martedì 26 maggio 2020

Lavoratrice invalida con figlia disabile: sacrosanto il diritto allo smartworking

Sacrosanto, ai tempi del coronavirus, il diritto a vedersi riconosciuta dall’azienda la possibilità del c.d. smartworking. Esemplare la valutazione compiuta in merito alla posizione di una donna che, pur essendo invalida e avendo una figlia affetta da un handicap grave, si era vista negare l’ipotesi del lavoro da casa e si era ritrovata in cassa integrazione (Tribunale di Bologna, sezione lavoro, decreto 23 aprile 2020)

Protagonista della battaglia legale è una impiegata con quasi vent’anni di lavoro alle spalle nella stessa azienda. Il rapporto sembra solido, ma vacilla a causa dei problemi causati dal Coronavirus: a fine marzo la donna «chiede con una email di poter usufruire dello smartworking» nel periodo di emergenza sanitaria e allega «certificazione del suo stato di invalidità». Dall’azienda però arriva, sempre via email, una risposta negativa: alla dipendente viene negato in sostanza lo smartworking e, allo stesso tempo, e viene comunicato che «sarebbe stata in cassa integrazione per la settimana successiva»
A censurare la presa di posizione dell’azienda provvede il Giudice, ponendo in evidenza, da un lato, la situazione familiare della lavoratrice – con annesso elevato rischio per il potenziale contagio da coronavirus in caso di obbligo di recarsi in ufficio –, e, dall’altro, che la società «sta utilizzando la modalità smartworking per taluni dipendenti» appartenenti allo stesso ufficio della donna.
In premessa viene sottolineato che «nell’attuale situazione di emergenza sanitaria il lavoro da casa è raccomandato», se non addirittura imposto, per «quelle attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza». Subito dopo viene ricordato che «i dipendenti disabili o che abbiano nel proprio nucleo familiare una persona con disabilità hanno diritto a svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile», sempre che, ovviamente, «tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione», e, in particolare, «ai lavoratori del settore privato, affetti da gravi e comprovate patologie con ridotta capacità lavorativa, è riconosciuta la priorità nell’accoglimento delle istanze di svolgimento delle prestazioni lavorative in modalità agile».
Alla luce di tali paletti, è sacrosanto, secondo il Giudice, il diritto della donna «ad accedere allo smartworking», essendo ella «invalida al 60 per cento e convivente con figlia con handicap grave». Decisiva anche la constatazione della «compatibilità della modalità agile del lavoro con le caratteristiche della prestazione», poiché «la donna svolge mansioni con l’utilizzo del telefono e di strumenti informatici».
Evidenti, poi, i pericoli per la donna e per la figlia in caso di lavoro svolto in ufficio.
Su questo punto il giudice evidenzia che la lavoratrice «è invalida al 60 per cento e convive con figlia con handicap grave»: ci si trova di fronte, quindi, a «due soggetti fortemente esposti al rischio di contagio, anche in forma grave». Logico perciò il timore che «lo svolgimento delle attività di lavoro in modalità ordinarie», cioè «uscendo da casa per recarsi in ufficio», possa esporre la donna «»al rischio di un pregiudizio imminente ed irreparabile per la salute sua e della figlia convivente».
Tirando le somme, quindi, l’azienda, conclude il giudice, deve «procedere immediatamente ad assegnare la dipendente a modalità di lavoro agile, dotandola degli strumenti necessari o concordando l’uso di quelli personali».

Racconto poco credibile, ma l’omosessualità può bastare per ottenere protezione in Italia

Il racconto poco credibile fatto dallo straniero non è sufficiente per negargli protezione, se egli si è dichiarato gay, se nel suo Paese l’omosessualità è considerata reato e se lo Stato non garantisce, ovviamente, protezione da minacce provenienti da soggetti privati (Cassazione, ordinanza n. 9581/20, sez. I Civile, depositata il 25 maggio).

Protagonista della vicenda è un cittadino della Guinea, che, una volta approdato in Italia, chiede protezione e spiega di «essere di religione musulmana» e di essere scappato dalla propria patria perché «lo zio lo aveva denunciato alla polizia come omosessuale».
Lo straniero aggiunge di essere omosessuale, di avere sempre avuto amici gay, di avere avuto anche relazioni omosessuali a pagamento, e spiega che «la cosa non creava problemi alla madre e ai fratelli, che pure erano musulmani».
Il racconto è però ritenuto poco credibile, e così prima la ‘Commissione territoriale’ e poi i giudici del Tribunale respingono la richiesta di protezione presentata dallo straniero.
Per il cittadino della Guinea il ricorso in Cassazione è l’ultima carta a disposizione. Così egli pone l’attenzione, tramite il proprio legale, sugli atti persecutori che potrebbe subire in patria.
Più precisamente, l’uomo pone in evidenza l’errore compiuto dal Tribunale: da un lato, difatti, i Giudici hanno sostenuto che «nell’ultimo rapporto sul Paese non si parlava di carcerazioni o persecuzioni nei confronti degli omosessuali», ma allo stesso tempo hanno dato atto della «incriminazione prevista dal locale codice penale» e dei «recenti arresti» nei confronti di persone gay con «irrogazione di sanzioni penali»
Evidente, quindi, secondo l’uomo, «il rischio di sottoposizione a trattamenti inumani e degradanti» in patria a causa della «sua condizione di omosessuale» e della «sua giovane età».
Tali considerazioni hanno senso, osservano i Giudici della Cassazione.
In prima battuta, comunque, i magistrati rilevano che «il Tribunale non ha affatto escluso – e, per vero, neppure valutato – l’allegato orientamento omosessuale e i riferiti comportamenti omosessuali dello straniero, limitandosi a ritenere molto genericamente non credibile il suo racconto della vicenda, ma senza prender posizione», contrariamente a quanto doveroso, «sull’elemento fondamentale, ossia l’omosessualità». Soprattutto tenendo presente che «potrebbe rispondere al vero l’omosessualità dello straniero, pur avendo egli raccontato una vicenda personale implausibile».
Illogico, peraltro, sostenere, come fatto dal Tribunale, che non ci si trovi di fronte a potenziali «atti di persecuzione». Anche perché «la nozione di rifugiato, quale cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese, ricomprende anche i timori di persecuzione collegati all’orientamento sessuale».
Peraltro, la norma, aggiungono dalla Cassazione, «vieta l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione anche per motivi di orientamento sessuale». E in passato i Giudici hanno chiarito che «l’orientamento sessuale del richiedente protezione costituisce fattore di individuazione del particolare gruppo sociale la cui appartenenza, costituisce ragione di persecuzione idonea a fondare il riconoscimento dello status di rifugiato», anche se «dedotta per la prima volta solo davanti al Tribunale».
Ampliando l’orizzonte, poi, non si può dimenticare che «per persecuzione deve intendersi una forma di lotta radicale contro una minoranza che può anche essere attuata sul piano giuridico e specificamente con la semplice previsione del comportamento che si intende contrastare come reato punibile con la reclusione. Tale situazione si concretizza allorché le persone di orientamento omosessuale sono costrette a violare la legge penale del proprio Paese e a esporsi a gravi sanzioni per poter vivere liberamente la propria sessualità, sì che ben si può ritenere che ciò costituisca una grave ingerenza nella vita privata dei cittadini omosessuali che compromette grandemente la loro libertà personale».
Di conseguenza, «per escludere il diritto di conseguire la protezione da parte dello straniero che si dichiara omosessuale, non è sufficiente neppure verificare che nello Stato di provenienza l’omosessualità non sia considerata alla stregua di un reato, dovendo altresì essere accertata la sussistenza, in tale Paese, di un’adeguata protezione da parte dello Stato, a fronte di gravissime minacce provenienti da soggetti privati».
Applicando questi principi alla vicenda in esame, emerge la solidità della richiesta presentata dal cittadino della Guinea, poiché «il Tribunale non solo non ha revocato in dubbio che il Paese reprima penalmente l’omosessualità, ma ha espressamente riconosciuto, richiamando il più recente rapporto di Amnesty International, che lì il vigente Codice Penale incrimina come reato gli atti sessuali consenzienti fra persone dello stesso sesso». Peraltro, «la Guinea non ha accettato le raccomandazioni riguardanti la depenalizzazione» per i rapporti omosessuali, mentre sono dati certi quelli relativi a «recenti incriminazioni e condanne per questo genere di reato».
In sostanza, è necessario solo verificare – con un nuovo giudizio in Tribunale – la veridicità delle dichiarazioni dello straniero circa il suo orientamento sessuale, prima di poter decidere sulla sua richiesta di protezione, alla luce dei pericoli evidenti per gli omosessuali in Guinea.

giovedì 21 maggio 2020

Manipolazioni ‘invasive’ sulla paziente: osteopata condannato per violenza sessuale

Manipolazioni ‘sospette’ per una donna che si è rivolta a un osteopata per risolvere alcuni problemi alla cervicale. Durante una seduta di terapia, difatti, si ritrova a subire toccamenti per nulla graditi – e non preannunciati – nella zona del seno e in quella pubica.
Inevitabile la condanna per il professionista, ritenuto colpevole di violenza sessuale non solo per i palpeggiamenti messi in atto ma anche per non avere comunque anticipato alla paziente, chiedendole preventivo consenso, che le successive manovre avrebbero riguardato zone erogene del suo corpo (Cassazione, sentenza n. 15219/20, sez. III Penale, depositata il 15 maggio).

Ricostruito l’episodio incriminato, e denunciato dalla donna – Paola, nome di fantasia –, i giudici di merito condannano l’osteopata per «violenza sessuale» poiché, viene chiarito, «egli, abusando dell’autorità derivante dal rapporto fiduciario medico-paziente, ha costretto Paola, che a lui si era rivolta per risolvere alcuni problemi alla cervicale, a subire atti sessuali consistiti in ripetuti palpeggiamenti del seno e del pube».
Inequivocabile e grave, quindi, secondo il GUP del Tribunale e secondo i giudici d’Appello, la condotta tenuta dall’osteopata.
Questa visione viene però contestata dall’uomo che, tramite il proprio legale, presenta ricorso in Cassazione, mirando a sostenere la tesi della «correttezza delle manipolazioni adottate» sulla persona di Paola, manipolazioni che «non possono avere finalità di carattere sessuale, trattandosi di atto terapeutico e pur avendo coinvolto zone erogene».
Allo stesso tempo, però, l’uomo sostiene di avere preventivamente «informato la paziente circa il tipo di terapia da praticare», e quindi, a suo dire, è impossibile escludere «il consenso della donna».
Le osservazioni proposte dal terapeuta non convincono però i giudici della Cassazione, che partono da un dato certo: l’uomo sotto accusa «praticò sulla paziente dei massaggi in corrispondenza del seno e del pube».
Ebbene, i ‘passaggi’ in quelle zone erogene non sono assolutamente connessi alle tecniche e ai massaggi richiamate dall’osteopata. Evidente, quindi, la violenza sessuale compiuta dall’uomo, poiché le manovre compiute sulla persona di Paola «esulano dalla pratica dell’osteopatia e sono chiaramente invasive dell’altrui sfera sessuale», sanciscono i giudici.
Tuttavia, dalla Cassazione tengono a fare ulteriore chiarezza, specificando che «anche a voler ammettere la correttezza delle manovre praticate dal terapeuta», va comunque tenuto presente che «la paziente non era stata preventivamente informata che i massaggi avrebbero interessato il seno e il pube e, conseguentemente, ella non aveva espresso il consenso a subire trattamenti invasivi della propria sfera sessuale».
Acclarato che non vi sono elementi per presumere che il terapeuta avesse informato Paola che le manipolazioni avrebbero attinto il seno e il pube, ulteriore conferma arriva dalla condotta da lei tenuta dopo la seduta incriminata: difatti, «avendo dei dubbi in ordine all’appropriatezza del trattamento che le era stato praticato, si era rivolta a un altro osteopata per verificare se le manipolazioni tattili subite fossero terapeuticamente corrette». E «quando ebbe conferma dall’osteopata a cui aveva chiesto consiglio dell’inappropriatezza delle manovre che aveva subito, la donna immediatamente diede disdetta dalle altre sedute già programmate» con quello che era il suo osteopata di fiducia.
A fronte di questo quadro è per i giudici della Cassazione ancora più evidente l’abuso compiuto dal terapeuta ai danni di Paola. E ciò spinge i magistrati a fissare un principio di diritto che riguardi specificatamente l’osteopatia: «trattandosi di terapia medica non convenzionale e dunque ordinariamente non conosciuta, il paziente deve essere previamente informato nel caso in cui il trattamento praticato sia invasivo della sua sfera sessuale al fine di prestarvi consenso, mancando il quale è ravvisabile il delitto di violenza sessuale».

venerdì 15 maggio 2020

Massaggi non terapeutici, non è reato somministrarli senza titolo

Con la sentenza n. 12539/2020 la Corte di cassazione ha escluso la configurazione del reato di esercizio abusivo della professione medica nei confronti di una massaggiatrice cinese la quale era stata condannata in primo e in secondo grado per aver offerto ai bagnanti di una spiaggia la somministrazione di massaggi e di sostanze aventi proprietà curative.

Il fatto
In particolare la donna era stata osservata mentre, passeggiando su di una spiaggia con uno zaino sul quale erano appesi dei fogli volti a pubblicizzare vari tipi di massaggi, si avvicinava ai bagnanti per offrire loro massaggi e bottiglie contenenti canfora. Veniva quindi deferita per il reato di cui all'art. 348 c.p. (esercizio abusivo della professione), unitamente a quello di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 6, comma 3, per non aver esibito nell'immediatezza il documento identificativo della propria identità, e condannata sia in primo grado sia in appello.
Senonchè con ricorso per cassazione per violazione di legge e vizio di motivazione, il P.G chiedeva l'annullamento della sentenza in realzione ad entrambi i reati: per il primo, evidenziando come non fosse possibile scambiare per medici o paramedici i massaggi praticati sulla spiaggia nè fosse possibile desumere la finalità terapeutica degli stessi dall'uso della canfora, sull'assunto secondo cui le generiche qualità terapeutiche di un prodotto non ne rendono di per sé professionale l'impiego; per il secondo, facendo leva sulla circostanza che il motivo addotto dalla ricorrente in ordine al mancato possesso del documento (l'averlo cioè dimenticato a casa) avesse solo ritardato l'ottemperanza dell'ordine di esibizione.
La sentenza
La Corte ha accolto interamente le censure del ricorrente.
Con riferimento al reato di esercizio abusivo dell'attività di massaggiatrice professionale, dopo aver ricordato le caratteristiche della fattispecie incriminatrice di cui all'art. 348 c.p., ha specificato come l'esercizio abusivo della professione medica o paramedica possa configurarsi soltanto con riguardo a quelle manipolizioni rivolte ad una precipua finalità terapeutica (in quanto tese a dare sollievo a patologie vere e proprie) e che presuppongono un apposito titolo di studio e la relativa abilitazione professionale (di massofisioterapista della riabilitazione), ma non anche con riferimento alle operazioni che invece hanno una mera finalità di benessere o estetica (quali quelli antietà, anticellulite, antistress, ecc.), e in relazione alle quali non è invece necessario il conseguimento di alcun titolo rilasciato da parte dello Stato.
Sulla scorta di tale premessa e della ricostruzione fattuale della vicenda emergente dagli atti, la Corte ha escluso che nel caso di specie potesse configurarsi il reato, sia perchè il cartello appeso sullo zaino che l'imputata teneva sulle spalle assolveva ad una finalità meramente promozionale della propria attività e non era di per sè solo idoneo a mutare la natura oggettiva delle prestazioni manuali da ella erogate sia perchè per le modalità ed il contesto nel quale le manipolazioni venivano praticate (su di un asciugamano o un lettino su di una spiaggia pubblica affollata di turisti), le persone che vi si sottoponevano non potevano seriamente trarne il convincimento che si trattasse di massaggi praticati in modo professionale, da persona avente una specifica qualifica sanitaria e muniti di una reale valenza terapeutica.
Ha soggiunto la Corte che la natura terapeutica dei massaggi non poteva neanche desumersi dalla circostanza che l'imputata utilizzasse per le manipolazioni canfora o olio di lino, trattandosi di prodotti di libero acquisto senza necessità di alcuna prescrizione da parte di un medico.
La Corte ha del pari escluso la sussistenza del reato di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 6, comma 3, osservando come l'interesse tutelato dalla contravvenzione de qua, consistente nell'accertamento e identificazione degli stranieri in Italia, non potesse ritenersi frustrato neppure laddove la prospettazione della dimenticanza a casa dei documenti non si ritenesse (come avevano fatto i giudici di merito) suscettibile di integrare il giustificato motivo previsto dal D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 6, comma 3: ciò in quanto l'imputata non aveva rifutato l'esibizione dei documenti ma li aveva comunque prodotti (sia pure solo presso la Caserma dove erano stati portati da altri) nell'ambito di un contesto accertativo da considerarsi unitario.
(fonte:www.altalex.com)
Sulla scorta di tali argomentazioni la Corte ha disposto l'annullamento senza rinvio in relazione ad entrambi i capi d'imputazione per insussistenza degli stessi.

Niente protezione per lo straniero nonostante l’omosessualità sia punita in patria

La prostituzione gay non è elemento sufficiente per riconoscere protezione allo straniero, nonostante nel suo Paese l’omosessualità sia sanzionata a livello penale (Cassazione, ordinanza n. 8683/20, sez. I Civile, depositata l’8 maggio).

Sul tavolo dei Giudici la vicenda riguardante un giovane cittadino del Senegal che, una volta approdato in Italia, ha chiesto protezione, spiegando di «non voler far ritorno in patria per il timore di subire ritorsioni da parte delle autorità del suo Paese per avere avuto un rapporto sessuale con un uomo per motivi di denaro – comportamento considerato lì reato e punito con una pena detentiva – pur non essendo omosessuale».
Sia in primo che in secondo grado, però, la domanda di protezione viene ritenuta priva di fondamento. Ciò perché da un lato il racconto fatto dallo straniero è ritenuto poco credibile e dall’altro, comunque, «difetta la prova di una persecuzione personale».
In sostanza, non vi sono elementi per ipotizzare «una specifica situazione di vulnerabilità personale» né per presumere «l’esistenza di un potenziale grave danno in caso di ritorno nel Paese d’origine».
Inutile si rivela il ricorso proposto in Cassazione dal cittadino senegalese. Inutile, in particolare, la sottolineatura che «il Senegal sanziona con una pena detentiva il compimento di atti omosessuali» e che ciò rappresenta «un atto di persecuzione».
L’uomo evidenzia che «la previsione di una sanzione penale per gli atti omosessuali costituisce una violazione del diritto fondamentale di vivere liberamente il proprio orientamento sessuale» e spiega che, di conseguenza, è fondato il suo «timore di una persecuzione in patria a causa del proprio comportamento sessuale».
Sacrosanto, quindi, a suo dire, il riconoscimento di protezione da parte dell’Italia in suo favore.
Dalla Cassazione ribattono però che, a parte «la mancanza di credibilità dell’intera vicenda», va considerato che «l’atto sessuale posto in essere dallo straniero appartiene alla sua sfera privata, avendo egli stesso affermato di non essere omosessuale». E questo dettaglio è sufficiente per negare protezione al cittadino senegalese.

giovedì 14 maggio 2020

Il coronavirus fa esplodere la violenza contro le donne: +73% delle chiamate al 1522

In Lazio, Toscana e Liguria gli incrementi più preoccupanti. Il 45% teme per la propria incolumità, cresciute del 10% le violenze fisiche

Chiusa in casa, senza possibilità di fuggire, a due passi da quella violenza sempre pronta a scatenarsi e che ora può contare su un nuovo, crudele alleato: il lockdown. Che la violenza contro le donne potesse venire accentuata dall’isolamento domestico dovuto al coronavirus era cosa che gli operatori del settore temevano. E purtroppo le previsioni sono state confermate: dal 1° marzo al 16 aprile le chiamate al 1522, il numero verde messo a disposizione dal Dipartimento Pari Opportunità per aiutare le vittime di violenza di genere e stalking, sono cresciute del 73% rispetto allo stesso periodo del 2019. Significativo che dal 22 marzo, giorno di inizio del lockdown nazionale, le chiamate abbiano avuto una crescita esponenziale.
Le regioni dove questa crescita è stata più sensibile sono state il Lazio, la Toscana e la Liguria. Nella prima le chiamate sono passate da 6,8 ogni 100.000 abitanti (2019) a 12,4. In Toscana da 4,8 a 8,5 e in Liguria da 4.1 a 7,2. Nel Sud si segnalano Puglia (da 3,2 a 6), Sardegna (da 3,9 a 6,6).
La maggior parte delle richieste è per vittime di violenza (il 40%): si tratta di donne nel 97% dei casi che appartengono a diverse classi di età e sono nella maggior parte dei casi coniugate, segno che la richiesta di aiuto proviene per una violenza di coppia. Alcune donne non denunciano e raccontano alle operatrici che non lo fanno proprio perché le violenze si consumano all’interno di contesti familiari. Oltre una su cinque non lo fa per evitare conseguenze negative che potrebbero generare nel contesto familiare, il 13,4% per paura generica, una su dieci ha il terrore di scatenare una reazione violenta, il 6% per l’incertezza del dopo, mentre il 3,3% non ha fiducia nelle Forze dell’ordine oppure sono state sconsigliate direttamente da queste ultime. Tra le vittime il 2,8% ha ritirato la denuncia e due su cinque torna dal suo maltrattante.
Purtroppo queste violenze non sono sporadiche: tre donne su quattro hanno dichiarato che la violenza dura da anni, mentre solo il 18,6% afferma che è sorta negli ultimi mesi. Quasi una su due (45,3%) denuncia di temere per la propria incolumità. Una paura purtroppo ben riposta se si considera che in questo periodo la violenza di tipo fisico è cresciuta di 10 punti percentuali rispetto al 2019 passando dal 43,4% al 52,7%. E’ cresciuta anche la violenza psicologica passando dal 37,9 al 43,2%.
Va comunque sottolineato che tra il 1° e il 22 marzo le denunce per maltrattamento sono diminuite del 43,6% mentre gli omicidi di donne sono scesi del 33,5% (dell’83,3% quelli da parte del partner).
(fonte:www.lastampa.it)

Cannabis shop, ancora proibizionismo

Infiorescenze e resine restano nel mirino delle Procure: consentito sequestrare l’intero quantitativo messo in commercio da rivenditori al dettaglio. Sfugge al sequestro il “materiale di contorno” (grinder, gas, cartine) salva la deduzione di specifiche ed individuate esigenze probatorie.  
Così la Cassazione con sentenza n. 14735/20, depositata il 13 maggio.

La vicenda processuale. Veniva disposto il sequestro probatorio di più quantitativi di derivati della canapa (infiorescenze e resine) rinvenuti presso un Cannabis shop, provenienti dalle coltivazioni consentite dalla l. n. 242/2016 e recanti un quantitativo di THC (tetraidrocannabinolo) inferiore alla soglia dello 0,6%. A seguito di rigetto della richiesta di riesame del ricorrente ex art. 257 c.p.p. si approda in Cassazione.
Le norme in attrito: la l. n. 242/2016 ed il d.P.R. n. 309/1990. La prima promuove e diffonde l’uso della canapa, purché contenga – art. 4 l. cit. - una percentuale minore di 0,6% di THC e sia funzionale a più finalità – specificamente espresse dall’art. 1 l. cit. - ritenute meritevoli di tutela dal punto di vista agricolo, scientifico ed occupazionale. L’art. 14 del d.P.R. n. 309/1990 – che punisce, fra le altre, l’uso e la commercializzazione delle sostanze stupefacenti - detta criteri per la formazione delle tabelle delle sostanze vietate e stabilisce che per le sostanze indicate nella tabella II – cannabis (foglie e inflorescenze), cannabis (olio), cannabis (resina) - non vanno fatte “distinzioni rispetto alle diverse varietà”.
La sentenza delle Sezioni Unite n. 30475/2019: solo il fine esclude il reato (non la quantità di THC rinvenuta). Oltre le finalità indicate dalla l. n. 242/2016 la sentenza cit. – aderendo ad un orientamento rigorista - ha escluso che legge cit. scrimini o autorizzi la messa in commercio dei derivati della coltivazione, da ritenere ancora vietata dalla disciplina generale del d.P.R. n. 309 del 1990, salve (e non oltre) le specifiche eccezioni indicate dalla l. n. 242 cit.. A nulla rileva, per le Sezioni Unite, il mancato superamento nelle sostanze rinvenute delle percentuali di THC di cui all’art. 4 della l. n. 242/2016.
Il limite delle Sezioni Unite e della Cassazione in commento: l’”offensività” della condotta. In ogni caso – anche di (vietata) commercializzazione – (s)occorre verificare la concreta offensività della condotta ovvero l’idoneità della sostanza a produrre un effetto drogante, cioè l’idoneità di essa a produrre sul suo consumatore effetti psicotropi.
...non l’”offensività” di ogni dose ma dell’intero quantitativo della sostanza rinvenuta. Necessariamente, per i giudici, non può che disporsi il sequestro dell’intero quantitativo da ritenere non frazionabile, dovendo riferirsi per l’accertamento dell’effetto drogante alla percentuale di sostanza allo stato puro ed al numero delle dosi che da essa si possono normalmente ricavare. Non è possibile pretendere dal pubblico ministero alcuna campionatura delle sostanze rinvenute al fine di decidere quale sequestrare.
Il sequestro non si estende al “materiale di contorno”: accendini, grinder, gas cartine. Salvo specifico argomentare sul punto dagli inquirenti, ne sfugge la pertinenza probatoria. Non sono consentite formule di stile, occorre invero puntuale specifica delle finalità probatorie gravanti su materiale accessori al consumo di stupefacenti. Sul punto i giudici accolgono il ricorso.

martedì 12 maggio 2020

Maltrattamenti in famiglia: la condotta violenta acquisisce rilevanza penale se reiterata nel tempo

Il delitto di maltrattamenti in famiglia costituisce un reato necessariamente abituale, che si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, che acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo.
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con sentenza n. 14417/20 depositata l’11 maggio.

L’imputato ricorre per cassazione avverso la sentenza con cui la Corte d’Appello ha confermato la sua condanna per il reato di maltrattamenti in danno alla moglie. In particolare, l’imputato lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al ritenuto requisito di abitualità della condotta, in quanto risultano accertati due soli episodi vessatori nell’arco di due mesi, in un contesto di reciproca conflittualità coniugale.
Con riferimento alla censura sulla ritenuta integrazione del delitto di maltrattamenti in famiglia, la Cassazione ricorda che il delitto di cui si discute «costituisce un reato necessariamente abituale, che si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, i quali isolatamente considerati potrebbero anche essere non punibili ovvero non perseguibili». Tali fatti, dunque, «acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo».
Il delitto, prosegue la Corte, «si perfeziona allorché si realizza un minimo di tali condotte collegate da un nesso di abitualità e può formare oggetto anche di continuazione ex art. 81, comma 2, c.p., come nel caso in cui la serie reiterativa sia interrotta da una sentenza di condanna ovvero da un notevole intervallo di tempo tra una serie di episodi e l’altra».
Nel caso di specie, la Corte territoriale avrebbe dovuto illustrare le ragioni per cui un unico episodio violento indicato come commesso nell’intervallo temporale oggetto della contestazione possa ritenersi espressione di un comportamento reiterato e sistematico, idoneo a ingenerare un perdurante stato di prostrazione fisica e psichica della moglie.
Per tali motivi, la Cassazione annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello per un rinnovato accertamento del requisito dell’abitualità delle condotte.

lunedì 11 maggio 2020

Inquilini e proprietari possono accordarsi per ridurre il canone di affitto commerciale a causa del coronavirus

Preliminarmente, occorre precisare che le disposizioni intervenute in tema di emergenza da coronavirus, attualmente, non prevedono alcuna modifica della disciplina dei contratti di locazione. 
Pur in assenza di una specifica pattuizione normativa al riguardo, ai fini di un apprezzabile equilibrio contrattuale, l’obbligato conduttore potrebbe chiedere al locatore una riduzione della sua prestazione ovvero una modificazione delle modalità di esecuzione, sufficienti a ricondurla ad equità. In caso di positivo riscontro, entrambe le parti dovrebbero sottoscrivere apposito accordo. 

Per redigere l’accordo e ottenere, quindi la riduzione del canone di locazione, occorre compilare il Modulo 69 (scaricabile presso il sito dell’Agenzia dell’Entrate). Nell’accordo dovranno essere indicate le seguenti informazioni: i dati del locatore e dell’inquilino; il canone annuo stabilito inizialmente; l’ammontare ridotto sul quale ci si è accordati; il numero di mesi per i quali l’inquilino pagherà un importo più basso.  
Un altro aspetto che deve essere posto con chiarezza è l'oggetto dell'accordo: riduzione temporanea del canone e poi ripresa del versamento del precedente importo; (oppure) sospensione temporanea del pagamento del canone (ad esempio per alcuni mesi).
La riduzione è ammessa per tutti i contratti di locazione, sia per quelli ad uso abitativo sia per quelli ad uso commerciale indipendentemente dalla durata del contratto di locazione o dal regime fiscale di tassazione ordinaria o cedolare secca. Inoltre, non sono previste spese di registrazione in quanto l’atto è esente da bollo come previsto dal d.l. n. 133/2014.  
Oltre a ridurre il carico di spese per il locatario, l’accordo basato sul Modulo 69, avrà dei vantaggi anche per i proprietari di casa che pagheranno le imposte solamente sulla somma effettivamente riscossa e indicata sull’accordo. L’accordo di riduzione del canone di locazione deve essere redatto in forma scritta, da registrare all’Agenzia delle Entrate entro 30 giorni. A tal proposito, a causa dell’emergenza Covid-19, è stato concesso di inviare il Modello 69 e la scrittura privata dell’accordo, (scansionato e sottoscritto) anche via mail all’Ufficio tributario, il quale provvederà a registrarlo. In ogni caso è anche possibile attendere la riapertura degli uffici in quanto l’Agenzia delle Entrate (circ. 3 aprile 2020, n. 8/E) ha previsto lo slittamento dei termini a causa, facendo riferimento anche alla registrazione degli atti.

sabato 9 maggio 2020

Tradimento della moglie non giustifica il tentato omicidio

Non può applicarsi l'attenuante della provocazione per il reato di tentato omicidio commesso dal marito nei confronti della moglie che lo aveva tradito (Sent. n. 4373/2020 Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione).

Il caso vedeva un uomo essere stato condannato per il reato di tentato omicidio commesso ai danni della moglie, sequestro di persona, maltrattamenti in famiglia e minaccia grave nei confronti del compagno della moglie. Nella fattispecie, l'uomo aveva trascinato la moglie per i capelli fino alla stanza da bagno, le rovesciava acido muriatico sul volto e sul capo e tentava di farle ingerire la sostanza tossica contenuta nella bottiglia e, dopo avere preso un coltello, l'aveva attinta al volto, agli zigomi e alle palpebre.
La condotta si arrestava solo per l'intervento dei vicini, dopo che i figli della coppia erano riusciti ad aprire la porta di casa. All'imputato venivano riconosciute le aggravanti della premeditazione, di avere agito con crudeltà ed alla presenza dei figli minori, mentre venivano escluse le attenuanti generiche e la provocazione.
Avverso la decisione di merito ricorre per Cassazione il marito lamentando la sussistenza dell'omicidio tentato posto che, secondo il ricorrente, la condotta era finalizzata solo a spaventare la moglie per punirla ed indurla ad interrompere la relazione extraconiugale, dichiarando di avere agito con dolo d'impeto per interrompere detta relazione e di avere usato la violenza solo per spaventarla e punirla.
Sempre per l'imputato, la sua reazione era il frutto di una carica di esasperazione accumulata nel tempo a causa della relazione extraconiugale della moglie, che era esplosa al rientro a casa della donna, sapendo che detto rapporto era ancora in atto.
Per quanto attiene all'invocato riconoscimento della attenuante della provocazione in favore del ricorrente, che si legherebbe allo stato d'ira indotto dalla relazione extraconiugale di costei, i giudici di merito hanno rigettato la richiesta spiegando che la condotta aveva tratto scaturigine da un contesto di maltrattamenti già in atto da tempo verso la donna, che era impossibilitata a separarsi dal marito stante la ferma e minacciosa opposizione di quest'ultimo.
La donna era, quindi, stata obbligata ad interrompere la relazione extraconiugale e lo stato d'ira nasceva in una cornice del tutto particolare e non si generava per effetto di un fatto ingiusto altrui, che legittima l'applicazione dell'attenuante; l'azione indotta dall'ira derivava, piuttosto, dal fatto che la donna aveva disatteso la condotta costrittiva dell'uomo, che pretendeva di affermare valori contrari ai principi di parità e di dignità.
Trattasi di una motivazione adeguata che ha correttamente escluso l'invocata provocazione, non potendo configurarsi l'attenuante quando il fatto che si desume ingiusto sia ritenuto tale dal solo agente e non sia apprezzabile con i medesimi crismi nella valutazione generalizzata.
“L'aver ammesso di amare un altro uomo e l'essersi trovata la donna nell'impossibilità di interrompere la convivenza coniugale, proprio per l'atteggiamento padronale e costrittivo dell'uomo, non può integrare a favore del marito l'elemento strutturale della circostanza attenuante della provocazione, avendo inciso l'atteggiamento di costui sul diritto personale della donna di non continuare una convivenza matrimoniale, essendo venuta meno l'affectio maritalis”.
(fonte: www.altalex.com)

Cannabis, coltivarla in casa per uso personale non è reato

Non è punibile chi coltiva cannabis in casa per uso personale qualora, l'esiguità del numero di piantine e prodotto e i mezzi usati, consentano di escludere lo spaccio. E' quanto hanno deciso le Sezioni Unite Penali della Cassazione con la sentenza del 16 aprile 2020, n. 12348.

Il caso
Il caso vedeva un uomo essere condannato alla pena di un anno di reclusione e tremila euro di multa per avere coltivato in casa due piantine di cannabis con una riserva di 11 grammi di sostanza stupefacente.
La decisione
Occorre precisare che il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice è da individuare nella salute, individuale e collettiva, ovvero un valore di rilievo costituzionale che giustifica una risposta sanzionatoria anticipata per il caso di coltivazione di stupefacenti. Ed è proprio la prevedibilità della potenziale produttività uno dei parametri che consente di differenziare la coltivazione penalmente rilevante da una coltivazione modestissima.
Secondo gli ermellini, il reato di coltivazione di stupefacenti è individuabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente.
Al tempo stesso, però, debbono ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all'ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell'ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all'uso personale del coltivatore.
La Suprema Corte precisa, altresì, che esiste una risposta sanzionatoria graduata della attività di coltivazione di piante di marijuana; sono lecite e non punibili, per mancanza di tipicità, le coltivazioni domestiche minime effettuate con strumenti e modalità rudimentali da cui si possa ricavare una quantità minima di sostanza drogante destinata ad un uso strettamente ed esclusivamente personale. E' invece soggetta a sanzione amministrativa, prevista dall'art. 75 del d.p.r. n. 309/1990, la detenzione di sostanza stupefacente destinata in via esclusiva al consumo personale anche se ottenuta con una coltivazione domestica lecita. Ovviamente, alla coltivazione di piante penalmente illecita è possibile applicare l'art. 131-bis c.p., con esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto. Ma alla coltivazione penalmente illecita di piante è possibile applicare l'art. 73, comma 5, del d.p.r. n. 309/1990, secondo il quale, salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque commette uno dei fatti previsti dall'articolo che, per i mezzi, le modalità o le circostanze dell'azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità, è punito con la pena della reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da euro 1.032 a euro 10.329.
Per tale motivo, non costituisce reato l'attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica destinate ad uso personale. In questo modo viene superata l'equiparazione tra coltivazione in senso tecnico-agraria e domestica, effettuata in passato sempre dalla Cassazione con la sentenza n. 28605/2008, secondo la quale era da configurare come reato qualsiasi coltivazione non autorizzata di piante dalle quali si potessero estrarre sostanze stupefacenti, anche se desinate all'autoconsumo.
(fonte:www.altalex.com)

Vietata a scuola anche la violenza blanda sugli alunni: maestra condannata

Nuovo stop dai Giudici all’impiego a scuola dei vecchi metodi educativi, quelli cioè che contemplano, secondo una vecchia scuola di pensiero, anche l’utilizzo della violenza, seppure in forma blanda, sugli alunni.
Esemplare la condanna che ha colpito una maestra di scuola materna, ritenuta colpevole di maltrattamenti – e punita con 2 anni e 10 mesi di reclusione –, alla luce delle condotte tenute in classe nei confronti dei piccoli allievi, condotte caratterizzate non solo da violenze fisiche ma anche da violenze psicologiche, non annoverabili, di certo, secondo i Giudici, tra gli strumenti educativi o correttivi a disposizione dell’insegnante (Cassazione, sentenza n. 13709/2020, Sezione Sesta Penale, depositata il 6 maggio).

Sofferenze. Scenario della triste vicenda è una scuola materna in Puglia. A dare il ‘la’ al caso giudiziario sono le sofferenze manifestate da alcuni piccoli alunni, sofferenze che insospettiscono i genitori. Il passo successivo è l’identificazione della persona responsabile coi propri comportamenti dei malesseri psico-fisici che hanno colpito i bambini: sotto accusa finisce una insegnante. E il quadro probatorio, relativo a ben due annate scolastiche, viene ritenuto sufficiente, sia in primo che in secondo grado, per arrivare a una condanna: la maestra viene ritenuta colpevole di violenza privata e maltrattamenti.
Il difensore della donna prova però a ridimensionarne la condotta, mirando a vedere riconosciuta l’ipotesi del mero abuso dei mezzi di correzione.
Per il legale, innanzitutto, è in discussione «il requisito della abitualità delle condotte maltrattanti» che «sarebbero state solamente tre per ognuno dei due anni scolastici specificamente considerati, e perciò episodiche» e che inoltre «avrebbero riguardato soltanto alcuni alunni», non potendo, quindi, creare «una situazione di disagio generalizzato nella classe».
Violenza. Per i Giudici della Cassazione, però, la linea difensiva è fragile, poiché «si limita a prendere in considerazione soltanto le condotte espressive di violenza fisica nei confronti degli alunni, mentre «ai fini del reato di maltrattamenti assume rilevanza ogni comportamento prevaricatore e vessatorio, quali possono essere anche la grave ingiuria, l’umiliazione, la minaccia, le manifestazioni d’irosa aggressività verbale», tutti contegni reiteratamente tenuti dalla maestra nel corso della sua attività d’insegnamento all’indirizzo dei suoi alunni nel corso di 2 anni scolastici.
Per quanto concerne poi l’obiezione difensiva centrata sul fatto che le condotte in discussione «avrebbero riguardato soltanto alcuni bambini e non la generalità della classe», i magistrati tengono a rilevare innanzitutto che «la norma incriminatrice, pur quando si tratti di condotte poste in essere nei confronti non di familiare ma di persona affidata all’agente per ragioni di educazione od istruzione, non richiede necessariamente la pluralità dei soggetti passivi».
Ciò che conta, però, aggiungono i magistrati, è che non ci si può limitare a prendere in considerazione «le sole condotte espressive di vis physica», ma bisogna considerare anche «le ingiurie, le aggressioni verbali e le minacce, che invece risultano essere state rivolte alla generalità degli alunni». E merita di essere tenuta in conto anche la cosiddetta ‘violenza assistita’, «la cui incidenza ai fini dell’instaurazione di un diffuso e persistente clima di prevaricazione e di conseguenti sofferenza, prostrazione, malessere nei destinatari delle condotte è particolarmente rilevante, laddove questi ultimi siano dei bambini in età prescolare e sussista, perciò, un’evidente ed enorme asimmetria relazionale» rispetto alla figura dell’insegnante.
Si amplia, quindi, la platea dei soggetti passivi delle singole condotte maltrattanti compiute dalla maestra, condotte che, secondo i giudici, «non sono state episodiche ma, piuttosto, hanno rappresentato manifestazioni di uno sperimentato modo di agire, del metodo educativo, ossia, praticato dalla donna».
A rendere ancora meno difendibile la posizione della maestra è infine la constatazione delle «specifiche e non episodiche manifestazioni di disagio psicologico in alcuni dei bambini, connesse ai comportamenti tenuti nei loro confronti dalla maestra e sufficientemente dimostrative dell’avvenuta instaurazione di un clima di perdurante vessazione e correlata afflizione» che «certamente ha riguardato alcuni bambini» ma in sostanza ha coinvolto l’intera classe.
Respinta, quindi, la visione difensiva secondo cui sarebbe stato più logico sanzionare la maestra per semplice «abuso dei mezzi di correzione o di disciplina».
Per i Giudici della Cassazione «se si volesse seguire il ragionamento della difesa, dovrebbe ritenersi che condotte a componente violenta, fisica o psicologica, quantunque minima, rientrerebbero tra i mezzi di correzione o di disciplina consentiti, e che, soltanto qualora sia superato il coefficiente di aggressività permesso, la condotta» sarebbe punibile a livello penale. Ma questa impostazione è erronea poiché, tengono a sottolineare i magistrati, ««nessuna forma di violenza può farsi rientrare tra i mezzi correttivi legittimi». Di conseguenza, «non è possibile sostenere che l’impiego di violenza – fisica e psicologica –, seppur in forma blanda, sia annoverabile tra gli strumenti educativi o correttivi di cui l’insegnante od altre figure analoghe possano legittimamente avvalersi, incorrendo essi nella sanzione penale soltanto laddove ne facciano abuso».
Definitiva, quindi, la condanna per la maestra, che vede però assorbito il capitolo relativo alla violenza privata in quello riguardante i maltrattamenti, e viene ora sanzionata con una pena fissata in 2 anni e 10 mesi di reclusione.

venerdì 8 maggio 2020

Pioggia intensa e strada bagnata: non moderare la velocità è colpa grave

Pioggia intensa e manto stradale viscido rendono assai grave la condotta dell’automobilista che tiene una velocità eccessiva, non prudente e nettamente superiore a quella prevista dal limite – 90 chilometri orari – presente su quel tratto di strada.
Ciò rende logica la condanna per il drammatico incidente che provoca alla fine il decesso del passeggero seduto di fianco al guidatore. (Cassazione, sentenza n. 13857, sez. IV Penale, depositata il 7 maggio).

Scarpata. Scenario del fattaccio è una strada della Capitale. Una notte del gennaio 2006 una vettura percorre a quasi 120 chilometri orari un tratto rettilineo dove la velocità massima consentita è di 90 chilometri orari: a rendere la situazione ancora più complicata, poi, anche «le pessime condizioni atmosferiche, con pioggia intensa e manto stradale bagnato» e «la mancanza di illuminazione».
A spingere il conducente – affiancato da un passeggero – a premere il piede sull’acceleratore anche lo scarso traffico.
L’eccessiva velocità si rivela però fatale: l’automobilista «perde il controllo della sua autovettura e va a collidere con il guard-rail posto alla sua destra, scavalcandolo» e così «il veicolo prosegue la sua marcia nella scarpata adiacente la strada, terminando la sua corsa, dopo circa venti metri, contro un albero».
Le conseguenze peggiori sono per il passeggero che «perde la vita nel violentissimo urto».
Per il conducente scatta il processo per omicidio colposo, processo che si conclude con una condanna sia in primo che in secondo grado: per i giudici di merito egli ha «cagionato la morte del passeggero» a seguito della «violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale, la morte di Angelo Cecconi.
Decisivo il dato relativo alla velocità – 118 chilometri orari – del veicolo. Evidente, di conseguenza, secondo i giudici, la responsabilità del conducente per «l’imprudenza di non avere moderato l’andatura, nonostante le pessime condizioni ambientali, superando, invece, il limite di velocità massimo – 90 chilometri orari – previsto in quel tratto di strada».
Imprudenza. Inutili in Cassazione le obiezioni proposte dal difensore dell’automobilista. Inutili le contestazioni sul dato della eccessiva velocità. Inutile l’ipotesi di un presunto guasto tecnico che avrebbe provocato la perdita del controllo da parte del conducente. Inutile, infine, il richiamo alla «cattiva manutenzione del guard-rail posto alla destra della sede stradale» e che «risultato già flesso verso il basso e quindi avente l’effetto di fungere da rampa per lo scavalcamento e la caduta nella scarpata» avrebbe, secondo il legale, causato il drammatico incidente.
Per i giudici del ‘Palazzaccio’, invece, è emerso in modo chiaro che «il conducente, viste le pessime condizioni ambientali, avrebbe comunque dovuto tenere una velocità molto moderata, ben al di sotto del limite massimo di 90 chilometri orari». Invece, nonostante pioggia intensa e asfalto bagnato, egli ha tenuto una condotta imprudente che ha causato «la perdita di controllo del mezzo», dando il ‘la’ all’incidente che ha portato alla morte del passeggero.
Per quanto concerne, infine, «la asserita inidoneità del guard-rail, frutto di cattiva manutenzione», ci si trova di fronte a un elemento che, secondo i giudici, può avere avuto al massimo «una incidenza concausale», non sufficiente a cancellare il nesso tra la condotta di guida dell’automobilista e la dinamica dell’incidente.

Requisiti minimi della strada per poter posizionare l'autovelox

Le strade urbane di scorrimento, sulle quali possono essere installati dispositivi di controllo a distanza previa individuazione del prefetto, sono definite dall’art. 2, comma 3, c.d.s. come «strada a carreggiate indipendenti o separate da spartitraffico, ciascuna con almeno due corsie di marcia, ed una eventuale corsia riservata ai mezzi pubblici, banchina pavimentata a destra e marciapiedi, con le eventuali intersezioni a raso semaforizzate; per la sosta sono previste apposite aree o fasce laterali estranee alla carreggiata, entrambe con immissioni ed uscite concentrate».
Lo ha ribadito la Suprema Corte con la sentenza n. 8635/20, depositata il 7 maggio.

Il caso. Un automobilista impugnava il verbale di contestazione della violazione dell’art. 142, comma 8, d.lgs. n. 285/1992 per eccesso di velocità, rilevato tramite autovelox posizionato sulla strada, individuata dal Prefetto di Prato ai sensi dell’art. 201, comma 1-bis, c.d.s.. Sosteneva invece l’automobilista che la strada in questione non avrebbe le caratteristiche di strada urbana di scorrimento previste dall’art. 2, comma 3, c.d.s. con conseguente illegittimità della deroga al principio della contestazione immediata della violazione. Il Giudice di Pace rigettava l’opposizione, decisione confermata anche dal Tribunale. L’automobilista ha dunque proposto ricorso per cassazione.
Strade urbane di scorrimento. Il ricorrente lamenta violazione di legge per aver il Giudice di merito affermato di poter ravvisare la sussistenza di strada urbana di scorrimento anche in assenza di corsia riservata ai mezzi pubblici, banchina con marciapiede e intersezioni a raso semaforizzate, ritenendo sufficienti le due carreggiate indipendenti o separate da spartitraffico invalicabile.
Il motivo risulta fondato.
Come già affermato dalla giurisprudenza di legittimità, in virtù della ratio legis di cui la l. n. 168/2002 (recante disposizioni urgenti per garantire la sicurezza nella circolazione stradale) il legislatore ha inteso inserire le strade urbane di scorrimento di cui all’art. 2, comma 3, lett. d), c.d.s. (autostrade e strade extraurbane) nel novero dei percorsi sui quali è ammesso l’uso di dispositivi di controllo a distanza. L’inserimento non è comunque automatico, essendo compito del prefetto quello di selezionare tra le strade urbane di scorrimento quelle in cui si rende necessario il controllo a distanza sulla base della valutazione degli elementi espressamente indicati nell’art. 4 d.l. n. 121/2002, tra cui il tasso di incidentalità, le condizioni strutturali e plano-altimetriche, il traffico sulla strada.
Sulla base di tale premessa, richiamando il testo dell’art. 2, comma 3, c.d.s. che definisce le strade urbane di scorrimento, il Collegio sottolinea come gli elementi della corsia riservata ai mezzi pubblici e delle intersezioni semaforiche siano “eventuali”, mentre sono elementi strutturali necessari la banchina pavimentata a destra, il marciapiede e le aree di sosta. In conclusione, la Corte accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale

martedì 5 maggio 2020

Apre il cancello, il cane esce in strada e aggredisce un uomo: padrona condannata

Confermata la responsabilità penale per il reato di lesioni colpose. Evidente per i giudici l’imprudenza compiuta dalla donna, che ha consentito al proprio cane, di grossa taglia, di uscire facilmente in strada e di aggredire un uomo che andava a spasso col suo cagnolino (Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza n. 13464/20; depositata il 30 aprile).

Consentire al proprio cane – di grossa taglia – una facile uscita in strada può costare una condanna penale. A constatarlo una donna, ritenuta colpevole per l’aggressione compiuta dal suo amico a quattro zampe ai danni di un uomo che andava a spasso col proprio cagnolino, e punita con 800 euro di multa.
Il comportamento da lei tenuto è considerato dai giudici testimonianza esemplare di una scarsa diligenza nella custodia del grosso animale. (Cassazione, sentenza n. 13464/20, sez. IV Penale, depositata il 30 aprile).
Cancello. Decisivi per il Giudice di pace i dettagli dell’aggressione perpetrata dal cane ai danni di un uomo. In sostanza, si è potuto appurare che una mattina la padrona del grosso animale «ha aperto il cancello elettrico della sua casa» e non si è resa conto che «il cane, di grossa taglia, era subito uscito dalla recinzione» per poi «aggredire la persona offesa – causandole una lesione alla coscia sinistra – e il suo cagnolino».
Questa disattenzione è ritenuta sufficiente per condannare la donna, a cui viene contestato di non avere provveduto alla «adozione delle cautele necessarie alla custodia» dell’animale.
Custodia. Col ricorso in Cassazione, però, la padrona del cane prova a ridimensionare la propria condotta, puntando soprattutto sul mancato accertamento della «effettiva pericolosità» del suo quadrupede e sulla necessaria valutazione della «prevedibilità in concreto circa la condotta aggressiva del cane».
Per i giudici del ‘Palazzaccio’, però, è sufficiente l’analisi dei fatti per confermare la condanna della donna.
Nessun dubbio, in sostanza, sul «rapporto di causalità tra la condotta tenuta dalla padrona del cane e l’evento addebitato». Evidente, poi, anche la colpa della donna, soprattutto tenendo presente ella dovevo occuparsi di un cane di grossa taglia, e invece non aveva adottato «le debite cautele nella custodia dell’animale» che «era uscito dalla recinzione» solo grazie alla «apertura del cancello elettrico» operata dalla donna.
A inchiodare la padrona, quindi, «l’obbligo di custodia degli animali», obbligo che sorge ogni qualvolta sussista «una relazione di semplice detenzione, anche solo materiale o di fatto, tra l’animale e una determinata persona». E non a caso, aggiungono i giudici, «tale posizione di garanzia prescinde dalla nozione di appartenenza e risulta irrilevante il dato formale relativo alla registrazione dell’animale all’anagrafe canina o all’apposizione di un microchip di identificazione».
Per fare chiarezza, poi, i giudici ribadiscono che «in materia di lesioni colpose si è specificato che la posizione di garanzia assunta dal detentore di un animale impone l’obbligo di controllarlo e di custodirlo adottando ogni cautela per evitare e prevenire le possibili aggressioni a terze persone anche all’interno dell’abitazione», e in questa ottica va tenuto presente che «la pericolosità del genere animale non è limitata esclusivamente ad animali feroci ma può sussistere anche in relazione a quelli domestici o di compagnia come il cane, di regola mansueto, così da obbligare l’adozione di tutte le possibili cautele necessarie a prevenire le prevedibili reazioni dell’animale ed idonee a neutralizzare il rischio di eventi pregiudizievoli per le terze persone, prevedibili alla stregua delle norme di comune esperienza».
E, come emerso anche da questa vicenda, «al fine di escludere la colpa rappresentata dalla mancata adozione delle debite cautele nella custodia di animali, non è sufficiente che esso si trovi in un luogo privato e recintato ma è necessario che tale luogo abbia caratteristiche idonee ad evitare che l’animale possa sottrarsi alla custodia e al controllo, superare la recinzione, raggiungere la pubblica via ed arrecare danno a terze persone».

Responsabilità professionale medica, stop alle "liti temerarie" contro i medici

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