giovedì 19 marzo 2020

Coltivare cannabis è reato vi sono indici che fanno escludere l’uso personale

Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la sentenza con cui la Corte d’appello aveva confermato la condanna inflitta in primo grado ad un soggetto per avere coltivato piante di canapa indiana e detenuto 85 grammi di marijuana, la Corte di Cassazione (sentenza 4 febbraio 2020, n. 4666) – nel disattendere la tesi difensiva secondo cui i giudici avrebbero errato nel non aver riconosciuto la detenzione della sostanza per uso personale - ha, infatti, affermato che, a seguito della recente sentenza delle Sezioni Unite intervenuta in data 19 dicembre 2019, il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente. Devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all'ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell'ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all'uso personale del coltivatore.

L’art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 punisce, tra le altre, anche la condotta di chiunque coltiva senza autorizzazione piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti o psicotrope. Tale previsione normativa è stata oggetto di questioni interpretative, collegate, da un lato, alla ritenuta rilevanza penale della destinazione ad uso personale della sostanza stupefacente per le condotte di coltivazione e fabbricazione, non richiamate dall’art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990 - che prevede un illecito solo amministrativo in caso di uso personale - e, quindi, non ad esso riferibili; dall’altro lato, per le diversità naturali riconducibili alla fenomenologia della condotta, al momento dal quale può ritenersi punibile il fatto, con riferimento al principio di offensività in concreto ed alla necessaria mediazione del giudice, chiamato a verificare l’effettiva idoneità della sostanza ricavata dalla coltivazione a produrre un effetto drogante rilevabile. Secondo le Sez. U, n. 28605 del 24/4/2008, Di Salvia, CED Cass. 239920-239921, ai fini della punibilità della condotta di coltivazione di piante stupefacenti, se è irrilevante la destinazione o meno ad uso personale, tuttavia è indispensabile la verifica da parte del giudice sulla offensività in concreto della condotta, riferita all’idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile.

La giurisprudenza delle Sezioni Unite giunse a tali affermazioni per comporre il contrasto, molto risalente, tra l’orientamento che, anche dopo le modifiche normative intervenute con la legge cd. “Fini-Giovanardi” (d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, conv. con modifiche in legge 21 febbraio 2006, n. 49), individuava una nozione di “coltivazione domestica” per uso personale (distinta da quella penalmente rilevante della “coltivazione in senso tecnicoagrario”), ritenendo comunque la condotta di coltivazione non estranea all’ambito concettuale della “detenzione”, quindi anch’essa sottoposta al canone di rilevanza penale della “destinazione ad uso non personale”, e l’orientamento che, invece, riteneva comunque sussistente il reato, anche nel caso in cui la coltivazione mirasse a soddisfare esigenze di approvvigionamento personale, in ragione, soprattutto, della idoneità della condotta ad accrescere il pericolo di circolazione e diffusione delle sostanze stupefacenti e ad attentare al bene della salute con incremento delle occasioni di spaccio. Aderendo a tale ultima opzione, le Sezioni Unite vollero, però, affiancare un opportuno e più ampio ragionamento sulla stessa punibilità della coltivazione, sulla scia dell’interpretazione costituzionalmente orientata che negli anni il Giudice delle leggi ha proposto della fattispecie di coltivazione di piante stupefacenti, più volte oggetto di dubbi di costituzionalità, sottoposti al suo vaglio. In sintesi, la sentenza delle Sez. U Di Salvia, in ossequio al principio di offensività inteso nella sua accezione concreta, ha stabilito che spetta al giudice verificare se la condotta, di volta in volta contestata all'agente ed accertata, sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto, risultando in concreto inoffensiva, mettendo in luce, tuttavia, un ulteriore atteggiamento interpretativo di non poche conseguenze pratiche in termini di ricadute sulla punibilità effettiva delle singole fattispecie: secondo la citata sentenza, infatti, la condotta è "inoffensiva", soltanto se il bene tutelato non è stato leso o messo in pericolo anche in grado minimo (irrilevante è a tal fine il grado dell'offesa), sicché, con riferimento allo specifico caso della coltivazione di piante, la "offensività" non ricorre soltanto se la sostanza ricavabile non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile. Di recente, tuttavia, il principio affermato dalle Sezioni Unite Di Salvia è stato nuovamente rivisto, con maggiore specificazione, da una ulteriore sentenza delle Sez. U. Caruso (di cui si conosce la sola informazione provvisoria, non essendo state depositate le motivazioni alla data odierna) resa all’ud. 19 dicembre 2019, che ha affermato il principio per cui “il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore“.
Tanto premesso, nel caso in esame, la Corte di appello confermava la condanna del G.u.p. del Tribunale, all'esito di giudizio abbreviato, in relazione al reato di cui all'art. 73, comma 5, DPR 309/90 per avere l’imputato coltivato piante di canapa indiana e detenuto 85 grammi di marijuana. Ricorrendo in Cassazione, l’imputato sosteneva che i giudici di merito avevano errato nel non riconoscere la detenzione della sostanza per uso personale. In sostanza, la difesa sosteneva che la coltivazione era solo presupposta perché non erano state rinvenute piantine in crescita ovvero in essicazione ma unicamente sostanza stupefacente che si poteva solo presumere fosse oggetto di essicazione di una precedente coltivazione domestica. Il dato quantitativo di per sé non poteva peraltro ritenersi determinante in assenza di comprovate condotte di cessione e spaccio.
La Cassazione, nel disattendere la tesi difensiva, ha richiamato non solo il principio affermato dalle Sezioni Unite Di Salvia, ma anche il recente principio affermato dalle Sezioni Unite Caruso, precisando che la tesi difensiva non poteva essere accolta, non si confrontandosi con la motivazione della sentenza di merito che aveva evidenziato, per escludere l'uso personale delle sostanze, il numero di piante coltivato (una parte era già stata asportata e trasferita altrove), l'apprestamento di strumenti professionali (serre; fertilizzante; sistema di ventilazione); il quantitativo di stupefacente prodotto e già predisposto (85 grammi da cui si possono trarre circa 270 dosi), la presenza di strumenti di confezionamento (sacchetti in plastica), tutti elementi ritenuti indicativi della finalità di commercio della condotta.
Da qui, dunque, l’inammissibilità del ricorso.

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