La Cassazione civile, sezione I, con ordinanza 13 febbraio 2020, n. 3661, ha ribadito l’irrilevanza del tenore di vita nella quantificazione dell’assegno divorzile di cui all'articolo 5 della Legge 1° dicembre 1970, n. 898, evidenziando al contempo il dovere per l’ex coniuge di sfruttare la propria capacità lavorativa, cercando un’occupazione.
Il caso
La moglie, all’epoca del matrimonio, aveva un lavoro presso una casa editrice ed era iscritta al corso di laurea in lettere. Al momento della nascita del primo figlio, aveva smesso di lavorare e lasciato gli studi universitari, provvedendo da sola all'accudimento dei figli cui il marito non poteva far fronte per gli impegni della sua carriera dirigenziale.
Il marito, nel frattempo, era andato in pensione e la donna aveva ereditato sia da parte del padre che della madre.
Il tribunale di Roma aveva riconosciuto all’ex coniuge un assegno divorzile di 4.000 euro, ma in appello l’importo era stato ridotto a 1.500 euro mensili, considerando le nuove circostanze.
La donna ricorre in Cassazione.
La Corte territoriale non avrebbe proceduto correttamente nel parametrare l’inadeguatezza dei mezzi economici del coniuge debole, al tenore di vita goduto dai coniugi in costanza di matrimonio.
In particolare sarebbe stata omessa, secondo la ricorrente, la valutazione sul notevole miglioramento dei redditi del marito, nel corso della vita matrimoniale, intervenuto dopo la trasformazione del suo rapporto di lavoro da dipendente ad autonomo.
L’ex coniuge lamentava, inoltre, la rilevanza attribuita all’apertura della successione paterna, senza che fosse provato un apprezzabile miglioramento nelle sue condizioni patrimoniali.
Infine, secondo la ricorrente, la Corte distrettuale avrebbe erroneamente ridotto la misura dell'assegno a causa della sua mancata iniziativa per reperire un'occupazione, non considerando che l'attitudine al lavoro assume rilievo solo se esiste un'effettiva possibilità di svolgimento di un'attività lavorativa retribuita, adeguata alla qualificazione professionale e alla dignità della persona.
La Cassazione ha respinto il ricorso della donna.
Il dovere di sfruttare tutte le potenzialità professionali e reddituali personali per l'ex coniuge
In primis, la Cassazione ha confermato che i principi di cui i giudici di merito non avrebbero fatto corretta applicazione secondo la ricorrente, non corrispondono alla più recente giurisprudenza della Corte.
L'assegno divorzile non deve più consentire all'avente diritto di mantenere lo stesso tenore di vita di cui godeva in costanza di matrimonio.
Il giudice, nello stabilire se e in quale misura deve essere riconosciuto l'assegno divorzile richiesto, una volta comparate le condizioni economico patrimoniali delle parti e se riscontra l'inadeguatezza dei mezzi del richiedente e l'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, deve verificare se la sperequazione sia la conseguenza del contributo fornito dal richiedente alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, con sacrificio delle proprie aspettative professionali e reddituali, in relazione all'età dello stesso e alla durata del matrimonio.
La quantificazione dell'assegno dovrà essere effettuata in modo da garantire all'avente diritto un livello reddituale adeguato a un simile contributo.
Quanto al tema della capacità lavorativa e la mancata attivazione per la ricerca di un’occupazione fin dal momento della separazione, la Corte ha specificato che non rilevano le occasioni concrete di ottenere un lavoro, ma è sufficiente la capacità di procurarsi i propri mezzi di sostentamento e le potenzialità professionali e reddituali.
L’ex coniuge è chiamato, dopo lo scioglimento del matrimonio, a valorizzare tutte le proprie potenzialità con una condotta attiva e non assumendo un “atteggiamento deresponsabilizzante e attendista, di chi si limiti ad aspettare opportunità di lavoro riversando sul coniuge più abbiente l'esito della fine della vita matrimoniale”.
fonte: www.altalex.com
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