Integra il reato di truffa la condotta di chi vende un immobile in comunione, dichiarando falsamente di averne l’esclusiva proprietà, e, dopo aver stipulato il preliminare ed ottenuto l’assegno, obbliga la vittima, che nel frattempo si è accorta della reale situazione, a pagare una somma per impedire l’incasso dello stesso assegno. Così si è espressa la Cassazione nella sentenza 28478/14.
Il caso
La Corte d’appello di Salerno assolveva un’imputata dal reato di truffa perché il fatto non sussisteva, mancando la deminutio patrimonii del soggetto passivo. Da una parte, l’assegno di 22.500 € era stato restituito alla parte offesa, mentre dall’altra la successiva corresponsione di 3.000 € era stata anticipata all’imputata solo dopo che le trattative per la vendita si erano ormai interrotte e successivamente alla stipula del preliminare, solo per consentire all’imputata di far fronte ad uno scoperto bancario, perciò non era ricollegabile all’accordo relativo al futuro trasferimento di proprietà di un immobile. Essendo la causale del prestito svincolata alla stipula del preliminare, non c’era un rapporto immediato di causa-effetto tra l’espediente fraudolento e la deminutio patrimonii.
La parte civile ricorreva in Cassazione, sostenendo che l’imputata, dichiarando falsamente in sede di preliminare l’esclusiva proprietà dell’immobile, l’aveva convinta a concludere un contratto che non avrebbe mai stipulato. I 3.000 € erano stati versati per evitare che la donna incassasse la maggior somma stabilita precedentemente. Analizzando la domanda, la Corte di Cassazione ricostruiva la vicenda: la vittima, dopo la conclusione del preliminare di vendita, aveva accertato che i beni promessi in vendita erano in comunione e non di esclusiva proprietà dell’imputata, la quale, intanto, aveva portato all’incasso l’assegno di 22.500 € consegnatole al momento della conclusione del contratto.
Il ricorrente aveva, quindi, denunciato la realtà all’imputata, che, per poter bloccare il pagamento dell’assegno, gli aveva chiesto, ottenendola, la somma di 3.000 € mai restituita. Per i giudici di legittimità sussistevano quindi gli elementi del reato di truffa: i raggiri posti in essere per indurre la vittima a stipulare il contratto riguardante un bene immobile, non in esclusiva proprietà, ma in comunione e la perdita della somma di 3.000 €, pagata forzatamente dal ricorrente per impedire l’incasso della maggior somma dell’assegno. Per questi motivi, la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso.
Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Bene in comunione, ma venduto come se fosse di proprietà: la truffa è dietro l’angolo
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mercoledì 24 settembre 2014
Bene in comunione, ma venduto come se fosse di proprietà: la truffa è dietro l’angolo
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