giovedì 17 maggio 2018

Scatta lo stalking anche se alcuni episodi sono anteriori alla norma ma collegati ad altri successivi

Si configura il reato di atti persecutori, in relazione al quale la deposizione della persona offesa potrà essere legittimamente posta da sola a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato – ferma l'aderenza al principio indicato dalle Sezioni Unite n. 41461 del 24 ottobre 2012 e, dunque, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità oggettiva del dichiarante nonché dell'attendibilità intrinseca del racconto – anche nell'ipotesi di condotta iniziata prima dell'entrata in vigore della norma incriminatrice, purché si accerti la commissione reiterata, per il periodo successivo, di atti idonei a creare nella vittima un costante stato di ansia e di paura. Lo puntualizza la quinta sezione penale della Corte di cassazione, con la sentenza n. 54308 resa il 25 settembre 2017 e depositata il successivo primo dicembre.
La pronuncia, in sostanza, interviene a marcare come per l'applicabilità della nuova norma non sia «sufficiente che sia stato compiuto l'ultimo atto dopo la sua entrata in vigore» occorrendo che «tale atto sia preceduto da altri comportamenti tipici ugualmente compiuti sotto la vigenza della nuova norma incriminatrice».
Il fatto - Protagonista, un uomo accusato di aver perpetrato, nei confronti dell'ex convivente, reiterate condotte di minaccia e molestia, tali da cagionarle un perdurante e grave stato di ansia e paura ed un fondato timore per l'incolumità propria e della prole comune. Egli, da quanto emerso, era solito effettuare chiamate notturne al telefono di casa della donna, sostare a lungo nei pressi della sua abitazione lasciando l'autoradio acceso a tutto volume, rivolgerle pesanti offese all'onore e al decoro, minacciarla, anche di morte, seguirla e fingere di tamponarla col proprio veicolo.
Comportamenti, quelli descritti, evidentemente riconducibili nell'alveo del delitto di stalking di cui all'articolo 612 bis del codice penale, a norma del quale veniva condannato dal Tribunale, con sentenza confermata in appello, alla pena di nove mesi di reclusione e al risarcimento in favore della vittima di cinque mila euro per il danno morale arrecato.
Il ricorso dell’imputato - Prevedibile, il ricorso dell'imputato: la decisione impugnata, rileva, non era supportata da congrua motivazione in punto di testimonianza della persona offesa, erroneamente intesa come prova dei fatti, risultando carenti, a suo parere, i riscontri oggettivi richiesti dalla difesa. La deposizione della signora, in altre parole, era stata ritenuta attendibile sulla base di una motivazione solo apparente. Non solo. I giudici, precisa, non avevano neanche spiegato le ragioni per le quali era stato ritenuto superfluo l'esame dei tabulati telefonici e l'audizione dei vicini di casa. Elementi che, invece, avrebbero potuto smontare il narrato dell'offesa. Difetto di motivazione ravvisabile, prosegue il legale dell'uomo, anche in punto di collocazione temporale degli episodi riferiti dai testimoni, invero riferibili a periodi diversi da quello indicato in imputazione. Ma il vizio motivazionale, prosegue, avrebbe investito anche la qualificazione giuridica dei fatti contestati, da inquadrarsi – dovendosi escludere l'abitualità delle persecuzioni, consistenti, al massimo, in uno o due eventi – nell'ambito dei meno gravi reati di cui agli articoli 660, 594 e 612 del codice penale (molestia, ingiuria e minaccia).
Ricorso inammissibile per i giudici di Piazza Cavour - Nel sancirlo, la Corte si sofferma in maniera certosina sull'analisi delle doglianze difensive, prima fra tutte, quella inerente la mancanza della motivazione in relazione alla ritenuta sufficienza della sola testimonianza della persona offesa quale prova del fatto, ritenuta attendibile, assenti riscontri oggettivi che la confortassero, sulla base di una motivazione, in realtà, meramente apparente.
Intanto, annota la Cassazione, la censura mossa è inammissibile, risolvendosi, a ben vedere, nella mera recriminazione di un'erronea ricostruzione della vicenda e, di conseguo, in una rivalutazione dei fatti non consentita in sede di legittimità. È palese, infatti, come una tale operazione – lungi dal potersi equiparare a una verifica della correttezza del percorso decisionale sfociato nella pronuncia impugnata – si tradurrebbe in un controllo sulla valutazione della prova, in un ulteriore vaglio delle acquisizioni probatorie, in una nuova ed alternativa analisi delle risultanze processuali «che ineluttabilmente sconfinerebbe in un eccentrico terzo grado di giudizio». Ma, ed è insegnamento costante, la Cassazione non può «ingerirsi nella valutazione del fatto che ha spinto i giudici del merito a ritenere del tutto coerente e attendibile quanto riferito dalla parte civile» (Cassazione penale, sezione VI, 29 marzo 2006 n. 10951). Tanto premesso, il Collegio coglie l'occasione per ribadire come – se con riferimento alla valutazione della deposizione della persona offesa, non si applicano le disposizioni di cui al comma terzo dell'articolo 192 del codice di procedura penale – esse potranno «essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato». È ormai consolidato, difatti, il principio per il quale il narrato della vittima, seppur da valutare con la dovuta cautela, sia soggetto «al solo limite ordinario dell'attendibilità, senza necessità di riscontri esterni» (Corte di Appello di Napoli, sezione VI, 7 luglio 2015 n. 2702), potendo, ai fini dell'affermazione della responsabilità penale dell'imputato, costituire la deposizione della persona offesa, di per sé sola, prova piena dell'accaduto.
Ciò, sia inteso, previa verifica, corredata da motivazione idonea nonché più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui si sottopongono le dichiarazioni di qualsiasi altro testimone, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto. Indispensabile, inoltre, prestare la dovuta cautela per escludere l'eventuale innesto di situazioni concrete che possano far dubitare dell'attendibilità della vittima (Corte di Appello di Trento, 9 gennaio 2015, n. 381). Non solo. Ove l'offeso si sia costituito parte civile, sarà opportuno procedere anche al riscontro delle sue dichiarazioni con ulteriori elementi (Cassazione penale, sezioni Unite, 24 ottobre 2012 n. 41461).
Nella vicenda, però, si afferma nella pronuncia in analisi, non v'erano motivi per ritenere errata la logica seguita dalla Corte d'Appello nell'esprimere «piena sintonia con l'approfondita valutazione operata dal Giudice di primo grado» in ordine all'intrinseca credibilità della donna, apparsa serena e non influenzata dal rancore e al contempo coerente e specifica. È per tale ragione, si sottolinea, che non si erano resi necessari i riscontri esterni proposti dal legale del reo, il quale, peraltro, non aveva né indicato se dette prove fossero state tempestivamente proposte né argomentato sulla sussistenza dei presupposti per riaprire l'istruttoria in sede di gravame. Tanto chiarito, la Cassazione, quanto all'addotta immotivata riferibilità degli episodi narrati dai testi a periodi diversi da quello contestato, annota che, per la verità, la decisione impugnata menziona tutta una serie di comportamenti persecutori posti in essere dal ricorrente a danno dell'ex convivente, dopo il marzo del 2009 e protrattisi almeno fino all'ottobre 2010 e, perciò, proseguiti successivamente all'introduzione del delitto di atti persecutori (operata dall'articolo 7 del decreto legge n. 11 del 23 febbraio 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 38 del 23 aprile 2009).
Quando scatta il reato, la giurisprudenza - Ed è la stessa giurisprudenza ad aver elaborato la tesi per cui possa dirsi configurabile il reato di cui all'articolo 612 bis del codice penale, anche nell'evenienza di condotta persecutoria iniziata antecedentemente all'entrata in vigore della norma incriminatrice, purché si accerti, per il periodo successivo, la commissione reiterata di atti aggressivi e molesti idonei a creare nella vittima «lo status di persona lesa nella propria libertà morale, in quanto condizionata da costante stato di ansia e di paura» (Cassazione penale, sezione V, 16 novembre 2016 n. 48268). Lo stalking, d'altronde, si caratterizza per l'abitualità della condotta – nel senso di reiterazione di minacce o di molestie, ravvisabile anche in soli due atti (Tribunale di Nocera Inferiore, 27 settembre 2016 n. 1941) – e per il verificarsi di uno degli eventi alternativi (Cassazione pen., Sez. V, 30 agosto 2016 n. 35778) indicati nella norma: il perdurante e grave stato di ansia o di paura, da intendersi come apprezzabile destabilizzazione della serenità e dell'equilibrio psicologico dell'offeso (Tribunale di Firenze, 25 ottobre 2016 n. 6166; Tribunale di Bari 22 luglio 2016 n. 3669) e il fondato timore per l'incolumità e l'alterazione delle abitudini di vita di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva (Cassazione penale, sezione V, 23 maggio 2016 n. 21407).
Criterio, elaborato in conformità con quello per cui la prova del crimine andrà ancorata a elementi sintomatici del turbamento psicologico, ricavabili sia dal narrato della vittima che dai comportamenti conseguenti alla condotta del reo, alla luce dell'astratta idoneità a causare l'evento e delle «effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata» (Cassazione penale, sezione V, 28 giugno 2016 n. 26878. Da ultimo: Tribunale Ivrea, 3 novembre 2017 n. 891). A rilevare, allora, sarà sia la minaccia palese che quella implicita o subdola, se idonea a incutere timore, considerate le circostanze del caso, la personalità del reo, le condizioni della parte offesa e quelle ambientali. Ciò, a prescindere dal concreto verificarsi dello stato di intimidazione, reputandosi sufficiente, a far scattare la condanna per atti persecutori, l'attitudine a intimorire (Tribunale di Campobasso, 20 novembre 2017 n. 508) mediante qualsiasi seccante intrusione nell'altrui sfera individuale, incluse le telefonate reiterate (Tribunale di Campobasso, 23 gennaio 2017 n. 8), il massiccio invio di sms (Tribunale di Bari, 3 ottobre 2017 n. 2800), gli atteggiamenti predatori (Tribunale di Genova, 20 ottobre 2016 n. 5425) o gli appostamenti sui mezzi usati dalla vittima per recarsi al lavoro, associati ad avvicinamenti, sguardi insistenti e pedinamenti idonei a procurarle ansia e indurla a mutare abitudini di vita (Tribunale di Genova, 24 gennaio 2017 n. 37).
Tuttavia – trattandosi di reato a eventi alternativi, «la realizzazione di ciascuno dei quali è idonea ad integrarlo» (Cassazione penale, sezione V, 30 agosto 2016 n. 35778; Tribunale di Campobasso, 18 luglio 2016 n. 574) – non si esigerà, perché lo si configuri, né l'effettivo mutamento delle consuetudini della parte offesa, né che lo stato di ansia e timore sofferto si sia tradotto in patologia, essendo sufficiente che le persecuzioni abbiano avuto effetti destabilizzanti della sua serenità e del suo equilibrio psicologico (Cassazione penale, sezione V, 30 ottobre 2017 n. 49681; Tribunale di Firenze, 19 agosto 2016 n. 3976). Effetti che, sia inteso, potranno desumersi anche dalle dichiarazioni rese dalla vittima a riscontro delle modalità degli episodi riferiti (Corte di Appello di Roma, 30 settembre 2016 n. 6501).
Quanto, poi, alla realizzazione di una condotta frazionata in una pluralità di azioni tipiche, omogenee o eterogenee, susseguitesi nel tempo mediante la reiterazione dei singoli episodi, sarà legittima una contestazione che, come nella fattispecie, vada al di là delle tradizionali incriminazioni previste da singole norme e finisca per versarsi in un contesto diverso, quale il delitto di stalking, per la cui configurabilità – annota la Corte in lettura – non è «sufficiente che sia stato compiuto l'ultimo atto dopo la sua entrata in vigore, ma occorre che tale atto sia preceduto da altri comportamenti tipici ugualmente compiuti sotto la vigenza della nuova norma incriminatrice». Affermazione adesiva alla tesi, ormai solida, per cui il crimine di atti persecutori è rinvenibile laddove, pur essendo la condotta iniziata anteriormente all'intervento del 2009, si accerti la commissione reiterata, anche dopo la sua entrata in vigore, di atti aggressivi e molesti idonei a creare nella vittima lo status di persona lesa nella propria libertà morale, condizionata da un costante stato di ansia e paura (Cassazione penale, sezione V, 16 novembre 2016 n. 48268). In sintesi, annotarono i giudici, l'analisi sulla condotta delittuosa esigerà uno sguardo sulla sua «articolazione complessiva, sicché comportamenti che in sé potrebbero non essere punibili si presentano, comunque, rilevanti al fine di integrare il reato di atti persecutori».
Sarà ininfluente, pertanto, in una tale ottica, la proposizione o meno – per atti integranti condotte tipizzate – di apposita querela, dovendosi prendere a riferimento, per il computo del termine semestrale, il comportamento complessivamente persecutorio dell'imputato. E il carattere del reato, abituale a reiterazione necessaria delle condotte, rileverà altresì ai fini della procedibilità, tanto che, ove il presupposto della reiterazione venga integrato da azioni poste in essere oltre i sei mesi previsti dalla norma rispetto alla prima o alle precedenti condotte, la querela estenderà la sua efficacia anche a tali pregresse condotte, indipendentemente dal decorso del termine predetto (Cassazione penale, sezione V, 14 maggio 2015 n. 20065). Del resto, proseguono i giudici, lo stato di alterazione e turbamento psicologico e comportamentale della vittima, seppur non penalmente rilevante in via autonoma, con la Riforma del 2009 ha acquistato «una propria valenza offensiva, in virtù del suo perpetuarsi e radicarsi nella psiche, nei comportamenti quotidiani, nella libertà di autodeterminarsi nella scelta dei luoghi, dei comportanti, delle frequentazioni».
Il reato, quindi, non si perfezionerà con l'instaurarsi della condotta persecutoria, bensì al realizzarsi – con l'innesto della nuova fattispecie – della rilevanza giuridica «nell'esistenza psicologica e nella vita di relazione, del grave stato di ansia e di paura». È il substrato del delitto, fondamentalmente, a consentire di configurare il crimine anche in caso di comportamento invasivo frazionato, a patto che la reiterazione di atti aggressivi e molesti sia idonea (alla luce del pregresso affievolimento delle capacità di resistenza e autodifesa della vittima) a creare nel soggetto leso nella propria libertà morale, l'evento di danno previsto e punito dalla norma.
E nella vicenda, erano stati appurati almeno due episodi di molestie successivi all'introduzione della nuova disciplina. Si palesano, così, le motivazioni per le quali la Cassazione, riscontrati gli elementi integrativi del delitto contestato, inclusa l'abitualità della condotta tenuta dal reo successivamente all'entrata in vigore della Novella ma legata a doppio filo a episodi precedentemente commessi, ha confermato, cristallizzandola, la condanna per atti persecutori inferta al ricorrente.

fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

Nessun commento:

Posta un commento

Responsabilità professionale medica, stop alle "liti temerarie" contro i medici

 Stop alle "liti temerarie" contro i medici: su 100 cause per responsabilità professionale, nel penale, solo il 5% porta a una con...