il decreto prevede la possibilità di uscire di casa per acquistare altre tipologie di prodotti solo in caso di stretta necessità, come la bombola del gas finita, le lampadine che si sono fulminate, ecc. 
    - Per far visita a un familiare non autosufficiente
Per andare a trovare un figlio minorenne, in caso di affido all'altro genitore.
Posso uscire per fare una passeggiata, praticare sport all'aperto o per portare fuori il cane?
L'indicazione è sempre quella di rimanere a casa. Se si mantengono le giuste distanze, però, si può uscire per portare fuori il cane, per fare sport all'aperto da soli e per una passeggiata. Teniamo sempre bene a mente le regole:
- uscire da soli;
- rimanere vicino casa;
- mantenere le distanze dalle altre persone;
- stare fuori per massimo 30-40 minuti;
- portare con sé il documento di identità e l'autocertificazione, indicando tragitto e orario, inserendo come motivazione:
"per svolgere attività motoria e sportiva all’aperto, rispettando la distanza interpersonale di almeno un metro come peraltro previsto dal dpcm del 9 marzo 2020 e specificato dalla successiva circolare del 12 Marzo 2020 firmata capo di gabinetto del Viminale, Matteo Piantedosi". 
Contattate il vostro Comune di residenza
In caso di dubbi e per evitare rischi, il consiglio è quello di contattare il vostro Comune di residenza per avere ulteriori informazioni. Sui siti istituzionali delle amministrazioni sono a disposizione informazioni dettagliate e un numero telefonico dedicato.
Posso mostrare l'autocertificazione sullo smartphone?
No, per essere ritenuta valida l'autocertificazione deve essere firmata, per cui non è possibile mostrarla al cellulare. È bene ricordare anche che bisogna portare con sé il proprio documento di identità i cui estremi sono riportati sull'autocertificazione.
Se ho necessità di spostarmi di frequente nello stesso posto devo compilare un'autocertificazione ogni volta?
No, nel caso in cui lo spostamento sia ricorrente è possibile utilizzare un unico modulo e specificare che si tratta di una scadenza fissa. Bisogna quindi indicare una frase come "Ogni giorno mi reco presso la clinica ....... per cure mediche indifferibili", o anche "Mi reco ogni giorno presso ...... alle ore ...... per assistenza a mio padre non autosufficiente". 
Cosa rischio se vengo sorpreso fuori casa senza l'autocertificazione?
Nel caso in cui le forze dell'ordine dovessero fermarvi e sorprendervi senza l'autocertificazione è sempre possibile chiedere di fare una dichiarazione autocertificata che l'ufficiale dovrà trascrivere. A questo proposito, è bene ricordare di portare sempre con voi un documento d'identità valido.
Quali conseguenze ci sono per chi dichiara il falso?
Le forze di polizia possono verificare la veridicità della vostra dichiarazione, attenzione quindi a non dichiarare il falso. In questo caso, infatti, la sanzione per chi viola le limitazioni agli spostamenti indicati dal DPCM dell'8 marzo 2020 si va ad aggiungere a quella per falsa certificazione. Questo significa che c'è il rischio di rispondere penalmente per inosservanza del provvedimento dell'autorità e per reati dolosi contro la salute pubblica.

mercoledì 11 marzo 2020

#Coronavirus, autocertificazione anche per chi esce a piedi

Autocertificazione anche per chi esce a piedi. E' questa l'indicazione che dà il capo della Protezione Civile sull'emergenza coronavirus. E anche «Il consiglio che mi sento di dare è quello di uscire solo per lo stretto necessario e indispensabile. Anche chi va a piedi deve portare l’autocertificazione». Lo ha detto il capo della Protezione Civile, Angelo Borrelli, nel corso della conferenza stampa per fare il punto sull’emergenza coronavirus. 
«Sulle mascherine voglio dare una informazione su un parere del comitato tecnico scientifico in merito all’utilizzo in luogo di lavoro, si raccomanda di rispettare rigorosamente le distanze previste del metro come principale criterio per il contenimento dell’infezione, in assenza di poter mantenere la distanza è raccomandato l’uso della mascherina».
fonte: www.iltempo.it

lunedì 9 marzo 2020

#Coronavirus, chi ha un mutuo può sospendere le rate

Chi ha un contratto di mutuo e ha subito la riduzione dell'orario o la sospensione dal lavoro in seguito all'allarme coronavirus può richiedere il congelamento delle rate. È quanto previsto dal decreto Covid-19, ma vale solo sui mutui prima casa e per chi ha un Isee inferiore ai 30.000 euro.
Oltre ad anticipare il nuovo calendario fiscale (posticipando al data di presentazione del 730 di quest'anno al 30 settembre) e a introdurre indicazioni più puntuali riguardo i rimborsi dei viaggi cancellati in seguito all'emergenza sanitaria, il recente decreto Covid-19 introduce anche alcune novità per chi ha stipulato un mutuo e attraversa una situazione critica. È questa una delle misure pensate dal Governo a sostegno di famiglie, lavoratori e imprese impattati dall'emergenza coronavirus proprio per fronteggiare le situazioni di difficoltà economica. Chi ha un contratto di mutuo potrà infatti chiedere il congelamento del pagamento delle rate del mutuo nel caso in cui subisca la sospensione dal lavoro o la riduzione dell'orario lavorativo per almeno 30 giorni. In realtà questa possibilità esisteva già grazie al Fondo solidarietà mutui ma, grazie al decreto Covid-19, si amplia la platea dei possibili beneficiari.

In quali casi è possibile congelare le rate
Possono richiedere il congelamento delle rate (per un massimo di 18 mesi) tutti gli intestatari di un contratto di mutuo che hanno subito la riduzione dell'orario o la sospensione dal lavoro per almeno 30 giorni. La misura riguarda indistintamente tutti gli intestatari, non è quindi riservata solo ai residenti nei Comuni della zona rossa. Sia il mutuo che il richiedente, però, devono rispettare alcuni criteri precisi:
- il contratto deve essere stato stipulato da più di un anno rispetto alla data di richiesta della sospensione;
- la sospensione o la riduzione dell'orario di lavoro devono essere avvenute nei tre anni precedenti alla richiesta;
- il capitale residuo del mutuo non può essere superiore a 250.000 euro;
- il mutuo deve essere stato acceso per un'abitazione principale e non per un immobile di lusso;
- l'Isee del richiedente non può essere superiore ai 30.000 euro. 
fonte: www.altroconsumo.it

mercoledì 4 marzo 2020

Reato cambiare la serratura della casa in affitto

Se non si desidera più il proprio inquilino e si vuole recuperare la disponibilità dell'appartamento dato in affitto, meglio rivolgersi al giudice e non fare da sé, ad esempio, cambiando la serratura e lasciando lo stesso fuori casa.
Tale condotta, infatti, come confermato di recente dal Tribunale di Ferrara (sentenza n. 468/2019) integra reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

La vicenda
La vicenda ha per protagonista (suo malgrado) una donna che, dovendosi sottoporre ad un intervento chirurgico, lasciava temporaneamente l'abitazione in affitto, chiudendola a chiave.
Rientrata a casa dopo un po' di tempo, trovava la triste sorpresa: la serratura della porta di ingresso era stata sostituita e non poteva più rientrare. Chieste spiegazioni alla proprietaria, questa le riferiva semplicemente di aver cambiato la serratura perché "non la voleva più in casa".
Inevitabilmente la questione finiva in tribunale.
La decisione
Per il giudice, non ci sono dubbi sulla responsabilità penale della proprietaria per il reato di cui all'art. 392 c.p., in quanto al fine di esercitare un preteso diritto, potendo ben ricorrere al giudice, si faceva ragione da sé, peraltro approfittando dell'assenza dell'inquilina per motivi di salute.
Sul punto, rileva il tribunale emiliano, depongono non solo le dichiarazioni della persona offesa, ma anche la pacifica giurisprudenza secondo cui "integra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni la condotta del locatore che, a seguito del decesso del conduttore e della mancata restituzione dell'immobile da parte dell'erede, riacquisti il possesso dell'immobile sostituendo la serratura della porta d'ingresso, anziché esperire l'azione di rilascio per occupazione ‘sine titulo' nei confronti del successore del conduttore, divenuto detentore precario del bene" (cfr. Cass. n. 3348/2017). E ancora: "risponde del reato di cui all'art. 392 c.p. il proprietario di un immobile che, una volta scaduto il contratto di locazione, di fronte all'inottemperanza del conduttore dell'obbligo di rilascio, anziché ricorrere al giudice con l'azione di sfratto, si fa ragione da sé, sostituendo la serratura della porta di accesso e apponendovi un lucchetto" (cfr. Cass. n. 10066/2005).
Alcun ragionevole dubbio può, pertanto, porsi circa la sussistenza della penale responsabilità dell'imputata cui vengono negate anche le attenuanti generiche, ma concessa la sospensione condizionale della pena data l'assenza di precedenti penali.
fonte: www.ilsole24ore.com

Cassazione: chi cambia sesso ha diritto a scegliersi il nome

Chi cambia sesso ha diritto a scegliersi un nuovo nome, senza accontentarsi del cambio di desinenza - dal maschile al femminile o viceversa, a secondo della transizione sessuale - di quelle avuto alla nascita. Lo sottolinea la Cassazione affermando che il nome è «uno dei diritti inviolabili della persona», un «diritto insopprimibile», e nella scelta - da parte di chi chiede una nuova identità anagrafica per “registrare” il mutamento di sesso - deve «essere assicurato anche un diritto all'oblio, inteso quale diritto ad una netta cesura con la precedente identità». Così la Suprema Corte ha accolto la richiesta di un ex uomo, Alessandro, residente in Sardegna, che non voleva “ribattezzarsi” Alessandra, come deciso dalla Corte di Appello di Torino, ma aveva scelto il nome di Alexandra. Per i giudici piemontesi non esistono i presupposti per «un voluttuario desiderio di mutamento del nome» e occorre accontentarsi di «quello derivante dalla mera femminilizzazione del precedente». Di diverso avviso gli “ermellini” che hanno dato il via libera ad Alexandra.

«In accoglimento del ricorso - dispone il verdetto 3877 - va cassata la sentenza impugnata in punto di rettifica consequenziale del nome e, decidendo nel merito, va ordinato all'ufficiale di Stato civile del Comune di Cagliari di rettificare l'atto di nascita nel senso che, unitamente alla rettificazione del sesso da maschile al femminile, sia riportato il prenome `Alessandra´, in luogo di “Alessandro”, provvedendo alle annotazioni susseguenti». Si tratta di una «novità», l'affermazione del diritto alla scelta del nome dopo la transizione sessuale, rilevano gli stessi “ermellini” condividendo i motivi di ricorso sostenuti dagli avvocati Giulia Perin e Alexander Schuster, paladino delle lotte “arcobaleno”.

Con questo stesso verdetto, la Cassazione ricorda - come già affermato dalla Consulta nel 2015 e nel 2017 - che per ottenere la rettificazione anagrafica dell'identità di genere, «il trattamento chirurgico di modificazione dei caratteri sessuali anatomici primari» non è un «presupposto imprescindibile», una volta che «non corrispondono più al sesso attribuito nell'atto di nascita i caratteri sessuali ed identitari attuali». In pratica il nuovo documento di identità deve essere rilasciato anche in caso di non «compiutezza del percorso di transizione» da un genere all'altro, perché quel che conta sono le caratteristiche sessuali che si “maturano” nel corso della vita e l'aspetto che si assume. Non è richiesto un mutamento irreversibile nato in sala operatoria. 
fonte: www.lastampa.it

Coronavirus: le misure per famiglie, lavoratori e imprese

È stato pubblicato il Decreto Legge 2 marzo 2020, n. 9, recante “Misure urgenti di sostegno per famiglie, lavoratori e imprese connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19”, proposto dal Presidente del Consiglio Conte e dal Ministro dell'economia e delle finanze Gualtieri, approvato dal Consiglio dei Ministri il 28 febbraio ed entrato in vigore il 2 marzo.
Si tratta di disposizioni dirette ad assicurare un primo supporto di natura economica a cittadini ed imprese che si trovino ad affrontare, in questi giorni, problemi di liquidità finanziaria a causa dell'emergenza sanitaria a tutti nota.

Sospensione dei termini per versamenti ed altri adempimenti nella c.d. “zona rossa”
Per i soggetti che risiedono nella “zona rossa”, ovvero nei comuni di Bertonico, Casalpusterlengo, Castelgerundo, Castiglione d'Adda, Codogno, Fombio, Maleo, San Fiorano, Somaglia, Terranova dei Passerini e Vò, sono sospesi i versamenti in scadenza nel periodo compreso tra il 23 febbraio ed il 30 aprile, relativi a cartelle di pagamento emesse dagli agenti della riscossione, avvisi di addebito emessi dagli enti previdenziali ed assicurativi, atti di accertamento esecutivi da parte dell'Agenzia delle Entrate, atti di accertamento emessi dagli enti locali, “rottamazione-ter”, “saldo e stralcio”, la cui scadenza è stata posticipata al 31 maggio 2020.
È sospeso, altresì, il pagamento delle bollette di acqua, gas ed energia elettrica, sempre sino al 30 aprile, con previsione di una eventuale rateizzazione non appena terminato il periodo di sospensione.
È sospeso il versamento, per 12 mesi, dei ratei dei mutui agevolati concessi da Invitalia alle imprese ed il pagamento dei diritti camerali.
Dette misure si estendono anche a coloro che risiedono fuori della “zona rissa” ma si avvalgono di intermediari che vi siano ubicati.
Misure di sostegno alle famiglie, ai lavoratori dipendenti e autonomo e di potenziamento degli ammortizzatori sociali nella “zona rossa”
Il decreto prevede la cassa integrazione ordinaria per le unità operative operanti nei comuni di cui sopra e per i lavoratori ivi domiciliati.
Si prevede la possibilità di sospensione della Cassa integrazione straordinaria per le imprese che vi abbiano fatto ricorso prima dell'emergenza sanitaria e sostituzione con Cassa integrazione ordinaria.
Si prevede la cassa integrazione in deroga per i datori di lavoro del settore privato, compreso quello agricolo, aventi unità produttive nei comuni elencati e per i lavoratori ivi domiciliati, che non possano beneficiare dei strumenti vigenti di sostegno al reddito, per la durata della sospensione del rapporto di lavoro.
Si contempla una indennità di 500 euro al mese per un massimo di tre mesi, per i lavoratori che abbiano rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, per gli agenti commerciali, per i professionisti e per i lavoratori autonomi, domiciliati o che svolgano la propria attività nei comuni elencati.
Misure a favore dei soggetti che risentono delle conseguenze, anche indirette, dell'emergenza sanitaria
Si prevede l'incremento della dotazione del Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese e, per 12 mesi, la garanzia della priorità della concessione del credito a quelle che operino nella “zona rossa”.
Si prevede la sospensione del pagamento dei ratei dei mutui per immobili residenziali per i lavoratori che subiscano la sospensione del rapporto di lavoro o la riduzione del lavoro per un periodo di almeno 30 giorni.
È contemplato l'incremento di 350 milioni di euro dei Fondi destinati al sostegno delle imprese esportatrici ed il ricorso a misure dirette ad agevolare il ricorso al lavoro agile dei dipendenti di amministrazioni pubbliche.
Garantito il mantenimento della retribuzione dei dipendenti pubblici in caso di malattia con ricovero ospedaliero o assenza per malattia dovuta al Coronavirus, compresi i periodi di quarantena.
Vi è la possibilità, per i laureati in medicina e chirurgia che non possano sostenere l'esame di Stato, di frequentare con riserva il corso di formazione specifica in medicina generale.
Si prevede la conservazione della validità dell'anno scolastico, anche se gli istituti non possano effettuare i 200 giorni di lezione previsti per legge.
Settore turistico
Le agenzie di viaggio e i tour operator possono godere della sospensione fino al 30 aprile, del versamento dei contributi previdenziali e delle ritenute fiscali, mentre per coloro che non abbiano potuto viaggiare o usufruire di pacchetti turistici a causa delle misure di contenimento e di prevenzione della diffusione della malattia, si prevedono specifiche forme di compensazione.
fonte: www.altalex.com

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