martedì 30 settembre 2014

Peculato per il dipendente della concessionaria del parcheggio comunale che si appropria del prezzo del biglietto

«Il dipendente, sia esso guardia giurata o non, di una società concessionaria della gestione di un parcheggio comunale o di altro ente pubblico, che si appropri delle somme versate dai conducenti di automezzi fruitori del parcheggio, in quanto persona incaricata di un pubblico servizio, commette il reato di peculato». Questa è la conclusione cui perviene la sesta sezione penale della Cassazione con la sentenza 36176/2014 .

La vicenda - Una guardia giurata, dipendente della società appaltatrice del servizio di gestione, vigilanza e riscossione di un parcheggio comunale a pagamento, veniva condannato per il reato di peculato di cui all'articolo 314 del codice penale per essersi impossessato del prezzo del biglietto del parcheggio pagato da ogni conducente, alzando la sbarra in uscita con il telecomando in propria dotazione anziché consegnare ad essi il gettone da inserire nella macchina automatica e la relativa ricevuta.

In tutti i gradi di giudizio la questione interpretativa sollevata dalla difesa e affrontata dai giudici è stata l'attribuzione al dipendente della qualifica di incaricato di pubblico servizio, ovvero una delle qualifiche soggettive che delimitano l'ambito di applicazione soggettivo dei reati contro la pubblica amministrazione.

La qualifica di incaricato di pubblico servizio - In relazione a tale questione, i giudici di merito avevano sottolineato il fatto che il dipendente della società concessionaria del parcheggio non si era limitato a compiere mere mansioni esecutive, ma svolgeva altresì funzioni di riscossione e vigilanza. Considerata la natura di servizio pubblico e la funzione pubblica di tali attività, anche in relazione al contesto nel quale erano esercitate, sia il Tribunale che la Corte d'appello avevano riconosciuto l'esistenza della qualifica di incaricato di pubblico servizio in capo al dipendente.

La difesa del dipendente riteneva invece che tali argomentazioni fossero errate, in quanto se l'attività di sorveglianza del parcheggio è da considerarsi come pubblico servizio, lo stesso non può dirsi per l'attività di riscossione del pedaggio, attività considerata materiale e meramente esecutiva, seppur connessa a quella di vigilanza. Ciò escludeva la possibilità di attribuire al dipendente la qualifica di incaricato di pubblico servizio e di conseguenza la configurabilità del delitto di peculato.

Le parole della Corte - La Cassazione ritiene infondato il motivo di ricorso ed afferma che il dipendente della società concessionaria è a tutti gli effetti un incaricato di pubblico servizio. Secondo infatti la corretta interpretazione dell'articolo 358 c.p. , riveste tale qualifica soggettiva «colui che, a qualunque titolo, presta un servizio pubblico, a prescindere da qualsiasi rapporto di impiego con un determinato ente pubblico», in quanto il criterio oggettivo-funzionale utilizzato nella disposizione codicistica non richiede che l'attività svolta sia imputabile ad un soggetto pubblico, ma che il servizio «anche se concretamente attuato attraverso organismi privati, realizzi finalità pubbliche». E nel caso particolare del servizio di vigilanza e custodia delle guardie giurate i giudici di legittimità affermano che «la natura pubblica del servizio logicamente si estende, includendole senza soluzione di continuità operativa e soggettiva, alle ulteriori attività complementari e collegate, in rapporto di diretta causalità funzionale allo svolgimento dell'attività in concreto assegnata alla guardia giurata».

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STRISCE BLU - Multe illegittime se nelle vicinanze non esiste parcheggio gratuito

È illegittima la multa per mancata esposizione del ticket attestante l'avvenuto pagamento per la sosta, qualora il Comune non provi alternativamente (i) che nelle vicinanze dell'area adibita a sosta a pagamento vi sia anche un'adeguata area per la sosta gratuita; o (ii) l'esistenza di una causa di esonero dall'obbligo di predisposizione delle stesse.

Questo è quanto ha affermato la sezione VI-2 della Corte di Cassazione, con ordinanza n. 18575, del 2 settembre 2014 , in accoglimento dell'impugnazione della sentenza di secondo grado del Tribunale di Napoli, che aveva confermato la sussistenza della violazione, ex art. 7, comma 8, del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (di seguito anche solo "Codice della Strada") ascritta alla ricorrente, sostenendo che quest'ultima non avesse assolto l'onere di provare l'insussistenza di motivi di esonero dall'obbligo del Comune di prevedere aree per la sosta gratuita.

In particolare, il citato art. 7, comma 8, del Codice della Strada prevede che qualora il comune disponga l'installazione di dispositivi di controllo di durata della sosta a pagamento, "su parte della stessa area o su altra parte nelle immediate vicinanze, deve riservare una adeguata area destinata a parcheggio rispettivamente senza custodia o senza dispositivi di controllo di durata della sosta. Tale obbligo non sussiste per le zone definite a norma dell'art. 3 "area pedonale" e "zona a traffico limitato", nonché per quelle definite "A" dall'art. 2 del decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16 aprile 1968, e in altre zone di particolare rilevanza urbanistica, opportunamente individuate e delimitate dalla Giunta nelle quali sussistano esigenze e condizioni particolari di traffico."

Il Tribunale di Napoli, in secondo grado, aderendo alla tesi sposata dal Giudice di Pace di Napoli, in primo grado, aveva sostenuto che la ricorrente, nel contestare l'irrogazione della sanzione amministrativa de qua, avrebbe dovuto dimostrare non solo l'assenza di aree di sosta gratuita, nelle vicinanze dell'area per il parcheggio a pagamento, ma anche l'insussistenza delle sopra riportate cause di esonero dall'obbligo del Comune di prevedere aree di sosta gratuita, avendo il Tribunale ritenuto insufficiente, a tal fine, la semplice eccezione sollevata dalla ricorrente, con la quale la stessa ha eccepito la mancanza delle suddette esimenti.

In tal modo, i giudici di prima e seconda istanza avevano posto a carico della ricorrente l'onere fornire una prova negativa, tale da risolversi sostanzialmente in una probatio diabolica.

Motivi della decisione

Discostandosi dalla tesi sposata dai giudici di primo e secondo grado, la Corte di Cassazione ha affermato, come già fatto più volte in precedenza ( Cass. Civ., sez. II, sentenza 20 gennaio 2010, n. 927; Cass. Civ., sez. I, sentenza 7 marzo 2007, n. 5277 ), che, nei giudizi di opposizione a sanzione amministrativa, l'amministrazione opposta (nella fattispecie il Comune di Napoli), sebbene sia formalmente convenuta in giudizio, sostanzialmente assuma la posizione di attrice.

Pertanto, ai sensi dell'art. 2697 del codice civile, spetta a quest'ultima fornire la prova dell'esistenza degli elementi fattuali integranti la violazione contestata, mentre compete all'opponente, che ricopre la posizione sostanziale del convenuto, la prova dei fatti impeditivi od estintivi della violazione.

Gli ermellini hanno ritenuto che la ricorrente abbia assolto l'obbligo di provare i fatti impeditivi od estintivi della violazione, eccependo l'inesistenza di aree destinate alla sosta gratuita, nelle vicinanze delle aree per la sosta a pagamento, nonché l'insussistenza di cause esimenti il Comune opposto da tale obbligo, esaurendo così il proprio obbligo processuale.

Sarebbe stato onere dell'amministrazione sollecitata, quindi, smentire l'eccezione, producendo in giudizio i documenti comprovanti l'adempimento dell'obbligo di cui all'art. 7, comma 8, del Codice della Strada, da parte del Comune, oppure l'esistenza di una delle cause di esonero elencate nella disposizione normativa sopra citata.

In ottemperanza a quanto sopra rilevato, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso e, per gli effetti, ha cassato la sentenza impugnata, rinviando al Tribunale di Napoli, in diversa composizione, per l'emanazione di una nuova sentenza, conforme al principio sopra enunciato.

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Figlia negli States con un lavoro sicuro, ma sono i giudici a decidere quando stracciare l’assegno

In caso di sopravvenuta autosufficienza economica della figlia, l’assegno di mantenimento a carico del padre viene escluso a partire dalla data di decisione, non dalla domanda. Lo afferma la Cassazione nell’ordinanza 15500/14.

Il caso

Il tribunale di Roma determinava in 5.000 € l’assegno a carico del marito per moglie e figli. La Corte d’appello di Roma riformava la sentenza, escludendo l’assegno di 700 € per la figlia e determinando quello per la moglie e l’altro figlio in 4.300 €. L’uomo ricorreva in Cassazione, ma la Corte di legittimità non rilevava alcun errore nella sentenza di merito. Invero, la Corte d’appello aveva escluso l’assegno per la figlia maggiorenne, residente negli Stati Uniti e con un reddito da lavoro stabile, richiamando l’attualità della situazione, nel senso che il padre non aveva provato una decorrenza anteriore dell’autosufficienza economica della figlia. Infatti, solo nel corso del giudizio d’appello era stata prodotta la documentazione che provava il definitivo trasferimento all’estero della figlia, perciò sussisteva la legittimazione della madre convivente a percepire l’assegno anche per la figlia fino al trasferimento di quest’ultima. Era, quindi, corretto il ragionamento dei giudici d’appello, che avevano escluso l’assegno dalla data di decisione e non dalla domanda. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Figlia negli States con un lavoro sicuro, ma sono i giudici a decidere quando stracciare l’assegno

L’amico si prostituisce: è meglio evitare di fargli pubblicità

Il reato di favoreggiamento della prostituzione si perfeziona favorendo in qualsiasi modo la prostituzione altrui, per cui non si rende necessaria una condotta attiva, essendo sufficiente ogni forma di interposizione agevolativa, come quella di mettere in contatto il cliente con la prostituta. Così si è espressa la Cassazione nella sentenza 29734/14.

Il caso

La Corte d’appello di Lecce condannava un imputato per il reato di favoreggiamento della prostituzione. L’uomo ricorreva in Cassazione, deducendo di essersi limitato a fornire un mero aiuto ad un amico, che versava in condizioni disagiate, concedendogli il mero uso della propria abitazione. Inoltre, quando il capitano dei Carabinieri si era finto cliente ed era entrato in casa, l’imputato si era limitato a pattuire una prestazione personale con lui, senza mai nominare come potenziale prestatore della performance sessuale (se non dopo un’espressa richiesta del capitano) l’amico, il quale in realtà svolgeva l’attività di meretricio.

Per la Corte di Cassazione, però, il ricorso è inammissibile, in quanto si limita a chiedere una diversa valutazione delle circostanze di fatto, insindacabile in sede di legittimità. Secondo gli Ermellini, il percorso argomentativo svolto dai giudici di merito era del tutto coerente dal punto di vista logico. Inoltre, ricordano che il reato di favoreggiamento della prostituzione si perfeziona favorendo in qualsiasi modo la prostituzione altrui, per cui non si rende necessaria una condotta attiva, essendo sufficiente ogni forma di interposizione agevolativa, come quella di mettere in contatto il cliente con la prostituta. Invece, non sono richiesti comportamenti corrispondenti ad una condotta tipica, in quanto basta, per il perfezionamento degli elementi costitutivi del reato, una generica condotta avente un effetto di facilitazione che non deve necessariamente avere il carattere dell’abitualità connessa ad una reiterazione di atti.

Gli estremi del reato possono essere integrati anche da un solo fatto di agevolazione, per cui è illecita un’interposizione, anche occasionale, che agevoli la prostituzione di una persona. Si tratta, difatti, di un reato solo eventualmente abituale, potendo essere integrato pure da un singolo fatto. Per questi motivi, la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - L’amico si prostituisce: è meglio evitare di fargli pubblicità

lunedì 29 settembre 2014

La nazionalità estera dell’imprenditore non esclude l’attività in Italia

Troppi gli elementi indiziari offerti dall’Amministrazione per reputare che l’Ufficio non avesse fornito la prova che il contribuente svolgesse attività imprenditoriale in Italia e che sussistessero, quindi, i presupposti impositivi. Lo afferma la Cassazione, andando ad annullare la sentenza della CTR che, fondando il suo convincimento su “elementi di per sé non significativi”, richiedeva all’Agenzia un maggior onere probatorio a suffragio degli avvisi emessi ai fini IRPEF e ILOR.

Più precisamente, l’Appello reputava illegittimo l’accertamento in virtù di svariate circostanze: che il contribuente fosse di nazionalità albanese e residente in Italia, che prima dell’inizio dell’attività della S.r.l. c’era già un soggetto che acquisiva la merce in Italia per conto della ditta albanese, e ancora che la CTU resa nel processo penale aveva evidenziato che le vendite erano riferite quasi esclusivamente ad esportazioni verso l’Albania, ove, sempre secondo l’Appello, l’esportatore era prevalentemente la S.r.l. e l’importatore il cittadino albanese.

Tutto senza esternare, a parere degli Ermellini, il collegamento con l’affermazione che escludeva lo svolgimento di attività imprenditoriale in Italia. Con la sentenza del 25 settembre n. 20316, la Corte accoglie il ricorso dell’Amministrazione: la CTR, in virtù dei menzionati elementi, pretermetteva l’esame di quelli offerti dall’Ufficio che, complessivamente valutati, “erano idonei ad orientare verso una diversa decisione”. Posto che gravava sul contribuente, che ometteva di presentare la dichiarazione, l’onere probatorio di vincere le presunzioni poste a base dell’accertamento induttivo.

Fonte: Fiscopiù - Giuffrè- www.fiscopiu.it/La Stampa - La nazionalità estera dell’imprenditore non esclude l’attività in Italia

Con una catena, “invita” il messo a notificare al portiere, ma la busta doveva finire nelle sue mani

Secondo l’art. 139, comma 3, c.p.c., la copia dell’atto è notificata al portiere quando non sia possibile la notifica in mani proprie, il destinatario non venga trovato nella casa di abitazione o in questa manchi una persona di famiglia non minore di 14 anni e non palesemente incapace. Lo ricorda la Cassazione nella sentenza 30058/14.

Il caso

Riformando la sentenza di assoluzione di primo grado, la Corte d’appello di Catania condannava un imputato per minaccia a pubblico ufficiale, ai sensi dell’art. 336 c.p., in quanto aveva brandito una catena contro il messo di conciliazione che doveva notificargli due cartelle esattoriali per impedirgli di portare a termine il compito.

A giudizio della Corte, erroneamente il primo giudice aveva ritenuto fondata la versione dell’imputato, secondo cui il messo aveva minacciato la moglie di denuncia se questa non avesse accettato la notifica degli atti, mentre la donna chiedeva che la notifica fosse fatta al portiere dello stabile. L’imputato ricorreva in Cassazione, contestando ai giudici territoriali di non aver tenuto conto del comportamento improprio ed ingiustificabile del messo notificatore.

Analizzando la domanda, la Corte di Cassazione riteneva corretto il percorso logico seguito dai giudici d’appello. Al contrario, la sentenza di primo grado conteneva due errori: da una parte, laddove aveva considerato impropria ed ingiustificabile la volontà del messo di conciliazione di fare il lavoro di sua competenza e, dall’altra, quando aveva ritenuto che la normativa permetta al destinatario degli atti la scelta della notifica al portiere anziché a lui direttamente. Infatti, secondo l’art. 139, comma 3, c.p.c., la copia dell’atto è notificata al portiere quando non sia possibile la notifica in mani proprie, il destinatario non venga trovato nella casa di abitazione o in questa manchi una persona di famiglia non minore di 14 anni e non palesemente incapace. Perciò, il messo era obbligato alla notifica alla donna. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Con una catena, “invita” il messo a notificare al portiere, ma la busta doveva finire nelle sue mani

sabato 27 settembre 2014

Stupro, quando scatta l'attenuante

La Corte di cassazione, nel solco della prevalente giurisprudenza, ha annullato con rinvio la sentenza con la quale la Corte d'appello di Venezia, confermando la sentenza di primo grado, aveva escluso l'ipotesi attenuata di violenza sessuale, a favore di un imputato, solo perché il rapporto sessuale non consensuale era stato portato a termine. I giudici censurano l'automatismo con il quale l'attenuante è stata negata, tralasciando di considerare la qualità dell'atto compiuto, il solo indice idoneo per concederla o escluderla.

Ai fini del riconoscimento dell'attenuante - che comporta una congrua riduzione della pena - non assume infatti rilievo determinante la qualità dell'atto compiuto, per cui il giudice ha l'obbligo di tenere in considerazione altri indici, oltre che quello “quantitativo”, anche solo per negare un trattamento meno afflittivo. La Corte individua, fra tali indici, «il grado di coartazione esercitato sulla vittima», le sue condizioni fisiche e mentali, «l'entità della compressione della libertà sessuale» e il danno anche psichico arrecato.

La «tipologia dell'atto», infatti, il solo indice utilizzato, è solo uno degli indicatori della gravità del fatto, ma non un elemento dirimente, qual è stato ritenuto dai giudici di merito, nella sentenza che, perciò, è stata annullata, rimettendo la questione al giudice del rinvio. Una rigida applicazione del solo criterio utilizzato vanificherebbe, infatti, conclude la Corte, la oramai superata distinzione fra atti di libidine, caratterizzanti l'atto sessuale non completo e la violenza carnale piena.

Il riferimento, ad avviso dei giudici meritevole di attenzione, allo stato di ubriachezza dell'imputato che avrebbe commesso, perciò, il reato sotto l'influenza dell'alcol, ha suscitato reazioni negative, comprensibili vista la delicata materia affrontata e la fin troppo tollerata violenza sulle donne. Ma la Suprema corte è giudice delle leggi e non dei comportamenti e si è limitata a censurare un errore di diritto, invitando il giudice del rinvio solo a valutare gli elementi aggiuntivi, il che non esclude affatto il diniego dell'attenuante, rendendosi necessaria solo una più adeguata motivazione. Dunque, non la manifestazione di una benevolenza particolare nei confronti di un presunto stupratore (tale è l'imputato fino a sentenza definitiva) ma l'affermazione di un principio diritto, che non esclude affatto la gravità della condotta e la necessità che venga sanzionata severamente. Di diverso avviso, peraltro, era stato il sostituto procuratore generale della Cassazione Pietro Gaeta, che nella sua requisitoria si era opposto al ricorso.

La decisione, tuttavia, ha scatenato come detto una ridda di reazioni, tutte negative. Così, ha avvertito l'avvocato Giulia Bongiorno - impegnata da lungo tempo nella difesa delle donne - si rischia «di derubricare il reato. Difficile immaginare un caso poco grave di violenza completa». Sulla stessa linea la vicepresidente del Senato, Valeria Fedeli (Pd): «Che possa esistere una minore gravità nel caso di una violenza sessuale è semplicemente inaccettabile» e la capogruppo Ncd alla Camera, Nunzia De Girolamo. La deputata di Forza Italia, Deborah Bergamini, ha poi ricordato che la decisione è «in totale contraddizione con l'impegno in Parlamento per contrastare la violenza di genere e con un'Italia che è tra i primi Paesi ad aver ratificato la Convenzione di Istanbul»

Infine, la presidente del “Telefono rosa”, Maria Gabriella Carnieri Moscatelli, ha sottolinatao come il verdetto sminuisca la gravità «di un delitto così efferato come lo stupro» e come questo avvenga «in un momento particolarmente grave e violento per le donne, dove quasi ogni giorno una donna viene uccisa».

fonte: www.quotidianodiritto.ilsole24ore.com// Stupro, quando scatta l'attenuante

venerdì 26 settembre 2014

Vendita sottocosto: dannosa non solo commercialmente, ma anche penalmente

Non ricorre l’ipotesi di bancarotta semplice, integrata da operazioni gravemente imprudenti poste in essere dall’imprenditore, bensì quella più grave della bancarotta fraudolenta, nel caso di sistematica e preordinata vendita sottocosto, o comunque in perdita, di beni aziendali. Lo afferma la Cassazione nella sentenza 29569/14.

Il caso

Il socio accomandatario di una sas veniva condannato dalla Corte d’appello di Reggio Calabria per bancarotta fraudolenta patrimoniale, aggravata dalla rilevante entità del danno cagionato, in quanto aveva distratto la somma ricavata dalla vendita della merce. L’imputato ricorreva in Cassazione, sostenendo di aver dovuto vendere la merce sottocosto per tentare di sanare delle passività determinate dalla scarsa esperienza patrimoniale. Di conseguenza, i fatti sarebbero dovuti ricadere nell'ipotesi prevista dall’art. 217, numero 3, l.f., che punisce il ricorso sistematico alle svendite per tacitare i creditori.

Tuttavia, la Corte di Cassazione rilevava che l’uomo aveva venduto la merce presente in magazzino per una somma rilevante, che poi non era stata rinvenuta nelle casse della società. Ciò bastava a giustificare l’integrazione dell’elemento oggettivo del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, costituendo una valida presunzione di distrazione il fatto che un imprenditore non giustifichi in quale modo dei beni appartenenti al patrimonio della società, e non più rinvenuti, sarebbero stati utilizzati secondo l’interesse della stessa società. Inoltre, non ricorre l’ipotesi di bancarotta semplice, integrata da operazioni gravemente imprudenti poste in essere dall’imprenditore, bensì quella più grave della bancarotta fraudolenta, nel caso di sistematica e preordinata vendita sottocosto, o comunque in perdita, di beni aziendali.

Anche le operazioni manifestamente imprudenti, di cui all’art. 217, numero 3, l.f., devono presentare, in astratto, un elemento di razionalità nell’ottica delle esigenze dell’impresa, affinché il risultato negativo sia frutto di un mero e riscontrabile errore di valutazione. Nel caso di specie, veniva dimostrata l’incoerenza, rispetto alle finalità della società, delle vendite sottocosto dei beni aziendali, con la conseguente esclusione dell’errore di valutazione che solo avrebbe potuto giustificare l’inquadramento dei fatti a titolo colposo. Per questi motivi, la Corte di Cassazione dichiarava inammissibile il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Vendita sottocosto: dannosa non solo commercialmente, ma anche penalmente

Stupri, sentenza della Cassazione: possibili attenuanti anche se c’è un rapporto completo

Si possono commettere numerosi stupri portati a totale compimento - con la sopraffazione fisica della donna e della sua dignità - e nonostante ciò vedersi concessa l’attenuante di aver commesso un reato di non troppo rilievo, per il quale si può ottenere la riduzione della pena. È quanto sostiene la Cassazione, che si è espressa in disaccordo con un verdetto di merito che, invece, riteneva che una violenza sessuale portata a estremo compimento sia di per sé un reato grave e non un episodio di «minore gravità».

 Secondo i supremi giudici, la «tipologia» dell’atto «è solo uno degli elementi indicativi dei parametri» in base ai quali stabilire la gravità della violenza, e non è un elemento «dirimente». Di diverso avviso è stato il Sostituto procuratore generale della Cassazione Pietro Gaeta - uno dei più esperti rappresentanti della Procura - che nella sua requisitoria aveva chiesto «l’inammissibilità» di questa “linea di pensiero”.

 Anche il “Telefono rosa” ha protestato per il verdetto che «sminuisce» la gravità «di un delitto così efferato come lo stupro» e «questo avviene in un momento particolarmente grave e violento per le donne, dove quasi ogni giorno una donna viene uccisa», ha detto la presidente Maria Gabriella Carnieri Moscatelli.

 Secondo il vicepresidente del Senato, il leghista Roberto Calderoli, la sentenza indica che «urge la riforma della giustizia: continuo a esser ancor più convinto che per gli stupratori serve la castrazione chimica». Per Barbara Saltamartini (Ncd), il verdetto «indigna ed è una ulteriore violenza contro le donne».

 Nel dettaglio, accogliendo il ricorso di un violentatore - al quale la Corte di Appello di Venezia aveva confermato la condanna del gip di Vicenza, che escludeva la minore gravità dato che l’uomo aveva imposto con violenza rapporti completi alla sua compagna - la Suprema Corte ha sottolineato che «così come l’assenza di un rapporto sessuale completo non può, per ciò solo, consentire di ritenere sussistente l’attenuante, simmetricamente la presenza dello stesso rapporto completo non può, per ciò solo, escludere che l’attenuante sia concedibile».

 Serve «una valutazione del fatto nella sua complessità».

Così, però, avverte l’avvocato Giulia Bongiorno si rischia «di derubricare il reato: mi sembra estremamente difficile immaginare un caso di violenza sessuale con penetrazione che possa essere poco grave», ha aggiunto in totale disaccordo.

 Per effetto di questa decisione della Terza sezione penale - sentenza 39445 depositata oggi - è stata annullata, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Venezia, la condanna (la cui entità non è riportata) inflitta a un uomo di 48 anni «limitatamente alla ravvisabilita’ dell’ipotesi attenuata». Gli “ermellini”, in sintesi, hanno giudicato «fondato» il ricorso del violentatore che ha sostenuto che, per valutare la gravità di uno stupro, deve «assumere rilevanza la qualità dell’ atto compiuto (e segnatamente il grado di coartazione, il danno arrecato e l’entità della compressione) più che la quantità di violenza fisica esercitata».

 Nel suo caso, da parte dei giudici d’appello - ha sostenuto l’imputato nel ricorso - sarebbe «mancata ogni valutazione globale», in particolare «in relazione al fatto che le violenze sarebbero sempre state commesse sotto l’influenza dell’alcol». La Cassazione gli ha dato ascolto e, pur senza dare spazio alla storia dell’alcol, ha scritto che «ai fini della concedibilità dell’attenuante, assumono rilievo una serie di indici, segnatamente riconducibili, attesa la `ratio´ della previsione normativa, al grado di coartazione esercitato sulla vittima, alle condizioni fisiche e mentali di quest’ultima, alle caratteristiche psicologiche, valutate in relazione all’età, all’entità della compressione della libertà sessuale ed al danno arrecato alla vittima anche in termini psichici». Se così non fosse, - prosegue la Suprema Corte - si riprodurrebbe la «vecchia distinzione, ripudiata dalla nuova disciplina, tra “violenza carnale” e ”atti di libidine” che lo stesso legislatore ha ritenuto di non focalizzare preferendo attestarsi sulla generale clausola di “casi di minore gravita”».

 Pertanto, la circostanza attenuante «deve considerarsi applicabile in tutte quelle volte in cui - avuto riguardo ai mezzi, alle modalità esecutive ed alle circostanze dell’azione - sia possibile ritenere che la libertà sessuale della vittima sia stata compressa in maniera non grave». Tutto ciò vale anche in un caso come quello esaminato, nel quale la Corte di appello di Venezia aveva fatto riferimento, per negare l’attenuante, «ai plurimi rapporti sessuali completi ottenuti con la violenza e senza il minimo rispetto della dignità e libertà di determinazione della donna».

 Per la Cassazione, i fatti non bastano nonostante la loro brutale evidenza. È necessaria «una disamina complessiva, con riferimento alla valutazione delle ripercussioni delle condotte, anche sul piano psichico, sulla persona della vittima», perché i giudici non possono fare come i magistrati della Corte di Appello che si sono «limitati» a «descrivere il fatto contestato, necessariamente comprensivo, per stessa definizione normativa, di violenza senza tuttavia analizzarne, come necessario, gli effetti».

 L’uomo è accusato anche di maltrattamenti in famiglia, reato configurabile anche nelle coppie di fatto. Il verdetto di appello è stato emesso il 7 ottobre 2013.

fonte: www.lastampa.it//La Stampa - Stupri, sentenza della Cassazione: possibili attenuanti anche se c’è un rapporto completo

Assolto per via della crisi, poi condannato e ora (forse) “riassolto”

La Sezione Feriale Penale interviene per rimuovere una sentenza di aprile con cui l’Appello riformava la pronuncia di assoluzione per il reato di omesso versamento di ritenute certificate (art. 10 bis, D.Lgs. n. 74/00).

I giudici di Cassazione non vedono la sussistenza del dolo “in re ipsa” ravvisata dai giudici di merito. In compenso, ad essere molto chiari per gli Ermellini, sono i motivi che hanno indotto il giudice di primo grado ad escludere la volontarietà dell’omissione. A cominciare dalle cause della crisi di liquidità che avevano posto l’imputato nell’impossibilità di adempiere l’obbligo fiscale.

Come il pignoramento e il sequestro dei beni aziendali, il fatto che la società fosse stata posta in amministrazione controllata, la conseguente interruzione dell’attività sociale durante i mesi della procedura, causa, a sua volta, della risoluzione di numerosi contratti di “elevato importo”, con inevitabile elisione delle entrate preventivate. Tutti elementi che devono essere rapportati con la linea interpretativa della Cassazione in tema di “evasione da sopravvivenza”, secondo cui la colpevolezza è esclusa se l’imputato dimostri che le difficoltà finanziarie, a lui non imputabili, “non possano essere altrimenti fronteggiate con idonee misure anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale”.

Ma non è solo questo ciò che gli Ermellini rimproverano all’Appello: non è stato assolto l’onere “rafforzato” di motivazione che in s’impone in caso di riforma radicale della sentenza di primo grado, come, appunto, il passare da assoluzione a condanna. Con la sentenza del 23 settembre 2014, n. 38934, la Cassazione annulla la decisione di merito e ordina al giudice del rinvio di superare il vizio motivazionale commesso dall’Appello.

Fonte: Fiscopiù - Giuffrè- www.fiscopiu.it/La Stampa - Assolto per via della crisi, poi condannato e ora (forse) “riassolto”

giovedì 25 settembre 2014

“Leggere attentamente prima dell’uso”: con il farmaco alcolico è meglio bere solo acqua

L’elemento psicologico del reato di guida in stato d’ebbrezza può essere integrato anche dalla colposa condotta, costituita dall’assunzione di bevande alcoliche in concomitanza con l’utilizzo di farmaci a base alcolica, prima di porsi alla guida di un mezzo. Così si è espressa la Cassazione nella sentenza 29888/14.

Il caso

La Corte d’appello di Brescia condannava un uomo per guida in stato d’ebbrezza, ai sensi dell’art. 186, comma 2, lettera c), c.d.s. (tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro), ritenendo irrilevante la tesi difensiva, secondo cui doveva essere esclusa la responsabilità dell’imputato, che, prima di porsi alla guida, oltre a bere del vino, aveva ingerito un farmaco contenente alcool. L’uomo ricorreva in Cassazione, deducendo che l’utilizzo del medicinale ebbe una sicura incidenza sulla percentuale del tasso alcolemico, mentre la quantità di vino bevuto era molto limitata.

Per la Corte di Cassazione, però, il ragionamento non regge: la guida in stato d’ebbrezza dovuta all’uso di bevande alcoliche è un reato contravvenzionale, punibile anche a titolo di colpa. Perciò, la mancanza di diligenza incide sulla valutazione della colpevolezza dell’agente, che deve, quindi, evitare di porsi alla guida previa assunzione di bevande alcoliche, qualora queste possano avere una pericolosa sinergia con eventuali farmaci assunti in modo concomitante.

Di conseguenza, nel caso di specie, la concentrazione alcolemica presente nell’organismo integrava l’elemento materiale del reato, mentre le circostanze di fatto, cioè l’utilizzo di un medicinale a base alcolica, risultavano irrilevanti ai fini dell’esclusione dell’elemento psicologico del reato. Infatti, l’elemento psicologico del reato di guida in stato d’ebbrezza può essere integrato anche dalla colposa condotta, costituita dall’assunzione di bevande alcoliche in concomitanza con l’utilizzo di farmaci a base alcolica, prima di porsi alla guida di un mezzo. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso, dichiarando, però, allo stesso tempo, prescritto il reato.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - “Leggere attentamente prima dell’uso”: con il farmaco alcolico è meglio bere solo acqua

mercoledì 24 settembre 2014

Efficace in Italia l'adozione da parte di un single

Interessante e giuridicamente perfetto il decreto del Tribunale per i Minorenni di Bologna depositato il 17.4.2013, con il quale è stata dichiarata efficace in Italia, anche agli effetti legittimanti, l'ordinanza emessa da un Tribunale Civile americano che aveva dichiarato l'adozione piena di una minore da parte di una donna single.

Quest'ultima, infatti, nel 2011 aveva chiesto ed ottenuto da un tribunale americano una sentenza di adozione con effetti legittimanti di una bambina.

In virtù della sua ultima residenza in Italia, più precisamente a Bologna, la donna ricorreva al Tribunale per i Minorenni territorialmente competente affinché detta sentenza fosse riconosciuta valida ed efficace in Italia ai sensi degli artt. 41,64,65 e 66 della legge n. 218/1995.

La peculiarità del caso derivava dal fatto che la madre adottiva fosse single e non coniugata.

La fattispecie è stata esaminata e decisa, in primis, dal giudice minorile alla luce dell'art. 41 della legge 218/95, che sancisce la riconoscibilità in Italia dei provvedimenti stranieri in materia di adozione ai sensi e per gli effetti degli artt. 64,65 e 66 della stessa legge.

Queste ultime norme, in buona sostanza, stabiliscono che i provvedimenti giudiziari stranieri abbiano immediata efficacia in Italia sulla base della sussistenza di tre condizioni: 1. Che l'autorità che ha pronunciato il provvedimento fosse competente; 2) che nel procedimento straniero sia stato rispettato e garantito il principio del contradditorio; 3) che le statuizioni adottate dal giudice straniero non siano contrarie all'ordine pubblico italiano.

Se, da una parte, nessun dubbio veniva posto dal Tribunale per i Minorenni in ordine alla sussistenza delle prime due condizioni, la questione più delicata era quella di verificare la terza condizione, ovvero la contrarietà o meno all'ordine pubblico italiano della efficacia legittimante dell'adozione. Innanzi tutto, il giudice minorile osserva che, pur essendo preferibile che l'adozione sia attuata da parte di una coppia di persone coniugate, proprio per il diritto del minore ad instaurare e mantenere, ove possibile, uno stabile rapporto con una doppia figura parentale, tuttavia ciò non esclude che si possa riconoscer in casi particolari la possibilità di creare un legame adottivo con una sola figura genitoriale.

Grazie, dunque, al combinato disposto degli artt. 44 e 25 della legge 218/95, si può affermare che l'adozione da parte di persona singola non sia contraria all'ordine pubblico e possa avere effetti legittimanti.

Non solo: si premura il giudice minorile di precisare che il riconoscimento in Italia dell'adozione con effetti legittimanti da parte della donna, rappresenta altresì un indubbio vantaggio per la minore grazie alla stabilità insita nella tipologia della adozione in oggetto.

fonte: www.ilsole24ore.com//Efficace in Italia l'adozione da parte di un single

Bene in comunione, ma venduto come se fosse di proprietà: la truffa è dietro l’angolo

Integra il reato di truffa la condotta di chi vende un immobile in comunione, dichiarando falsamente di averne l’esclusiva proprietà, e, dopo aver stipulato il preliminare ed ottenuto l’assegno, obbliga la vittima, che nel frattempo si è accorta della reale situazione, a pagare una somma per impedire l’incasso dello stesso assegno. Così si è espressa la Cassazione nella sentenza 28478/14.

Il caso

La Corte d’appello di Salerno assolveva un’imputata dal reato di truffa perché il fatto non sussisteva, mancando la deminutio patrimonii del soggetto passivo. Da una parte, l’assegno di 22.500 € era stato restituito alla parte offesa, mentre dall’altra la successiva corresponsione di 3.000 € era stata anticipata all’imputata solo dopo che le trattative per la vendita si erano ormai interrotte e successivamente alla stipula del preliminare, solo per consentire all’imputata di far fronte ad uno scoperto bancario, perciò non era ricollegabile all’accordo relativo al futuro trasferimento di proprietà di un immobile. Essendo la causale del prestito svincolata alla stipula del preliminare, non c’era un rapporto immediato di causa-effetto tra l’espediente fraudolento e la deminutio patrimonii.

La parte civile ricorreva in Cassazione, sostenendo che l’imputata, dichiarando falsamente in sede di preliminare l’esclusiva proprietà dell’immobile, l’aveva convinta a concludere un contratto che non avrebbe mai stipulato. I 3.000 € erano stati versati per evitare che la donna incassasse la maggior somma stabilita precedentemente. Analizzando la domanda, la Corte di Cassazione ricostruiva la vicenda: la vittima, dopo la conclusione del preliminare di vendita, aveva accertato che i beni promessi in vendita erano in comunione e non di esclusiva proprietà dell’imputata, la quale, intanto, aveva portato all’incasso l’assegno di 22.500 € consegnatole al momento della conclusione del contratto.

Il ricorrente aveva, quindi, denunciato la realtà all’imputata, che, per poter bloccare il pagamento dell’assegno, gli aveva chiesto, ottenendola, la somma di 3.000 € mai restituita. Per i giudici di legittimità sussistevano quindi gli elementi del reato di truffa: i raggiri posti in essere per indurre la vittima a stipulare il contratto riguardante un bene immobile, non in esclusiva proprietà, ma in comunione e la perdita della somma di 3.000 €, pagata forzatamente dal ricorrente per impedire l’incasso della maggior somma dell’assegno. Per questi motivi, la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Bene in comunione, ma venduto come se fosse di proprietà: la truffa è dietro l’angolo

Il pagamento del debito, rilevato in ogni grado, chiude la lite

Nell’ambito di un processo tributario, relativo ad atti con cui l’Amministrazione avanza delle pretese, l’eccezione di avvenuto pagamento del debito, sollevata dal contribuente per la prima volta in Appello, non può essere esclusa perché considerata una nuova censura, esulando dalla preclusione prevista dall’art. 57, D.Lgs. n. 546/92. L’ha ribadito la Cassazione che, con la sentenza del 22 settembre, n. 19964, ha rigettato il ricorso dell’Agenzia. Quest’ultima dinanzi ai Supremi Giudici lamentava, appunto, il vizio in cui sarebbe incorsa la CTR dichiarando infondata la pretesa avanzata con la cartella, sulla scorta dei fatti allegati (per la prima volta) dal contribuente.

Più precisamente, i giudici di merito valorizzavano, ai fini della loro decisione, le questioni che attenevano alle modalità con cui il contribuente risultava aver adempiuto al proprio debito tributario, vuoi a mezzo di versamenti, vuoi a mezzo della utilizzazione in compensazione di un pregresso credito d’imposta. Tutto secondo un corretto modo di procedere, a parere degli Ermellini: la CTR, senza commettere errori, aveva “semplicemente” rilevato, “in conformità ai propri poteri”, fatti ritualmente allegati dalle parti ed ai quali la legge attribuisce “autonoma identità modificativa, impeditiva o estintiva degli effetti del rapporto sul quale la … pretesa si fonda”.

La Corte, fedele alla propria giurisprudenza passata, ha ribadito che l’avvenuto pagamento costituisce un’eccezione in senso lato, rilevabile d’ufficio, poiché correlata al fatto estintivo tipico dell’obbligazione pecuniaria “e non implicante la deduzione di situazioni giuridiche nuove” (così ord. n. 9610/12).

Fonte: Fiscopiù - Giuffrè - www.fiscopiu.it/La Stampa - Il pagamento del debito, rilevato in ogni grado, chiude la lite

Sui 60 giorni non si discute, rigettati tutti i ricorsi dell’Agenzia

Falliscono tutti i tentativi dell’Amministrazione di difendere gli avvisi emessi prima della scadenza del termine di 60 giorni dal rilascio del processo verbale di chiusura delle operazioni. La Cassazione non ne vuole sapere: la mancata osservanza del termine dilatorio posto dall’art. 12, comma 7, Legge n. 212/2000, non può essere giustificata dall’imminente scadenza dei termini di controllo. Specie se l’Amministrazione non dimostri che la circostanza sia dipesa “da fatti o condotte ad essa non imputabili a titolo di incuria, negligenza o inefficienza”.

La sentenza del 19 settembre scorso, n. 19767, della Sezione Tributaria si aggiunge alle altre, consolidando ancora di più un orientamento ormai pacifico (solo due giorni prima erano stati respinti altri due ricorsi dell’Agenzia con le sentenze n. 19561 e 19578).

La tesi dell’Amministrazione, circa il carattere meramente programmatico del citato art. 12, per la Cassazione, è infondata. In assenza di specifiche ragioni di urgenza, chiariscono gli Ermellini, scatta l’illegittimità dell’atto emesso ante tempus, posto che il termine è messo a garanzia del “pieno dispiegarsi del contradditorio procedimentale”, espressione dei principi costituzionali di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente. Quando, per contrastare la nullità dell’avviso, l’Amministrazione deve allegare le ragioni, specifiche della situazione del contribuente o del rapporto tributario, “che abbiano determinato l’incolpevole ritardo dell’accertamento”. Cosa che nel caso di specie, a parere dei Supremi Giudici, non è avvenuta.

Fonte: Fiscopiù - Giuffrè- www.fiscopiu.it/La Stampa - Sui 60 giorni non si discute, rigettati tutti i ricorsi dell’Agenzia

martedì 23 settembre 2014

Testamento olografo: la data può essere apposta sotto la firma

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Gli assegni dell’amministratore sono valida prova dell’evasione

La Cassazione è intervenuta per annullare la sentenza di merito che dichiarava illegittimo l’accertamento induttivo sulla movimentazione contabile del contribuente. Il mancato riscontro di talune movimentazioni bancarie con le fatture emesse, accertato dall’Agenzia, si risolveva per la CTR in un errore meramente formale commesso dal contribuente, relativo all’erronea imputazione contabile dei movimenti effettuati sul proprio conto corrente. Non solo, i giudici di merito bocciavano l’operato dell’Ufficio ritenendolo fondato su un esame solamente parziale delle movimentazioni, senza verifica dell’intera contabilità.

Un ragionamento errato per la Suprema Corte che, con la sentenza del 17 settembre, n. 19555, accoglie il ricorso dell’Agenzia e rimette la causa al Giudice del Rinvio. In primo luogo gli Ermellini chiariscono che l’emissione di assegni da parte dell’amministratore, non giustificata da documentazione commerciale, fa legittimamente presumere che la società abbia effettuato operazioni non fatturate di acquisto e rivendita di beni.

La presunzione legale è contenuta all’art. 51, comma 2, D.P.R. n. 633/72, ed è riferibile a tutti i prelevamenti dal conto dell’imprenditore. Alla luce di tali principi, la Corte convalida l’accertamento dell’Amministrazione (sfociato nella ricostruzione dei maggiori ricavi) e, per converso, censura la decisione di merito che non riferisce né sulle ragioni per le quali ha ritenuto incompleta la verifica, né su quelle che avrebbero negato i requisiti di gravità, precisione e concordanza degli elementi indiziari.

Fonte: Fiscopiù - Giuffrè per i Commercialisti - www.fiscopiu.it//La Stampa - Gli assegni dell’amministratore sono valida prova dell’evasione

Caccia all’uomo nei confronti dei disturbatori: il tiro di schioppo esclude la legittima difesa

L’errore scusabile, nell’ambito della legittima difesa putativa, deve trovare un’adeguata giustificazione in qualche fatto che, sebbene malamente rappresentato o compreso, abbia la possibilità di determinare nell’agente la giustificata persuasione di trovarsi esposto al pericolo di un’offesa ingiusta. Così si è espressa la Cassazione nella sentenza 28224/14.

Il caso

La Corte d’appello di Lecce condannava due imputati per il reato di lesioni volontarie aggravate. Un’auto, con a bordo le vittime, si era introdotta di notte nell’area antistante la masseria degli imputati, facendo delle manovre spericolate e suonando più volte il clacson, arrecando così molestie e disturbo. Gli imputati si erano messi alla guida del proprio veicolo e avevano inseguito la prima macchina, sparando con delle armi da fuoco numerosi colpi, alcuni dei quali avevano raggiunto le vittime.

I due imputati ricorrevano in Cassazione, lamentando il mancato riconoscimento della legittima difesa abitativa, disciplinata dall’art. 52 c.p. e deducendo un ampliamento della nozione di domicilio che ricomprenda le appartenenze dei luoghi in cui si svolge la vita privata dei consociati. Erroneamente i giudici di merito avrebbero ritenuto che l’inseguimento avesse esorbitato dai confini dell’agro di pertinenza della masseria di loro proprietà. Inoltre, censuravano l’esclusione, da parte della Corte, di una situazione di pericolo attuale per la loro incolumità personale.

Analizzando la domanda, la Corte di Cassazione ricordava che il luogo dell’inseguimento, protrattosi per le strade di campagna del fondo agricolo di proprietà dei ricorrenti, anche qualora non ne fossero stati oltrepassati i confini, esorbita dalla nozione di appartenenze dell’abitazione, richiamata, mediante l’art. 614, comma 1, c.p., dall’art. 52, comma 2, c.p.. Tali appartenenze possono comprendere il cortile o il giardino recintati, oppure ancora l’aia antistante la casa colonica, cioè luoghi esterni naturalmente destinati al servizio ed al completamento dell’abitazione, in relazione alla loro fruibilità per le esigenze della vita domestica.

Perciò, non possono estendersi all’intero terreno agricolo che la circonda e su cui essa insiste, essendo destinato ad un’autonoma finalità produttiva e non al servizio pertinenziale dell’abitazione. Inoltre, i giudici di legittimità sottolineavano che gli imputati si erano posti all’inseguimento delle vittime, disarmate e che avevano desistito dalla loro condotta molesta. Era, quindi, da escludere la difesa e la reazione legittima, poiché qualsiasi ipotizzabile situazione di pericolo era ormai cessata, per cui non c’era necessità di difendere un diritto oggetto di un’offesa o di una minaccia in corso.

Infatti, l’errore scusabile, nell’ambito della legittima difesa putativa, deve trovare un’adeguata giustificazione in qualche fatto che, sebbene malamente rappresentato o compreso, abbia la possibilità di determinare nell’agente la giustificata persuasione di trovarsi esposto al pericolo di un’offesa ingiusta. Ciò è da escludere in situazioni, come nel caso di specie, in cui qualcuno, a fronte della provocazione altrui, reagisca liberamente e volontariamente in una logica di sfida, determinando egli stesso la situazione di pericolo affrontando direttamente, ed inseguendo, i presunti aggressori con l’arma in mano. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Caccia all’uomo nei confronti dei disturbatori: il tiro di schioppo esclude la legittima difesa

lunedì 22 settembre 2014

Sezioni unite: niente ipoteca senza previa comunicazione

L’ipoteca esattoriale dev’essere preceduta da comunicazione al contribuente. Sempre. Anche per le ipoteche iscritte prima dell’intervento del Decreto Sviluppo 2011che, aggiungendo il comma 2 bis all’art. 77, D.P.R. 602/73, ha espressamente previsto l’obbligo della comunicazione preventiva. Senza, l’iscrizione è nulla, in ragione della violazione dell’onere, cui soggiace l’Amministrazione, di attivare il “contradditorio endoprocedimentale”. Tuttavia, in virtù della natura reale dell’ipoteca, l’iscrizione eseguita in violazione del menzionato obbligo, “conserva la propria efficacia fino a quando il giudice non abbia ordinato la cancellazione, accertandone l’illegittimità”. Salvo in ogni caso la responsabilità dell’Amministrazione ai fini dell’eventuale risarcimento del danno.

Questo il succo della sentenza del 18 settembre, n. 19667, delle Sezioni Unite di Cassazione che, pronunciandosi sul ricorso del contribuente, che subiva l’ipoteca senza previa comunicazione, lo accolgono disciplinando una volta per tutte la questione di diritto. Come chiarito dai Giudici del Supremo Consesso, la previa comunicazione all’iscrizione ipotecaria prevista dal citato art. 77, tutela il diritto di difesa del contribuente mediante l’attivazione del “contradditorio endoprocedimentale”. Quest’ultimo, da attivare in caso di atti lesivi di diritti e interessi del contribuente (come l’ipoteca), costituisce ”un principio fondamentale immanente nell’ordinamento cui dare attuazione anche in difetto di una specifica previsione normativa”.

Al contribuente informato, restano trenta giorni per presentare osservazioni. In tale contesto, il menzionato comma 2 bis, introdotto dal D.L. n. 70/2011, più che innovare la disciplina dell’iscrizione di ipoteca, ha una “reale valenza interpretativa”: esplicita in una norma positiva il precetto imposto dal principio fondamentale che impone la tutela del diritto di difesa.

Fonte: Fiscopiù - Giuffrè per i Commercialisti - www.fiscopiu.it/La Stampa - Sezioni unite: niente ipoteca senza previa comunicazione

Terrazza copre l’intero fabbricato? Tutti i condomini concorrono alle spese

Le terrazze a livello, attribuite in uso esclusivo, sono disciplinate al pari del lastrico solare, dall’art. 1126 c.c.

Spetta a tutti i condomini concorrere al pagamento delle spese necessarie per la riparazione o la ricostruzione delle terrazze a livello, avendo esse la funzione di copertura del fabbricato.

Il criterio dell’utilitas infatti prevale su quello della proprietà.

Lo ha affermato la Suprema Corte, nella sentenza 25 agosto 2014, n. 18164 specificando che per stabilire la ripartizione delle spese delle terrazze a livello con funzioni di copertura non si fa riferimento al diritto di proprietà delle terrazze medesime, ma al principio “in base al quale i condomini sono tenuti a contribuire alle spese in ragione dell’utilitas che la cosa da riparare o da ricostruire è destinata a dare ai singoli appartamenti sottostanti.”

Nel caso di specie, il condomino F. V. proprietario di un appartamento agiva in giudizio a causa dei danni da infiltrazioni d’acqua provenienti dal soprastante terrazzo di proprietà esclusiva dell’altro condomino A. N., convenuto in giudizio. Chiedeva il risarcimento dei danni prodotti nell’immobile di sua proprietà, oltrechè l’esecuzione delle opere idonee ad evitare il ripetersi di infiltrazioni dannose.

Il convenuto chiedeva il rigetto della domanda attorea, e, in via subordinata, che l’attore venisse condannato a partecipare al risarcimento dei danni ed alle spese per i lavori da eseguire ai sensi dell’art. 1126 c.c.

Il Tribunale di Napoli condannava il convenuto al pagamento del risarcimento dei danni e all’esecuzione delle opere necessarie ad evitare infiltrazioni future ed alle spese di lite.

La Corte d’appello ribaltava la sentenza sulla base di quanto disposto dall’art. 1126 c.c., stabilendo che il costo delle riparazioni spettava per due terzi al signor F. e per un terzo al signor A.

Ricorreva per Cassazione il signor F affidandosi a tre motivi, tutti ritenuti infondati.

La Suprema Corte stabiliva che l’obbligo di provvedere alla riparazione e alla costruzione spetta a tutti i condomini, in concorso con il proprietario superficiario o con il titolare del diritto di uso esclusivo, sulla base del fatto che le terrazze dell’edificio svolgono la funzione di copertura del fabbricato anche se appartengono in proprietà superficiaria o sono attribuite in uso esclusivo ad uno dei condomini.

Aggiungeva, richiamando giurisprudenza precedente, che dei “danni cagionati all’appartamento sottostante per le infiltrazioni d’acqua provenienti dal lastrico, deteriorato per difetto di manutenzione, rispondono tutti gli obbligati, inadempienti alla funzione di conservazione, secondo le proporzioni stabilite dal citato art. 1126 c.c. (Cass. n. 3672/1997)”. A nulla rileva che tali infiltrazioni siano state causate da difetti collegati alle caratteristiche costruttive. Neppure è stato accolto il tentativo del signor F di far passare il terrazzo come prolungamento all’esterno dell’alloggio posto sullo stesso piano, per convincere la Suprema Corte che la funzione di copertura non fosse principale ma sussidiaria.

Ma la Cassazione risponde confermando il rigetto del ricorso sulla base della seguente motivazione: l’obbligo dei condomini di concorrere alle spese delle terrazze a livello trova fondamento non già nel diritto di proprietà, ma nel principio in base al quale i condomini sono tenuti a contribuire alle spese in ragione dell’utilitas che la cosa da riparare o da ricostruire è destinata a dare ai singoli appartamenti sottostanti.

fonte: www.altalex.com//Terrazza copre l’intero fabbricato? Tutti i condomini concorrono alle spese

sabato 20 settembre 2014

Salvo il rimborso chiesto con una dichiarazione integrativa tardiva

È illegittimo negare il rimborso IRPEF in ragione della tardività della dichiarazione integrativa con cui viene avanzata contestualmente l’istanza del credito. La presentazione dei due atti è soggetta a termini diversi: la seconda, entro la dichiarazione del periodo d’imposta successivo (art. 2, comma 8 bis, D.P.R. n. 322/98), la prima, entro il più lungo termine di quarantotto mesi a decorrere dal pagamento o dal saldo (art. 38, D.P.R. n. 602/73). Ne consegue che l’istanza di rimborso, pur se accompagnata all’intempestiva dichiarazione rettificativa, è comunque valida.

È quanto emerge dalla sentenza del 17 settembre 2014, n. 19537, con cui la Cassazione accoglie il ricorso del contribuente e annulla la decisione di merito che negava il diritto al rimborso. Come affermato dai Supremi Giudici, il menzionato art. 2, che attribuisce al contribuente la facoltà di emendare i propri errori mediante dichiarazione integrativa, “non interferisce sull’effettivo diritto al rimborso”. Posto che l’ultimo inciso della norma correla al rispetto del termine di presentazione della dichiarazione la sola possibilità di portare in compensazione il credito eventualmente risultante. Con la conseguenza che l’istanza di rimborso può essere proposta “anche oltre il termine di presentazione della dichiarazione del periodo d’imposta successivo”. Viceversa, afferma la Corte, si finirebbe con il penalizzare il contribuente che accompagni la domanda di rimborso ad una dichiarazione integrativa, rispetto a quello che la presenti evitando la citata emenda. Ove il primo rispetto al secondo “presta un diverso e più intenso grado di collaborazione e trasparenza… esponendosi non solo ai controlli sulla dichiarazione ma altresì alle correlate responsabilità”.

Fonte: Fiscopiù - Giuffrè - www.fiscopiu.it/La Stampa - Salvo il rimborso chiesto con una dichiarazione integrativa tardiva

Non è mai troppo tardi per diventare padre

E’ irrilevante l’autorizzazione dei familiari rispetto alla ctu sul cadavere del congiunto, disposta dall’autorità giudiziaria, nell’ambito di un procedimento di dichiarazione giudiziale di paternità: non è, infatti, configurabile un diritto soggettivo dei prossimi congiunti sul corpo della persona deceduta. Lo stabilisce la Cassazione nella sentenza 14786/14.

Il caso

La Corte d’appello di Bologna accoglieva la domanda di dichiarazione di paternità naturale fatta da una donna nei confronti del figlio ed erede del soggetto ritenuto il padre naturale. I giudici basavano la loro decisione su una ctu genetica sull’attrice e sul deceduto, dopo aver dato l’autorizzazione a riesumare la salma. L’erede ricorreva in Cassazione, lamentando la violazione dell’art. 8 CEDU (diritto al rispetto della vita privata e familiare) in ordine all’illegittimità di riesumazione del cadavere per effettuare la consulenza genetica.

Analizzando la domanda, la Corte di Cassazione ricordava che è ammissibile la ctu genetica sul cadavere nei procedimenti per la dichiarazione di paternità naturale. Si tratta, infatti, di un mezzo privilegiato nella ricerca della paternità, essendo un accertamento poco invasivo ed idoneo a fornire un risultato risolutivo, analogo a quello proprio del prelievo su una persona vivente, e funzionale alla tutela del diritto fondamentale allo status giuridico. Inoltre, è irrilevante l’autorizzazione dei familiari rispetto alla ctu sul cadavere del congiunto, disposta dall’autorità giudiziaria, nell’ambito di un procedimento di dichiarazione giudiziale di paternità: non è, infatti, configurabile un diritto soggettivo dei prossimi congiunti sul corpo della persona deceduta.

Anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nella sentenza del 13/7/2006 (Jaggi c/ Svizzera), aveva ricordato che il diritto all’identità biologica di una persona non può subire alcuna compressione, nemmeno qualora l’interessato si fosse opposto in vita ad analisi volte ad accertare il rapporto di filiazione. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Non è mai troppo tardi per diventare padre

venerdì 19 settembre 2014

Cassazione: nozze nulle se il marito è “mammone”

Sono nulle le nozze se il marito, nel corso del matrimonio, si rivela un mammone, totalmente assorbito dalla madre, e indifferente alla consorte. Lo ha ribadito la Cassazione, affrontando il caso di una coppia di Mantova che si era sposata nel settembre del 2007 e che successivamente, nel 2010, si era vista annullare le nozze dalla Sacra Rota. Un annullamento che, come ricostruisce la sentenza 19691 redatta da Giacinto Bisogni (presidente Ugo Vitrone), era stato accordata dal Tribunale Regionale Lombardo perché «dopo le nozze» nel marito si era manifestata «in note marcate una dipendenza dalla figura materna e nelle problematiche sessuali conseguenti rilevate dai test».

 In buona sostanza, l’uomo, come aveva dimostrato anche una relazione di periti, era talmente legato a mamma anche da sposato al punto da assumere «un comportamento anaffettivo e indifferente» nei confronti della legittima sposa. Già la Corte d’appello di Brescia, nel novembre 2012, non aveva avuto nulla da eccepire sull’annullamento del matrimonio contratto da un marito “mammone”. Lei però, nel tentativo di non perdere gli alimenti, si è opposta in Cassazione alla delibazione in Italia della sentenza ecclesiatica, sostenendo che la sentenza non poteva essere delibata perchè «contraria all’ordine pubblico, al principio di buona fede e dell’affidamento». Piazza Cavour ha respinto il ricorso della donna e ha evidenziato che «non esistono ostacoli al riconoscimento nell’ordinamento italiano dell’efficacia della sentenza emessa dal Tribunale Ecclesiastico Regionale Lombardo, di nullità del matrimonio concordatario». In pratica, come aveva ratificato la Chiesa, il coniuge «era affetto da incapacità di assumere e adempiere un obbligo matrimoniale essenziale».

 Inoltre, la Cassazione, a scanso di equivoci, ricorda che «la giurisprudenza ha da tempo affermato che la delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa di nullità del matrimonio concordatario per `incapacitas assumendi onera coniugalia´ di uno dei coniugi non trova ostacolo nella diversità di disciplina dell’ordinamento canonico rispetto alle disposizioni del codice civile in tema di invalidità del matrimonio per errore essenziale su una qualità personale del consorte e precisamente sulla ritenuta inesistenza in quest’ultimo di malattie (fisiche o psichiche) impeditive della vita coniugale poichè questa diversità non investe un principio essenziale dell’ordinamento italiano, qualificabile come limite di ordine pubblico». L’ex moglie è stata inoltre condannata a sborsare 6.200 euro di spese processuali.

(Fonte: Adnkronos) /La Stampa - Cassazione: nozze nulle se il marito è “mammone”

giovedì 18 settembre 2014

Schiamazzi notturni: quando il gestore non è responsabile

Il gestore del locale che esercita correttamente il proprio potere di controllo non è responsabile degli schiamazzi notturni. E' quanto emerge dalla sentenza 5 settembre 2014, n. 37196 della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione.

Secondo la giurisprudenza di legittimità, affinché sussista la rilevanza penale della condotta produttiva di rumori, come fonte di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, è richiesta l'incidenza sulla tranquillità pubblica, in quanto l'interesse tutelato dal legislatore è la pubblica quiete, sicché i rumori debbono avere una tale diffusività che l'evento disturbo sia potenzialmente idoneo ad essere risentito da un numero indeterminato di persone, pur se poi concretamente solo taluna se ne possa lamentare (Cass. pen., Sez. I, n. 47298 del 29 novembre 2011).

La medesima giurisprudenza ha, in più occasioni, affermato che il gestore di un esercizio commerciale è responsabile del reato di cui all'art. 659, comma 1, c.p., per i continui schiamazzi e rumori provocati dagli avventori dello stesso, con disturbo delle persone. Infatti la qualità di titolare della gestione dell'esercizio pubblico comporta l'assunzione dell'obbligo giuridico di controllare che la frequentazione del locale da parte dei clienti non sfoci in condotte contrastanti con le norme concernenti la polizia di sicurezza (Cass. pen., Sez. I, n. 16886 del 28 febbraio 2003; Cass. pen., Sez. I, n. 17779 del 27 marzo 2008; Cass. pen., Sez. I, n. 40004 del 30 settembre 2009). Perché l'evento possa essere addebitato al gestore del locale è però necessario che esso sia riconducibile al mancato esercizio del potere di controllo e sia quindi collegato da nesso di causalità con tale omissione.

Nel caso in cui gli schiamazzi avvengano all'interno dell'esercizio non c'è dubbio che il gestore abbia la possibilità di assolvere l'obbligo di controllo degli avventori, impedendo loro comportamenti che si pongano in contrasto con le norme di polizia di sicurezza, ricorrendo, ove necessario, al c.d. ius excludendi. Come rilevato dagli ermellini, nella fattispecie in esame non è in discussione che gli schiamazzi, le urla e le risate dei soggetti che stazionavano all'esterno del locale, fossero tali da disturbare, in orario notturno, il riposo degli abitanti nella zona e quindi ad offendere la "quiete pubblica".

La particolarità della fattispecie è però rappresentata dal fatto che il reato non é stato ritenuto configurabile nei confronti dei soggetti autori degli schiamazzi e dei rumori, ma a carico del gestore il quale ha correttamente esercitato il potere di controllo e, conseguentemente, deve andare esente da responsabilità.

fonte: www.altalex.com//Schiamazzi notturni: quando il gestore non è responsabile

Per essere un buon genitore, oltre alle parole, servono i fatti

La mera disponibilità dei genitori o di altri parenti ad accudire il minore, se non sostenuta da precisi comportamenti circostanziati e concludenti, non può escludere l’abbandono. Lo afferma la Cassazione nella sentenza 14784/14.

Il caso

La Corte d’appello di Palermo confermava lo stato di adottabilità di un minore, disposto dal tribunale per i minorenni di Palermo. Il padre ed il nonno del minore ricorrevano in Cassazione, lamentando un vizio di motivazione sulla situazione di abbandono e sul recepimento delle conclusioni della ctu. Tuttavia, per la Corte di Cassazione, i giudici di merito avevano valutato correttamente, ed in maniera approfondita, sia la consulenza tecnica che le relazioni dei servizi sociali e della comunità di accoglimento, che avevano evidenziato l’immaturità della madre e del padre ad accudire il figlio, oltre che incostanti nel visitarlo. Il nonno paterno, invece, aveva allontanato per ben due volte il nucleo familiare da casa sua ed aveva cancellato ogni contatto con il minore in comunità per un certo periodo, apparendo quindi incapace di accedere ad un’adeguata funzione genitoriale.

Erano state, perciò, ritenute sussistenti le carenze di cure morali e materiali, nonché il rifiuto delle misure di sostegno offerte loro, per cui il risultato era il pericolo di un pregiudizio grave ed irreversibile per il bambino. I giudici di legittimità ricordavano, poi, che la mera disponibilità dei genitori o di altri parenti ad accudire il minore, se non sostenuta da precisi comportamenti circostanziati e concludenti, non può escludere l’abbandono. Infatti, l’art. 1 l. n. 184/1983 (disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori) stabilisce che il minore ha il diritto di crescere e svilupparsi nella propria famiglia d’origine, ma soltanto fino a quando non sussista una situazione di abbandono, come avvenuto nel caso di specie. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Per essere un buon genitore, oltre alle parole, servono i fatti

L’illecita compensazione non è punita a titolo di truffa

È immune da vizi la sentenza che proscioglie gli imputati in ordine al reato di truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640 c.2 c.p.), lasciando invariata la sola contestazione del delitto di indebita compensazione (art. 10 quater d.lgs. 74/2000). Nella fattispecie opera, infatti, il principio di specialità dei reati tributari rispetto al reato di truffa.

Lo afferma la Corte di Cassazione, nella sentenza del 15 settembre, n. 37725, che respinge il ricorso presentato dal Procuratore Generale della Repubblica, confermando la declaratoria d’improcedibilità della Corte d’Appello. Nei fatti di causa, il reato di truffa, concernente l’indebita percezione di contributi per l’imprenditoria, era stato consumato attraverso la metodica dell’illegale compensazione.

Per gli Ermellini, conformi alla giurisprudenza delle Sezioni Unite, non derivando dalla frode fiscale un profitto ulteriore rispetto all’evasione, come l’ottenimento di pubbliche erogazioni, si configura il menzionato rapporto di specialità. Ovvero, nella fattispecie, nessuna finalità, vantaggio o danno extratributario risultano realizzati o perseguiti in quanto il minor gettito erariale (profitto della frode), “deriva dalla redazione a fini di compensazione illecita di un modello F24”. Ove il profitto delle condotte fraudolente, contestate a titolo di truffa aggravata, rappresenta le stesse somme non corrisposte al Fisco in conseguenza dell’indebita compensazione. Sulla scorta di tali principi, le censure avanzate dal PM, tese a punire la condotta a titolo di truffa aggravata, risultano infondate.

Fonte: Fiscopiù - Giuffrè per i Commercialisti - www.fiscopiu.it/La Stampa - L’illecita compensazione non è punita a titolo di truffa

mercoledì 17 settembre 2014

Non è il giudice a stabilire se il garage non produce rifiuti

Nel nostro ordinamento esiste a carico dei possessori di immobili una presunzione legale relativa di produzione di rifiuti (art. 62, co. 1, D.Lgs. n. 507/1993). Il contribuente che intende sottrarsi alla previsione, perché possiede uno di quei locali (o aree) che non possono produrre rifiuti per loro natura o per il particolare uso cui sono destinati ha un preciso onere da assolvere. Deve indicare tali circostanze nella denuncia originaria o di variazione, sempreché le medesime siano “debitamente riscontrate in base ad elementi obiettivi direttamente rilevabili o ad idonea documentazione”. Questa è l’unica via per vincere la presunzione legale, che, certo, non può essere superata dal giudice. Così ha affermato la Sesta Sezione Civile di Cassazione, nell’ordinanza depositata il 12 settembre scorso, n. 19365, con cui viene accolto il ricorso del Comune impositore avverso la sentenza d’Appello.

La CTR, infatti, contrariamente ai principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità, aveva ritenuto esente da TARSU il garage del contribuente, pur in assenza di prove da parte di quest’ultimo nonché della denuncia originaria. Per la Corte di Cassazione, la controversia non ha bisogno di ulteriori accertamenti e può essere decisa nel merito: l’impossibilità dei locali a produrre rifiuti non può essere presunta dal giudice, essendo onere del contribuente dimostrarla. Annullata la sentenza di merito, è definitivamente respinto il ricorso del possessore del garage avverso l’avviso di accertamento.

Fonte: Fiscopiù - Giuffrè per i Commercialisti - www.fiscopiu.it/La Stampa - Non è il giudice a stabilire se il garage non produce rifiuti

I poliziotti lo tirano giù dal letto, lui la prende male: condannato

Pomo della discordia è il mancato pagamento di un taxi, e la conseguente denuncia del tassista. I rappresentanti delle forze dell’ordine chiedono lumi al cliente col conto ancora da saldare, ma lui risponde con un pugno e insulti a iosa. Evidente la sproporzione della reazione dell’uomo, che era stato assolto in primo grado. Conseguenziale è la condanna per resistenza a pubblico ufficiale. (Cassazione, sentenza 28144/14).

Il caso

A dare il ‘la’ all’episodio è la «denuncia» presentata da un tassista, che – in una scena fantozziana – ha «visto allontanarsi» il cliente, senza che poi «facesse ritorno per pagarlo», come, invece, «promessogli». Per questa ragione, due poliziotti vanno a chiedere conto all’uomo col conto ancora da saldare, arrivando a casa sua e svegliandolo per approfondire la vicenda. Eccessiva, però, è la reazione dell’uomo, che – infastidito per l’«essere stato svegliato» – colpisce «con un violento pugno ad un occhio uno dei poliziotti», poi provvedendo a «insultare e minacciare» gli esponenti delle forze dell’ordine, prima di «essere bloccato dopo una violenta colluttazione». Ma, a sorpresa, in primo grado, l’uomo viene liberato da ogni contestazione: ciò alla luce del riconoscimento, secondo i giudici, che i poliziotti hanno ‘provocato’ la reazione dell’uomo, «eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni».

Di avviso opposto, però, i giudici della Corte d’Appello, i quali, accogliendo il ricorso proposto dal pm, ribaltano la decisione assunta in primo grado e sanciscono la piena responsabilità dell’uomo per la propria condotta. E tale condanna viene condivisa anche dai giudici del ‘Palazzaccio’, i quali, difatti, respingono le obiezioni mosse dall’uomo, obiezioni fondate sempre sulla presunta arbitrarietà del blitz compiuto dai due poliziotti. Per i giudici, in sostanza, si può ammettere la «discutibilità del comportamento» dei poliziotti ma «solo sul piano dell’opportunità». E tale considerazione non viene modificata neanche dalla «querela sporta» dall’uomo e da sua madre in merito alle «arbitrarie modalità di accesso degli operanti all’abitazione» e alla presunta «aggressione» compiuta ai danni dell’uomo.

Ciò che rileva è la evidente mancanza di «proporzionalità tra offesa e reazione», tenuto conto che l’uomo – «a fronte del fastidio avvertito per essere stato svegliato» – «aveva colpito immediatamente con un violento pugno ad un occhio uno dei poliziotti, continuando ad insultare e minacciare i poliziotti, fino ad essere bloccato solo dopo una violenta colluttazione». Peraltro, aggiungono i giudici, «modalità e durata dei fatti» sono incompatibili con l’«ipotizzata opposizione all’accesso» sostenuta dall’uomo.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - I poliziotti lo tirano giù dal letto, lui la prende male: condannato

martedì 16 settembre 2014

Finto esattore minaccia il debitore: non è truffa aggravata

E’ estorsione se la condotta è posta in essere con minaccia e violenza e se il male viene indicato come certo e realizzabile ad opera dell’agente o di altri soggetti. E' invece truffa aggravata se la condotta è posta in essere con artifizi e raggiri e se il male viene ventilato come possibile ed eventuale. Lo afferma la Cassazione nella sentenza 27996/14.

Il caso

Un uomo, fingendo di essere incaricato dell’ente esattore, si era presentato dal debitore, nei cui confronti pendeva procedura esecutiva, minacciandolo di dover procedere al sequestro di beni, se non avesse provveduto immediatamente al pagamento di una determinata somma. L’uomo veniva condannato dai Giudici di primo e secondo grado per estorsione, ai sensi dell’art. 629 c.p..

Il soccombente ricorreva allora in Cassazione deducendo violazione di legge, sostenendo la ricorrenza del reato di truffa aggravata nella condotta contestata a titolo di estorsione. La Cassazione si è espressa riportando gli ormai consolidati orientamenti che stabiliscono i diversi presupposti di truffa ed estorsione. Nel dettaglio, ricorda che la differenza tra i due delitti richiamati consiste nel diverso modo in cui viene prospettato il danno: nella truffa aggravata il danno non viene prospettato come possibile ed eventuale e mai proveniente direttamente o indirettamente dall’imputato; nell’estorsione il danno è configurabile come certo e sicuro, enfatizzato dalla violenza o della minaccia.

Perciò, con la truffa la persona offesa non è coartata nella sua volontà, ma si determina perché tratta in errore dall’esposizione di un pericolo inesistente. Mentre, con l’estorsione, la parte offesa è indotta in errore in quanto minacciata. Bisogna valutare la concretezza della minaccia. La Corte aggiunge che, nell’estorsione, l’offeso è posto nell’ineluttabile alternativa di far conseguire all’agente il preteso profitto o di subire il male minacciato. Nel caso di specie, l’imputato, minacciando il sequestro di alcuni beni della persona offesa, se non avesse provveduto all’immediato pagamento del debito, voleva indurre il debitore al versamento immediato di un somma, anche minore rispetto a quella richiesta.

Non vi è dubbio, secondo la Corte, che la condotta posta in essere dal finto esattore sia riferibile all’estorsione e non alla truffa aggravata dalla prospettazione di un pericolo non reale. Il timore, del pericolo di un male, deriva infatti dalla minaccia dell’imputato e non dall’inganno. Anche perché, come affermato dal Collegio, qui non rileva la differenza tra minaccia e raggiro con minaccia. Difatti, quando il livello di concretezza della minaccia assume contorni consistenti, viene superato l’ambito concettuale della truffa con integrazione del più grave reato di estorsione. Per tali motivi la Corte rigetta il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Finto esattore minaccia il debitore: non è truffa aggravata

Finto esattore minaccia il debitore: non è truffa aggravata

E’ estorsione se la condotta è posta in essere con minaccia e violenza e se il male viene indicato come certo e realizzabile ad opera dell’agente o di altri soggetti. E' invece truffa aggravata se la condotta è posta in essere con artifizi e raggiri e se il male viene ventilato come possibile ed eventuale. Lo afferma la Cassazione nella sentenza 27996/14.

Il caso

Un uomo, fingendo di essere incaricato dell’ente esattore, si era presentato dal debitore, nei cui confronti pendeva procedura esecutiva, minacciandolo di dover procedere al sequestro di beni, se non avesse provveduto immediatamente al pagamento di una determinata somma. L’uomo veniva condannato dai Giudici di primo e secondo grado per estorsione, ai sensi dell’art. 629 c.p..

Il soccombente ricorreva allora in Cassazione deducendo violazione di legge, sostenendo la ricorrenza del reato di truffa aggravata nella condotta contestata a titolo di estorsione. La Cassazione si è espressa riportando gli ormai consolidati orientamenti che stabiliscono i diversi presupposti di truffa ed estorsione. Nel dettaglio, ricorda che la differenza tra i due delitti richiamati consiste nel diverso modo in cui viene prospettato il danno: nella truffa aggravata il danno non viene prospettato come possibile ed eventuale e mai proveniente direttamente o indirettamente dall’imputato; nell’estorsione il danno è configurabile come certo e sicuro, enfatizzato dalla violenza o della minaccia.

Perciò, con la truffa la persona offesa non è coartata nella sua volontà, ma si determina perché tratta in errore dall’esposizione di un pericolo inesistente. Mentre, con l’estorsione, la parte offesa è indotta in errore in quanto minacciata. Bisogna valutare la concretezza della minaccia. La Corte aggiunge che, nell’estorsione, l’offeso è posto nell’ineluttabile alternativa di far conseguire all’agente il preteso profitto o di subire il male minacciato. Nel caso di specie, l’imputato, minacciando il sequestro di alcuni beni della persona offesa, se non avesse provveduto all’immediato pagamento del debito, voleva indurre il debitore al versamento immediato di un somma, anche minore rispetto a quella richiesta.

Non vi è dubbio, secondo la Corte, che la condotta posta in essere dal finto esattore sia riferibile all’estorsione e non alla truffa aggravata dalla prospettazione di un pericolo non reale. Il timore, del pericolo di un male, deriva infatti dalla minaccia dell’imputato e non dall’inganno. Anche perché, come affermato dal Collegio, qui non rileva la differenza tra minaccia e raggiro con minaccia. Difatti, quando il livello di concretezza della minaccia assume contorni consistenti, viene superato l’ambito concettuale della truffa con integrazione del più grave reato di estorsione. Per tali motivi la Corte rigetta il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Finto esattore minaccia il debitore: non è truffa aggravata

Il momento del “denaro in mano” determina il reato per cui si viene imputati

La differenza tra i reati di peculato (art. 314 c.p.) e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis c.p.) si basa sulle modalità di possesso del denaro o di altra cosa mobile altrui oggetto di appropriazione. Il primo caso ricorre, quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio se ne appropri avendone già il possesso o comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, mentre il secondo, al contrario, sussiste quando il soggetto attivo, non avendo tale possesso, se lo procuri fraudolentemente , facendo ricorso ad artifici o raggiri per appropriarsi del bene. Lo stabilisce la Cassazione nella sentenza 28020/14.

Il caso

Il tribunale di Catania, in funzione di giudice del riesame, riformava parzialmente la decisione del gip di applicazione degli arresti domiciliari nei confronti di un imputato per i reati di associazione a delinquere, peculato, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche e dichiarazione tributaria fraudolenta, commessi in concorso con altri due soggetti. Questi avrebbero formato un’associazione a delinquere, costituita da quattro enti di formazione professionale, volta al conseguimento fraudolento di ingenti erogazioni pubbliche per corsi di formazione professionale.

Il tribunale non condivideva la qualificazione giuridica di peculato, effettuata dal gip, di alcune delle condotte contestate, osservando che questa andavano rivalutate nel contesto globale di un’alterata e spropositata rappresentazione iniziale di costi, documentata con fatture emesse per operazioni inesistenti, da presentare all’ente pubblico nell’ottica di una complessiva azione volta ad indurre in errore l’ente nell’erogazione dei fondi pubblici. Perciò, tali condotte venivano ricondotte alla fattispecie di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, disciplinato dall’art. 640-bis c.p., come successo anche con altri eventi contestati all’indagato. L’imputato ricorreva in Cassazione, lamentando la qualificazione giuridica di tre condotte, considerate sempre integranti il reato di peculato.

In due casi, esse consistevano in operazioni bancarie finalizzate ad occultare la provenienza del denaro che aveva costituito oggetto di fraudolenta acquisizione di fondi pubblici, mediante emissione di assegni tratti su conti intestati agli enti di formazione professionale in favore di conti correnti personali. Nel terzo caso, si trattava di un’erogazione di emolumenti retributivi in favore del ricorrente, che non aveva, però, mai prestato attività lavorativa effettiva in favore di tali enti di formazione, con lo scopo di trovare una ragione giustificativa delle somme pagate.

Analizzando la domanda, la Corte di Cassazione sottolineava che sussiste il delitto di peculato quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio si appropria del denaro di cui abbia il possesso o la disponibilità materiale, conseguiti legittimamente per ragione del suo ufficio o servizio, perciò eventuali artifici eventualmente posti successivamente in essere rilevano esclusivamente per occultare l’illecito impossessamento o per assicurarsi l’impunità. Si configura, invece, il delitto di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche qualora il soggetto attivo del reato si sia fraudolentemente procurato tale possesso, inducendo la parte lesa in errore mediante le condotte tipiche di artificio o raggiro.

Perciò, la differenza tra le due fattispecie si basa sulle modalità di possesso del denaro o di altra cosa mobile altrui oggetto di appropriazione, ricorrendo il primo caso, quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio se ne appropri avendone già il possesso o comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, ed il secondo, al contrario, quando il soggetto attivo, non avendo tale possesso, se lo procuri fraudolentemente , facendo ricorso ad artifici o raggiri per appropriarsi del bene. Nel caso di specie, non era individuabile il momento in cui il denaro fraudolentemente acquisito fosse diventato denaro pubblico legittimamente in possesso degli indagati, tale da consentire la configurabilità del delitto di peculato a detrimento della mera possibilità di apprezzare tali condotte in chiave di logiche e temporali conseguenze, come tali integranti dei post factum non punibili, della generale condotta fraudolenta qualificata ai sensi dell’art. 640-bis c.p.. Per questi motivi, la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Il momento del “denaro in mano” determina il reato per cui si viene imputati

lunedì 15 settembre 2014

Agevolazione anche senza residenza: sono serviti lavori di messa in sicurezza

I lavori di messa in sicurezza, durati circa sette mesi, e dovuti agli smottamenti nel sedime dell’immobile e nella strada di accesso causati dalle abbondanti piogge, non hanno nulla a che vedere con la ristrutturazione della casa, già avviata al momento dell’acquisto dell’immobile. È su questa distinzione che sbaglia l’Agenzia delle Entrate.

Sbaglia nel ritenere che la CTR abbia riconosciuto il diritto all’agevolazione sulla prima casa, riconnettendo l’evento inevitabile ed imprevedibile, impeditivo del trasferimento della residenza, alla circostanza che l’immobile fosse in ristrutturazione, e quindi non abitabile. Lo afferma la Cassazione, che precisa il giusto ragionamento seguito dai giudici di merito nel concedere l’agevolazione pur in assenza del tempestivo trasferimento della residenza entro i 18 mesi dall’acquisto della casa.

Gli eventi inevitabili, quanto successivi all’acquisto, sono, nel caso di specie, i menzionati smottamenti causati dalle piogge, che (cosa diversa) non avevano consentito il completamento dei lavori di ristrutturazione dell’immobile. Così, con l’ordinanza dell’11 settembre, n. 19247, la Corte torna a riconoscere per la seconda volta in pochi giorni il diritto del contribuente all’agevolazione, pur senza essersi trasferito tempestivamente. È, infatti, solo del 5 settembre, la sentenza n. 18770, con cui era individuata un’altra causa di forza maggiore, “la mancata concessione della residenza, ascrivibile al mancato rilascio del certificato di abitabilità imputabile al costruttore-venditore”.

Fonte: Fiscopiù - Giuffrè per i Commercialisti - www.fiscopiu.it/La Stampa - Agevolazione anche senza residenza: sono serviti lavori di messa in sicurezza

Quando le condotte vessatorie in danno del convivente non costituiscono reato

Fatti lesivi episodici, derivanti da contingenti e particolari situazioni familiari, pur conservando la propria autonomia di reati contro la persona, non integrano il delitto di maltrattamenti. Lo stabilisce la Cassazione con sentenza 27987/14.

Il caso

La Corte di Appello di Lecce, confermando la sentenza del GIP, condannava l’imputato per i reati di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) e di atti persecutori (art. 612 bis c.p.) in danno della convivente. Avverso tale sentenza l’uomo ricorreva in Cassazione, in primo luogo, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 88 e 89 c.p., atteso che i fatti di reato a lui ascritti potevano essere iscritti nello spettro della patologia psichica riscontrata dal perito, e, in secondo luogo, per violazione di legge e vizio motivazionale in ordine alla sussistenza dei reati contestati, attesa la mancanza dello stato psicologico di ansia per la propria incolumità nella parte offesa e delle continue vessazioni morali, indispensabili per la configurazione dei delitti di cui all’art. 615 bis c.p. e 572 c.p..

L’oggetto giuridico nel reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p. non è costituito solo dall’interesse dello Stato alla salvaguardia e alla tutela della famiglia, ma anche dalla difesa dell’incolumità fisica e psichica delle persone indicate dalla norma. Per la configurabilità del reato, infatti, non è sufficiente la presenza di semplici fatti lesivi dell’incolumità personale, la libertà o l’onore di una persona della famiglia, ma è necessario che tali fatti facciano parte di una più ampia ed unitaria condotta abituale, idonea ad imporre un regime di vita vessatorio, mortificante ed insostenibile.

Al contrario, fatti episodici e lesivi anche di diritti fondamentali, derivanti da situazioni contingenti e particolari, che possono verificarsi nei rapporti interpersonali di una convivenza familiare, non integrano il delitto di maltrattamenti, pur conservando la propria autonomia di reati contro la persona (Cass., Sez. VI, n. 37019/2013). Nel caso di specie, già la sentenza di primo grado aveva descritto le condotte costitutive del reato di cui all’art. 572 c.p. in termini di reiterate minacce, scoppi d’ira, aggressioni verbali, una volta anche percosse – scaturenti verosimilmente anche a seguito della patologia psichica dell’imputato - ma mai offese e denigrazioni della parte lesa.

Secondo la Corte di Cassazione, spetta sempre alla Corte territoriale valutare in maniera puntuale e specifica le condotte costituenti fatti di reato, onde valutare se le condotte ascritte all’imputato abbiano determinato la sottoposizione della parte offesa ad un regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile ovvero non abbiano integrato altri e diversi reati contro la sua persona. Essendo la sentenza impugnata del tutto carente in ordine alla motivazione nella parte concernente la sussistenza di abituali condotte vessatorie ai danni della denunziante, la Cassazione accoglieva il ricorso e annullava la sentenza limitatamente al reato di cui all’art. 572 c.p..

domenica 14 settembre 2014

Il concetto di infermità rilevante ai fini penali

Duplici i temi di discussione suggeriti dalla sentenza della Corte di Appello di Napoli in commento; da un lato, l'incapacità di partecipare al giudizio e, dall'altro, il vizio di mente determinante per l'accertamento dell'imputabilità.

Com'è ovvio, entrambe le questioni sottendono l'analisi di stati soggettivi accomunati dall'infermità mentale, ma che operano su piani diversi e con finalità diverse.

Sotto il primo profilo, ricordiamo che la capacità processuale dell'imputato consiste nella partecipazione cosciente, cioè nella percezione da parte dello stesso del senso degli avvenimenti in corso, del fatto oggetto del processo, e delle conseguenze dell'eventuale assoluzione o condanna e, quando non sussistano sintomi già verificabili e seri di una sua possibile non cosciente partecipazione al processo.

Al fine di garantire e valorizzare in concreto l'esplicazione dell'autodifesa, gli artt. 70-72 c.p.p. prevede una fase di accertamento sulla capacità dell'imputato, a cui segue, in caso di esito positivo, la sospensione del procedimento, sempre che non sia possibile prosciogliere o emettere una sentenza di non luogo a procedere, con obbligo di verifiche periodiche sulla situazione psichica dell'infermo.

La fase preliminare di accertamento, che si propone di realizzare un difficile contemperamento tra l'esigenza di garantire l'individuo effettivamente in stato mentale anomalo e quella di salvaguardare la correttezza processuale contro i rischi di simulazioni, presuppone il riscontro di manifestazioni nel comportamento dell'imputato che diano al giudice seria ragione di dubitare che questi, «per infermità mentale», sia «in grado di partecipare coscientemente al processo».

E' relativamente recente l'intervento della Consulta (C. Cost., 26.1.2004, n.39) che, nel dichiarare infondata la questione di legittimità degli artt. 70 ss. nella parte in cui non prevedono l'applicazione della disciplina della sospensione a tutti i casi in cui, per infermità fisica di qualsiasi natura, l'imputato non sia in grado di partecipare attivamente al processo, ha al contempo affermato che, al di là di una littera legis che contiene un esplicito riferimento all'infermità mentale, il sistema normativo vigente comporta la sospensione delle attività processuali ogni volta che lo stato mentale dell'imputato globalmente inteso ne impedisca una cosciente partecipazione al processo.

Di conseguenza, quando non solo una malattia definibile in senso clinico psichica, ma anche qualunque altro stato di infermità non renda sufficienti o non utilizzabili le facoltà mentali (coscienza, pensiero, percezione, espressione) dell'imputato, in modo tale da impedirne una effettiva partecipazione al processo, questo non può svolgersi (Cass. Sez. I 24.11.2006, Lavezzari; Sez. I, 11.5.2006, Santapaola; Sez. V, 27.10.2004, Morotti).

Con la dovuta precisazione che la percezione della capacità di stare in giudizio, da parte di persona sulla cui imputabilità sussistono anche accertamenti negativi, ricade sul giudice dinanzi al quale essa si pone, che deve essere in grado di operare una valutazione sulla base dei comportamenti posti in essere dal soggetto interessato - e quindi al di là anche di accertamenti peritali.

fonte: ilsole24ore.com//Il concetto di infermità rilevante ai fini penali

Ferrara: Violentò minore in auto. Condanna a dieci anni per il pedofilo seriale

Ieri la sentenza del Tribunale nei confronti uno straniero di 32 anni. Al termine dell’udienza la vittima, ora maggiorenne, ha pianto. É sta...