venerdì 31 ottobre 2014

Marijuana, il binomio uso personale - entità minima esclude la punibilità

La coltivazione “casalinga” di piantine di marijuana non è punibile, quando la condotta sia inoffensiva, ossia quando l’entità sia minima e l’uso sia esclusivamente personale. Queste condizioni, difatti, escludono la possibile diffusione della sostanza producibile e/o l’ampliamento della coltivazione. Lo afferma la Cassazione nella sentenza 33835/14.

Il caso

La Corte d’appello confermava la condanna dell’imputato per aver coltivato piante di canapa indiana. Avverso la sentenza ricorreva per cassazione il p.g. deducendo l’insussistenza in concreto di un fatto punibile attesa l’inoffensività della condotta, in presenza di quantità trascurabili di sostanza stupefacente destinata all’esclusivo uso personale. Secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, «la coltivazione di piante destinata alla produzione di stupefacente è una condotta sempre punibile in quanto esclusa, dagli artt. 75 e 73 d.p.r. n. 309/90, dall’ambito della detenzione finalizzata all’uso personale, sanzionata in va amministrativa». Tuttavia, questa interpretazione risulta essere abbastanza rigida se si considera che possa comportare la punibilità della produzione minima della sostanza stupefacente per conclamato uso personale.

La Cassazione sviluppa il proprio ragionamento argomentativo partendo dal richiamo alla sentenza n. 360/1995, in base alla quale viene affrontato il tema dell’offensività in senso astratto e concreto considerando il tema del diverso trattamento tra mera detenzione e coltivazione di sostanze stupefacenti. Tale sentenza indica quale sia, valutata sotto il profilo dell’offensività, l’ambito del pericolo presunto del reato di coltivazione di stupefacenti, individuando così l’ambito d’assenza di offensività della condotta. La coltivazione non ha immediato collegamento con l’uso personale e nemmeno un vincolo diretto ed immediato con il consumo, dal momento che ha a che fare con le diverse fasi della produzione di droga. Essa è punita – specifica il Collegio - «in ragione del carattere di aumento della disponibilità e della possibilità di ulteriore diffusione». Diversamente, la detenzione ha per sua natura un oggetto determinato e controllabile sotto il punto di vista della quantità. Essa è strettamente collegata alla successiva destinazione della sostanza. Pertanto – come affermato dalla Corte Suprema - «è punibile solo quando è destinata all’uso di terzi, mentre se destinata all’uso personale, è punibile con sanzione amministrativa».

In sostanza, l’azione tipica della coltivazione si individua all’accertamento della destinazione della sostanza, bastando che sia realizzato il pericolo presunto. Tuttavia, nell’individuazione del compimento dell’azione tipica, va applicata la regola necessaria dell’offensività in concreto, ossia - chiarisce la Corte - «pur realizzata l’azione tipica, dovrà escludersi la punibilità di quelle condotte che siano in concreto inoffensive». Tale condizione, ricorre quando la condotta dimostri tale levità da essere irrilevante l’aumento di disponibilità di droga e non prospettabile alcuna ulteriore diffusione della sostanza. Aggiunge la Cassazione, che «l’ambito di tale riconoscibile inoffensività è, ragionevolmente, quello del conclamato uso personale e della minima entità della coltivazione, tale da escludere la possibile diffusione della sostanza producibile e/o all’ampliamento della coltivazione; l’onere della prova, spettando all’accusa dimostrare la realizzazione del fatto tipico, va ritenuto tendenzialmente a carico dell’imputato anche se è probabile che la condizione di inoffensività sia di immediata percezione».

Nel caso di specie, la valutazione di non offensività fatta dal p.g. era corretta, dal momento che era stato sequestrato un vaso con due piantine di marijuana. Dalla prima potevano ricavarsi 750 mg di foglioline, con THC pari all’1,48%; pertanto erano presenti 11 mg di THC (quantitativo inferiore al valore della quantità massima detenibile, equivalente a poco meno di 1/2 di dose media singola). Dalla secondo potevano ricavarsi 500 mg di foglioline, con THC pari all’1,59% per cui erano presenti 8 mg di THC (quantitativo inferiore al valore della quantità massima detenibile, equivalente a circa 1/3 di dose media singola). In conclusione, è indubbia l’assoluta inconsistenza della coltivazione del caso in esame, tanto da escludere che in concreto sia stata realizzata la lesione del bene tutelato dalla norma. La Corte annulla, quindi, senza rinvio la sentenza perché il fatto non sussiste.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Marijuana, il binomio uso personale - entità minima esclude la punibilità

Valida la notifica della cartella esattoriale ricevuta dalla moglie, la conflittualità coniugale non rileva

Non si può affermare la nullità delle cartelle esattoriali emesse dall’Agenzia solo perché la notifica è stata ricevuta dalla moglie, con cui il marito, destinatario degli atti, va poco d’accordo. La maggior o minor armonia di coppia, ovvero il ritenuto “rapporto di conflittualità coniugale”, non rilevano ai fini della ritualità della notificazione. Questo il motivo per cui la sezione tributaria di Cassazione, accogliendo il ricorso dell’Amministrazione Finanziaria, ha annullato la decisione di merito che riteneva invalidi gli atti impositivi per via di tali “perplessità sulle notifiche”.

La CTR, infatti, rilevata la conflittualità della coppia, dalla stessa presumeva che il marito non fosse venuto effettivamente a conoscenza di quanto notificato e ricevuto dalla moglie. Tale ragionamento non supera il vaglio degli Ermellini che rimproverano ai Giudici di merito di non aver precisato gli elementi rilevanti a fini della ritualità e validità della notifica: il luogo in cui la stessa fu perfezionata e la qualità del soggetto cui l’atto fu consegnato, ai sensi e per gli effetti dell’art. 139 c.p.c. Per tale ragione, i Supremi Giudici, con la sentenza depositata il 29 ottobre scorso, n. 22928, hanno ritenuto la decisione di merito affetta da motivazione solo apparente. Gli Ermellini definiscono le argomentazioni della CTR “apodittiche, disancorate dalla fattispecie concreta e sprovviste di riferimenti specifici e puntuali al rapporto in contestazione, ed assolutamente inidonee a rivelare la rato decidendi”.

Fonte: Fiscopiù - Giuffrè per i Commercialisti - www.fiscopiu.it/La Stampa - Valida la notifica della cartella esattoriale ricevuta dalla moglie, la conflittualità coniugale non rileva

giovedì 30 ottobre 2014

Diffamazione, niente carcere ma multe salate

Un voto largamente favorevole del Senato e prossimamente un ultimo passaggio alla Camera: così stanno velocemente cambiando le norme sulla diffamazione. Dopo il caso Sallusti, il giornalista condannato al carcere che solo grazie a Giorgio Napolitano è potuto tornare in libertà, e sotto le pressioni internazionali, il Parlamento ha deciso di cancellare la cella per i giornalisti. In compenso ci sono multe salate. La legge in discussione, che per una volta vede quasi tutti i partiti d’accordo - 170 sì, 10 no e 47 astenuti -, introduce rilevanti novità: si prevede il diritto all’oblio; il giornalista non potrà più tutelare la segretezza delle sue fonti davanti al giudice; la rettifica dovrà essere pubblicata senza titolo e senza commento; rientrano nella disciplina prevista per la carta stampata anche le testate giornalistiche on-line, rischiano per la prima volta anche quelli che intentano «querele temerarie» al solo scopo di zittire i giornalisti.



Protestano i giornalisti

«Bene la cancellazione del carcere per i giornalisti, malissimo il bavaglino delle mega multe e delle norme restrittive per il web», sostiene il sindacato Fnsi. «L’insieme delle norme mantiene l’effetto intimidatorio», commenta Enzo Iacopino, presidente dell’Ordine dei giornalisti.

Sanzioni salate

L’abolizione del carcere è la novità principale della legge. Non una depenalizzazione assoluta, come chiedeva Ossigeno, l’osservatorio congiunto tra Fnsi e Ordine sulla libertà di stampa. Restano le multe in caso di condanna: fino a 10.000 euro per una diffamazione semplice, fino a 50.000 se aggravata. Inoltre c’è la pubblicazione obbligatoria della sentenza e l’interdizione dalla professione per un periodo da uno a sei mesi.

La rettifica

È obbligatoria. Il giornale, o il sito Internet, o la televisione, sono tenuti a pubblicarla e che sia senza titolazione e senza commento. Se pubblicata tal quale, il giornalista e il direttore responsabile non sono più punibili. Si possono opporre soltanto se nella rettifica vi siano affermazioni «suscettibili di incriminazione penale» o «documentalmente false». È già immaginabile il quesito: chi decide se una rettifica è documentalmente falsa?

Diritto all’oblio

Un’altra novità: la richiesta di essere cancellati dai motori di ricerca e dagli archivi on-line. Vale sia per chi si ritiene diffamato, sia per chiunque si senta «leso nell’onore o nella reputazione». La platea potenziale è infinita. Conferma la senatrice Rosanna Filippin, Pd, relatrice: «Ogni cittadino, in qualunque momento, avrà diritto a chiedere di oscurare i dati che lo riguardano in nome del diritto all’oblio, però solo un magistrato potrà ordinare l’oscuramento. E sarà il magistrato a valutare se c’è un interesse storico a mantenere in vita quei dati oppure a cancellarli».

Nuove norme per la Rete

C’è già chi grida al «bavaglio» per Internet. Il ddl prevede infatti che l’obbligo di rettifica, ma anche le sanzioni conseguenti a una condanna per diffamazione, valgano per le testate giornalistiche registrate e on-line. Finora le regole valevano solo per la carta stampata. È stato il M5S a volere questa norma. E il senatore Maurizio Buccarella la difende: «Chi parla di bavaglio o afferma il falso oppure sostiene che le testate on-line debbano essere libere di poter diffamare impunemente». A ben vedere, i blog sono esentati da queste regole. Ma per questi ultimi c’è un’insidia ancora più pericolosa: per il reato di “ingiuria” c’è una multa fino a 5.000 euro. E alla stessa pena «soggiace chi commette il fatto mediante comunicazione telegrafica, telefonica o telematica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa». Gli ingiurianti di professione, i cosiddetti «Troll», sono avvisati.

La Stampa - Diffamazione, niente carcere ma multe salate

Scambio di informazioni finanziarie, via il segreto bancario dal 2017

Si avvicina la fine del segreto bancario, come pure dell’evasione fiscale internazionale. Ben 51 Paesi, infatti, hanno sottoscritto ieri a Berlino, in occasione del Global Forum per la trasparenza e lo scambio di informazioni dell'OCSE, l'accordo per lo scambio automatico informazioni finanziarie a partire dal 2017. Altri 7 Paesi si sono impegnati allo scambio di informazioni a partire dalla stessa data, anche se non hanno ancora sottoscritto l’accordo, mentre dal 2018 si aggiungeranno ulteriori 34 Paesi, per un totale di 92 Paesi.

Tra 14 mesi, dunque, si potrà iniziare a celebrare la fine del segreto bancario, quanto meno per i Paesi “early adopters”: infatti, anche se per detti Paesi è prevista la piena operatività dello scambio solo dal 2017, le attività di verifica sui conti saranno avviate dagli intermediari finanziari già a partire dal 1°gennaio 2016. L’accordo siglato nell’ambito del Global Forum (composto da 123 giurisdizioni più diversi organismi internazionali) prevede, in particolare, l'implementazione del Common Reporting Standard elaborato dall'OCSE, il nuovo standard unico globale per lo scambio automatico di informazioni.

Secondo quanto si legge nella nota diffusa dal Ministero dell'Economia e delle Finanze al termine del consesso, l’accordo rappresenta il “punto di arrivo di un intenso e prolungato sforzo internazionale orientato a conseguire un accordo politico e tecnico tale da cancellare il segreto bancario”, un risultato a partire dal 2017. Nella nota si sottolinea anche che l'adozione di uno standard internazionale contro l’evasione fiscale è sempre stato sostenuto dall’Italia, che ha anche partecipato, insieme a Francia, Germania, Spagna e Regno Unito, alla elaborazione dell’accordo con gli Stati Uniti per l'applicazione del FATCA.

Fonte: Fiscopiù - Giuffrè per i Commercialisti - www.fiscopiu.it/La Stampa - Scambio di informazioni finanziarie, via il segreto bancario dal 2017

martedì 28 ottobre 2014

Deposito telematico di atti diversi da quelli previsti ex lege: muta la giurisprudenza

Le ordinanze dei Tribunali di Milano (7 ottobre 2014), Brescia (07 ottobre 2014), Vercelli (04 agosto 2014), Udine (28 luglio 2014) e Bologna (16 luglio 2014) mutano completamente l’orientamento giurispudenziale pressochè univoco e che ormai sembrava consolidarsi, relativo all’ammissibilità e validità del deposito telematico di atti diversi da quelli endoprocessuali così come indicati dall’art. 16 bis del DL. 179/12, in assenza del “valore legale” del decreto ex art. 35 del DM 44/11 rilasciato dal Ministero della Giustizia.

Nelle citate ordinanze ed in particolar modo in quelle di Milano, Brescia e Bologna, viene adesso accolto il principio per il quale non possa essere sanzionata la parte che depositi telematicamente atti diversi da quelli endoprocessuali indicati dall’art. 16 bis del DL. 179/12, in assenza del “valore legale” del decreto ex art. 35 del DM 44/11 rilasciato dal Ministero della Giustizia.

Sul punto avevo già avuto modo di esprimermi, unitamente ai colleghi Adriana Augenti, Patrizio Galeotti, Nicola Gargano, Francesco Minazzi e Fabrizio Sigillò, commentando sia l’ordinanza del Tribunale di Foggia del 10 aprile 2014, sia l’ordinanza del Tribunale di Padova del 1 settembre 2014 sostenendo in tempi non sospetti, in punto di diritto, argomentazioni e conclusioni del tutto diverse da quelle indicate nei predetti provvedimenti, fermamente convinto che il deposito telematico di atti non potesse riguardare solo ed esclusivamente quelli endoprocessuali indicati dall’art. 16 bis DL 179/12, ma anche gli altri (introduttivi o di costituzione) pur in assenza del “valore legale” del decreto ex art. 35 del DM 44/11 rilasciato dal Ministero della Giustizia evidenziando che, nel nostro ordinamento non fosse esistente norma alcuna che conferisse a DGSIA (nell’emanare il decreto ex art. 35 DM 44/11) da un lato il potere di indicare quali fossero gli atti da depositarsi telematicamente e, dall’altro, che prevedesse e riconoscesse giuridicamente quello che, impropriamente, veniva e viene definito “valore legale”, senza dimenticare che, pur non volendo aderire a tale interpretazione, il Giudicante avrebbe dovuto comunque applicare  due principi: il principio della libertà di forme (art. 121 c.p.c.) “gli atti del processo, per i quali la legge non richiede forme determinate, possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo” e il principio del raggiungimento dello scopo (art. 156 c.p.c.) il quale prevede che “non può essere pronunciata la nullità per inosservanza di forme di alcun atto del processo se la nullità non è comminata dalla legge” e che “la nullità non può mai essere pronunciata se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato”.



Ciò che più colpisce nelle decisioni assunte dai magistrati dei Tribunali di Milano e Brescia, oltre al coraggio di andare in controtendenza e, quindi, smentire quelle dei colleghi di Padova, Foggia, Pavia, Roma e Torino, è che avrebbero potuto risolvere e decidere le questioni processuali ai medesimi prospettate facendo solo presente che, in quegli Uffici Giudiziari, già sussisteva il cd. “valore legale” ex art. 35 DM 44/11 per il deposito telematico degli atti oggetto di contestazione (comparsa di costituzione telematica); ciò nonostante hanno voluto approfondire la tematica e “chiedersi quindi se la validità di un deposito di un atto processuale possa essere fatta dipendere da un provvedimento amministrativo (come risulta essere il decreto del direttore del DGSIA) o se invece occorre procedere alla applicazione del codice di rito per verificare se possa essere sanzionato il deposito di atti in via telematica pur in assenza di una disposizione di legge che conferisca tale potere. Ebbene … anche a prescindere dalla esistenza del decreto dirigenziale, la comparsa di costituzione e risposta depositata telematicamente deve essere in ogni caso considerata rituale e quindi pienamente efficace.

Deve essere preliminarmente rilevato come nessuna norma né legislativa né regolamentare abbia conferito alla DGSIA il potere di individuare il novero degli atti depositabili telematicamente oppure la tipologia di procedimento rispetto alla quale esercitare la facoltà di deposito digitale.

Invero, l’art. 35 del DM 44/11 si limita a prevedere che alla DGSIA spetti esclusivamente il potere di accertare e dichiarare “l’installazione e l’idoneità delle attrezzature informatiche, unitamente alla funzionalità dei servizi di comunicazione dei documenti informatici nel singolo ufficio”.

Pertanto, non può essere demandato alla DGSIA la individuazione di quali atti possano o meno essere depositati in via telematica, ma occorre esclusivamente verificare se l’atto depositato telematicamente sia idoneo allo scopo per cui è destinato e se esiste nel nostro ordinamento una sanzione di carattere processuale per il deposito degli atti introduttivi e di costituzione nel giudizio.

Il codice di procedura civile prevede due principi generali unanimemente riconosciuti dalla giurisprudenza e dalla dottrina:

a) il primo, denominato principio della libertà di forme, lo si trova sotto l’art. 121 del codice di rito, secondo cui “gli atti del processo, per i quali la legge non richiede forme determinate, possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo”;

b) il secondo, denominato principio del raggiungimento dello scopo, è specificato nell’art. 156 c.p.c.. Tale fondamentale articolo prevede innanzitutto che “non può essere pronunciata la nullità per inosservanza di forme di alcun atto del processo se la nullità non è comminata dalla legge”. Il secondo comma aggiunge che “ può tuttavia essere pronunciata quando l’atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo”. L’ultimo, e più rilevante, comma sancisce infine che “la nullità non può mai essere pronunciata se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato”.

Appare evidente come tali principi debbano essere verificati alla luce della normativa prevista in materia di atti informatici, e in particolare sulla base del Decreto Legislativo 7 marzo 2005 n. 82 ossia del c.d. Codice dell’Amministrazione Digitale, ove è previsto che:

- il documento informatico sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale che rispetti le regole tecniche ha la stessa efficacia prevista dall’art. 2702 c.c. (cfr. artt. 20 e 21);

- i documenti trasmessi da chiunque ad una pubblica amministrazione con qualsiasi mezzo telematico o informatico idoneo ad accertarne la fonte di provenienza soddisfano il requisito della forma scritta e la loro trasmissione non deve essere seguita da quella del documento originale (art. 45).

Ora, appare evidente come il difensore che si costituisca in giudizio telematicamente soddisfi tutti i requisiti di forma sanciti dal codice di procedura civile in quanto:

a) sottoscrive la comparsa con firma digitale;

b) effettua il deposito utilizzando le regole tecniche e le specifiche previste dalla normativa regolamentare del PCT;

c) supera il controllo della cancelleria la quale certifica il deposito della comparsa e dei documenti allegati;

d) l’atto e i documenti sono messi a disposizione del Giudice e delle altre parti processuali, che possono evitare l’accesso in cancelleria potendo visionare la comparsa e i documenti depositati direttamente tramite la consolle dell’avvocato (risultato che, oltretutto, è uno degli obiettivi del legislatore, ossia quello di diminuire gli accessi nelle cancellerie).

In conclusione, in alcun modo può essere sanzionata la parte che si costituisca in via telematica.

Oltretutto, nel nostro ordinamento le sanzioni processuali debbono essere previste specificamente dal legislatore.

La sanzione dell’inammissibilità, ad esempio, è prevista nel nostro ordinamento in maniera tassativa, ma nessuna norma sanziona con tale istituto il deposito degli atti introduttivi in via telematica.

Infine, la prova che il legislatore abbia già considerato possibile il deposito telematico degli atti introduttivi e di costituzione in giudizio risulta dall’art. 83 c.p.c. in tema di procura alle liti.

Il comma 3 di tale articolo prevede testualmente che “Se la procura alle liti è stata conferita su supporto cartaceo, il difensore che si costituisce attraverso strumenti telematici ne trasmette la copia informatica autenticata con firma digitale….” (Tribunale Ordinario di Milano, quarta sezione civile, 7 ottobre 2014).

Alle stesse conclusioni, con gli stessi rilievi e argomentazioni, giunge anche il Tribunale Ordinario di Brescia, Sezione Lavoro con l’ordinanza del 7 ottobre 2014.

Situazione diversa su Bologna nel quale Tribunale invero, come rilevato dal Giudante, non esisteva per la tipologia di atto (ricorso introduttivo in materia di lavoro) depositato telematicamente in giudizio il decreto ex art. 35 DM 44/11; nel caso di specie il Giudicante deve quindi pronunciarsi in merito alla eccezione sollevata dalla parte resistente: “…A tal fine deve farsi riferimento, in primo luogo, ai principi generali regolanti il processo civile ed anche a quelli contenuti nel Codice dell'Amministrazione Digitale, dovendosi distinguere tra validità dell’atto processuale e validità del deposito, posto che nessuna disposizione menziona l’espressione “valore legale”, tipicamente utilizzata per indicare la possibilità o meno di depositare telematicamente l’atto.

In relazione alla validità dell'atto processuale telematico, secondo il principio generale contenuto nell'art. 121 c.p.c. gli atti del processo, per cui la legge non richiede forme determinate, possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo. Ciò comporta che, in forza di questo principio, le forme devono essere rispettate solo e nei limiti in cui sono necessarie per conseguire lo scopo obiettivo cui sono destinate ossia per assolvere alla loro funzione di garanzia e obiettività.

L'art. 125 c.p.c. indica la forma-contenuto degli atti di parte e ha la funzione di individuare quale sia il contenuto minimo degli atti scritti di parte nel processo. Tutti gli atti suddetti devono essere sottoscritti dalla parte, se sta in giudizio personalmente, oppure dal difensore. Pertanto, è indubbio che anche l'atto telematico debba rivestire forma scritta, come prevede espressamente l'art. 21, comma 2, del "Codice dell'Amministrazione Digitale" Dlgs. 7.5.2005 n. 82, come modificato dal Dlgs. 30.12.2010 n. 235 -cui il difensore appone la firma digitalmente- richiamato dall’articolo 20, comma 1bis, del CAD, secondo cui “l’idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore probatorio sono liberamente valutabili in giudizio, […] fermo restando quanto disposto dall’articolo 21” medesimo.

Ne deriva, secondo il giudicante, la piena validità dell'atto processuale informatico, se redatto in conformità alle norme citate, alle Regole Tecniche contenute nel DM 44/2011 ed alle Specifiche Tecniche del PCT . Resta fermo, in ogni caso, il principio generale di cui all’art.156 c.p.c. per il quale l’atto eventualmente invalido, se ha raggiunto lo scopo cui è destinato, come è pacificamente avvenuto nel caso in esame, non può essere dichiarato nullo, mentre qualora lo scopo non fosse stato raggiunto, sarebbe stata disposta la rinnovazione della notifica, con salvezza dell'atto.

Quanto alle modalità di deposito, non si ritiene condivisibile la tesi dell’inammissibilità, posto che la suddetta categoria giuridica è prevista dal nostro ordinamento processuale nei casi tassativamente previsti e solo in due ipotesi (opposizione di terzo, e revocazione) per gli atti introduttivi.

Giova ricordare, al riguardo, che l’inammissibilità del deposito telematico non è espressamente contemplata dalle Regole Tecniche le quali, in ogni modo, essendo fonte subordinata alla legge, non possono prevalere sul codice di rito ( cfr. Tribunale di Milano, sez. IX sentenza n. 3115 del 19.2.2014).

Non si ritiene, infine, fondata altresì l'eccezione d'inesistenza, essendo il ricorso formatosi validamente nel rispetto della normativa applicabile.

Alla luce di quanto premesso, viene ritenuta infondata l'eccezione d'inesistenza/ inammissibilità/nullità del ricorso depositato telematicamente…”(Tribunale Ordinario di Bologna, Sezione Lavoro, ordinanza del 16 luglio 2014).

La decisione del Tribunale di Udine del 28 luglio 2014 è relativa ad altra questione già oggetto di precedenti (e negative) pronuncie da parte dei Tribunali di Roma e Livorno, i quali non hanno esitato a dichiarare nullo, ai sensi del comma secondo dell’art. 156 c.p.c., il ricorso per decreto ingiuntivo depositato telematicamente in formato PDF immagine e non in PDF testo, come previsto dall’art. 11 comma 1 del DM 44/11 e dal correlato art. 12 comma 1 delle specifiche tecniche del 16 aprile 2014.

Il Tribunale di Udine decide in maniera diversa la medesima questione non dichiarando la nullità ai sensi del secondo comma dell’art. 156 c.p.c. ma, correttamente, invitando parte ricorrente a regolarizzare il deposito.

In conclusione se da una parte è possibile affermare che, fortunatamente, qualcosa è cambiato nel panorama giurisprudenziale inerente i depositi telematici effettuati in formato diverso da quello consentito o aventi ad oggetto atti non previsti dall’art. 16 bis del DL 179/12 non “assistiti” dal decreto ex art. 35 DM 44/11 dall’altra, pur auspicando che in presenza di analoghe situazioni prevalga, per il futuro, questa nuova giurisprudenza su quella precedente, è altrettanto auspicabile l’intervento del legislatore affinchè con norma stabilisca che, al di la di quanto disposto dall’art. 16 bis del DL 179/12, l’avvocato abbia la facoltà di depositare telematicamente ogni atto del processo; così facendo si raggiungerebbe un duplice scopo: il primo quello di scongiurare, definitivamente, l’adozione di provvedimenti privi di qualsiasi fondamento giuridico e dalle conseguenze pericolosissime sia per i colleghi (responsabilità professionale e deontologica) sia per la tutela dei diritti dei cittadini e, il secondo, quello di consentire che progressivamente il fascicolo processuale sia sempre più telematico e sempre meno cartaceo considerando altresì che ad oggi, nella maggior parte degli Uffici Giudiziari, non viene rispettato quanto previsto dall’art. 14 del DM 44/11 e dall’art. 15 delle specifiche tecniche del 16 aprile 2014 ossia l’obbligo, per le cancellerie, di trasformare in digitale tutto ciò che viene depositato in cartaceo.

fonte: www.altalex.com//Deposito telematico di atti diversi da quelli previsti ex lege: muta la giurisprudenza

Il conduttore dimentica la “piccola manutenzione”: il locatore può chiedere la risoluzione per inadempimento?

L’inadempimento è causa di risoluzione del contratto quando non sia scarso. Nel caso in cui il conduttore ometta di porre in essere interventi di piccola manutenzione della cosa locata e ciò non alteri le caratteristiche dell’immobile, il contratto non può essere risolto per inadempimento. Lo afferma la Cassazione nella sentenza 17066/14.

Il caso

Un uomo chiedeva la risoluzione per l’inadempimento della conduttrice del contratto di locazione turistico alberghiera, in quanto la stessa era venuta meno al suo obbligo di manutenzione ordinaria. La domanda attorea era stata accolta in primo e secondo grado. I Giudici di merito avevano ritenuto che «la valutazione della non scarsa importanza dell’inadempimento non può limitarsi ad un calcolo percentualistico dell’incidenza dei danni rispetto ai canoni di locazione versati nel corso del rapporto, ma deve tener conto soprattutto delle obbligazioni primarie ed essenziali del contratto». Ricorreva allora per cassazione la soccombente denunciando la falsa applicazione e la violazione dell’art. 1455 c.c. (importanza dell’inadempimento), in relazione ai canoni di valutazione utilizzati dalla Corte d’appello per ritenere che l’inadempimento contrattuale addebitatole non fosse di scarsa importanza.

La ricorrente, in particolare, censurava la decisione dei Giudici territoriali di ritenere che il difetto di manutenzione ordinaria dell’immobile, anche se di scarso rilievo rispetto ai canoni pagati, integrava comunque violazione di una delle primarie obbligazioni a carico del conduttore, ossia l’obbligazione di custodire la cosa con la diligenza del buon padre di famiglia. Secondo la donna, il suo inadempimento non poteva essere considerato così grave da comportare la risoluzione del contratto, poiché solo l’inadempimento di non scarsa importanza è idoneo a sciogliere il contratto.

La mancanza della “piccola manutenzione” non integra necessariamente la violazione degli obblighi principali del contratto di locazione. Il ricorso è fondato. Infatti, la Cassazione ha affermato che «nel rapporto di locazione, le carenze di interventi di piccola manutenzione da parte del conduttore non integrano» - a differenza di quanto affermato dai Giudici d’appello- « la violazione dell’obbligo di mantenere la cosa locata con la diligenza del buon padre di famiglia, prevista dall’art. 1587, n. 1, c.c. come la prima delle obbligazioni principali a carico del conduttore, se non comportano una alterazioni delle caratteristiche dell’immobile o un suo degrado frutto non del normale passaggio del tempo ma di un uso improprio di esso tali da renderlo inutilizzabile per la destinazione impressagli dal locatore e per la quale lo stesso è stato preso in locazione.»

Se la locazione è commerciale,la gravità dell’inadempimento va valutata caso per caso. Infine, precisa la Suprema Corte, che «per le locazioni non abitative, quale la locazione turistico alberghiera, in cui manca una valutazione legale tipica della gravità dell’inadempimento», questa «va fatta caso per caso, e non può fermarsi alla astratta riconducibilità del tipo di inadempimento verificatosi ad una delle principali obbligazioni a carico delle parti, ma deve procedere oltre, alla considerazione dell’importanza della violazione in concreto, avuto riguardo al complesso delle pattuizioni e dell’operazione economica posta in essere dalle parti, nonché all’interesse che intendeva realizzare la parte non inadempiente, per verificare se in che misura quell’inadempimento fosse in grado di determinare un effettivo e definitivo squilibrio sopravvenuto nel sinallagma contrattuale tale da giustificare una pronuncia di risoluzione». Sulla base dei principi richiamati, la Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Il conduttore dimentica la “piccola manutenzione”: il locatore può chiedere la risoluzione per inadempimento?

Avvocati e formazione continua: in vigore dal 1°gennaio 2015 il nuovo regime

Il Cnh ha informato che "è stato pubblicato nella apposita pagina web del sito istituzionale del CNF il regolamento n. 6/2014 che disciplina le nuove modalità per la formazione continua ispirate all'obiettivo di promuovere l'adempimento di tale obbligo da parte degli avvocati nella maniera più proficua e utile per le specifiche necessità di ciascuno.

Il nuovo sistema entrerà in vigore il primo gennaio 2015.

Il plenum del 26 settembre ha anche deliberato i componenti della Commissione centrale per l'accreditamento della formazione, deputata a valutare e attestare la qualità degli eventi di formazione e aggiornamento che abbiano una rilevanza nazionale, siano seriali, prevedano modalità di formazione a distanza (Fad), che si svolgono all'estero.

Componenti della Commissione centrale sono: Antonio De Giorgi (coordinatore), Susanna Pisano, Nicola Bianchi, Rosa Capria, Angelo Esposito.

I principi generali cui si ispira il regolamento declinano il concetto di formazione continua ricomprendendo in essa tutte le attività a carattere formativo che danno luogo a percorsi di apprendimento e di acquisizione di conoscenze e competenze in tempi successivi rispetto a quelli della formazione iniziale, come comunemente e universalmente inteso in campo formativo.

L'obbligo formativo viene coniugato con il principio della libertà di formazione, teso a consentire all'avvocato la scelta degli eventi da seguire il più ampia possibile e coerente con i propri fabbisogni formativi.

Il regolamento disegna un "sistema" con pluralità di attori, con responsabilità diverse e una governance che garantisca il maggior livello di uniformità possibile secondo il seguente processo: professionista, formazione, coerenza, valutazione, verifiche e monitoraggio.

Attenzione e disciplina viene assicurata alle regole per il finanziamento delle attività formative da parte di soggetti terzi, pubblici e privati, nella convinzione che la formazione, per rispondere alle esigenze di completezza, qualità ed efficacia, comporta costi che non debbono necessariamente ricadere sui soggetti beneficiari, ma che il finanziamento non debba incidere con ingerenze sulla didattica per garantirne l'indipendenza.

Il periodo di valutazione dell'obbligo formativo sarà di 3 anni, nei quali occorrerà accumulare 60 crediti formativi (almeno 15 all'anno), di cui nove in ordinamento/previdenza/deontologia forense.

Spazio alla formazione a distanza, per un massimo del 40% dei crediti del triennio.

Il periodo decorre dal primo gennaio successivo alla data di iscrizione all'albo o all'elenco di tirocinanti con patrocinio.

L'avvocato potrà essere esonerato in relazione ad alcune ipotesi di impedimento indicate dal regolamento e fintanto che tale impedimento perdura. Il regolamento introduce l'Attestato di formazione continua, rilasciato dal Consiglio dell'Ordine su domanda dell'iscritto che provi l'avvenuto adempimento dell'obbligo formativo, e previa verifica della effettività dell'adempimento.

Il possesso dell'attestato di formazione continua costituisce titolo per l'iscrizione e il mantenimento della stessa negli elenchi previsti da specifiche normative o convenzioni, o comunque indicati dai Consigli dell'Ordine su richiesta di Enti pubblici, per accettare la candidatura per la nomina di incarichi o di commissario di esame, nonché per ammettere tirocinanti alla frequenza del proprio studio. In ogni caso, il mancato adempimento dell'obbligo formativo costituisce illecito disciplinare.

Il regolamento disciplina la procedura di accreditamento degli eventi formativi, che potranno essere organizzati da enti pubblici e privati, da parte del CNF e dei Consigli dell'Ordine, che entro il 31 gennaio di ogni anno renderanno noto il Piano dell'offerta formativa.

fonte: ilsole24ore.com//Avvocati e formazione continua: in vigore dal 1°gennaio 2015 il nuovo regime

Nessun indennizzo se il conduttore non prova il “contatto con il pubblico”

Si presume l’esistenza di contatti con il pubblico nei casi di attività destinata per sua natura a comportare tali contatti, con la possibilità per il locatore di provare in concreto che l’immobile abbia avuto una diversa destinazione. Al di fuori di questi casi, e quindi quando dalla destinazione individuata dalle parti in contratto non si desuma il contatto diretto con il pubblico, si riafferma la regolare generale dell’onere probatorio, in base alla quale incombe al conduttore dimostrare le condizioni che comportano il riconoscimento dell’indennità per la perdita dell’avviamento. Lo afferma la Cassazione nella sentenza 17102/14.

Il caso

Una società chiedeva il pagamento dell’indennità per la perdita dell’avviamento a seguito della cessazione del contratto di locazione relativo ad un immobile, conseguita alla disdetta de parte della società locatrice. Entrambe le decisioni di merito rigettavano la domanda attorea, dal momento che non era stato provato adeguatamente che lo stabile fosse aperto ad un pubblico indistinto di utenti e consumatori, essendo stati considerati prevalenti gli elementi che inducevano a propendere per la destinazione a sede organizzativa o amministrative dello stabile locato.

Ricorreva allora per cassazione la società conduttrice, censurando la sentenza impugnata per non aver considerato che il requisito del contatto diretto con il pubblico degli utenti e dei consumatori era desumibile dalla stessa pattuizione contrattuale che prevedeva un utilizzo esclusivo per lo svolgimento di attività di mediazione immobiliare, stando che spettava al locatore provare che il conduttore non aveva svolto l’attività di intermediazione immobiliare. Le censure, in sostanza, attenevano alla prova dell’esistenza di contratti con il pubblico degli utenti e dei consumatori. Diritto all’indennità se c’è la prova che l’attività soddisfi le esigenze della generalità degli interessati.

Per affrontare la questione in esame osta ricordare il precedente giurisprudenziale, secondo cui «in tema di locazione di immobili urbani aditi ad uso diverso da quello di abitazione, la destinazione dell’immobile all’esercizio dell’attività commerciale (…) può determinare l’esistenza del diritto all’indennità per la perdita dell’avviamento» a patto che «il conduttore istante provi che il locale possa essere considerato come luogo aperto alla frequentazione diretta della generalità dei consumatori e, dunque, da sé solo in grado di esercitare un richiamo su tale generalità, così divenendo un collettore di clientela ed un fattore locale di avviamento» (Cass., n. 6948/2010).

Quindi, la spettanza del diritto all’indennità, quando il locale sia stato destinato ad un’attività che comporti contatto diretto con il pubblico, è subordinata alla prova che l’attività sia rivolta a soddisfare esigenze non di soggetti o operatori economici singolarmente contattati, bensì della indistinta generalità degli interessati. Da considerare la destinazione contrattuale dell’immobile, per capire su chi grava l’onere di provare il contatto con il pubblico.

In sostanza, quando dalla destinazione contrattuale dell’immobile derivi che l’utilizzo dello stesso comporti contatto diretto col pubblico, grava sul locatore, che eccepisce la diversa destinazione, l’onere di provare il fatto impeditivo della pretesa del conduttore, ai sensi dell’art. 2697, comma 2, c.c.. Se invece, la destinazione individuata dalle parti in contratto non implichi il contatto diretto con il pubblico, ma possa implicare o meno tale contatto, spetta al conduttore provare che l’immobile era adibito ad attività comportante il contatto in questione. Quindi, in estrema sintesi, si presume l’esistenza di contatti con il pubblico nei casi di attività destinata per sua natura a comportare tali contatti (per esempio: bar e ristoranti), con la possibilità per il locatore di provare in concreto che l’immobile abbia avuto una diversa destinazione. Al di fuori di questi casi, si riafferma la regolare generale dell’onere probatorio, secondo cui incombe al conduttore dimostrare le condizioni che comportano il riconoscimento dell’indennità. Spettava al conduttore provare il “contatto con il pubblico”.

Nel caso di specie, il contratto non prevedeva espressamente la destinazione del bene ad un’attività comportante sempre e comunque contatti con tale platea indifferenziata degli utenti, sicché gravava sulla società conduttrice la prova che l’immobile era stato in concreto utilizzato per il compimento di attività destinate all’indistinta generalità degli interessati, e non, invece, al locatore, come sostenuto dalla ricorrente. La Cassazione ha quindi riconosciuto la corretta applicazione da parte dei Giudici di merito dei principi giurisprudenziali affermati in sede di legittimità, i quali avevano giustamente ritenuto che gli elementi raccolti propendessero per una prevalente destinazione ad uso amministrativo, dal momento che difettava la prova della condizione per il riconoscimento dell’indennità. Sulla base di tali argomenti, la Corte Suprema rigetta il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Nessun indennizzo se il conduttore non prova il “contatto con il pubblico”

lunedì 27 ottobre 2014

Banche senza obblighi informativi se il cliente acquista titoli usando lo scoperto

Le norme del regolamento Consob 11522/1998 sulla disciplina degli intermediari non si applicano agli investimenti eseguiti mediante l'utilizzo dello scoperto concesso al correntista. Lo sostiene la Corte d'appello di Napoli (presidente Giordano, relatore Cataldi) in una sentenza depositata il 20 luglio scorso.

La vicenda

Nel giudizio di primo grado, il tribunale aveva dichiarato la nullità di numerosi acquisti di titoli finanziari, effettuati da un professionista utilizzando le aperture di credito accordate dalla banca. Secondo la sentenza, infatti, le aperture erano equivalenti a un vero e proprio finanziamento, sicché il contratto avrebbe dovuto riportare le indicazioni contenute nell'articolo 47 del Regolamento Consob 11522/1998, tra cui i tipi di finanziamento previsti, il tasso di interesse e ogni altro prezzo e condizione praticati. Il tribunale aveva così condannato la banca a restituire all'attore 325mila euro, pari alla perdita subita per l'acquisto dei titoli, oltre gli interessi per l'utilizzo dello scoperto.

Contro la sentenza ha presentato appello la banca, deducendo che il tribunale aveva violato il principio di irretroattività perché aveva applicato una normativa del 1998 a un rapporto bancario costituito alcuni anni prima. In ogni caso, secondo l'istituto di credito non ricorreva una sovvenzione all'investitore, ma solo un finanziamento privato.

La decisione

Nell'accogliere l'appello, la Corte osserva che l'articolo 47 del Regolamento Consob presuppone che, al momento della disposizione, «l'investitore non disponga della necessaria provvista» e quindi chieda «alla banca intermediaria di fornirgli gli strumenti per l'operazione». Il fenomeno considerato dal legislatore – prosegue la Corte – «non è quello di una semplice coincidenza soggettiva tra la posizione di intermediario e la posizione di finanziatore». Piuttosto si è voluto disciplinare, anche attraverso particolari oneri di forma previsti a pena di nullità, il caso in cui l'intermediario diventi finanziatore per la specifica operazione di investimento, e non l'ipotesi in cui l'istituto, che abbia già effettuato il finanziamento, svolga successivamente anche attività di intermediario. Occorre cioè – conclude la sentenza – «un collegamento funzionale di natura oggettiva tra finanziamento e investimento».

Nel caso in esame, la banca aveva concesso al cliente aperture di credito in conto corrente aumentate nel corso degli anni, ma sempre con riferimento all'attività professionale (di architetto) e imprenditoriale (quale titolare di impresa edile) dallo stesso svolta. Di conseguenza, secondo la Corte d'appello non si può sostenere che l'imprenditore, dopo aver ottenuto la disponibilità dalla banca, non avesse la provvista necessaria per le singole operazioni di investimento. Né ha senso – prosegue la sentenza – «il riferimento compiuto dall'appellato alle circolari Consob», giacché le sue operazioni erano effettuate grazie agli scoperti di conto corrente «che gli consentivano, sino a revoca, di utilizzare liberamente le somme messegli a disposizione dalla banca, evidentemente anche per investimenti finanziari».

Inoltre, la Corte rileva che, dopo l'entrata in vigore del Dlgs 58/1998 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria), il cliente aveva sottoscritto la scheda informativa sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari, dichiarando elevata propensione al rischio e alta esperienza in materia di investimenti. Ragioni che inducono la Corte a condannare l'appellato a pagare alla banca 212mila euro, pari al saldo negativo dei conti, oltre le spese di lite.

fonte: www.ilsole24ore.com//Banche senza obblighi informativi se il cliente acquista titoli usando lo scoperto

Meno soldi in entrata per il marito, meno soldi in uscita per la moglie

Una diminuzione del reddito e della capacità lavorativa, in relazione all’età ed al pensionamento, determina un mutamento delle condizioni di divorzio e dell’assegno di mantenimento. E’ quanto ricordato dalla Cassazione nell’ordinanza 17030/14.

Il caso

In una causa di modifica delle condizioni di divorzio, il tribunale di Ancona, rilevato che la capacità lavorativa e di produzione del marito era diminuita nel tempo, pur restando una situazione di disparità economica tra le parti, riduceva l’assegno di mantenimento nei confronti dell’ex-moglie di 1.360 euro, portandolo così a 800 euro mensili.

La Corte d’appello di Ancona verificava che l’uomo percepiva 30.000 euro annui di pensione, era proprietario di un patrimonio immobiliare ingente da cui ricavava ulteriori redditi da locazione ed era in possesso di altre disponibilità finanziarie derivanti dalla vendita di immobili, mentre l’ex-moglie era solamente comproprietaria (insieme proprio all’ex-marito) dell’appartamento in cui viveva con il figlio e percepiva una pensione di 10.000 euro annui di pensione. Di conseguenza, i giudici territoriali rideterminavano l’assegno di mantenimento in 1.100 euro mensili. La donna ricorreva in Cassazione, contestando il significativo mutamento, affermato dai giudici di merito, delle condizioni economiche.

La Corte di Cassazione, però, ritiene che la memoria difensiva della ricorrente non porti degli elementi convincenti per trovare degli errori nella decisione della Corte d’appello. Era un dato di fatto, infatti, che l’ex-marito avesse subito una diminuzione del reddito e della sua capacità lavorativa, in relazione all’età ed al suo pensionamento. Questa condizione determinava indubbiamente una variazione della situazione complessiva: una variazione ritenuta dalla Corte non drammatica, ma che, comunque, ha spinto i giudici a modificare la misura dell’assegno divorzile «riavvicinandola peraltro a quella venutasi a determinare per gli aggiornamenti maturati sino alla proposizione del ricorso ex art. 9 della legge n. 898/1970». Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Meno soldi in entrata per il marito, meno soldi in uscita per la moglie

Taglio alle bollette elettriche, in G.U. il Decreto sulle modalità di erogazione degli incentivi al fotovoltaico

Dopo essere stato anticipato sul sito web del Ministero dello Sviluppo economico lo scorso 20 ottobre, è approdato in Gazzetta Ufficiale (Serie Generale, n. 248 del 24 ottobre 2014), il Decreto del Ministero dello Sviluppo economico del 16 ottobre 2014, attuativo dell'art. 26, comma 2, del Decreto Competitività (D.L. n. 91/2014), recante l'approvazione delle modalità operative di erogazione da parte di GSE S.p.A. degli incentivi per l'energia elettrica prodotta da impianti fotovoltaici. Entrato in vigore già dal giorno successivo alla pubblicazione in G.U., il Decreto in esame attua una delle misure previste dal Decreto Competitività volte a ridurre il peso in bolletta, soprattutto per le PMI, degli incentivi concessi per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili.

Come ricordato nel preambolo, l'art. 26, comma 2, del D.L. n. 91/2014 (convertito con modifiche dalla Legge n. 116/2014) dispone che il Gestore dei servizi energetici GSE S.p.A., a decorrere dal secondo semestre 2014, eroga le tariffe incentivanti sull'energia elettrica prodotta mediante impianti fotovoltaici con rate mensili costanti pari al 90% della producibilità media annua stimata per ciascun impianto nell'anno solare, ed effettua il conguaglio sulla produzione effettiva entro il 30 giugno dell'anno successivo.

La norma demanda a un successivo Decreto del MISE l'approvazione delle modalità operative di erogazione definite dal GSE. In attuazione di detta previsione, il Ministero dello Sviluppo economico ha emanato il Decreto del 16 ottobre 2014, il cui Allegato 1 disciplina le suddette modalità di erogazione. In particolare:

il punto 1 disciplina le modalità per il calcolo della rata di acconto e del conguaglio, per i quali si fa riferimento, rispettivamente, alle ore di produzione del singolo impianto relative all’anno precedente (“Produzione storica”) e alle misure valide pervenute dal soggetto responsabile dell’invio delle misure dell'energia effettivamente prodotta (il calcolo è effettuato entro 60 giorni dal ricevimento delle misure e comunque prima del 30 giugno di ogni anno, a partire dal 2015);

il punto 2 fa riferimento alle "Tempistiche di pagamento di acconti e conguagli", e prevede che i pagamenti in acconto sono effettuati con cadenza quadrimestrale per gli impianti di potenza fino a 3 kW, trimestrale per gli impianti di potenza superiore a 3 kW e fino a 6 kW, bimestrale per gli impianti di potenza superiore a 6 kW e fino a 20 kW e mensile per gli impianti di potenza superiore a 20 kW, sempreché, in tutti i casi, sia superata una soglia di importo da erogare pari a 100 euro: il pagamento del conguaglio avviene entro 60 giorni dal ricevimento delle misure, e in ogni caso entro il 30 giugno dell’anno successivo;

il punto 3 disciplina le "Azioni di controllo", che hanno lo scopo di garantire la corrispondenza tra la stima della producibilità media annua di ciascun impianto e la sua effettiva produzione, e che, limitatamente agli impianti di potenza superiore a 200 kW, vengono effettuate - con riferimento ai periodi luglio/ottobre, novembre/febbraio e marzo/giugno, nel secondo mese successivo al periodo di riferimento (dicembre, aprile e agosto). Per l’anno 2014 il primo controllo sarà effettuato nel mese di dicembre 2014, rispetto alle misure del periodo luglio/ottobre 2014 comunicate dal soggetto responsabile dell’invio della misura.

Fonte: Fiscopiù - Giuffrè per i Commercialisti - www.fiscopiu.it/La Stampa - Taglio alle bollette elettriche, in G.U. il Decreto sulle modalità di erogazione degli incentivi al fotovoltaico

venerdì 24 ottobre 2014

Energia e gas, aumenti illegittimi se il cliente non è stato informato

Dall'Europa arriva un deciso stop alle sorprese in bolletta. La Corte Ue, infatti, ha stabilito che i consumatori di energia elettrica e gas devono essere informati «in tempo utile» di ogni aumento dei prezzi. Non solo, devono conoscerne «i motivi, le condizioni e la portata» in modo da poter recedere ma anche contestarli. La sentenza dei giudici di Lussemburgo, cause riunite C-359/11 e C-400/11 , ha così bocciato la normativa tedesca che non prevedeva alcun obbligo di informazione, violando le direttive sull'energia elettrica e il gas, ed hanno aperto la porta ai risarcimenti, vista l'applicazione retroattiva.

La vicenda - La Corte federale tedesca era stata investita di una causa promossa da due clienti soggetti a tariffa standard, rientranti nell'obbligo generale di approvvigionamento, contro il proprio fornitore per l'aumento delle tariffe considerato «eccessivo» e basato su «clausole illegali».

La normativa tedesca, vigente all'epoca, consentiva ai fornitori di modificare unilateralmente i prezzi dell'elettricità e del gas senza indicare le ragioni e la misura, ma garantendo al contempo che i clienti fossero informati dell'aumento e potessero eventualmente recedere dal contratto.

La motivazione - In risposta alle questioni sollevate della Corte tedesca, i giudici di Lussemburgo statuiscono che la direttiva «energia elettrica» 2003/54 e la «direttiva gas 2003/55» non ammettono una normativa nazionale - quale quella tedesca - che «determina il contenuto dei contratti di fornitura dell'energia elettrica e del gas conclusi con i consumatori nell'ambito dell'obbligo generale di approvvigionamento e consente ai fornitori di modificare la tariffa della fornitura, ma che non garantisce che i consumatori siano informati, in tempo utile prima dell'entrata in vigore di tale modifica».

Infatti, prosegue la sentenza, le due direttive «obbligano gli Stati membri a garantire un elevato livello di tutela dei consumatori» proprio con riguardo alla «trasparenza delle condizioni generali di contratto». Ciò comporta, oltre al diritto di recedere dal contratto (previsto dalle direttive in caso di revisione di prezzo), che i clienti abbiano anche il diritto di «contestare una siffatta revisione». E per poter beneficiare «pienamente ed effettivamente di tali diritti» i clienti devono essere informati «in tempo utile prima dell'entrata in vigore della revisione, circa i motivi, le condizioni e la portata della medesima».

Infine, viene respinta anche la richiesta di limitare quanto più possibile nel tempo la portata della sentenza per mitigarne gli effetti finanziari. Siccome, argomenta la Corte, non è stato dimostrato che rimettere in discussione i rapporti giuridici pregressi «perturberebbe l'intero settore della fornitura dell'energia elettrica e del gas in Germania», l'interpretazione delle direttive 2003/54 e 2003/55 «si applica a tutte le modifiche tariffarie intervenute durante il periodo di vigenza delle direttive». Via libera dunque ai risarcimenti dei consumatori.

fonte: ilsole24ore.com//Energia e gas, aumenti illegittimi se il cliente non è stato informato

Domiciliari anche per le madri detenute per mafia e terrorismo con figli sotto i dieci anni

La «detenzione domiciliare speciale» è una particolare beneficio previsto per le madri condannate con prole sotto i 10 anni, mirante a tutelare l'interesse «prioritario» dei minori in un periodo cruciale della formazione, per cui assoggettarne la concessione al requisito della «collaborazione» con la giustizia, come previsto per le misure alternative al carcere nel caso di commissione di taluni gravi delitti (mafia, terrorismo, sequestro ecc.), è illegittimo.

Il regime di particolare «di rigore» sancito dall'articolo 4-bis, comma 1, della legge 354/1975, aggiunto nella stagione «emergenziale» del terrorismo dei primi anni '90, e mirante ad incentivare la collaborazione, quale strategia di contrasto alla criminalità organizzata, infatti, non può riverberare la sua portata su situazioni del tutto diverse, dove l'interesse tutelato è un altro. Lo ha stabilito la Corte costituzionale, con la sentenza 239/2014 , dichiarandone l'illegittimità costituzionale nella parte in cui «non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari, da esso stabilito, la misura della detenzione domiciliare speciale prevista dall'art. 47-quinquies della medesima legge».

La vicenda - La questione è partita da un'ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Firenze investito dell'istanza di concessione della detenzione domiciliare speciale ad una madre di origine nigeriana, condannata a nove anni e sei mesi di reclusione, fra l'altro, per «riduzione o mantenimento in schiavitù», delitto compreso tra quelli che vietano la concessione dei benefici penitenziari in assenza di collaborazione con la giustizia.

Il ragionamento - La Consulta ha accolto la doglianza chiarendo che «il legislatore ha accomunato fattispecie tra loro profondamente diversificate». Spiega, infatti, la sentenza: «tale omologazione di trattamento appare senz'altro lesiva dei parametri costituzionali evocati ove si guardi alla ratio storica primaria del regime in questione, rappresentata dalla incentivazione alla collaborazione, quale strategia di contrasto della criminalità organizzata». «Un conto, infatti, - prosegue la sentenza - è che tale strategia venga perseguita tramite l'introduzione di uno sbarramento alla fruizione di benefici penitenziari costruiti – com'è di norma – unicamente in chiave di progresso trattamentale del condannato, sbarramento rimuovibile tramite la condotta collaborativa». «Altro conto è che la preclusione investa una misura finalizzata in modo preminente alla tutela dell'interesse di un soggetto distinto e, al tempo stesso, di particolarissimo rilievo, quale quello del minore in tenera età a fruire delle condizioni per un migliore e più equilibrato sviluppo fisio-psichico».

Così facendo, infatti, osserva amaramente la Corte, il «"costo" della strategia di lotta al crimine organizzato viene traslato su un soggetto terzo, estraneo tanto alle attività delittuose che hanno dato luogo alla condanna, quanto alla scelta del condannato di non collaborare».

Del resto, la subordinazione dell'accesso alle misure alternative al «ravvedimento» del condannato – «la condotta collaborativa, in quanto espressiva della rottura del "nesso" tra il soggetto e la criminalità organizzata» – può risultare «giustificabile» quando si discuta di misure che hanno di mira, in via esclusiva, la risocializzazione dell'autore della condotta illecita; cessa di esserlo, invece, quando al centro della tutela si collochi un interesse "esterno" ed eterogeneo, come quello della prole.

Il bilanciamento di interessi - Non solo, affinché l'interesse del minore possa restare «recessivo» di fronte alle esigenze di «protezione della società dal crimine» occorre che il pericolo (l'eventuale commissione di ulteriori reati) venga verificato in concreto – così come richiesto dalla norma sulla detenzione speciale - e non già collegato ad indici presuntivi – come invece previsto dalla norma censurata – precludendo al giudice «ogni margine di apprezzamento delle singole situazioni».

Infine, osserva la Corte, la dichiarazione di illegittimità costituzionale va estesa, «in via consequenziale», anche alla misura della detenzione domiciliare ordinaria prevista dall'art. 47-ter, comma 1, lettere a) e b), della legge n. 354/1975 (delitti con pensa non superiore a 4 anni): «ciò, per evitare che una misura avente finalità identiche alla detenzione domiciliare speciale, ma riservata a soggetti che debbono espiare pene meno elevate, resti irragionevolmente soggetta ad un trattamento deteriore in parte qua».

fonte: www.ilsole24ore.com//Domiciliari anche per le madri detenute per mafia e terrorismo con figli sotto i dieci anni

Stalking: la routine quotidiana non può essere influenzata da altri

Nel reato di stalking, per alterazione delle proprie condizioni di vita si intende ogni mutamento significativo e protratto per un apprezzabile lasso di tempo dell’ordinaria gestione della vita quotidiana, indotto nella vittima dalla condotta persecutoria altrui e finalizzato ad evitare l’ingerenza nella propria vita privata del molestatore. E’ quanto affermato dalla Cassazione nella sentenza 33196/14.

Il caso

Un imputato per il reato di atti persecutori veniva condannato dalla Corte d’appello di Bari. L’uomo ricorreva in Cassazione, contestando l’affermata responsabilità anche per fatti commessi anteriormente all’introduzione dell’art. 612-bis c.p., che disciplina tale reato, nell’ordinamento penale. Inoltre, veniva lamentato un vizio di motivazione riguardo alla sussistenza del reato.

Analizzando la domanda, la Corte di Cassazione ricordava che il reato in questione, introdotto dal d.l. n. 11/2009 (convertito in l. n. 38/2009), è un delitto abituale di evento ed è configurabile quando il comportamento minaccioso o molesto di qualcuno, mediante condotte reiterate, abbia causato un grave e perdurante stato di turbamento emotivo nella vittima, oppure abbia creato un timore fondato per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto, oppure ancora di una persona a lei legata da una relazione affettiva. Altra ipotesi che rientra nella fattispecie di reato è il cambiamento forzato delle proprie abitudini di vita.

La reiterazione è un elemento costitutivo del reato ed è integrato anche da due sole condotte di minaccia o di molestia. Nel caso di specie, le condotte imputate al ricorrente riguardavano delle denunce presentate nel novembre 2009, quindi dopo l’entrata in vigore della norma. Inoltre, il reato di stalking è un reato che prevede degli eventi alternativi, ciascuno idoneo ad integrare la fattispecie.

I giudici di legittimità specificavano, poi, che per alterazione delle proprie condizioni di vita si intende ogni mutamento significativo e protratto per un apprezzabile lasso di tempo dell’ordinaria gestione della vita quotidiana, indotto nella vittima dalla condotta persecutoria altrui e finalizzato ad evitare l’ingerenza nella propria vita privata del molestatore.

Per quanto riguarda l’elemento soggettivo del reato, è sufficiente il dolo generico, cioè la volontà di porre in essere le condotte di minaccia o di molestia, con la consapevolezza dell’idoneità di esse alla produzione di uno degli eventi sanzionati dalla norma codicistica. Non è necessaria, invece, una rappresentazione anticipata del risultato finale: basta, infatti, proprio la consapevolezza, nello sviluppo progressivo della situazione, dei precedenti attacchi, nonché dell’apporto arrecato da essi all’interesse protetto. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Stalking: la routine quotidiana non può essere influenzata da altri

giovedì 23 ottobre 2014

La sola contabilità in nero è già sufficiente per legittimare l’accertamento

L’accertamento induttivo fondato sulla sola documentazione extracontabile rinvenuta dalla Guardia di Finanza, senza che ricorrano ulteriori indizi, è valido e legittimo. Così sancisce la Corte di Cassazione nell’ordinanza del 21 ottobre, n. 22265, con cui viene ridata forza alla rideterminazione del maggior reddito operata dall’Ufficio e annullata dai giudici di merito. Erroneamente, afferma la Corte, la CTR reputava che fogli, quaderni e cartoncini, dai quali risultavano gli importi considerati dall’Amministrazione, fossero dei meri indizi inidonei ad assurgere a prova del maggior reddito.

Per gli Ermellini, tale ragionamento si discosta dal costante orientamento di legittimità, secondo cui la “contabilità in nero”, rappresenta un “valido elemento indiziario”, dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti per l’accertamento induttivo ex art. 39, D.P.R. n. 600/73. Infatti, tra le scritture contabili disciplinate dagli artt. 2709 e ss. c.c., chiarisce la Corte, sono da ricomprendersi “tutti i documenti che registrino, in termini quantitativi o monetari, i singoli atti d’impresa”, ovvero rappresentino la situazione patrimoniale dell’imprenditore e il risultato economico dell’attività svolta.

La conseguenza, per gli Ermellini, è che la contabilità in nero, per il suo valore probatorio, legittima di per sé, “ed a prescindere dalla sussistenza di qualsivoglia altro elemento”, il ricorso all’accertamento induttivo previsto dal citato art. 39, incombendo al contribuente l’onere di fornire la prova contraria.

Fonte: Fiscopiù - Giuffrè per i Commercialisti - www.fiscopiu.it/La Stampa - La sola contabilità in nero è già sufficiente per legittimare l’accertamento

Aiuta un cittadino extracomunitario ma sceglie la strada sbagliata

Integra il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e falsità ideologica in atti pubblici l’attività di chi consente l’ingresso nel nostro Paese di cittadini extracomunitari attraverso l’erogazione di documenti fittiziamente attestanti l’esistenza di proposte di lavoro per i medesimi. Lo ha affermato la Cassazione, con la sentenza 33175/14.

Il caso

La Corte d’appello, con sentenza, confermava la sentenza di primo grado che aveva condannato l’imputata per i reati di cui agli artt. 110, 61, n. 2, 81, cpv., 48 e 479 c.p. (falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici) e artt. 110 c.p., 12, comma 3, d. lgs. n. 286/1998 (disposizioni contro le immigrazioni clandestine).

La condotta addebitata all’imputata era quella di aver agito da intermediaria al fine di consentire ad un cittadino extracomunitario di nazionalità marocchina di entrare e soggiornare in Italia, attraverso la presentazione, presso lo Sportello Unico per l’immigrazione, di una richiesta nominativa di nulla-osta al lavoro per l’assunzione dello stesso in qualità di lavoratore subordinato, inducendo in tal modo il suddetto ufficio ad attestare falsamente la ricorrenza dei presupposti necessari per ottenere l’autorizzazione richiesta ed il rilascio del relativo nulla-osta. Avverso la predetta sentenza la donna ricorreva in Cassazione.

Nell’analizzare il ricorso, la Corte di Cassazione richiama il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui sono configurabili i reati di favoreggiamento aggravato dell’immigrazione clandestina e falsità ideologica in atti pubblici ed autorizzazioni amministrative, con inganno dei funzionari preposti alla formazione e al rilascio degli stessi, nel caso di attività svolte a fine di lucro allo scopo di consentire l’ingresso in Italia di stranieri extracomunitari mediante la predisposizione e la presentazione alla direzione provinciale del lavoro ed alla questura di pratiche corredate da documenti fittiziamente attestanti l’esistenza di proposte di lavoro, sulla cui base vengano poi rilasciati permessi di soggiorno ed autorizzazioni al lavoro (Cass., Sez. I, n. 22741/02). Falsità ideologica.

Nel caso di specie, la falsità ideologica dell’autorizzazione al lavoro e del relativo nulla-osta, appare configurabile, attesa la rilevanza essenziale dei fatti che si assumono falsamente rappresentati in ordine all’effettività della richiesta di assunzione, costituenti presupposti indefettibili ai fini dell’emanazione dei provvedimenti amministrativi sollecitati per consentire l’ingresso ed il soggiorno in Italia del cittadino extracomunitario. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Aiuta un cittadino extracomunitario ma sceglie la strada sbagliata

Condannato il genitore che «arma» i figli contro l'ex

Il genitore separato che provoca lo “sbilanciamento” della prole in favore suo e a danno dell'altro genitore può essere condannato d'ufficio all'ammonizione ed alla sanzione amministrativa in favore della Cassa per le ammende prevista dall'articolo 709-ter del Codice di procedura civile.

Non importa che questa condanna non sia stata chiesta dalla controparte, perché l'interesse superiore da tutelare è quello dei figli alla bigenitorialità. Lo ha deciso il Tribunale di Roma, Sezione prima (Famiglia), con sentenza del 27 giugno 2014, del giudice Donatella Galterio.

La pronuncia riguarda il caso di una madre che ha ripetutamente messo in cattiva luce il padre agli occhi della figlia. Vi si stigmatizza la dannosità di ogni comportamentalità genitoriale che “arruoli” un figlio minore nella guerra contro l'altro genitore e si supera la diatriba psicologica e giuridica su inquadramento e riconoscimento dell'alienazione genitoriale.

Esaminando la relazione del suo consulente psicologo, il giudice considera lo “sbilanciamento” del minore a favore dell'area materna (o paterna) come prova della teoria dell'arruolamento, che in sintesi consiste nella spinta negativa che le parole del genitore sbilanciante hanno sulla percezione dell'altra figura genitoriale, da parte del figlio comune. La relazione diagnostica difficoltà della figlia nelle relazioni col padre e le attribuisce al suo avvenuto “arruolamento” da parte della madre nella “guerra” contro il padre.

Per risolvere il problema, il giudice sceglie una strada più radicale rispetto a quella suggerita dalla relazione del Ctu: reputa insufficiente un percorso di sostegno alla genitorialità (già intrapreso in precedenza) e, in linea con la più attenta psicologia forense, rileva che occorre invece analizzare il fallimento di tale percorso.

Le risultanze processuali portano infatti a rilevare come, nel caso specifico, proprio la madre abbia un minore interesse a sottoporsi ad un qualunque percorso di mediazione, «ove si consideri che l'operazione di triangolazione da costei posta in essere, nei confronti della figlia, è stata già realizzata, avendo sostanzialmente la minore finito di introiettare, ritenendolo proprio, il punto di vista materno nei confronti della figura paterna».

Da ciò discende chiaramente il seguente principio di diritto cui uniformarsi: ogniqualvolta un genitore rilevi che sia stata introiettata dal minore una visione ostile dell'altro genitore, ha l'obbligo di «attivarsi al fine di consentire il giusto recupero da parte della figlia del ruolo paterno, (ruolo) che, nella tutela della bigenitorialità cui è improntato lo stesso affido condiviso, postula il necessario superamento delle mutilazioni affettive del minore, da parte del genitore per costei maggiormente referenziante».

Vi è quindi un preciso obbligo, non una mera facoltà, di spingere il figlio verso il genitore in danno del quale sia avvenuto lo sbilanciamento. Ciò si ottiene non solo non perseverando nel portare avanti iniziative diverse da quelle del genitore sfavorito, ma anche recuperando la positività della sua figura, «nel rispetto delle decisioni da costui assunte e comunque delle sue caratteristiche temperamentali».

Nel caso in questione, ciò non è accaduto e c'è stata una condotta «volta ad ostacolare il funzionamento dell'affido condiviso». Visto ciò e posta la più volte affermata «applicabilità d'ufficio del meccanismo sanzionatorio previsto dall'art. 709-ter cpc», il giudice ha applicato la misura dell'ammonizione, «invitando la parte ad una condotta improntata al rispetto del ruolo genitoriale dell'ex coniuge», e l'ammenda, «al fine di dissuaderla in forma concreta dalla protrazione delle condotte poste in essere, la cui persistenza potrà peraltro in futuro dare adito a sanzioni ancor più gravi compresa la revisione delle condizioni dell'affido».

fonte: Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/Condannato il genitore che «arma» i figli contro l'ex - Il Sole 24 ORE

mercoledì 22 ottobre 2014

Esclusa la legittima difesa quando la reazione sproporzionata non è colposa ma volontaria

La colpa nella reazione difensiva è subordinata all’esistenza di due condizioni: l’esistenza di un diritto esclusivo che si assume minacciato e la sproporzione, per colpa, nella reazione. In mancanza di queste due condizioni non può essere riconosciuta la scriminante della legittima difesa. Lo ha affermato la Cassazione, con la sentenza 32967/14.

Il caso

La Corte d’appello con sentenza, a conferma di quella emessa dal Tribunale di primo grado, condannava l’imputato per lesioni personali e violenza privata in danno di una donna. In particolare l’uomo, socio della vittima in una Snc, per impedire che quest’ultima prendesse visione della documentazione societaria contenuta all’interno di una borsa, afferrò e distorse il braccio della donna, che aveva appreso la borsa suddetta. Contro la sentenza della Corte territoriale l’imputato ricorreva per cassazione, lamentando l’immotivata esclusione della legittima difesa putativa.

L’accertamento relativo alla scriminante della legittima difesa, reale o putativa, e dell’eccesso colposo, deve essere effettuato con giudizio ex ante calato all’interno delle specifiche e peculiari circostanze concrete che connotano la fattispecie da esaminare, secondo una valutazione di carattere relativo ed astratto, rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito. A questi spetta, infatti, esaminare tutti gli elementi fattuali antecedenti all’azione che possono aver avuto concreta incidenza sull’insorgenza dell’erroneo convincimento di dover difendere sé o altri da un’ingiusta aggressione (Cass., n. 13370/13).

La Corte di Cassazione sottolinea, richiamando la giurisprudenza costante, che il riconoscimento o l’esclusione della legittima difesa costituisce un giudizio di fatto, insindacabile in sede di legittimità quando gli elementi di prova siano stati puntualmente accertati e logicamente valutati dal giudice di merito (Cass., n. 3148/13). Nel caso di specie, la legittima difesa è stata correttamente esclusa in considerazione della sicura esistenza, in capo alla persona offesa, del diritto di prendere cognizione della documentazione societaria. Nessun diritto aveva, pertanto, l’imputato di impedire alla socia l’apprensione della documentazione suddetta. Conseguentemente, la reazione posta in essere dall’imputato, era del tutto ingiustificata, oltre che sproporzionata.

La colpa nella reazione difensiva è subordinata all’esistenza di due condizioni: l’esistenza di un diritto esclusivo che si assume minacciato e la sproporzione, per colpa, nella reazione. Nella specie, la sproporzione non è dipesa da colpa ma dalla volontà di attuare uno ius excludendi sulla documentazione della società. Correttamente è stata anche esclusa la legittima difesa putativa. Questa infatti, se non richiede l’esistenza di un pericolo vero ed effettivo, non si affida tuttavia a semplici timori e vaghe supposizioni, ma postula sempre la presenza di un complesso di circostanze obiettive, atte a creare nella mente dell’agente la fondata convinzione di essere sul punto di subire un attacco e di doversi difendere. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/La Stampa - Esclusa la legittima difesa quando la reazione sproporzionata non è colposa ma volontaria

Danno biologico: la Consulta salva la tabella sulle micropermanenti

Il bilanciamento tra i diritti inviolabili della persona ed il dovere di solidarietà (di cui, rispettivamente, al primo e secondo comma dell’art. 2 Cost.) comporta che non sia risarcibile il danno per lesione di quei diritti che non superi il «livello di tollerabilità» che ogni persona inserita nel complesso contesto sociale deve accettare in virtù del dovere di tolleranza che la convivenza impone. Di conseguenza Il controllo di costituzionalità del meccanismo tabellare di risarcimento del danno biologico introdotto dall’art. 139 cod. ass. va condotto non già assumendo quel diritto come valore assoluto e intangibile, bensì verificando la ragionevolezza del suo bilanciamento con altri valori, che sia eventualmente alla base della disciplina censurata.

La Corte Costituzionale con sentenza n. 235 del 16 ottobre 2014 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 139 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private), sollevata dal Giudice di pace di Torino, in riferimento agli artt. 2, 3, 24 e 76 della Costituzione; dal Tribunale ordinario di Brindisi – sezione distaccata di Ostuni, per contrasto con gli artt. 2, 3, 24, 32, 76, e con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 2 e 6 della CEDU, 6 del Trattato dell’Unione europea, e 1 e 3, comma 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; dal Tribunale ordinario di Tivoli e dal Giudice di pace di Recanati, per contrasto con i medesimi artt. 2, 3, 24, 32, 76 Cost. e con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 3 e 8 della CEDU e 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione medesima, con le rispettive ordinanze in epigrafe indicate.

In sostanza  con quattro diverse ordinanze, riunite dinanzi al giudice costituzionale per la sostanziale identità del soggetto, il Giudice di pace di Torino, i Tribunali ordinari di Brindisi – sezione distaccata di Ostuni, e di Tivoli, in composizione monocratica, ed il Giudice di pace di Recanati hanno, in relazione a vari parametri, sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 139 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private).

Nella prospettazione sostanzialmente comune ai quattro giudici a quibus, il meccanismo tabellare di risarcimento del danno biologico (permanente o temporaneo) da lesioni di lieve entità derivanti da sinistro stradale, introdotto dal censurato art. 139 del d.lgs. n. 209 del 2005, darebbe luogo ad un sistema indennitario che limiterebbe la piena riparazione del danno, ancorandolo a livelli pecuniari riconosciuti, per via normativa, equi ex ante, ma che – sia per la rigidità dell’aumento percentuale dell’importo nella misura massima del quinto (20%), sia per la (ritenuta) impossibilità di liquidare l’eventuale, non contemplato, danno morale – non consentirebbe una adeguata personalizzazione del danno e determinerebbe, di conseguenza, una disparità di trattamento in relazione al riconoscimento del diritto al suo integrale ristoro, in base al diverso elemento causativo del danno stesso, oltre che un’ingiustificata prevalenza della tutela dell’esercizio dell’attività assicurativa rispetto alla tutela della lesione del diritto inviolabile alla salute.

Da ciò, appunto, il denunciato contrasto con i parametri costituzionali e comunitari in precedenza menzionati.

Tali eccezioni di incostituzionalità vengono rigettate dalla Corte attraverso un’articolata analisi delle singole disposizioni contestate.

In primis avuto riferimento all’art. 76 cost. la Corte sostiene che  la legge di delega n. 229 del 2003 prevedeva espressamente, al comma 1 del suo art. 4, che il Governo fosse delegato a provvedere «ai sensi e secondo i principi e criteri direttivi di cui all’articolo 20 della legge 15 marzo 1997 n. 59 …… come sostituito dall’articolo 1 della presente legge». Di conseguenza nel dare attuazione alla suddetta delega, il legislatore delegato avrebbe dovuto – ai sensi dell’art. 20, comma 3, lettera a), della citata legge n. 59 del 1997 − «definire il riassetto normativo» e la «codificazione della normativa primaria regolante la materia», confermando, quindi, se del caso, le norme previgenti. E poiché tra queste rientrava l’art. 5, comma 4, della legge 5 marzo 2001, n. 57 (Disposizioni in materia di apertura e regolazione dei mercati), avente lo stesso tenore del censurato art. 139 del d.lgs. n. 209 del 2005, è evidente come il legislatore delegato del 2005 si sia mosso lungo il binario di scelte rientranti nella fisiologica attività di riempimento che lega i due livelli normativi, della legge di delega e del decreto delegato.

Anche le censure di violazione dell’art. 24 Cost. e dell’art. 6 della CEDU, vengono considerate dalla Corte non pertinenti poiché la limitazione del diritto risarcitorio, che i rimettenti paventano, attiene alla garanzia dell’oggetto di tale diritto, e non all’aspetto della azionabilità in giudizio – che quei parametri tutelano – la quale non è in alcun modo pregiudicata dalla norma denunciata.

Non fondata, secondo il giudice costituzionale, è anche la censura di violazione dell’art. 3 della costituzione perché innanzitutto la prospettazione di una disparità di trattamento − che, in presenza di identiche (lievi) lesioni, potrebbe conseguire, in danno delle vittime di incidenti stradali, dalla applicazione della normativa impugnata, in quanto limitativa di una presunta maggiore tutela risarcitoria riconoscibile a soggetti che quelle lesioni abbiano riportato per altra causa − è smentita dalla constatazione che, nel sistema, la tutela risarcitoria dei danneggiati da sinistro stradale è, viceversa, più incisiva e sicura, rispetto a quella dei danneggiati in conseguenza di eventi diversi (infatti solo i primi, e non anche gli altri, possono avvalersi della copertura assicurativa, ex lege obbligatoria, del danneggiante – o, in alternativa, direttamente di quella del proprio assicuratore – che si risolve in garanzia dell’an stesso del risarcimento).

Inoltre l’assunto per cui gli introdotti limiti tabellari non consentirebbero di tener conto della diversa incidenza che pur identiche lesioni possano avere nei confronti dei singoli soggetti, trascura di dare adeguato rilievo alla disposizione di cui al comma 3 del denunciato art. 139, in virtù della quale è consentito al giudice di aumentare fino ad un quinto l’importo liquidabile ai sensi del precedente comma 1, con «equo e motivato apprezzamento», appunto, «delle condizioni soggettive del danneggiato».

Non pertinenti sono anche le contestazioni circa la violazione di ulteriori parametri costituzionali ed europei motivate sia dalla non prevista (e quindi a loro avviso esclusa) liquidabilità del danno morale, sia per il limite apposto dalla normativa impugnata alla integrale risarcibilità del danno biologico.

Secondo la Corte, difatti, la prima questione non è fondata per erroneità della sua premessa interpretativa, poiché anche se è vero che l’art. 139 cod. ass. fa testualmente riferimento al “danno biologico” e non fa menzione anche del “danno morale”, le sezioni unite della Corte di cassazione con sentenza n. 26972 del 2008 hanno ben chiarito (nel quadro, per altro, proprio della definizione del danno biologico recata dal comma 2 del medesimo art. 139 cod. ass.) come il cosiddetto “danno morale” − e cioè la sofferenza personale suscettibile di costituire ulteriore posta risarcibile (comunque unitariamente) del danno non patrimoniale, nell’ipotesi in cui l’illecito configuri reato − «rientra nell’area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente».

Anche la seconda questione viene ritenuta non fondata in quanto (a prescindere da precedenti della stessa Corte Costituzionale conformi in tal senso) la Corte di Cassazione, con la già ricordata sentenza n. 26972 del 2008, ha puntualizzato come il bilanciamento tra i diritti inviolabili della persona ed il dovere di solidarietà (di cui, rispettivamente, al primo e secondo comma dell’art. 2 Cost.) comporti che non sia risarcibile il danno per lesione di quei diritti che non superi il «livello di tollerabilità» che «ogni persona inserita nel complesso contesto sociale […] deve accettare in virtù del dovere di tolleranza che la convivenza impone».

Di conseguenza il controllo di costituzionalità del meccanismo tabellare di risarcimento del danno biologico introdotto dal censurato art. 139 cod. ass. – per il profilo del prospettato vulnus al diritto all’integralità del risarcimento del danno alla persona – va, quindi, condotto non già assumendo quel diritto come valore assoluto e intangibile, bensì verificando la ragionevolezza del suo bilanciamento con altri valori, che sia eventualmente alla base della disciplina censurata.

fonte: www.altalex.com//Danno biologico: la Consulta salva la tabella sulle micropermanenti

martedì 21 ottobre 2014

Cassazione: esaltare l’organo virile davanti a donna non è reato

È senz’altro una volgarità, ma non è un reato, esaltare il proprio organo virile davanti a una donna: non si rischia, dunque, una condanna per ingiuria. Lo si evince da una sentenza con cui la terza sezione penale della Cassazione ha annullato senza rinvio la condanna inflitta a un uomo «per aver leso l’onore e il decoro» di una collega rivolgendole una «frase ingiuriosa» («...Giuseppi’... stasera ho un c....») con la quale esaltava la propria virilità.

 La Suprema Corte, infatti, ha ritenuto parzialmente fondato il ricorso presentato dall’imputato sottolineando che, «pur essendo indubbia la terminologia volgare e ineducata delle specifiche parole ricomprese nella frase contestata», i giudici del merito (il gup e la Corte d’Appello de L’Aquila, ndr) avrebbero dovuto concludere «per la non integrazione del reato contestato», dato «l’inequivoco riferimento dell’imputato non già alla interlocutrice, bensì a se stesso, per l’assenza dell’offesa alla dignità altrui».

 L’uomo, dunque, è stato assolto in via definitiva «perché il fatto non sussiste» per il reato di ingiuria. Non è però scampato alla condanna a 11 mesi e 10 giorni di reclusione per aver costretto la donna «a subire contro la propria volontà un atto sessuale»: le aveva toccato il sedere sul luogo di lavoro.

(Fonte: Agi) //La Stampa - Cassazione: esaltare l’organo virile davanti a donna non è reato

Marito sperimenta “sesso alternativo”, scatta l’addebito nella separazione

Scatta l’addebito della separazione a carico del marito che ha perso l’interesse sessuale nei confronti della moglie tanto da aver finito, con l’andar del tempo, per sottrarsi completamente «ai doveri nascenti dal matrimonio» preferendo, invece, dedicarsi a «una diversa tipologia di vita sessuale». Lo sottolinea la Cassazione - nella sentenza 22084 - affrontando la vicenda di una coppia messinese arrivata al `capolinea´ a causa del comportamento dell’uomo.

 Ad avviso della Suprema Corte, giustamente la Corte di Appello di Messina ha dato la colpa al marito, Giuseppe C., per la fine di questo matrimonio dal momento che a suo carico c’erano «elementi univoci e concordanti». A inchiodarlo è stata soprattutto l’abitudine di utilizzare il telefono di un’altra donna, Maria F., «nel quale erano state rinvenute foto di scene erotiche che la coinvolgevano insieme a varie persone».

 Giuseppe C., comunque, «non aveva mai negato di avere, ad un certo punto della convivenza coniugale, perso interesse nei confronti» della moglie, Giovanna. Invano ha sostenuto che le prove a suo carico erano «generiche e non provate». Alla sua ex moglie è rimasta solo la `soddisfazione´ di sentirlo dichiarare “colpevole” dal giudice della separazione che le ha negato il diritto a ricevere l’assegno di mantenimento.

fonte: La Stampa - Marito sperimenta “sesso alternativo”, scatta l’addebito nella separazione

venerdì 17 ottobre 2014

Firma non autentica, oltre a sostenerlo, bisogna provarlo

La parte che sostenga la non autenticità della propria apparente sottoscrizione apposta su scrittura privata non riconosciuta e per la quale non sia necessario esperie querela di falso, può agire in via principale per far accertare tale non autenticità, ma tale accertamento dovrà essere effettuato secondo le ordinarie regole probatorie. Spetterà quindi alla stessa parte provare la non autenticità. Si è così espressa la Cassazione nella sentenza n. 16777/14.

Il caso

L’attrice conveniva in giudizio la banca, avanti il Tribunale di Taranto, per il disconoscimento in via principale della sottoscrizione, apparentemente apposta a suo nome su cinque effetti cambiari, risultati, poi, protestati dalla convenuta, con pubblicazione pregiudizievole del cognome della donna sul bollettino dei protesti presso la Camera di Commercio.

La parte attrice chiedeva pertanto: l’accertamento della non autenticità di tali sottoscrizioni; la declatoria di inesistenza dell’obbligazione cambiaria; la condanna al risarcimento dei danni; e, infine, la cancellazione dei protesti. Il Tribunale rigettava la domanda attorea. Così faceva anche la Corte d’appello di Lecce. Avverso la sentenza di rigetto proponeva ricorso per cassazione la donna, deducendo l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, nonché la violazione e falsa applicazione delle norme in tema di onere della prova e di verificazione della scrittura privata.

La donna censurava la decisione dei Giudici territoriali in quanto aveva respinto la sua domanda accollandole un onere di prova della non autenticità delle sottoscrizioni apposte sulle cambiali che non le competeva. Il motivo è infondato. La Corte d’appello aveva infatti dato corretta attuazione del principio secondo cui «la parte che sostenga la non autenticità della propria apparente sottoscrizione apposta su scrittura privata non riconosciuta e per la quale non sia necessario esperie querela di falso, può sì agire in via principale per far accertare tale non autenticità, ma questo accertamento dovrà essere effettuato secondo le ordinarie regole probatorie e non già, dunque, con l’applicazione della speciale procedura di verificazione prevista dagli articoli 214 ss c.p.c. per la differente ipotesi di disconoscimento incidentale in corso di causa» (Cass. n. 12471/2001).

Alla stregua di ciò, la domanda attorea avrebbe potuto trovare accoglimento solo se la stessa donna avesse fornito la prova della non autenticità delle sottoscrizioni apposte a suo nome sulle cambiali protestate. Il Giudice di merito ha quindi escluso il raggiungimento della prova della quale la ricorrente era onerata. La Cassazione rigetta, quindi, il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Firma non autentica, oltre a sostenerlo, bisogna provarlo

giovedì 16 ottobre 2014

Affidamento condiviso non implica dividere la stessa casa con mamma e papà

L’affidamento congiunto dei figli ad entrambi i genitori non fa venir meno l’obbligo patrimoniale di uno di essi di contribuire, con la corresponsione di un assegno, al mantenimento della prole. Inoltre, nella decisione in merito all’assegnazione della casa familiare, il giudice deve perseguire il fine di conservare, nell’interesse esclusivo dei figli, l’habitat domestico, inteso come il centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si esprime e si articola la vita familiare. Lo ha affermato la Cassazione, con la sentenza 16649/14.

Il caso

Il Tribunale di primo grado dichiarava la separazione dei coniugi con affido condiviso dei tre figli e fissando la loro residenza presso la madre, cui assegnava la casa familiare. Disponeva, inoltre, a carico del padre, l’obbligo di contribuire al mantenimento dei figli mediante un assegno mensile. La donna proponeva appello, chiedendo che fosse addebitata al marito la separazione e che fosse rideterminato, elevandone l’importo, l’assegno di mantenimento in favore dei figli. L’uomo proponeva appello incidentale.

La Corte d’appello accoglieva parzialmente l’appello principale, aumentando l’importo dell’assegno mensile e respingeva l’appello incidentale. Avverso tale pronuncia ricorreva in Cassazione l’ex marito. Il primo motivo di gravame concerne la riduzione della misura del contributo al mantenimento dei figli.

La Corte di Cassazione sottolinea come il passaggio dal regime di affidamento esclusivo a quello di affidamento condiviso dei figli non comporti una riduzione, men che meno automatica, della misura del contributo al mantenimento dei figli disposto nel regime di affidamento esclusivo. Tale riduzione può essere disposta solo con riguardo a concrete evidenze di riduzione del carico di spesa e di impiego di disponibilità personali derivanti dall’affido condiviso.

L’affidamento congiunto dei figli ad entrambi i genitori è istituto che, in quanto fondato sull’esclusivo interesse del minore, non fa venir meno l’obbligo patrimoniale di uno dei genitori di contribuire, con la corresponsione di un assegno, al mantenimento della prole, in relazione al contesto familiare e sociale di appartenenza (Cass., Sez. I, n. 16736/11; Cass., Sez. I, n. 18187/06).

Il secondo motivo di ricorso riguarda l’assegnazione dell’autonomo appartamento alla moglie, mai adibito a casa coniugale. La Corte di appello è pervenuta alla sua decisione in merito all’assegnazione della casa familiare partendo dal principio ispiratore dell’istituto che è quello di conservare, nell’interesse esclusivo dei figli, l’habitat domestico, inteso come il centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si esprime e si articola la vita familiare (Cass., n. 14553/11).

Nel caso di specie, se è pure vero che si tratti di una casa familiare di ampie dimensioni, articolata su due livelli abitativi, la Corte territoriale ha ritenuto che la conflittualità dei due ex coniugi potrebbe essere di pregiudizio per i minori in caso di convivenza nello stesso stabile dei genitori. Pertanto, la Corte d’appello ha, correttamente, ritenuto la divisibilità dell’abitazione non conforme all’interesse dei minori, da ritenersi preminente a tutti gli altri interessi in gioco (Cass., Sez. I, n. 23591/10). Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Affidamento condiviso non implica dividere la stessa casa con mamma e papà

Divorzio in tempi brevi anche con figli minori

Separazione e divorzio facili anche in presenza di figli minori o disabili. In commissione Giustizia del Senato, ieri sera è stata approvata la parte del decreto legge di riforma del processo civile in cui si prevede la negoziazione assistita, da parte di un avvocato, per la separazione e il divorzio tra coniugi, pur prevedendo la possibilità di un passaggio in procura voluto dal Ncd.

Grazie all'emendamento presentato dal relatore Giuseppe Cucca (Pd), separazione e divorzio diventano più veloci anche in presenza «di figli minori, di figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave, ovvero economicamente non autosufficienti». L'accordo di negoziazione deve essere trasmesso dal legale entro dieci giorni al pubblico ministero. Questi, se ritiene che l'accordo risponda all'interesse dei figli, lo autorizza. Altrimenti trasmette entro cinque giorni l'atto al presidente del tribunale che fissa entro i successivi 30 giorni la comparizione delle parti stesse.

Gli effetti degli accordi raggiunti decorreranno dalla data “certificata” negli accordi stessi e che dovrà essere riportata nelle annotazioni a margine dell'atto di matrimonio e di nascita di entrambi i coniugi e indicata nella scheda anagrafica individuale degli interessati. Successivamente alla trasmissione della convenzione di negoziazione non è previsto alcun atto di impulso ad opera dell'avvocato.

Con l'approvazione degli articoli 6 (convenzione di negoziazione assistita da un avvocato per le soluzioni consensuali di separazione personale, di cessazione degli effetti civili o di scioglimento del matrimonio, di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio) e 12 (separazione consensuale, richiesta congiunta di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio e modifica delle condizioni di separazione o di divorzio innanzi all'ufficiale dello stato civile) a partire da oggi il decreto di riforma del processo civile verrà esaminato dall'Aula del Senato.

Fra le reazioni contrarie quella del senatore di Forza Italia, Ciro Falanga, per il quale «non vi è dubbio che tale previsione amplifica a dismisura la privatizzazione del matrimonio, la cui valenza pubblicistica discende direttamente dall'articolo 29 della Costituzione».

fonte: www.ilsole24ore.com//Divorzio in tempi brevi anche con figli minori

Divorzio, il licenziamento dell'obbligato modifica l'assegno

Il licenziamento dell'ex coniuge obbligato al mantenimento è un elemento sufficiente per la revisione dell'assegno. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 21670/2014 , accogliendo il ricorso di un marito divorziato che dopo aver sottoscritto un accordo consensuale con la moglie aveva chiesto la rideterminazione degli obblighi economici.

La fase di merito - La Corte d'Appello di Lecce aveva rigetto il reclamo del marito ricordando che i coniugi, successivamente alla pronuncia di divorzio, avevano sottoscritto una scrittura privata con la quale avevano provveduto in merito alla casa coniugale, sostituendo l'immobile assegnato in godimento alla moglie con un altro di proprietà del marito e confermato il contributo al mantenimento della figlia minore a carico del padre, concordato in sede di divorzio.

La risoluzione del contratto di lavoro con la Banca di Credito Cooperativo e la conseguente riduzione del reddito, invece, risalendo a 5 mesi prima, «dovevano considerarsi conosciute e valutate al momento della sottoscrizione del predetto accordo, non potendo, di conseguenza essere considerate circostanze sopravvenute». Per cui «rispetto alla situazione esistente all'epoca della modificazione consensuale delle condizioni di divorzio non era sopravvenuta alcuna altra circostanza idonea a giustificare alcun ulteriore mutamento delle statuizioni economiche».

Al contrario il ricorrente ha dedotto che dall'accordo novativo alla richiesta di revisione dell'assegno erano passati altri due anni in cui la «professione legale intrapresa» non aveva dato i guadagni sperati.

La motivazione - Una tesi condivisa dalla Cassazione secondo cui «da un' analisi meramente testuale» dell'accordo «non risulta alcuna modificazione delle preesistenti condizioni di divorzio, non essendovi previste modifiche favorevoli al ricorrente, dal momento che in esso è stabilito soltanto il trasferimento della casa coniugale». Mentre, «la Corte d'Appello ha del tutto omesso di valutare che dalla data del licenziamento a quella della richiesta di modifica delle condizioni di divorzio è intercorso un rilevante lasso di tempo (2 anni) nel corso del quale il ricorrente ha infruttuosamente tentato di avviare una nuova carriera professionale e conseguentemente depauperato il suo patrimonio». In definitiva, «il criterio dei giustificati motivi», previsto dall'articolo 9 della legge 898 del 1970, che autorizza modificazioni anche della contribuzione economica «non risulta adeguatamente valutato». Da qui il rinvio alla Corte d'Appello di Lecce per una nuova valutazione della richiesta del marito.

fonte: www.ilsole24ore.com//Divorzio, il licenziamento dell'obbligato modifica l'assegno

Violenza sessuale: costituisce ''induzione'' qualsiasi forma di sopraffazione della vittima

 L’induzione necessaria ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale non si identifica solo con la persuasione subdola ma si...