sabato 29 ottobre 2016

Ferrara: tutti assolti i 22 “fantasmi” dell’ex Amga-Agea

Erano 22 “fantasmi” sono sotto processo da tre anni, ieri sono stati assolti perché il fatto non sussiste, non sono mai esistiti i reati di invasione e occupazione abusiva di proprietà altrui “scoperti” in un blitz del 2 dicembre di oltre 3 anni fa nelle palazzine ex Amga nella zona di Foro Boario.
Ieri il giudice Franco Attinà ha assolto (dovuto assolvere) tutti i 22 imputati, stranieri, un melting pot di clandestinità, tunisini, romeni, moldavi, marocchini. Un processo questo che ha messo in luce le “armi” spuntate della giustizia e delle operazioni di ordine pubblico di questi tipo, o ancor peggio le indagini che dovrebbero seguire questi blitz: perché se è vero che i 22 furono trovati all’interno non è stata portata negli accertamenti e al processo la prova dimostrato che avessero invaso e occupato gli stabili, stabilmente e non occasionalmente: dunque vanno assolti. Cavilli cavillosi, eccessivamente, è vero, come rileva uno dei 22 avvocati d’ufficio impegnati nelle difese di questo processo, a vuoto: Emiliano Mancino, al di là del risultato processuale (l’assoluzione ottenuta) si sofferma proprio sul costo di questo processo, inutile, anche perché durato così tanto in attesa di una possibile depenalizzazione del reato, attesa ma mai arrivata. «Queste operazioni - riflette ad alta voce l’avvocato Mancino - andrebbero portate a termine con indagini ad hoc, perché contrariamente come accaduto hanno l’epilogo di questo processo che ha portato ad una spesa per la giustizia importante e un costo per la comunità». Insomma risorse e soldi sono stati impiegati per nulla: per processare tra l’altro dei “fantasmi”, persone che dopo il riconoscimento iniziale del blitz del dicembre 2013, proprio perché clandestini e precari, sono sempre stati irreperibili. Resta, infatti dal punto di vista sostanziale un fatto che dopo oltre 3 anni, la macchina della giustizia, ha impiegato risorse, tempo e avvocati per un processo se non inutile del tutto virtuale.

Fonte: www.lanuovaferrara.gelocal.it/Tutti assolti i 22 “fantasmi” dell’ex Amga - Cronaca - La Nuova Ferrara

mercoledì 26 ottobre 2016

Aggravante della crudeltà compatibile con il dolo d'impeto

Il dolo d'impeto, designando un dato meramente cronologico, non è incompatibile con la circostanza aggravante della crudeltà, di cui all'art. 61, primo comma, n. 4, c.p. Lo hanno stabilito le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione con la sentenza del 29 settembre 2016, n. 40516.
Con la pronuncia in commento le Sezioni Unite si sono interrogate “se avuto riguardo agli elementi costitutivi dell'aggravante della crudeltà, la modulazione dell'elemento psicologico del delitto, nella forma del dolo d'impeto, abbia influenza sulla configurabilità della circostanza in questione”.
Secondo consolidata giurisprudenza, l'aggravante in commento è di natura soggettiva, sebbene essa chiami in causa particolari modalità dell'azione le quali, però, rilevano più che per la concreta afflittività della condotta tipica, per il contrassegno di spietatezza che conferiscono, nel complesso, alla volontà illecita manifestatasi nel delitto.
“E' la perversità dell'intento che, al fondo, contrassegna la figura di cui si parla. Tale atteggiamento di gratuita eccedenza, naturalmente, è intrinsecamente volontario. Esso può essere definito doloso, ma con la precisazione che non si fa qui riferimento al dolo d'evento, ma se ne recuperano le categorie, i tipi, per più immediata ed agevole esplicazione del pensiero e catalogazione dei moti interiori entro schemi noti al lessico giuridico”.
La giurisprudenza di legittimità sovente si è espressa nel senso della compatibilità tra l'aggravante in esame e il dolo d'impeto (Cass. pen., Sez. I, 29 gennaio 2008, n. 12680). Si è detto che la finalità di arrecare inutili sofferenze non è un tratto essenziale dell'aggravante, essendo sufficiente la volontarietà degli atti posti in essere. La normativa non richiede che si tratti di reato premeditato o preordinato e che l'uso della crudeltà o di sevizie non assume una diversa connotazione giuridica solo perché posto in essere a seguito di una determinazione coeva o immediatamente precedente rispetto alla condotta esecutiva del reato (Cass. pen., Sez. I, 2 luglio 1982, n. 435).
Tale soluzione è quella condivisa dalle Sezioni Unite, posto che è ben possibile che un delitto maturato improvvisamente si estrinsechi in forme che denotano efferatezza e brutalità e che l'art. 61, n. 4, c.p., non caratterizza assolutamente la circostanza in modo che postuli una protratta ponderazione in ordine alle modalità di aggressione.

Fonte: www.altalex.com/Aggravante della crudeltà compatibile con il dolo d'impeto | Altalex

Lesioni e invalidità permanenti: solo i medici legali possono accertarle

La Corte di Cassazione ribadisce il ruolo esclusivo dei medici legali nella valutazione dei postumi da sinistri, interpretando le disposizioni contenute ai commi 3-ter e 3-quater dell’art. 32, d.l. n. 1/2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 27/2012, le quali, per lo stesso giudice, devono essere lette in correlazione alla necessità, predicata dagli artt. 138 e 139 cod. ass., che il danno biologico sia “suscettibile di accertamento medico-legale”, esplicando entrambe le norme i criteri scientifici di accertamento e valutazione del danno biologico tipici della medicina-legale, conducenti ad una “obiettività” dell’accertamento, che riguardi sia le lesioni, che i relativi postumi qualora esistenti. Nei fatti, una donna aveva convenuto in giudizio, dinanzi al Giudice di pace, la proprietaria di un veicolo e la relativa compagnia di assicurazioni, al fine di sentirle condannare al risarcimento dei danni arrecati alla propria autovettura, e delle lesioni patite, a seguito di un sinistro stradale.
Il Tribunale, in secondo grado, accoglieva parzialmente le doglianze della danneggiata e, in riforma della sentenza impugnata, dichiarava l’esclusiva responsabilità, ai sensi dell’art. 2054, comma  III c.c., della proprietaria del veicolo per la verificazione dell’incidente, e altresì condannava la di lei assicurazione al pagamento, in favore dell’attrice, della somma risarcitoria di circa curo 500,00, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali.
Il giudice di secondo grado confermava, poi, seppur con differente motivazione, il capo della decisione impugnata con cui era stata respinta la domanda di risarcimento dei danni alla persona patiti dall’attrice, in quanto, stante l’applicabilità, nella specie, della norma dettata dall’art. 32, comma 3-quater, del d.l. n. 1/2012, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 27/2012, le “affezioni asintomatiche di modesta intensità non suscettibili di apprezzamento obiettivo clinico riscontrate all’infortunata” non erano state dimostrate “con le rigorose modalità prescritte ex lege”.
La donna adiva quindi il giudice di legittimità, asserendo che, in base al presupposto che le lesioni personali patite dalla stessa ricorrente nel sinistro non erano state accertate visivamente o strumentalmente ai sensi dell’art. 32 del d.l. n. 1/2012, modificativo dell’art. 139 del d.lgs. n. 209 del 2005, il Tribunale avrebbe erroneamente respinto la relativa domanda risarcitoria, atteso che le diposizioni dettate dalla citata normativa in materia di riscontro medico-legale delle lesioni di lieve entità non possono trovare applicazione con riferimento allo specifico giudizio, già in corso alla data della relativa entrata in vigore.
In ogni caso, le lesioni patite da essa attrice erano state accertate “visivamente come ritiene la legge” dal sanitario di guardia al Pronto Soccorso e ciò, diversamente dalla sospetta lesione ossea, non accertata strumentalmente, ma neppure oggetto di richiesta risarcitoria, limitata al danno biologico temporaneo e non già permanente. Secondo la tesi difensiva, unitamente al danno biologico temporaneo il giudice di appello avrebbe dovuto liquidare anche il danno morale.
La Cassazione condivide la tesi esposta della ricorrente, puntualizzando che “Il danno alla persona per lesioni di lieve entità di cui all’articolo 139 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, è risarcito solo a seguito di riscontro medico legale da cui risulti visivamente o strumentalmente accertata l’esistenza della lesione”.
Come precisato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 235/2014, la citata norma, avente ad oggetto le modalità di riscontro medico-legale delle lesioni di lieve entità a seguito di sinistro derivante dalla circolazione stradale, unitamente a quella del precedente comma 3-ter (modificativa del predetto art. 139 cod. ass.) concernente il danno biologico permanente (e il cui risarcimento non potrà aver luogo ove le lesioni di lieve entità “non siano suscettibili di accertamento clinico strumentale obiettivo”), “in quanto non attinenti alla consistenza del diritto, bensì solo al momento successivo del suo accertamento in concreto, si applicano ... ai giudizi in corso (ancorché relativi a sinistri verificatisi in data anteriore alla loro entrata in vigore)”.
La prima norma riguarda il danno biologico permanente, la seconda quello temporaneo, ed entrambe risultano volte a stabilire la sussistenza ed, eventualmente, la consistenza del danno alla persona e, dunque, ad esse è tenuto il giudice nel momento stesso in cui decide sul punto. Sono state condivise anche le doglianze che impugnano la ratio decidendi della sentenza di appello nella parte ove aveva escluso che la ricorrente avesse fornito la prova, secondo le “rigorose modalità prescritte ex lege”, delle lesioni lievi, di carattere non permanente, subite, in quanto ritenute “non suscettibili di apprezzamento obiettivo clinico”. Invero, il comma 3-quater dell’art. 32, come il comma 3-ter, sono da leggere in correlazione alla necessità, predicata dagli artt. 138 e 139 cod. ass., che il danno biologico sia “suscettibile di accertamento medico-legale”, esplicando entrambe le norme i criteri scientifici di accertamento e valutazione del danno biologico tipici della medicina-legale (ossia il visivo-clinico-strumentale, non gerarchicamente ordinati tra loro, né unitariamente intesi, ma da utilizzarsi secondo le leges artis), siccome conducenti ad una “obiettività” dell’accertamento stesso, che riguardi sia le lesioni, che i relativi postumi (se esistenti).
Il giudice di appello è quindi incorso in un errore di diritto, escludendo la risarcibilità del danno biologico temporaneo in favore della ricorrente, nonostante che detto referto medico avesse diagnosticato “contusioni alla spalla, al torace e alla regione cervicale guaribili in 7 giorni”, le quali lesioni, dunque, non potevano essere ritenute, di per sé, “affezioni asintomatiche di modesta intensità non suscettibili di apprezzamento obiettivo clinico” alla stregua dell’art. 32, comma 3-quater, del d.l. n. 1/2012.

Fonte: www.altalex.com//Lesioni e invalidità permanenti: solo i medici legali possono accertarle | Altalex

Condominio, assemblea valida se l'acquirente non ha comunicato il passaggio di proprietà

L'acquirente di un appartamento non può dolersi di non essere stato invitato a partecipare all'assemblea che ha deliberato in merito alle spese condominiali, finché non abbia notificato o almeno comunicato all'amministratore l'avvenuto passaggio di proprietà, essendone il relativo onere a suo esclusivo carico. Sulla base di questo principio giurisprudenziale (Cass. n. 5307/1998), il Tribunale di Cagliari, sentenza 11 luglio 2016 n. 2201, ha bocciato il ricorso del nuovo proprietario che chiedeva l'annullamento o la dichiarazione di nullità, previa sospensiva, di una delibera relativa alla ripartizione del consumo idrico.
L'attrice, al contrario, ha esposto di non essere mai stata convocata alle assemblee condominiali fino al 2014, pur essendo proprietaria di un locale commerciale ubicato all'interno del complesso condominiale. E di avere avuto notizia dell'esistenza della delibera solo in seguito alla notificazione del decreto ingiuntivo. Per cui dall'omessa convocazione non può che derivare la nullità o comunque l'annullabilità della delibera. Al contrario, per l'amministratore la mancata convocazione è imputabile unicamente al comportamento colposo dell'attrice che non ha comunicato il passaggio di proprietà.
Posizione condivisa dal Tribunale che, sempre citando la Cassazione (n. 985/1999), afferma: «poiché è dovere del nuovo condomino comunicare all'amministratore il trasferimento di proprietà, la convocazione dell'assemblea viene correttamente effettuata dall'amministratore nei confronti di colui che risultava proprietario al momento della precedente assemblea». È vero che, prosegue la sentenza, la Suprema corte ha affermato che l'amministratore di condominio, al fine di assicurare una regolare convocazione della assemblea, «è tenuto a svolgere le indagini suggerite dalla ordinaria diligenza per poter rintracciare i condomini» (n. 15283/2000), tuttavia, la pronuncia riguarda il diverso caso del condomino che abbia cambiato recapito. In questo caso invece, prosegue la sentenza, «è incontroverso che il precedente proprietario ha continuato ad occupare l'immobile senza soluzione di continuità», a titolo di comodato, «ed è provato documentalmente che alla richiesta di compilare il modulo anagrafico ha risposto restituendo il modulo sottoscritto ma incompleto proprio nella parte relativa alla proprietà, e non ha risposto quando l'amministratore gliene ha richiesto nuovamente la compilazione». Inoltre, ha anche partecipato alla riunione condominiale tacendo il trasferimento della proprietà. «È stata quindi artatamente creata una situazione di apparenza – conclude il Tribunale - per cui la parte non può dolersi dell'omessa convocazione all'assemblea condominiale».

Fonte: www.ilsole24ore.com/Condominio, assemblea valida se l'acquirente non ha comunicato il passaggio di proprietà

Agenzia delle Entrate, in arrivo 156 mila avvisi a chi non ha presentato la dichiarazione dei redditi

L'Agenzia delle Entrate invita a rimediare chi non ha presentato la dichiarazione dei redditi pur essendo tenuto a farlo. Sono in arrivo 156.000 avvisi con i quali le Entrate vogliono dare ai contribuenti la possibilita' di verificare la propria situazione in autonomia, in modo da correggerla per tempo senza incorrere in controlli successivi.

Inoltre, presentando il modello Unico Persone fisiche entro il 29 dicembre 2016, ovvero entro 90 giorni dalla scadenza ordinaria del 30 settembre, i contribuenti possono anche beneficiare delle sanzioni ridotte previste in caso di ravvedimento operoso.

Gli avvisi sono finalizzati a sciogliere i dubbi sulle anomalie riscontrate dall'Agenzia in occasione della predisposizione delle dichiarazioni 730, sulla base dei dati trasmessi dai sostituti d'imposta tramite le Certificazioni Uniche. I destinatari di questa tornata di lettere, che arrivano con largo anticipo rispetto al passato, sono i contribuenti che non hanno presentato la dichiarazione pur avendo percepito piu' redditi da lavoro dipendente o da pensione da diversi sostituti (datori di lavoro o enti previdenziali) che non hanno effettuato il conguaglio delle imposte. Chi riceve la lettera viene cosi' messo in condizione di verificare se deve presentare o meno il modello Unico Persone Fisiche. In caso affermativo, se il contribuente lo presenta entro il 29 dicembre 2016, grazie al ravvedimento operoso beneficera' di una significativa riduzione delle sanzioni dovute per la tardiva dichiarazione e per gli eventuali versamenti.

Questo tipo di comunicazioni sprint consente fin da subito ai contribuenti di correggere la rotta evitando d'incagliarsi in controlli futuri. Il vantaggio dell'invito e' duplice: oggi e' possibile individuare in largo anticipo le anomalie oggetto degli avvisi, innalzando cosi' il livello della tax compliance e l'efficienza dei controlli da parte delle Entrate; allo stesso tempo, ricevendo l'invito preventivo in anticipo, il cittadino puo' verificare la propria posizione ed eventualmente porvi rimedio da solo, in piena autonomia, tramite l'istituto del ravvedimento operoso e senza imbattersi in successivi controlli.

Fonte: www.italiaoggi.it/Agenzia delle Entrate, in arrivo 156 mila avvisi a chi non ha presentato la dichiarazione dei redditi - News - Italiaoggi

Mantenimento alla figlia: la moglie deve documentare le spese per farsi pagare dal marito

Addio senza polemiche tra i coniugi. Ufficiale la separazione consensuale. Accordo anche sul mantenimento della figlia minore: spese divise equamente. Se però lui viene meno al proprio obbligo, lei non può limitarsi a pretendere il pagamento senza dettagliare i costi sostenuti. lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 21241/16, depositata il 20 ottobre.
Contribuzione. Terreno di scontro tra moglie e marito è, come detto, il «mantenimento della figlia minore». La donna sostiene che il padre della ragazza sia venuto meno «all’obbligo di contribuzione alle spese ordinarie e straordinarie». Ecco spietata la decisione di «notificargli atto di precetto» per una somma di poco superiore ai 62mila euro. In aggiunta, poi, all’uomo viene anche consegnato «il titolo esecutivo, costituito dal provvedimento di omologazione del verbale di separazione consensuale».
Per i giudici del tribunale, però, «il precetto è inefficace», per la gioia del papà. Tale decisione viene spiegata con una semplice constatazione: «la donna non ha allegato alcuna documentazione di spesa all’atto di precetto».
Spese. E ora anche i magistrati della Cassazione ritengono non sufficientemente motivata la pretesa avanzata dalla madre della ragazza. Ella «ha ingiunto al marito il pagamento di circa 62mila euro, senza ulteriori precisazioni, distinzioni o allegazioni documentali», e, annotano i giudici, «solo con la comparsa di costituzione e risposta depositata nel giudizio di opposizione agli atti esecutivi ha ritenuto di precisare quanta parte del credito fosse richiesta per le spese ordinaria, quanta per le spese straordinarie, e quali fossero i titoli di spesa».
È evidente, concludono i magistrati, che «un atto di precetto» così formato «mai potrebbe produrre effetti». Ciò anche perché «il provvedimento con cui, in sede di separazione, si stabilisce che il genitore non affidatario paghi pro quota le spese ordinarie per il mantenimento dei figli costituisce» sì «idoneo titolo esecutivo» ma «solo a condizione che il genitore creditore» – la donna, in questo caso – «possa allegare e documentare l’effettiva sopravvenienza degli esborsi indicati nel titolo e la relativa entità». E questa operazione, sottolineano i giudici, va compiuta «rispetto all’atto di precetto, e non già nel successivo e solo eventuale giudizio di opposizione all’esecuzione», perché «il debitore deve essere messo in condizioni di potere sin da subito verificare la correttezza o meno delle somme indicate nell’atto di precetto».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Mantenimento alla figlia: la moglie deve documentare le spese per farsi pagare dal marito - La Stampa

domenica 23 ottobre 2016

Voucher: attenzione alle nuove regole

Il decreto legislativo n. 185/2016, correttivo al Jobs Act, ha introdotto alcune disposizioni che integrano e modificano, fra l'altro, il c.d. codice dei contratti di cui al D.Lgs. n. 81/2015.
Nell'ambito di tali modifiche, vi è l'intervento in materia di lavoro accessorio, rispetto al quale viene introdotta una maggiore tracciabilità dei voucher ed una specifica disciplina sanzionatoria.
In particolare, il nuovo art. 49, comma 3, del D.Lgs. n. 81/2015 stabilisce che "i committenti imprenditori non agricoli o professionisti che ricorrono a prestazioni di lavoro accessorio sono tenuti, almeno 60 minuti prima dell'inizio della prestazione, a comunicare alla sede territoriale competente dell'Ispettorato nazionale del lavoro, mediante sms o posta elettronica, i dati anagrafici o il codice fiscale del lavoratore, indicando, altresì, il luogo, il giorno e l'ora di inizio e di fine della prestazione. I committenti imprenditori agricoli sono tenuti a comunicare, nello stesso termine e con le stesse modalità di cui al primo periodo, i dati anagrafici o il codice fiscale del lavoratore, il luogo e la durata della prestazione con riferimento ad un arco temporale non superiore a 3 giorni".
IN DETTAGLIO: GLI ONERI DI COMUNICAZIONE
Gli obblighi di comunicazione si riferiscono alle imprese e ai professionisti.
La comunicazione deve essere fatta:
(i) per gli imprenditori non agricoli e per i professionisti, almeno 60 minuti prima dell'inizio della prestazione e dovrà riguardare ogni singolo lavoratore che sarà impegnato in prestazioni di lavoro accessorio.
Essa dovrà indicare:
1) i dati anagrafici o il codice fiscale del lavoratore;
2) il luogo della prestazione ed il giorno di inizio della prestazione;
3) l'ora di inizio e di fine della prestazione.
(ii) per gli imprenditori agricoli, entro lo stesso termine di 60 minuti prima della prestazione, dovrà essere fatta la comunicazione nella quale si dovrà indicare:
1) i dati anagrafici o il codice fiscale del lavoratore;
2) il luogo della prestazione;
3) la durata della prestazione con riferimento ad un arco temporale non superiore a 3 giorni.
Con un apposito decreto, il Ministero del lavoro potrà peraltro indicare "modalità applicative della disposizione (...) nonché ulteriori modalità di comunicazione in funzione dello sviluppo delle tecnologie".
Frattanto:
- il committente dovrà, entro 60 minuti prima dell'inizio della prestazione di lavoro, inviare una e-mail alla competente Direzione del lavoro, agli indirizzi di posta elettronica creati appositamente ed indicati nella circolare;
- le e-mail dovranno essere prive di qualsiasi allegato e dovranno riportare i dati del committente e quelli relativi alla prestazione di lavoro accessorio sopra indicati.
Il Ministero segnala, tra l'altro, l'opportunità di conservare copia delle e-mail trasmesse, così da semplificare le attività di verifica da parte del personale ispettivo.
Resta in ogni caso fermo l'obbligo di inviare la (separata ed ulteriore) dichiarazione di inizio attività da parte del committente già prevista nei confronti dell'INPS.
LA VIOLAZIONE DEGLI OBBLIGHI DI COMUNICAZIONE
La violazione dell'obbligo di comunicazione comporta l'applicazione della "sanzione amministrativa da euro 400 ad euro 2.400 in relazione a ciascun lavoratore per cui è stata omessa la comunicazione" (art. 49, comma 3, D.Lgs. n. 81/2015).
Non è prevista la possibilità di avvalersi della procedura di diffida di cui all'art. 13 del D.Lgs. n. 124/2004.
L'assenza, oltre che di tale comunicazione, anche della dichiarazione di inizio attività all'INPS, comporterà l'applicazione della "maxisanzione" per lavoro nero.

Fonte: www.ilsole24ore.com/Voucher: attenzione alle nuove regole

Immigrazione e criminalità: una lettura di dati statistici

La grande immigrazione in atto suscita quotidianamente, e spesso drammaticamente, la preoccupata attenzione della popolazione e impegna l’agenda delle istituzioni nazionali e internazionali, in un clima spesso surriscaldato dal dibattito politico e dall’eco mediatica. Si consumano divisioni culturali e politiche, e si compromettono le sorti stesse dell’Europa unita. Particolarmente preoccupante, specie agli occhi dell’opinione pubblica e di alcune parti politiche, è il controverso rapporto tra immigrazione e criminalità. La ritenuta propensione a delinquere degli immigrati costituisce uno dei principali argomenti, se non il principale, sul quale si fonda la sempre più diffusa ostilità verso un fenomeno dalle dimensioni crescenti e dalle caratteristiche bibliche.

Spesso si ha l’impressione che, come avviene più in generale per l’andamento della criminalità complessiva, i dati disponibili siano utilizzati con disinvoltura se non con spregiudicatezza, [...]

Per proseguire nella lettura clicca qui:PALAZZO_2016c.pdf

Fonte: www.penalecontemporaneo.it

sabato 22 ottobre 2016

Coppie di fatto e contratti di convivenza, tutte le novità

La legge del 20 maggio 2016 n.76 (che ha istituito le Unioni Civili e che ha disciplinato i diritti e doveri delle coppie di fatto introducendo anche i contratti di convivenza) è stata la maggior innovazione nella storia del diritto di famiglia italiano degli ultimi 20 anni.
Si tratta di una legge costituita da un solo articolo e 69 commi. Dal comma 36 al 49 e il comma 65 riguardano i rapporti di convivenza mentre dal comma 50 al comma 64 viene disciplinato il contratto di convivenza.
La definizione della coppia di fatto è espressa con chiarezza dal comma 36: “Ai fini delle disposizioni di cui ai commi da 37 a 67 si intendono per «conviventi di fatto» due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”.
Per la sua costituzione dovrebbe quindi essere necessaria la sola convivenza stabile nonché, per il solo accertamento, l’iscrizione nell’anagrafe del comune di residenza (co.37).
Tuttavia, nella recente prassi dei maggiori Comuni italiani consultabili via web (Milano, Torino, Napoli, Venezia, Genova, Vicenza, Modena,Reggio Emilia, Venezia), in linea con la circolare n.7/2016 del Ministero dell’Interno (L’iscrizione delle convivenze di fatto dovrà essere eseguita secondo le procedure già previste e disciplinate dall’ordinamento anagrafico ed, in particolare, dagli artt. 4 e 13, D.P.R. n. 223/1989, come espressamente richiamati dal comma 37 dell’art. 1 della legge n. 76/2016), a chi desidera rientrare nei benefici normativi dei «conviventi di fatto» viene imposta la compilazione e sottoscrizione di un modulo prestampato da consegnare all’ufficio per la registrazione. A questa stregua, non dovrebbero essere quindi conviventi di fatto tutte le coppie che possiedono i requisiti indicati nel comma 36 (coabitazione e legame affettivo) ma solo quelle che, tra queste coppie, abbiano dichiarato espressamente all’autorità amministrativa di voler essere considerati come tali.
Dal punto di vista ontologico questa scelta amministrativa agevola le coppie di fatto che, pur ponendo in essere rapporti personali analoghi a quelli esistenti nel matrimonio, non abbiano manifestato alcuna volontà di formalizzarli o di disciplinarli.
Per concludere sul punto si ritiene comunque che la scelta amministrativa dei comuni (di imporre la registrazione della coppia al momento della comunicazione di residenza) non regga al contesto giudiziario dove il convivente può provare l’esistenza della coppia di fatto attraverso la prova documentale (al di là del certificato di residenza) e quella testimoniale.
Disamina delle principali innovazioni
Innanzitutto nessuno status consegue la costituzione della coppia di fatto.
Lo scioglimento della coppia di fatto non pare vincolato a particolari formalità, mentre certamente interessante è il comma 65 che disciplina l’eventualità che uno dei due conviventi, al momento della rottura della coppia di fatto, chiede all’altro di poter beneficiare di un contributo alimentare qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento. Il convivente onerato ha la precedenza rispetto ai fratelli e alle sorelle nell’elenco di cui all’articolo 433 del codice civile (quindi dopo coniuge, figli, genitori, generi, nuore e suoceri!). Naturalmente gli alimenti vengono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza e in misura certamente differente dal tenore di vita che aveva condotto la coppia nel periodo di convivenza e rapportato invece alle principali esigenze di vita proprie dell’istituto degli alimenti (art.438 cc: “Non devono … superare quanto sia necessario per la vita dell’alimentando, avuto però riguardo alla sua posizione sociale”).
Rispetto ai diritti e doveri delle coppie di fatto si prospettano due scenari.
Il primo riguarda il caso delle coppie di fatto che non abbiano sottoscritto il contratto di convivenza e il secondo riguarda le coppie di fatto che abbiano anche sottoscritto un contratto di convivenza. Comune a tutte le coppie di fatto sono i diritti che la legge attribuisce ai conviventi a prescindere da ogni pattuizione.
Il comma 38 estende al convivente i diritti spettanti al coniuge previsti dall’ordinamento penitenziario. Il riferimento è alla legge numero 354/1975 e al relativo regolamento di esecuzione d.p.r. 230/2000. Per la verità l’ordinamento penitenziario parifica già ad oggi a diversi effetti i diritti del convivente a quelli del coniuge. Così ad esempio per quanto riguarda i colloqui o la corrispondenza e così via.
Il comma 40 disciplina la rappresentanza del convivente in caso di malattia o morte dell’altro. In caso di malattia all’altro convivente spettano le decisioni in materia di salute mentre in caso di morte decide sulle donazioni di organi, sulle modalità di trattamento del corpo e sulle celebrazioni funerarie. Il comma 41 precisa come la procura sostanziale debba essere redatta per iscritto e autografata oppure, in caso di impossibilità a redigerla, debba essere conferita alla presenza di un testimone.
Il comma 45 estende ai conviventi il titolo nelle graduatorie per l’assegnazione di alloggi di edilizia popolare.
Il comma 46 estende al convivente che presta stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa familiare la partecipazione agli utili e ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, introducendo nel testo codicistico l’articolo 230 ter rubricato “Diritti del convivente”.
L’articolo 47 estende la possibilità al convivente di formulare istanza di interdizione e il comma 48 prevede la possibilità che il convivente possa essere nominato tutore curatore o amministratore di sostegno dell’altro convivente dichiarato interdetto, inabilitato o che abbia il beneficio dell’amministrazione di sostegno.
L’ultimo diritto espresso dalla nuova normativa riguarda il risarcimento del danno parentale per morte del convivente con fatto del terzo (co.49).
Il destino della casa familiare merita un approfondimento.
Il comma 42 schematizza varie eventualità successive alla morte del convivente proprietario dell’abitazione comune. Si tratta di una sorta di diritto di abitazione assimilabile all’assegnazione del coniuge, che tuttavia ha un tempo determinato e variabile in funzione della durata della convivenza e della presenza o meno di figli del convivente superstite.
Il convivente superstite ha diritto di continuare ad abitare nella casa familiare (a) per due anni se la convivenza è durata meno; (b) se la convivenza è durata più di due anni il convivente superstite ha diritto di continuare ad abitare la casa per non più di cinque anni; (c) ove il convivente superstite abbia figli minori o disabili ha diritto di continuare ad abitare nella stessa casa per un periodo non inferiore a tre anni.
A norma del comma 43 il convivente superstite decade dal beneficio qualora cessi di abitare stabilmente nella casa di comune residenza o in caso di matrimonio, di unione civile o di nuova convivenza di fatto.
Nel caso in cui il convivente deceduto fosse invece conduttore di un contratto di locazione il convivente superstite ha facoltà di succedergli nel contratto.
Vale in merito accennare ad una recente Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate 28 luglio 2016 numero 64/E che estende al convivente more uxorio non proprietario dell’immobile la possibilità di fruire della detrazione per le spese sostenute per gli interventi effettuati su una delle abitazioni nelle quali si esplica il rapporto di convivenza.
Per rimanere in tema di casa familiare il comma 61 prevede che, laddove sia stato stipulato un contratto di convivenza e la casa sia del recedente, l’altro convivente debba avere un termine di almeno 90 giorni per poterla liberare.
Esaurito il tema dell’abitazione comune vale passare al contratto di convivenza che disciplina i rapporti patrimoniali della vita comune come previsto al comma 50.
Diversamente dai dritti ex lege di cui abbiamo trattato, il contratto di convivenza attribuisce diritti convenzionali, scaturenti da un negozio giuridico.
Il comma 51 indica quali siano le formalità necessarie alla costituzione o alla modifica del contratto di convivenza, prevedendo la necessità di predisporre un atto pubblico o una scrittura privata autenticata da un notaio o da un avvocato che, a norma del successivo comma 52, i professionisti hanno l’obbligo di trasmettere entro 10 giorni al comune di residenza per l’iscrizione all’anagrafe.
Il comma 53 precisa che i contenuti minimi del contratto di convivenza debbano riguardare (a) l’indicazione della residenza; (b) le modalità di contribuzione alla vita in comune in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo; (c) ed infine il regime patrimoniale della comunione dei beni; regime patrimoniale che a norma del comma 54 può essere modificato in qualunque momento nel rispetto delle formalità osservate per la stipulazione del contratto di convivenza. Comunione che segue le sorti del contratto di convivenza e che quindi si scioglierà con la risoluzione dello stesso e che darà luogo alle eventuali divisioni dei beni comuni.
Il comma 56 precisa come non possano essere apposti termini e condizioni al contratto di convivenza e che laddove fossero convenuti saranno considerati come per non apposti.
Il comma 57 prevede la nullità insanabile del contratto di convivenza se stipulato (a) in presenza di un vincolo matrimoniale, (b) di una unione civile, o (c) di un altro contratto di convivenza, o se (d) stipulato in violazione del comma 36, o (e) se concluso da una persona di età minore o (f) da persona interdetta giudizialmente o infine (g) nel caso in cui un convivente sia stato condannato per omicidio consumato tentato sul coniuge, sull’unito civile o convivente dell’altro.
Interessante la disciplina sulla risoluzione del contratto di convivenza che prevede varie eventualità. La prima è la risoluzione del contratto di convivenza per accordo delle parti che deve rispettare le medesime formalità adottate per la stipula del contratto.
La seconda è l’eventualità del recesso unilaterale che impone al professionista la comunicazione al Comune nonché la notificazione all’altro convivente (è in questa fase che interviene il termine di 90 giorni concesso al convivente per lasciare l’abitazione di proprietà del recedente).
Nel caso di morte di uno di uno dei due conviventi spetterà il superstite e agli eredi notificare l’atto di morte al professionista che provvederà alla annotazione sul contratto e la notifica all’anagrafe.
In caso di matrimonio o Unione civile il comma 62 prevede l’obbligo di notifica dell’estratto dell’atto di matrimonio all’altra parte e al professionista.
Non resta a questo punto che attendere prime decisioni giurisprudenziali.

Fonte: www.lastampa.it/Coppie di fatto e contratti di convivenza, tutte le novità - La Stampa

Tempestata di messaggi e pedinata: solida l’ipotesi dello stalking

Messaggi intimidatori e pedinamenti. Vittima una donna. A sorpresa, però, la presunta responsabile della persecuzione è un’altra donna. A prescindere dai soggetti coinvolti, però, gli effetti delle condotte messe in atto sono evidenti: difficile non parlare di stalking.
Stile di vita. Nessun dubbio per i giudici del Tribunale: inevitabile la «condanna» per il reato di «atti persecutori». Di parere opposto, invece, i giudici d’appello, che escludono l’ipotesi dello «stalking», esaminando in maniera frazionata i comportamenti della donna finita sotto accusa.
E proprio questa ottica viene ritenuta non corretta dai magistrati della Cassazione (sentenza n. 44355 depositata il 20 ottobre). Molto più logica, difatti, sarebbe stata una «valutazione organica» dell’intera vicenda, così da leggere in maniera complessiva non solo le azioni della stalker ma anche le ripercussioni subite dalla vittima.
Su quest’ultimo fronte, in particolare, viene evidenziato che la donna presa di mira, oggetto di «messaggi intimidatori e denigratori» e di veri e propri «pedinamenti», ha modificato radicalmente «il proprio stile di vita, rinunciando spesso ad uscire, cambiando i percorsi nelle strade che percorreva abitualmente» e arrivando addirittura a «tenere sempre chiuse le finestre quando era in casa».
Una volta considerati questi elementi, va riesaminata con attenzione l’intera vicenda, concludono i magistrati, affidando il compito ai giudici d’appello.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Tempestata di messaggi e pedinata: solida l’ipotesi dello stalking - La Stampa

Il Trust, uno strumento di tutela del patrimonio familiare

Il trust è un istituto giuridico di origine anglosassone che ha come finalità quella di separare dal patrimonio di un soggetto, alcuni beni per il perseguimento di specifici interessi a favore di determinati beneficiari o per il raggiungimento di uno scopo determinato, attraverso il loro affidamento e la loro gestione a una persona (cd. “trustee”) o ad una società professionale (cd. “trust company”). L’istituto e lo strumento del “trust” pur non essendo disciplinato in modo specifico da alcuna norma di diritto interno è considerato come “legittimo” in virtù della ratifica da parte dell’Italia della Convenzione dell'Aja del 1 luglio 1985, entrata in vigore il 1 gennaio 1992.
Si tratta, quindi di un istituto riconosciuto in Italia ma non regolamentato dalla legge italiana. La legge applicabile andrà quindi scelta volontariamente dal disponente nell’ambito delle giurisdizioni che ammettano e disciplinano in modo specifico il trust (esempio l’Inghilterra, il Jersey, ecc).
Con la ratifica della Convenzione, riguardante, in particolare, “la determinazione della legge e il riconoscimento del trust negli stati contraenti” (art. 1), l’Italia non si è obbligata al riconoscimento di qualsiasi tipologia di trust, ma, esclusivamente, di quelli “istituiti volontariamente e provati per iscritto” (art. 3)e regolati dalla legge (art. 6) scelta dal soggetto istituente ovvero da quella avente il collegamento più strettocon il trust (art. 7)”.
La peculiarità dell’istituto risiede nello sdoppiamento del concetto di proprietà, tipico dei Paesi di common law: la proprietà legale del trust, attribuita al trustee, ne rende quest’ultimo unico titolare dei relativi diritti (seppure nell’interesse dei beneficiari o per il perseguimento dello scopo definito), nonostante i beni restino segregati nel patrimonio del trust e diventino estranei, quindi, al patrimonio sia del disponente che a quello personale del trustee.
Nel trust viene spesso prevista la figura del cosiddetto guardiano o protector al quale, possono essere attribuite quattro funzioni: i) l’esercizio di poteri dispositivi o gestionali (comunemente la revoca e nomina trustee); ii) esprimere il proprio placet sulle determinate decisioni assunte dal trustee; iii) Impartire direttive o istruzioni al trustee per compimento specifici atti iv) funzione di controllo sull’operato del trustee.
Il disponente (o settlor) è colui che decide di istituire il trust, conferendo determinati suoi beni (mobili immobili, materiali o immateriali) in Trust. Con l’istituzione del trust il disponente ottiene la separazione dalla parte di patrimonio che conferisce in trust da quella che resta nella sua sfera patrimoniale (effetto segregativo). Effettivo proprietario dei beni stessi diventa il Trustee, che li amministra, gestisce e ne dispone per tutto il tempo previsto nell’atto istitutivo e secondo le istruzioni ricevute, per il raggiungimento dello scopo. Il Trust è un istituto diverso dal rapporto fiduciario, dove la Società fiduciaria è semplice intestataria, in forma anonima, dei beni interessati, che restano però di proprietà del cliente. Viceversa, nel Trust i beni costituiscono una massa patrimoniale separata e distinta da quella del Disponente e del Trustee. Per questa fondamentale differenza, il Trust è più idoneo a proteggere un patrimonio e a realizzare la destinazione secondo gli obiettivi fissati dal disponente.  Al momento dell’istituzione il disponente, sottoscrive un atto istitutivo di Trust ed un atto di conferimento di beni o dei diritti (il conferimento può anche essere effettuato in un momento successivo). E’ ammissibile disporre un Trust nel proprio testamento.
A differenza di un fiduciario, un Trustee diventa effettivo proprietario dei beni a lui affidati di cui ha il potere di amministrare, gestire e disporre, con la diligenza del buon padre di famiglia, secondo le istruzioni che gli ha dato il Disponente e secondo la legge che regola il Trust; ha inoltre l’obbligo di render conto al Disponente, al beneficiario e/o al “Guardiano” (Protector o Enforcer), laddove previsto, del suo operato. I beni intestati al Trustee non entrano a far parte del suo patrimonio personale e sono insensibili alle vicende personali, familiari, successorie e fiscali sia del Disponente che del Trustee.
Usualmente il trust viene istituito a protezione di beni immobili; si realizza così una   vera e propria “protezione” patrimoniale in quanto i beni diventano impignorabili. Proprio per tali motivi il trust viene spesso impiegato per separare e proteggere il patrimonio personale da quello aziendale o per tutelare tutti quei soggetti il cui patrimonio può essere compromesso da attività professionali rischiose (medici, avvocati, funzionari, ecc.) o, semplicemente, da comportamenti personali avventati (gioco d'azzardo, uso di droghe e alcool, ecc.).
Una delle finalità maggiormente ritenute meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento è quella di tutela dei minori e dei soggetti diversamente abili: spesso, come visto, le disposizioni testamentarie prevedono che i minori abbiano un godimento limitato dei beni fino alla maggiore età o che i soggetti diversamente abili possano godere dei beni in trust senza esserne pieni proprietari magari mediante l’ausilio e l’assistenza di terzi soggetti indicati nel trust.
Altro motivo che può indurre un soggetto a ricorrere al trust è la tutela del patrimonio per finalità successorie: di frequente un trust viene costituito allo scopo di tutelare un patrimonio nel passaggio generazionale o dallo sperpero ad opera di soggetti incapaci di amministrarlo, dediti al gioco o affetti da eccessiva prodigalità.
Altre finalità del Trust possono essere quelle di beneficenza o la costituzione di forme di investimenti e pensionistiche: i piani di investimento pensionistici ed i fondi comuni  sono derivazione dei trust fund anglosassone.
L’istituzione di un trust in determinati casi può determinare un “vantaggio di natura fiscale” ma se tale finalità è stata è l’unico o principale motivo che ha spinto il soggetto ad istituire un trust, esso può essere considerato illegittimo e pertanto revocato ed soggetto a sanzione.

Fonte: www.ilsole24ore.com/Il Trust, uno strumento di tutela del patrimonio familiare

giovedì 20 ottobre 2016

Il convivente extra-Ue non può essere espulso

Il contratto di convivenza disciplinato dalla nuova legge sulle unioni civili, impedisce di espellere lo straniero, convivente con una cittadina italiana, che deve ancora scontare una parte di pena per una condanna. La Corte di cassazione, con la sentenza 44182 depositata ieri, annulla con rinvio il provvedimento del Tribunale di sorveglianza che aveva adottato la misura dell'espulsione in alternativa alla detenzione.
Una misura basata sull'orientamento maggioritario espresso dalla Suprema corte, secondo il quale la convivenza more uxorio non blocca l'espulsione. Per la Cassazione, il principio deve ritenersi superato alla luce della legge 76/2016, che non può essere ignorata. I giudici della prima sezione penale danno il giusto rilevo alla nuova disciplina che, ricordano «è stata giustamente accolta dall'opinione pubblica, dagli operatori e dai teorici del diritto come disciplina epocale». Una norma con la quale sono state riconosciute dall'ordinamento e regolate positivamente le unioni tra persone dello stesso sesso e, con esse, anche quelle di fatto tra eterosessuali.

Fonte: www.ilsole24ore.com/Il convivente extra-Ue non può essere espulso

Raddoppio del canone, dall'Antitrust multa da 200 mila euro a Telepass

L'Antitrust ha comminato una multa di 200.000 euro a Telepass per avere attivato il nuovo servizio di assistenza Opzione Premium sull'intera viabilità stradale, raddoppiando il canone, senza richiedere preventivamente il consenso dei consumatori.
Telepass, società controllata da Autostrade per l'Italia, dal 1° gennaio 2016 ha proceduto alla unificazione dei servizi Opzione Premium e Opzione Premium extra, servizi accessori al servizio di pagamento elettronico del pedaggio autostradale, offrendo così soltanto il nuovo servizio Premium.
In tal modo, Telepass ha attivato nei confronti dei clienti già sottoscrittori del contratto Opzione Premium (che prevedeva il servizio di assistenza solo in autostrada) un nuovo servizio (il soccorso sull'intera viabilità stradale), conseguentemente applicando, a partire dal 1° gennaio 2017, un aumento del canone (da 0,78 euro a 1,50 euro mensili), senza chiedere preventivamente il consenso espresso (secondo un meccanismo di opt-in), limitandosi a prevedere una tacita adesione, salva la possibilità per i clienti di formalizzare, nel termine di 60 giorni, un espresso recesso dal contratto (opt-out).
La condotta, realizzatasi attraverso la comunicazione di una proposta di modifica unilaterale del contratto, non è risultata rispettosa dei canoni di diligenza esigibili da un operatore quale Telepass, ed è stata in grado di condizionare indebitamente le scelte economiche dei consumatori. La proposta, infatti, non specificava in modo chiaro il contenuto e la natura del nuovo servizio offerto ai propri clienti, i quali erano tra l'altro indotti a ritenere, contrariamente al vero, che l'eventuale recesso avrebbe comportato anche la rinuncia al servizio di pagamento automatizzato del pedaggio autostradale tramite l'apparato Telepass.
L'Autorità, con riguardo ai contratti sottoscritti a decorrere dal 13 giugno 2014, ha ritenuto violato anche l'articolo 65 del Codice del consumo che sancisce l'obbligo per i professionisti di ottenere un consenso espresso e consapevole dai consumatori prima di fornire loro un nuovo servizio quando questo comporti un pagamento supplementare.
La sanzione irrogata ha tenuto conto del fatto che Telepass, a partire dal prossimo mese di dicembre, attuerà un meccanismo di opt-in, tale da permettere una scelta consapevole dei consumatori circa l'attivazione del nuovo servizio.

Fonte: www.italiaoggi.it/Raddoppio del canone, dall'Antitrust multa da 200 mila euro a Telepass - News - Italiaoggi

Niente usucapione per i coniugi separati ma ancora conviventi

Non decorre dalla separazione di fatto il termine per usucapire la proprietà di parti dell’immobile se i coniugi sono ancora conviventi. Queste le conclusioni a cui è pervenuta la Corte di Cassazione nella sentenza n. 20568 del 12 ottobre.
Il caso.  Il Tribunale di Cagliari, considerato che la sentenza di separazione di secondo grado aveva respinto la richiesta della moglie di assegnazione della casa coniugale, ha accolto la domanda del marito, condannando la donna al rilascio di alcune porzioni dell’immobile, da quest’ultima occupate senza alcun titolo. La Corte d’appello ha confermato tale pronuncia, respingendo la richiesta della moglie di accertare il suo acquisto per usucapione della proprietà degli spazi posseduti.
La donna ha, quindi, presentato ricorso per cassazione affermando che i Giudici d’appello avrebbero errato nel considerare come dies a quo del possesso ad usucapionem la data di inizio del giudizio di separazione e non quella della separazione di fatto, avvenuta diversi anni prima.
La prolungata convivenza esclude l’uso esclusivo di porzioni della casa coniugale. La Suprema Corte, pur constatando che l’effettivo deterioramento del rapporto coniugale risaliva ad un momento antecedente il giudizio di separazione, ha escluso che il possesso ad usucapionem della donna potesse risalire alla prolungata convivenza instauratasi tra i coniugi in attesa della sentenza di separazione. Secondo i Giudici di legittimità, infatti, «è del tutto inverosimile» che, durante quel periodo, le parti avessero utilizzato in via esclusiva singole porzioni dell’immobile, come oltretutto confermato dalle risultanze istruttorie.

Fonte: www.ilfamiliarista.it/Niente usucapione per i coniugi separati ma ancora conviventi - La Stampa

Festa dell’Immacolata, l’operaio decide di restare casa: va comunque retribuito

Gli operai decidono di rimanere a casa. Perché? Beh, è l’8 dicembre, festa dell’Immacolata Concezione… E l’azienda deve pagare loro, comunque, la retribuzione prevista da contratto. così ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21209 del 19 ottobre.
Festività. Ritenuta legittima, sia in Tribunale che in appello, la pretesa avanzata da numerosi dipendenti di una «azienda siderurgica». Essi hanno diritto a vedere pagata la festività dell’8 dicembre. Irrilevante il fatto che, come lamentato dalla società datrice di lavoro, si siano rifiutati di svolgere le attività programmate.
Su quest’ultimo fronte i giudici spiegano che «il rifiuto non fa perdere il diritto alla normale retribuzione attribuito direttamente dalla legge» per la festività dell’8 dicembre, bensì può «dar luogo a una sanzione disciplinare».
Prestazione. Nel contesto della Cassazione i difensori dell’azienda contestano duramente le valutazioni tracciate in appello. Secondo i legali, difatti, l’«indebito rifiuto» da parte degli operai «paralizzava la pretesa al pagamento della prestazione lavorativa», anche perché «il contratto prevedeva la possibilità di richiedere la prestazione anche in caso di festività, in cambio di numerosi trattamenti di miglior favore».
La visione difensiva viene respinta in modo netto dai Magistrati della Cassazione. Decisiva una semplice considerazione: «il diritto del lavoratore di astenersi dall’attività lavorativa in caso di festività è pieno», spiegano i Giudici, «ed ha carattere generale, e quindi non rilevano le ragioni che hanno determinato l’assenza di prestazione, peraltro stabilita per legge». Peraltro, va tenuto presente che «il trattamento economico ordinario deriva direttamente dalla legge» e «non possono, su questo piano, aver alcun rilievo le disposizioni contrattuali», che, ribadiscono i Giudici, «potrebbero avere un rilievo disciplinare».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Festa dell’Immacolata, l’operaio decide di restare casa: va comunque retribuito - La Stampa

martedì 18 ottobre 2016

Detrazioni fiscali per la ristrutturazione, sempre detraibili anno per anno

Le detrazioni per la ristrutturazione operano in base all’annualità: pertanto, anche gli interventi che sono la prosecuzione di ristrutturazioni avviate in precedenza devono essere detratti negli anni successivi al primo. Lo conferma la Cassazione, con la sentenza del 12 ottobre 2016, n. 20501.
L’Agenzia delle Entrate aveva disconosciuto la detrazione di imposta per le spese di ristrutturazione di immobile sostenute nel 1999 da un contribuente, riportate in detrazione sulle imposte dovute nel 2001. Tale disconoscimento venne impugnato dal contribuente, ma la Commissione Tributaria Regionale (CTR) gli diede torto: i giudici territoriali ritennero che le spese sostenute nel 1999 non potessero essere riconosciute ai fini della detrazione fiscale prevista dalla Legge n. 449/1997, in quanto prosecuzione di interventi di ristrutturazione avviati nel 1998, già detratti per intero nel limite massimo annuo previsto dalla legge.
I Giudici della Cassazione hanno però accolto il ricorso del contribuente, ricordando come “L’assunto della CTR per il quale la detrazione sarebbe riferibile al singolo intervento di ristrutturazione non trova riscontro nel testo della legge che, come correttamente rilevato dal ricorrente, stabilisce una connessione solo tra spese sostenute ed entità della detrazione”. Riferiva infatti l’articolo 1 comma 1 della Legge 449/1997: “ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, si detrae dall’imposta lorda, fino alla concorrenza del suo ammontare, una quota delle spese sostenute sino ad un importo massimo delle stesse di lire 150 milioni […]”, cosa che, evidenziano i giudici del Palazzaccio, non rileva una indefettibile correlazione tra tetto massimo ed annualità. “Per contro, poiché le detrazioni operano sulle imposte relative alla singola annualità, l’assenza di un esplicito limite alla replicabilità della detrazione allorquando le spese si protraggano per più annualità non consente di condividere l’interpretazione dell’ufficio erariale”.
Si precisa che l’articolo 9, c. 1, della Legge 448/2001 ha modificato la norma in relazione agli interventi di recupero del patrimonio edilizio realizzati dal 2002 quali mere prosecuzioni di interventi iniziati successivamente al primo gennaio 1998, per i quali si tiene conto anche delle spese sostenute negli anni stessi.

Fonte: www.fiscopiu.it/Detrazioni fiscali per la ristrutturazione, sempre detraibili anno per anno - La Stampa

sabato 15 ottobre 2016

Carcerazione preventiva oltre i termini: Pm va sanzionato se non chiede la revoca

Commette grave violazione di legge, con conseguente responsabilità disciplinare, il magistrato che proceda alla scarcerazione dell'indagato oltre i termini di durata della custodia cautelare, essendo irrilevanti eventuali difficoltà organizzative dell'ufficio, in quanto solo circostanze esterne che impediscano in maniera assoluta la scarcerazione possono giustificare la compromissione del diritto alla libertà.
E' quanto hanno stabilito le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione con la sentenza del 20 settembre 2016, n. 18397, con la quale si precisa che, qualora il difensore dell'indagato abbia concorso a non allertare il pubblico ministero, tale condotta può incidere solo sulla determinazione della sanzione disciplinare nella misura minima della “censura”.
Il caso vedeva un magistrato commettere infrazione di cui all'art. 2, lett. g), del D.lgs. n. 109/2006, per avere omesso, in due occasioni, di richiedere la scarcerazione dell'imputato sottoposto al regime degli arresti domiciliari, nonostante la scadenza dei termini di custodia.
Gli ermellini confermano l'orientamento dominante in giurisprudenza secondo il quale, per giustificare la mancata applicazione della normativa che impone la scarcerazione dell'indagato, occorre un elemento esterno all'illecito, ovvero una circostanza che rientri nelle c.d. “condizioni di esigibilità” dell'ottemperanza al precetto normativo, che impone i termini di carcerazione preventiva nella fase cautelare, oltre i quali la lesione del diritto di libertà diviene ingiustificata ed evidenzia la gravità della violazione di legge in rapporto all'inviolabile diritto fondamentale della libertà tutelato costituzionalmente.
Nella fattispecie, si è evidenziato come carenze del fascicolo non possano esonerare da responsabilità il magistrato. Qualora poi, come nel caso in esame, la condotta del difensore che non abbia allertato il magistrato, abbia concorso a determinare la situazione sulla quale incide la responsabilità di quest'ultimo, tale condotta può solo incidere sulla misura della sanzione disciplinare applicabile al responsabile, ma in alcun modo può determinare una condizione di “inesigibilità” della condotta del magistrato.

Fonte: www.altalex.com/Carcerazione preventiva oltre i termini: Pm va sanzionato se non chiede la revoca | Altalex

Assenze per assistere un familiare: legittimo il diritto alla retribuzione e ai premi

‘Permessi’ ottenuti legittimamente alla luce della ‘legge 104’. Il lavoratore è costretto ad assentarsi per l’assistenza a un parente affetto da handicap. Per quelle giornate passate forzatamente lontano dall’ufficio, però, gli va riconosciuta non solo la retribuzione prevista ma anche i compensi incentivanti la produttività, previsti per specifici progetti.
Permesso. Scontro frontale tra l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale e un suo impiegato. Sul tavolo la parte economica relativa alle «giornate di ‘permesso’» concesse al lavoratore alla luce della ‘legge 104’.
Le pretese del dipendente vengono ritenute legittime dai giudici, prima in Tribunale e poi in appello. Nello specifico, viene chiarito che «i riposi» previsti dalla legge numero 104 del 1992 «sono equiparati ai riposi per le lavoratrici madri», che, a loro volta, «sono considerati ore lavorative a tutti gli effetti». Ciò significa che «il trattamento da corrispondere in relazione a tali ‘permessi’ devono essere esattamente quello che viene corrisposto in caso di effettiva prestazione lavorativa».
Compensi. A chiudere il cerchio provvedono ora i magistrati della Cassazione, respingendo definitivamente le obiezioni mosse dall’‘INPS’ (sentenza n. 20684, depositata il 13 ottobre 2016). Pieno riconoscimento, quindi, alle pretese avanzate dal lavoratore. In sostanza, viene ribadito il diritto alla «corresponsione della retribuzione, comprensiva dei compensi incentivanti», e ciò vale sia per il pubblico che per il privato.
Entrando nei dettagli, peraltro, i giudici evidenziano che «la normativa legale prevede il pagamento dei compensi incentivanti unicamente previa valutazione e verifica dei risultati conseguiti». Di conseguenza, è privo di logica «l’assunto», proposto dall’‘INPS’, secondo cui «tali compensi non dovrebbero essere corrisposti nei giorni di ‘permesso’ retribuito» previsti dalla ‘legge 104’, anche perché essi sono da includere nella «retribuzione» e sono applicati «anche in misura non direttamente proporzionale al regime orario adottato» dal lavoratore.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /Assenze per assistere un familiare: legittimo il diritto alla retribuzione e ai premi - La Stampa

Acqua staccata a chi non paga

Stop alla fornitura dell’acqua per chi è in mora, ma possibilità di pagare il debito a rate. Servizio comunque garantito a chi versa in stato di disagio economico-sociale (50 litri a persona al giorno) e agli enti pubblici. Sono i pilastri su cui si fonderà la direttiva con cui l’Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico dovrà intervenire per contenere il fenomeno della morosità nel settore idrico. Le indicazioni operative sono contenute nel dpcm 29 agosto 2016, pubblicato ieri sulla Gazzetta Ufficiale n. 241. Il decreto attua la legge 28 dicembre 2015, n. 221 (c.d. collegato ambientale), che all’art. 61, comma 1, imponeva l’individuazione dei principi e criteri per il contenimento della morosità degli utenti del servizio idrico integrato «assicurando che sia salvaguardata, tenuto conto dell’equilibrio economico e finanziario dei gestori, la copertura dei costi efficienti di esercizio e investimento e garantendo il quantitativo minimo vitale di acqua necessario al soddisfacimento dei bisogni fondamentali di fornitura per gli utenti morosi». In tal senso, il decreto precisa, nel preambolo, che «ai fini del contenimento della morosità, il quantitativo minimo vitale non può essere esteso alle utenze domestiche non in condizioni economiche disagiate in quanto verrebbe meno l’effetto incentivante della politica tariffaria a un uso razionale della risorsa e i costi conseguenti sarebbero eccessivamente onerosi e finirebbero per gravare sulla generalità degli utenti virtuosi ed anche sugli utenti in condizioni economiche disagiate». In parole povere, il moroso che non rientrerà nelle condizioni individuate dall’Authority, si vedrà staccata l’acqua.

Fonte: www.italiaoggi.it/Acqua staccata a chi non paga - News - Italiaoggi

giovedì 13 ottobre 2016

Multa ‘congelata’: sanzionato il proprietario che ha ‘coperto’ il conducente

Non rispettato il codice della strada. I vigili ne prendono atto, ma possono solo annotare il numero di targa. Per risalire all’identità del conducente debbono chiedere lumi al proprietario del veicolo, che non può sottrarsi a quest’obbligo. Irrilevante, difatti, che egli sia riuscito ad ottenere la sospensione della esecutività del verbale.
Dati. Sanzione legittima, sanciscono ora i Magistrati della Cassazione, nei confronti del proprietario del veicolo per non avere comunicato «le generalità del conducente» al momento dell’«infrazione stradale». Smentite le valutazioni compiute prima dal Giudice di Pace e poi dai giudici del Tribunale e centrate sul fatto che l’uomo «aveva impugnato il verbale», ottenendo «la sospensione della esecutività» con conseguente ‘congelamento’ «anche del termine previsto ai fini della comunicazione» relativa ai «dati personali e della patente del conducente al momento della violazione».
I Giudici di Cassazione, nella sentenza n. 20477/16 dell’11 ottobre, condividono l’obiezione mossa dal Ministero dell’Interno, secondo cui «né la sospensione cautelare della esecutività del verbale, né l’annullamento del verbale» possono incidere sull’«obbligo della comunicazione». Ciò perché «l’obbligo di comunicare i dati del conducente, richiesti dalla pubblica amministrazione, attiene a un dovere di collaborazione di natura autonoma, separatamente sanzionato, non condizionato alla contestazione della violazione».
Confermato, quindi, il «verbale» nei confronti del «proprietario del veicolo» rimasto in silenzio di fronte alla richiesta di identificare il conducente responsabile della «violazione» compiuta in strada.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Multa ‘congelata’: sanzionato il proprietario che ha ‘coperto’ il conducente - La Stampa

Abbraccia da dietro la dipendente: ristoratore condannato

Cameriera bloccata dall’abbraccio – da dietro – del proprietario del ristorante. Nessun gesto di affetto spontaneo. La condotta dell’uomo, finalizzata a strofinarsi sui glutei della ragazza, è valutabile come una vera e propria violenza sessuale. Inevitabile la condanna, con una pena fissata in due anni di reclusione.
Abbraccio. Una volta ricostruito l’episodio, grazie alle parole della vittima e delle due persone – il padre e un’amica – con cui si è sfogata, per i giudici c’è un’unica lettura dell’azione compiuta dal ristoratore. In sostanza, egli una sera «ha aggredito da tergo» in due diversi momenti la dipendente, «afferrandola e abbracciandola con vigore» e costringendola a «subire atti sessuali, e segnatamente lo strofinamento ripetuto e ritmato del pene sui glutei»: evidente la «violenza sessuale» messa in atto. Consequenziale la condanna a «due anni di reclusione», con obbligo di versare «5mila euro» come risarcimento alla lavoratrice.
Violenza. E ora la decisione presa dai giudici d’Appello viene resa definitiva dalla Cassazione con la sentenza n. 42439 del 7 ottobre. La Corte, difatti, respinge tutte le obiezioni difensive mosse dall’uomo. In particolare, il legale ha provato a mettere in discussione la «attendibilità» della donna. E su questo fronte è stato anche richiamato il contesto della vicenda, ossia «un piccolo ristorante» caratterizzato dalla «presenza degli addetti» e della «moglie» del proprietario.
Secondo l’avvocato, è impensabile che il suo cliente abbia potuto correre il rischio di una «plateale reazione della dipendente», che avrebbe potuto metterlo nei guai, vista la presenza della consorte. Così come è poco plausibile, sempre nell’ottica difensiva, che la donna abbia subito «i due episodi di violenza denunciati», prima alle 21.30 e poi alle 22.30, e abbia continuato a lavorare regolarmente, lasciando il ristorante solo attorno alla mezzanotte.
Questi elementi, però, non sono sufficienti, per i magistrati della Cassazione, a rivedere la condanna nei confronti dell’uomo. Decisiva e chiara la «testimonianza» della donna, corroborata, come detto, dal racconto fatto dal «padre» e da un’«amica» che ne avevano raccolto lo sfogo, notandone anche le precarie condizioni, ossia «lesioni, agitazione, ansia, paura».
E la scelta di rimanere nella struttura commerciale nonostante il comportamento del ristorante è facilmente spiegabile, secondo i giudici: ella era rimasta sorpresa dalla situazione, e comunque doveva lavorare «non per mantenersi» ma solo per dare una mano ai genitori.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Abbraccia da dietro la dipendente: ristoratore condannato - La Stampa

Trasporto di droga: l’autovettura non è sempre assoggettabile a confisca obbligatoria

Il nesso tra cosa e reato, rilevante ai fini della confisca di un veicolo con cui sono state trasportate quantità di sostanze stupefacenti, non ricorre quando il veicolo risulti essere stato solo occasionalmente utilizzato per l’attività di trasporto, non potendo esso qualificarsi come mezzo indispensabile ai fini della commissione del reato. Così  si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 42750/16 del 10 ottobre.
Il caso. Vistosi condannato per il reato di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti (punito dall’articolo. 73, comma 4, del d.P.R. n. 309/90) e vistosi disposta la confisca della propria autovettura, l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, lamentando che il giudice non aveva motivato sulla confisca del mezzo, limitandosi a riferire che l’eventuale restituzione del veicolo all’avente diritto consentirebbe al medesimo la commissione di reati dello stesso tipo in un prossimo futuro.
Confisca obbligatoria/confisca facoltativa. Per la Cassazione il suo ricorso è fondato. La vettura di cui è stata disposta la confisca non può essere assoggettabile a confisca obbligatoria, non trattandosi né del prezzo del reato contestato né di un bene la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione costituisce reato.
Al massimo, sostiene la Suprema Corte, potrebbe essere assoggettabile a confisca facoltativa, quale cosa servita alla commissione del reato – trasporto di sostanze stupefacenti – ciò però a condizione che fosse stato accertato un specifico e strutturale nesso strumentale tra la cosa e il reato – cosa da escludere nel caso specifico.
Il trasporto solo occasionale. Il nesso tra cosa e reato, rilevante ai fini della confisca di un veicolo con cui sono state trasportate quantità di sostanze stupefacenti, non ricorre quando il veicolo non è interessato da particolari accorgimenti o modifiche strutturali, e risulti essere stato solo occasionalmente utilizzato per l’attività di trasporto di quantitativi non particolarmente ingenti, non potendo esso qualificarsi come mezzo indispensabile ai fini della commissione del reato e non ricorrendo quindi il presupposto indefettibile della confisca rappresentato dalla pericolosità intrinseca della cosa.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Trasporto di droga: l’autovettura non è sempre assoggettabile a confisca obbligatoria - La Stampa

Unioni civili: il testo del decreto con le modifiche al c.p. e al c.p.p.

La formazione sociale delle unioni civili (che costituiscono una importante novità legislativa nel nostro ordinamento, a cui il legislatore ha riservato una disciplina autonoma con l. 76/2016), implica vincoli affettivi che devono trovare riconoscimento anche ai fini penali. Da qui lo schema di decreto legislativo approvato in via preliminare dal Governo.
Il D.Lgs. intende intervenire (nell’ambito penale appunto) per assicurare ai cittadini omogeneità di trattamento in situazioni equiparabili con l’introduzione nel nostro testo codicistico di quelle necessarie integrazioni volte ad adeguare l’ordinamento alla nuova disciplina delle unioni civili (realizzando così il coordinamento previsto dall’art.1 comma 28 della l. 76/2016).
L’art. 1 si sviluppa in tre sotto paragrafi.
Alla lettera a) viene integrato l’art. 307 c.p. (Assistenza ai partecipi di cospirazione o di banda armata) equiparando al coniuge (nell’ipotesi di favoreggiamento) la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso. Così estendendo, in via generale, agli effetti penali, la qualità di “prossimo congiunto” alla parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso.
Art. 307 codice penale. Assistenza ai partecipi di cospirazione o di banda armata.
Chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato o di favoreggiamento, dà rifugio o fornisce vitto, ospitalità, mezzi di trasporto, strumenti di comunicazione a taluna delle persone che partecipano all'associazione o alla banda indicate nei due articoli precedenti, è punito con la reclusione fino a due anni.
La pena è aumentata se l'assistenza è prestata continuatamente.
Non è punibile chi commette il fatto in favore di un prossimo congiunto.
Agli effetti della legge penale, s'intendono per i prossimi congiunti gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti: nondimeno, nella denominazione di prossimi congiunti, non si comprendono gli affini, allorché sia morto il coniuge e non vi sia prole.
Alla lettera b) viene introdotta una norma generale definitoria (l’art. 574-ter c.p.) che equipara il termine “matrimonio” alla costituzione di un’unione civile tra persone dello stesso sesso, così come la qualità di coniuge alla parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso.
Alla lettera c) viene integrato l’art. 649 c.p. estendendo la non punibilità del coniuge alla parte dell’unione civile per fatti commessi a danno di congiunti, introducendo il paragrafo 1 bis.
Art. 649 codice penale. Non punibilità a querela della persona offesa, per fatti commessi a danno di congiunti.
Non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dallo stesso titolo in danno: 1) del coniuge non legalmente separato; 2) di un ascendente o discendente o di un affine in linea retta, ovvero dell’adottante, o dell’adottato; 3) di un fratello o di una sorella che con lui convivano.
I fatti preveduti da questo titolo sono punibili a querela della persona offesa, se commessi a danno del coniuge legalmente separato, ovvero del fratello o della sorella che non convivano coll’autore del fatto, ovvero dello zio o del nipote o dell’affine in secondo grado con lui conviventi.
Le disposizioni di questo articolo non si applicano ai delitti preveduti dagli articoli 628, 629 e 630 e ad ogni altro delitto contro il patrimonio che sia commesso con violenza alle persone.
L’art. 2 novella invece il codice di procedura penale estendendo la possibilità di rifiutare la testimonianza in procedimenti che vedono imputata l’altra parte dell’unione civile anche per fatti appresi durante la convivenza more uxorio con la persona dello stesso sesso.
Art. 199 c.p.p. Facoltà di astensione dei prossimi congiunti.
1. I prossimi congiunti dell'imputato non sono obbligati a deporre. Devono tuttavia deporre quando hanno presentato denuncia, querela o istanza ovvero essi o un loro prossimo congiunto sono offesi dal reato.
2. Il giudice, a pena di nullità, avvisa le persone predette della facoltà di astenersi chiedendo loro se intendono avvalersene.
3. Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano anche a chi è legato all'imputato da vincolo di adozione. Si applicano inoltre, limitatamente ai fatti verificatisi o appresi dall'imputato durante la convivenza coniugale:
a) a chi, pur non essendo coniuge dell'imputato, come tale conviva o abbia convissuto con esso;
b) al coniuge separato dell'imputato;
c) alla persona nei cui confronti sia intervenuta sentenza di annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto con l'imputato.

Fonte: www.quotidianogiuridico.it/Unioni civili: il testo del decreto con le modifiche al c.p. e al c.p.p. | Quotidiano Giuridico

domenica 9 ottobre 2016

L’autoerotismo in luogo pubblico non costituisce più reato. La Cassazione annulla la condanna

La Sez. III della Corte di cassazione, con sentenza n. 36867, depositata il 6 settembre 2016, ha annullato la sentenza di condanna per il reato di cui all’art. 527 c.p. emessa nei confronti di un soggetto perché dopo aver estratto il proprio membro si masturbava in corrispondenza del passaggio delle studentesse.

Il ricorrente era stato condannato, nei gradi di merito, alla pena di mesi tre di reclusione convertita in euro 3.420,00 di multa.

I giudici di legittimità rilevano però l’abolitio criminis per il reato di atti osceni in luogo pubblico di cui all’art. 527 c.p. intervenuta a seguito del d.lgs. 15 gennaio  2016, n. 8.

Ai sensi dell’art. 8 del d.lgs. 8/2016 infatti le disposizioni ivi contenute, che sostituiscono le sanzioni penali con le sanzioni amministrative,  trovano applicazione anche nei confronti delle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto, salvo che il procedimento penale non sia stato definito con sentenza o decreto divenuti irrevocabili, nel qual caso provvederà il giudice dell’esecuzione alla revoca della sentenza o del decreto.

Ai sensi dell’art. 9, gli atti relativi del procedimento penale dovranno ora essere inviati all’autorità amministrativa competente all’irrogazione della sanzione .  

Fonte: www.ilpenalista.it/L’autoerotismo in luogo pubblico non costituisce più reato. La Cassazione annulla la condanna | ilpenalista.it

Fisco, ecco come essere riammessi alle rate

I contribuenti decaduti, tra il 16 ottobre 2015 e il 1° luglio 2016, dalla rateazione delle somme dovute a seguito di definizione dell’avviso di accertamentoper adesione o per acquiescenza, per essere riammessi alla rateazione non dovranno limitarsi a fare la relativa richiesta ma sono tenuti altresì a pagare la prima rata del nuovo piano.
A precisarlo è la Circolare n. 41/E diffusa il 3 ottobre dall’Agenzia delle Entrate per illustrare la possibilità di riammissione prevista dal cd. “Decreto Enti Locali” (D.L. n. 113/2016). In vista della scadenza del termine di presentazione della richiesta di riammissione, il prossimo 20 ottobre, il Fisco ha riepilogato nel documento i vari aspetti e le diverse fasi che portano alla concessione dei nuovi piani.
A cominciare dall’individuazione dei soggetti destinatari della misura: essi sono coloro che “a seguito di un controllo –spiega l’Agenzia – hanno scelto di avvalersi di uno degli istituti di definizione previsti dal D.Lgs. n. 218/1997(acquiescenza, adesione all’avviso di accertamento, al processo verbale di constatazione, all’invito a comparire) e hanno optato per il pagamento in forma rateale, dal quale, tuttavia, sono decaduti, in quanto, dopo aver effettuato il pagamento della prima rata, non hanno rispettato le scadenze successive”. Non sono ammessi, invece, coloro che sono decaduti da una rateazione generata da altri istituti deflattivi del contenzioso (come la conciliazione e gli accordi di mediazione). Come anticipato, ai fini dell’ottenimento di un nuovo piano, è necessario inoltre che la decadenza dal precedente sia intervenuta nel lasso di tempo intercorrente tra il 16 ottobre 2015 e il 1° luglio 2016.
Ai fini della presentazione della domanda, da inviarsi entro il prossimo 20 ottobre, non sono richieste formalità particolari: basterà un’istanza in carta semplice all’Ufficio competente dell’Agenzia delle Entrate, vale a dire l’Ufficio che ha emesso il provvedimento di rateazione (Direzione Regionale, Direzione Provinciale, Centro Operativo di Pescara). A tal fine, si potrà procedere alla consegna diretta, presentandosi presso l’Ufficio, ovvero inviarla tramite raccomandata o PEC. L’istanza dovrà contenere gli estremi dell’atto a cui si riferisce il piano di rateazione per il quale si è verificata la decadenza nonché del numero delle rate trimestrali in cui si intende pagare l’importo ancora dovuto (in sua assenza, s’intenderà il numero massimo di rate consentito). E proprio sul numero massimo di rate consentite occorre fare una distinzione in base al momento di perfezionamento dell’atto di adesione o acquiescenza che sottende alla rateazione: se intervenuto prima del 22 ottobre 2015, il contribuente potrà ottenere da 8 a massimo 12 rate trimestrali, mentre, per gli atti perfezionatisi successivamente a tale data, sono concedibili fino a 16 rate trimestrali. La data spartiacque coincide con l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 159/2015 che ha difatti riformato il sistema di rateazione a riammissione.
Come anticipato, ai fini dell’ottenimento di un nuovo piano non basta farne richiesta: il contribuente dovrà necessariamente pagare la prima rata (in caso contrario “non si avvale della possibilità di accedere alla nuova rateazione e permane nella condizione di “decaduto”). Il versamento dovrà avvenire nei 60 giorni successivi alla ricezione della comunicazione con cui l’Agenzia delle Entrate, ricevuta e controllata l’istanza del contribuente, lo informa del suo accoglimento. La comunicazione in questione riporta l’importo della prima rata, da versarsi tramite modello di delega F24, avendo cura di riportare il codice dell’atto originario a cui il piano rateale afferisce. La rata iniziale del nuovo piano contiene, oltre agli importi pro rata ancora dovuti a titolo di imposte, interessi e sanzioni, anche gli interessi di rateazione.
Effettuato il versamento, nei 10 giorni successivi il contribuente dovrà far pervenire all’Ufficio presso cui ha presentato l’istanza, la quietanza dell’avvenuto pagamento. Il termine di scadenza delle rate trimestrali successive alla prima dipenderà anch’esso dal momento di perfezionamento degli atti: se prima del 22 ottobre 2015, il termine trimestrale verrà individuato in base alla data di effettuazione del versamento della rata iniziale; se successivo al 22 ottobre 2015, in base al termine previsto per il versamento della rata iniziale.
Dal nuovo piano concesso si decade in caso di mancato pagamento di una delle rate diverse dalla quella iniziale entro il termine di pagamento della rata successiva.

Fonte: www.fiscopiu.it /Fisco, ecco come essere riammessi alle rate - La Stampa

Ressa all’auditorium, brutta caduta per una signora: Comune responsabile

Ricostruito l’episodio, emergono in maniera netta le carenze organizzative addebitabili all’ente locale. Per l’evento, difatti, non vi erano neanche delle semplici transenne per regolarizzare il flusso degli spettatori.
Ressa. La signora è stata travolta all’ingresso «dalla folla» mentre «stava salendo i gradini dell’auditorium». Nonostante una dinamica così chiara, però, i giudici d’appello addebitano proprio alla donna le maggiori responsabilità per la caduta.
In particolare, è stato messo ‘nero su bianco’ in secondo grado che l’anziana «si è volontariamente esposta al rischio di subire danni fisici», perché ella, vista la sua età – 63 anni –, avrebbe dovuto, secondo i giudici, «prendere atto della situazione che si era venuta a creare per il considerevole afflusso di spettatori, per le carenze di illuminazione e per la presenza di gradini che potevano darle problemi di equilibrio» e quindi «sottrarsi semplicemente alla calca e tenersi in disparte, in attesa della apertura della porta di ingresso». Così la donna non avrebbe rischiato «spintoni o strattoni» e, concludono i giudici, avrebbe evitato la caduta.
Carenze. Ora, però, le discutibili valutazioni compiute in appello vengono letteralmente demolite dalla Cassazione (sentenza n. 19993 del 6 ottobre). Privo di logica, quindi, attribuire alla donna il «75 per cento» della responsabilità per l’incidente. Che, invece, spiegano i magistrati, è evidentemente attribuibile alle carenze addebitabili al Comune nella organizzazione della serata all’auditorium.
Nessun dubbio è possibile, difatti, sull’assenza di «personale» e sulla «mancata predisposizione di «idonee misure di sicurezza», come «transenne o corridoi di accesso obbligati», che «avrebbero potuto contenere la calca degli spettatori ed evitare condizioni di rischio».
Questo dato di fatto non può essere certo sminuito, spiegano i magistrati, dalla constatazione della età della vittima, il cui comportamento in fila è stato assolutamente corretto, e per nulla imprudente.
Evidenti, quindi, le colpe del Comune, destinato, con molta probabilità, a risarcire l’anziana signora. Sulla cifra, però, bisognerà aspettare il nuovo giudizio in appello.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /Ressa all’auditorium, brutta caduta per una signora: Comune responsabile - La Stampa

sabato 8 ottobre 2016

Diritto all’oblio. Google deve cancellare il link che riporta notizie vecchie e incomplete

Quando la diffusione online di una notizia risulti non pertinente, incompleta e non aggiornata, la persona interessata ha il diritto di chiedere, oltre che ricevere, la dissociazione del proprio nome dal risultato di ricerca, non riscontrandosi alcun interesse pubblico alla diffusione della predetta notizia.
Diffamazione online. Un quotidiano nazionale pubblicava, nell’anno 2010, un articolo dal contenuto manifestatamente diffamatorio e contenente mere opinioni del giornalista che si riferivano ad una docente universitaria e alla sua presunta raccomandazione “politica”. Dopo un primo ricorso della donna, si concludeva una transazione con il giornalista e il direttore responsabile, con l’eliminazione del predetto articolo dall’archivio on line del quotidiano. Successivamente, nel 2012, il predetto articolo “ricompariva” su un sito web; il testo pubblicato era indicizzato in modo tale che con il nome e cognome della ricorrente compariva al sesto posto dei risultati di ricerca di Google. La donna chiedeva la rimozione dell’articolo; richiesta che però veniva rigettata sia dal motore di ricerca sia dal GarantePrivacy. A questo punto ricorreva avanti l’autorità giudiziaria, chiedendo l’annullamento del provvedimento del Garante e la condanna del motore di ricerca a deindicizzare la url che riportava all’articolo dal contenuto diffamatorio, nonché a cancellare le tracce digitali. Secondo la donna non sussisteva alcun interesse pubblico alla conoscenza della notizia.
Il ricorso ha quindi ad oggetto la tutela del diritto all’identità personale della ricorrente, la quale ha chiesto al giudice di dare prevalenza, nel bilanciamento tra contrapposti diritti (quali quello della donna e quello del motore di ricerca di rendere maggiormente fruibili le informazioni contenute nel blog su cui era ricomparsa la notizia), al proprio diritto all’oblio. Nel caso in esame il tribunale non ritiene sussistente alcun carattere di pubblico interesse: i dati personali della donna, seppur astrattamente ancora attuali, non erano né aggiornati né pertinenti e nemmeno completi. Le opinioni riportate nell’articolo – circa la presunta raccomandazione “politica” della donna – rappresentavano idee isolate e ad esse non era seguito alcun accertamento idoneo a corroborare i dubbi sulla regolarità del concorso pubblico cui aveva partecipato la ricorrente.
Sulla base di tali argomenti, il Tribunale di Milano ha condannato Google a provvedere alla deindicizzazione della url ed alla cancellazione delle tracce digitali di tale ricerca.

Fonte: www.ridare.it /Diritto all’oblio. Google deve cancellare il link che riporta notizie vecchie e incomplete - La Stampa

La morte di uno dei coniugi impedisce la prosecuzione della causa di divorzio

La Corte d’Appello di Torino si è pronunciata in merito alla richiesta del coniuge superstite di dichiarare nulla la sentenza parziale di cessazione degli effetti civili del matrimonio a seguito della morte dell’altro coniuge, sopravvenuta in pendenza dei termini di impugnazione.
I fatti. Con ricorso depositato presso la Corte d’Appello di Torino, la ricorrente ha chiesto che fosse dichiarata nulla la sentenza di scioglimento del matrimonio concordatario, essendo intervenuto il decesso dell’altro coniuge prima del passaggio in giudicato del provvedimento impugnato. Il giudice di secondo grado riconosce l’interesse dell’appellante ad impugnare la sentenza parziale sullo status poiché la stessa ha maturato un interesse «presumibilmente» successorio ad essere considerata quale coniuge superstite “separato”, piuttosto che coniuge superstite “divorziato”.
La decisione dei giudici. La Corte ha richiamato, inoltre, il principio giurisprudenziale prevalente secondo cui la morte di uno dei coniugi è «evento che travolge ope legis il rapporto matrimoniale» rimuovendo i presupposti per la prosecuzione della causa di divorzio e determinando la cessazione della materia del contendere. Ne consegue la caducazione di tutte le pronunce emesse nel corso del procedimento e non ancora passate in giudicato, anche quando la morte si verifichi in pendenza del termine di impugnazione. Per questi motivi, la Corte d’Appello ha accolto il ricorso, dichiarato cessata la materia del contendere e, per l’effetto, la nullità della sentenza parziale di divorzio impugnata.

Fonte: www.ilfamiliarista.it /La morte di uno dei coniugi impedisce la prosecuzione della causa di divorzio - La Stampa

Schiaffo sul sedere della militare: maresciallo condannato per ingiuria

Ricostruito l’episodio verificato in una stazione dei Carabinieri nel nord Italia. È stato un semplice schiaffo sul sedere: così un maresciallo cerca di ridimensionare la condotta da lui tenuta nei confronti di una militare. Tutto inutile, però: l’uomo è condannato per il reato di “ingiurie”. (Cassazione, sentenza n. 42357, depositata il 6 ottobre 2016).
Abuso. Nessun tentennamento per i giudici militari: una volta ricostruito l’episodio – verificatosi in una stazione dei Carabinieri nel nord Italia –, difatti, viene ritenuto evidente l’abuso compiuto dal maresciallo. Logica la condanna, con «pena, sospesa, di sei mesi di reclusione militare» e obbligo di versare «1.500 euro» come «risarcimento» alla persona offesa.
In sostanza, è univoca, secondo i giudici, la lettura del comportamento tenuto dal maresciallo. La donna, «nel transitare unitamente ad altri militari per le scale della sede di servizio», aveva incrociato un «suo superiore gerarchico» che «fermatosi di lato, la toccava con una mano, a mo’ di pacca, sui glutei, accompagnando il gesto con la frase “Su, a lavorare”».
E uguale certezza è manifestata dai magistrati della Cassazione. A loro avviso, difatti, proprio «la posizione di comando» del maresciallo permette di qualificare il suo gesto come un «abuso del grado».
Confermata, quindi, in via definitiva la condanna emessa in appello.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Schiaffo sul sedere della militare: maresciallo condannato per ingiuria - La Stampa

martedì 4 ottobre 2016

Coppie di fatto, tutele rafforzate col contratto di convivenza

La legge 76 del 2016 ai commi 36 – 65 disciplina le convivenze di fatto, istituto che può riguardare tanto coppie eterosessuali quanto coppie omosessuali. Il comma 36 definisce i conviventi di fatto come due persone maggiorenni:
- non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da unione civile;
- unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale ;
- coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune. Il comma 37, infatti, richiama ai fini dell'accertamento della stabile convivenza il concetto di famiglia anagrafica previsto dal regolamento anagrafico (Dpr n. 223 del 1989).
Ai commi successivi vengono riconosciuti una serie di diritti per i conviventi, attraverso un’estensione, nei confronti di questi ultimi, dei diritti previsti in favore dei coniugi: innanzitutto il comma 38 prevede per il convivente le medesime garanzie stabilite per il coniuge in materia di ordinamento penitenziario; al successivo comma 39 sono garantiti i diritti di visita, assistenza e accesso alle informazioni personali in ambito sanitario, analogamente a quanto previsto oggi per i coniugi e i familiari. Significativo anche il riconoscimento di un potere di rappresentanza per le scelte mediche, disciplinato ai commi 40 e 41, che ammettono ciascun convivente di fatto a designare, in forma scritta e autografa oppure, in caso di impossibilità, alla presenza di un testimone, il partner come rappresentante, con poteri pieni o limitati per l'assunzione di decisioni in materia di salute, anche in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere ovvero, in caso di morte, per le scelte relative alla donazione di organi e alle modalità delle esequie.
La novella prosegue disciplinando la materia dei diritti relativi all’abitazione sancendo che: « Salvo quanto previsto dall'articolo 337-sexies del codice civile, in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni». Il comma 42 prosegue rilevando che: « Ove nella stessa coabitino figli minori o figli disabili del convivente superstite, il medesimo ha diritto di continuare ad abitare nella casa di comune residenza per un periodo non inferiore a tre anni».
In base al comma 43, il diritto di abitazione viene meno se il convivente superstite cessa di abitare stabilmente nella casa o in caso di matrimonio, di unione civile o di nuova convivenza di fatto.
In materia di successione nel contratto di locazione si ammette il convivente di fatto a detta facoltà nei casi di morte del conduttore o di suo recesso dal contratto di locazione della casa di comune residenza.
Il comma 45 dispone in ordine all'inserimento nelle graduatorie per l'assegnazione di alloggi di edilizia popolare, equiparando il rapporto di convivenza a quello di coniugio ai fini di eventuali titoli o cause di preferenza nella formazione delle graduatorie stesse.
Interessante l’estensione al convivente di fatto delle prerogative previste in materia di impresa familiare: attraverso l’inclusione, nel codice di merito, di un nuovo articolo, il 230-ter , infatti: «Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato».
In tema di risarcimento del danno per il decesso del convivente di fatto, derivante da fatto illecito di un terzo, la neointrodotta disciplina, al comma 49, prevede che, nell'individuazione del danno risarcibile alla parte superstite, «si applicano i medesimi criteri individuati per il risarcimento del danno al coniuge superstite», con una dichiarata equiparazione della convivenza di fatto al rapporto matrimoniale.
Il contratto di convivenza
Dal comma 50 al 63 è contenuta la disciplina in materia di «contratto di convivenza», ossia l’accordo mediante il quale i partner decidono di regolamentare gli aspetti economici della convivenza.
Quanto ai requisiti di forma del contratto di convivenza, valevoli anche nel caso di mere modifiche e in caso di sua risoluzione, è richiesta la forma scritta ad substantiam, ossia a pena di nullità, da soddisfarsi con ricorso ad un atto pubblico o una scrittura privata autenticata da un notaio ovvero da un avvocato che ne devono attestare la conformità alle norme imperative e all'ordine pubblico.
Ai soli fini dell'opponibilità ai terzi, il professionista che ha ricevuto l'atto in forma pubblica o che ne ha autenticato la sottoscrizione deve provvedere entro i successivi dieci giorni a trasmetterne copia al comune di residenza dei conviventi per l'iscrizione all'anagrafe ai sensi degli articoli 5 e 7 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223.
Il contenuto del contratto è indicato al comma 50 che ammette che lo stesso preveda: a) l'indicazione della residenza; b) le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo; c) il regime patrimoniale della comunione dei beni, di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile.
Il regime patrimoniale scelto nel contratto di convivenza può, inoltre, essere modificato in qualunque momento nel corso della convivenza, nell’osservanza degli specifici requisiti formali di cui al comma 51.
Al comma 55 è previsto l’adeguamento del trattamento dei dati sensibili, contenuti nelle  certificazioni anagrafiche, alle prescrizioni dettate dal codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, garantendo il rispetto della dignità degli appartenenti al contratto di convivenza. Nel particolare, è posta, sul punto, una specifica clausola di non discriminazione, secondo la quale «I dati personali contenuti nelle certificazioni anagrafiche non possono costituire elemento di discriminazione a carico delle parti del contratto di convivenza».
Inoltre il contratto di convivenza non può essere sottoposto a termine o condizione. Nel caso in cui le parti inseriscano termini o condizioni, questi si hanno per non apposti.
Il comma 55 individua le ipotesi di nullità assoluta, indicando che il contratto di convivenza è affetto da nullità insanabile che può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse se concluso:
«a) in presenza di un vincolo matrimoniale, di un'unione civile o di un altro contratto di convivenza;
b) in violazione del comma 36 (assenza di rapporti di parentela, affinità o adozione; assenza di un legame affettivo stabile di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale);
c) da persona minore di età;
d) da persona interdetta giudizialmente;
e) in caso di condanna per il delitto di cui all'articolo 88 del codice civile (per omicidio consumato o tentato sul coniuge dell'altra)».
Viene poi regolata la sospensione del contratto di convivenza: Gli effetti del factum restano sospesi in pendenza del procedimento di interdizione giudiziale o nel caso di rinvio a giudizio o di misura cautelare disposti per il delitto di cui all'articolo 88 del codice civile, fino a quando non sia pronunciata sentenza di proscioglimento.
Anche le ipotesi di risoluzione del contratto sono state rigidamente individuate dal legislatore. Il contratto di convivenza si risolve innanzitutto su accordo delle parti o in caso di recesso unilaterale. In questi due casi è prescritta l’osservanza dell’obbligo di forma scritta solenne di cui al comma 51. Qualora il regime prescelto dai conviventi fosse quello della comunione dei beni, in caso di risoluzione si applicano le disposizioni sullo scioglimento della comunione previste nel codice di merito sulla comunione legale, in quanto compatibili, se dal contratto di convivenza derivavano diritti reali immobiliari, al trasferimento degli stessi resta ferma la competenza del notaio.
Nel caso di recesso unilaterale da un contratto di convivenza il professionista che riceve o che autentica l'atto è tenuto, oltre che agli adempimenti di cui al comma 52, a notificarne copia all'altro contraente all'indirizzo risultante dal contratto. Nel caso in cui la casa familiare sia nella disponibilità esclusiva del recedente, la dichiarazione di recesso, a pena di nullità, deve contenere il termine, non inferiore a novanta giorni, concesso al convivente per lasciare l'abitazione.
Altre cause di risoluzione espressamente individuate sono: alla lettere c) il matrimonio o unione civile tra i conviventi o tra un convivente ed altra persona; e alla lettera d) la morte di uno dei contraenti.
Nel caso di cui alla lettera c) del comma 59, il contraente che ha contratto matrimonio o unione civile deve notificare all'altro contraente, nonché al professionista che ha ricevuto o autenticato il contratto di convivenza, l'estratto di matrimonio o di unione civile.
Mentre nel caso di cui alla lettera d) del comma 59, il contraente superstite o gli eredi del contraente deceduto devono notificare al professionista che ha ricevuto o autenticato il contratto di convivenza l'estratto dell'atto di morte affinché provveda ad annotare a margine del contratto di convivenza l'avvenuta risoluzione del contratto e a notificarlo all'anagrafe del comune di residenza.
È stata altresì introdotta una regolamentazione ad hoc in tema di diritto internazionale privato, aggiungendo alla legge 31 maggio 1995, n. 218, l’art 30-bis che prevede che ai contratti di convivenza si applichi la legge nazionale comune dei contraenti. Mentre nel caso di contraenti di diversa cittadinanza si applica la legge del luogo in cui la convivenza è prevalentemente localizzata. Sono fatte salve le norme nazionali, europee ed internazionali che regolano il caso di cittadinanza plurima.
Viene riconosciuto, in caso di cessazione della convivenza di fatto, il diritto agli alimenti per il convivente che versi in stato di bisogno e che non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento. Gli alimenti sono assegnati, con provvedimento del Tribunale, per un periodo proporzionale alla durata della convivenza e nella misura determinata ai sensi dell'articolo 438, secondo comma c.c., ossia avendo riguardo allo stato di bisogno dell’alimentando e alle condizioni economiche dell’onerato, sia pure in misura non superiore a quanto necessario per la vita dell’avente diritto. La riforma antepone l'obbligo alimentare dell'ex-convivente a quello che grava sui fratelli e le sorelle della persona in stato di bisogno.

Fonte: www.ilsole24ore.com//Coppie di fatto, tutele rafforzate col contratto di convivenza

Violenza sessuale: costituisce ''induzione'' qualsiasi forma di sopraffazione della vittima

 L’induzione necessaria ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale non si identifica solo con la persuasione subdola ma si...