sabato 24 gennaio 2015

Dimissioni o licenziamento: non è prevista un’altra fine del rapporto di lavoro

Il tribunale di Roma dichiara legittimo il licenziamento di un lavoratore, che si era ingiustificatamente assentato dal lavoro per due mesi e mezzo. La società aveva applicato il regolamento del personale, secondo cui è considerato dimissionario il dipendente che, senza dare la prevista comunicazione, si assenti senza giustificato motivo dal lavoro per un periodo non superiore a 10 giorni lavorativi. Il comportamento del lavoratore rappresentava, di conseguenza, un’implicita volontà di rassegnare le dimissioni. La Corte d’appello, invece, dichiarava l’illegittimità del licenziamento. La società ricorreva, quindi, in Cassazione, deducendo che il comportamento del lavoratore fosse incompatibile con la volontà di proseguire il rapporto di lavoro.

La Suprema Corte ricorda che alle parti non è consentito attribuire a determinati comportamenti del lavoratore il valore ed il significato della volontà di dimettersi, senza possibilità di prova contraria. Il recesso dal rapporto di lavoro subordinato può attuarsi unicamente nella duplice forma del licenziamento intimato dal datore di lavoro oppure delle dimissioni rassegnate dal lavoratore, mentre non è possibile introdurre un terzo genere di recesso con la previsione di un comportamento, giudicato significativo dell’intenzione di recedere, ma svincolato dall’effettiva volontà del soggetto e che non ammetta prova contraria. Altrimenti, la previsione negoziale si risolverebbe in una clausola risolutiva espressa del rapporto, il che è inammissibile.

Nel caso, inoltre, il lavoratore aveva comunicato telefonicamente alla società di essere in malattia e quest’ultima aveva poi richiesto l’invio di documentazione medica. La mancata trasmissione della documentazione, secondo la società, rendeva applicabile la fattispecie del regolamento del personale, per cui il lavoratore doveva ritenersi dimissionario. Ma la richiesta della società non conteneva una diffida espressa a riprendere servizio, né faceva riferimento ad una presunta volontà del lavoratore di recedere dal rapporto. Perciò, si trattava di una situazione di assenza ingiustificata, non della volontà (mai manifestata) del lavoratore di dimettersi. Eventualmente, la prolungata assenza dovuta a malattia, non documentata, avrebbe potuto essere il fondamento di un licenziamento disciplinare, nel rispetto delle garanzie procedimentali di legge. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

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venerdì 23 gennaio 2015

È legittimo licenziare il dipendente condannato con sentenza di patteggiamento

Una donna ricorre in Cassazione contro la sentenza con cui la Corte d’appello di Roma ha respinto l’impugnazione del licenziamento intimatogli dal Ministero dell’economia e delle finanze. Il datore di lavoro infatti, essendo venuto a conoscenza di una sentenza di patteggiamento emessa qualche anno prima nei confronti della lavoratrice, aveva proceduto a recedere dal rapporto di lavoro, avvalendosi di una specifica clausola prevista dal contratto collettivo.

La Corte (sentenza 1024/15) coglie l’occasione per ricordare che, con riferimento alla sentenza di applicazione della pena su richiesta, a questa è pacificamente riconoscibile efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità penale, essendo parificabile alla sentenza irrevocabile di condanna. Nel caso concreto dunque, considerando che il contratto collettivo rilevante concede al datore di lavoro la risoluzione del rapporto laddove il dipendente riporti una «sentenza di condanna», i giudici di merito hanno correttamente interpretato la volontà delle parti collettive e, ispirandosi al comune sentire, hanno parificato la sentenza di patteggiamento a quella di condanna. L’argomentazione fa anche riferimento alla circostanza per cui, con la sentenza di patteggiamento, in effetti l’imputato non nega la propria responsabilità ma, anzi, esonera l’accusa dalla relativa prova. A ciò si aggiunga infine l’incontestata possibilità per il lavoratore di far valere, nelle competenti sedi civili, gli elementi probatori che possono opporsi alla rilevanza indiziaria della sentenza di patteggiamento, ai fini dell’accertamento della responsabilità disciplinare. Per questi motivi il ricorso viene rigettato

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giovedì 22 gennaio 2015

Niente ticket in parcheggio a pagamento: attenzione a chi lascia la multa sotto il tergicristallo

Gli ausiliari del traffico sono legittimati ad accertare e contestare le violazioni del codice della strada solo se queste riguardano disposizioni in materia di sosta. Lo afferma la Cassazione nell’ordinanza 22867/14.

Il caso

Un automobilista contesta il verbale di accertamento notificatogli dal Comune per aver sostato con il suo mezzo in un area di parcheggio a pagamento senza esporre il titolo di pagamento. A suo giudizio, il verbale va considerato nullo, perchè l'ausiliario non è abilitato a rilevare l’infrazione. La sua richiesta è respinta: i giudici di merito ritengono che l’ausiliario del traffico fosse legittimato all’accertamento. Di qui il ricorso in Cassazione.

La Suprema Corte rileva che il tribunale non aveva chiarito se l’accertatore fosse abilitato, ossia nominato ausiliario del traffico (come previsto dall'art. 17, comma 132, legge n. 127/1997 - "Misure urgenti per lo snellimento dell'attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo"). In base alla normativa, gli ausiliari del traffico sono legittimati ad accertare e contestare le violazioni del codice della strada solo se queste riguardano disposizioni in materia di sosta e non sono abilitati a rilevare infrazioni inerenti a condotte diverse (ad esempio la circolazione in corsie riservate ai mezzi pubblici), che possono essere contestate, oltre che dagli agenti, anche dal personale ispettivo delle aziende di trasporto pubblico di persone. Perciò, se il Comune non prova la legittimità della loro nomina, la domanda di annullamento del verbale deve essere accolta. Alla luce di queste considerazioni, la Corte di Cassazione accoglie il ricorso e rimanda la decisione ai giudici di merito.

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Mani nel portafoglio del collega: smontata la tesi dell’errore, dipendente licenziato

Beccato con le mani nella – metaforica – ‘marmellata’, rappresentata, più prosaicamente e meno dolcemente, dal portafoglio del collega di lavoro. Semplice errore, sostiene, a propria difesa, l’uomo, aggiungendo di avere anche restituito i soldi erroneamente, appunto, presi dal portafoglio. Ma è tutto inutile: vista la gravità della condotta, difatti, viene sancita la legittimità del licenziamento adottato dall’azienda (Cassazione, sentenza 1036/15).

Scenario della vicenda è lo spazio angusto della «cabina di pilotaggio di un aeromobile, fermo sulla pista dell’aeroporto». Lì, difatti, l’uomo si ritrova ad armeggiare con un portafoglio, da cui estrae alcune banconote. Ma vi è un piccolo particolare, per nulla secondario... il portafoglio è quello del «comandante pilota». Di fronte a questa incresciosa situazione, emersa in maniera clamorosa, l’azienda opta per il provvedimento più estremo: l’uomo viene licenziato. E la dura decisione viene ritenuta assolutamente non discutibile dai giudici di merito, che ne sanciscono la piena legittimità.

A chiudere la vicenda, arriva anche il parere definitivo dei giudici della Cassazione, i quali, respingendo le obiezioni mosse dall’uomo, confermano e cristallizzano il «licenziamento» messo ‘nero su bianco’ dalla compagni aerea. Inaccettabile la tesi difensiva del mero «errore», poggiata, dall’uomo, sulla presunta «somiglianza del proprio portafoglio a quello del collega». Irrilevante, in quest’ottica, anche il richiamo al fatto che le «somme di denaro» erano state poi «restituite» al legittimo proprietario. Unico dato certo, invece, è la «condotta lesiva» tenuta dall’uomo, condotta che, sanciscono i giudici, rende corretta la decisione dell’azienda di optare per il licenziamento.

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sabato 17 gennaio 2015

“Ragazzi, non fate gli scemi” .Insegnante sospeso per una settimana

Per riportare la calma in classe, una quinta elementare di Lessolo, paese alle porte di Ivrea, l’insegnante usava espressioni del tipo: «Smettiamo di fare i cretini». Oppure, quando davvero credeva che la misura fosse colma, esagerava un tantino. Alzava la voce e sbottava: «Non fate gli scemi».

Apriti cielo! I bambini lo hanno raccontato a casa e alcuni genitori sono corsi subito dalla dirigente scolastica intenzionati a far valere le proprie ragioni: «Deve prendere provvedimenti, non sono frasi ammissibili in una classe di quinta elementare» è stato, più o meno, il tenore della protesta. Alla fine hanno vinto loro. L’insegnante, Gabriele G., un trentacinquenne in prova e al suo primo anno in questa scuola, è stato sospeso per una settimana.

 Lunedì, scaduta la punizione, dovrebbe far rientro in aula. «E con che spirito mi ripresenterò?» chiede ora. Adesso Gabriele G. dice di sentirsi amareggiato. «Peggio, mi sento uno straccio. Sono così avvilito che potrei anche smettere di insegnare, dopo otto anni di sudata carriera».

Ma andiamo con ordine. Gabriele G. insegna italiano. Dopo essere passato da una scuola all’altra, a settembre ottiene la possibilità di insegnare un anno, ma in prova, alle elementari di Lessolo. «Non è un incarico di ruolo – racconta – ma meglio di niente». C’è chi non gradisce, però. Il feeling con i genitori non scatta fin dall’inizio. E il rapporto muore prima ancora di nascere. Qualcuno, in paese, giura che se quel docente dovesse restare anche il prossimo anno è pronto a non iscrivere più i figli a Lessolo.

 A pesare sono i metodi, considerati eccessivi e troppo duri, del docente. E, soprattutto quelle parole pronunciate in classe. «Dare del cretino o dello scemo ad un bambino non sta né in cielo, né in terra» protestano i genitori. Così alla fine è scattata la sospensione. «Quello che fa più male – chiosa l’insegnante – è che questa notizia sia stata diffusa. Ne parlerò con un avvocato e vedrò anche se sarà il caso di impugnare il provvedimento disciplinare».

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Va punito chi ha merce contraffatta da vendere

La Corte d’appello, confermando la sentenza di primo grado, condanna l’imputato per il reato di ricettazione (art. 648 c.p.) e di introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi (474 c.p.).

La Cassazione (sentenza 44354/14) ricorda che «integra il delitto di cui all’art. 474 c.p. la detenzione per la vendita di prodotti recanti marchio contraffatto, né a tal fine rileva la configurabilità della cosiddetta contraffazione grossolana, considerato che la norma citata, in via principale e diretta tutela, non già la libera determinazione dell’acquirente, ma la pubblica fede, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi o segni distintivi, che individuano le opere dell’ingegno ed i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione. Trattasi, invero, di un reato di pericolo, per la cui configurazione non occorre la realizzazione dell’inganno; nemmeno ricorre l’ipotesi del reato impossibile qualora la grossolanità della contraffazione e le condizioni di vendita siano tali da escludere la possibilità che gli acquirenti siano tratti in inganno». E’, d’altra parte, illecito l’uso senza giusto motivo di un marchio identico o simile ad un altro notorio anteriore, quando al primo derivi un vantaggio indebito e sia idonea a creare confusione. Quindi, la Suprema Corte dichiara inammissibile il ricorso dell'imputato.

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Tassi da usuraio: minacciare la vittima non rientra nell’esercizio delle proprie ragioni

La Corte d’appello di Milano condanna per il reato di estorsione un imputato, che ricorre in Cassazione. L’uomo dice di aver agito nella convinzione di procedere al recupero del proprio credito, per cui il reato sarebbe quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (articolo 393 del codice penale). Inoltre, l'imputato afferma che la parte offesa ha restituito all’imputato una somma inferiore al capitale prestato, per cui quest’ultimo avrebbe comunque potuto agire secondo l'articolo 1815 del codice civile.

La Cassazione, tuttavia, nella sentenza 44366/14, ritiene che la condotta usuraria dell'imputato è dimostrata e questi, in diverse occasioni aveva anche percosso la vittima. In più, il costante incremento degli interessi pretesi dall’imputato fa capire che ilprestito a tassi usurari precludeva qualsiasi pretesa di legittima azionabilità della somma relativa al capitale mutuato, per cui la violenza e le minacce non erano rivolte alla restituzione solo dell’originario prestito, ma della cifra più consistente accumulata nel tempo. Nel caso, gli interessi erano oggettivamente di carattere usurario, il che escludeva la legittimità dell’eventuale pretesa giuridicamente azionabile di ottenere il rimborso dell’intero capitale mutuato. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso dell'imputato.

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Curva ‘cieca’, velocità regolare ma manovra azzardata: automobilista condannato per la scivolata mortale del motociclista

E' chiara la responsabilità del conducente della ‘quattro ruote’, il quale, nonostante il contesto complicato, ha tenuto una velocità eccessiva, pur se rispettosa dei limiti per quel tratto di strada, e compiuto una manovra assurda, percorrendo una curva con scarsissima visibilità. Tutto ciò ha dato il ‘la’ alla scivolata del motociclista proveniente dalla direzione opposta, scivolata che, purtroppo, a seguito dell’impatto coll’autoveicolo, ne ha provocato la morte. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza 1804/15, depositata ieri.

I giudici di merito non avevano dubbi: l’automobilista è stato condannato per il reato di «omicidio colposo», e a corredo viene anche fissato il «risarcimento dei danni subiti dalle parti civili». Per il conducente della ‘quattro ruote’, però, è stata trascurata la condotta tenuta dal motociclista. Se quest’ultimo, sostiene l’uomo, «fosse stato rispettoso del Codice della Strada, il sinistro non si sarebbe verificato, o si sarebbe verificato con altre conseguenze», sicuramente meno gravi.

Detto in maniera ancora più chiara, l’uomo afferma, col ricorso in Cassazione, che «la segnaletica indicante la pericolosità della curva, data anche la presenza di alberi, avrebbe dovuto indurre il motociclista a tener conto che qualche veicolo, proveniente nel senso opposto, avrebbe potuto compiere qualche manovra».

Tutte obiezioni teoricamente corrette, ma, ribattono i giudici del ‘Palazzaccio’, alla luce della dinamica del sinistro, è «preponderante» la «responsabilità» dell’automobilista. Ciò perché «al momento dell’impatto», teneva «una velocità di 75-80 chilometri orari, di poco inferiore a quella massima consentita» su quel tratto stradale, e «tale velocità non era prudenziale, in considerazione della presenza di segnaletica indicante pericolosità della curva, collegata alla limitata profondità della visibilità».

Peraltro, aggiungono i giudici, l’automobile «aveva superato la linea di mezzeria ed attraversato buona parte della semicarreggiata riservata alla direzione di marcia del motociclo». Di conseguenza, la «condotta di guida» dell’automobilista non è «conforme alle norme di legge». E, allo stesso tempo, le «violazioni delle norme sulla disciplina della circolazione stradale a lui attribuibili risultano obiettivamente gravi e tali da turbare, su strada extraurbana soggetta a non ridottissimi limiti di velocità, il normale procedere dei veicoli in direzione opposta». Inevitabile, quindi, la conferma della «condanna» dell’automobilista per «omicidio colposo», realizzato attraverso la «violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale».

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giovedì 15 gennaio 2015

Condominio: prima di deliberare, verificare che tutti gli inviti siano giunti a destinazione

E’ illegittima la delibera condominiale se non è certo che tutti i condomini siano stati invitati alla riunione. Lo ha deciso la Cassazione nell’ordinanza 22685/14.

Il caso

Una condomina impugna la delibera condominiale con la quale, in seconda convocazione, sono stati nominati gli amministratori e i consiglieri del condominio. Il Tribunale in primo grado e la Corte d’appello in secondo grado rigettano la sua domanda. La donna ricorre in Cassazione.

In primo luogo lamenta la violazione dell’art. 1136 del codice civile (costituzione dell'assemblea e validità delle deliberazioni), sostenendo che è stato violato il termine minimo di un giorno fissato dalla norma per riconvocare l’assemblea in seconda convocazione: la norma doveva essere interpretata nel senso che tra la prima e la seconda convocazione dovevano intercorrere almeno 24 ore. Inoltre, richiama il regolamento condominiale, in base al quale era necessario avvisare almeno 10 giorni prima e che stabiliva la possibilità di una seconda convocazione non oltre 10 giorni dalla prima.

Il motivo è infondato. La Cassazione, difatti, spiega che non assume rilevanza il regolamento condominiale, non discutendosi in questa sede del termine di 10 giorni per l’avviso della seconda convocazione (avviso che può, tra l’altro, essere unico sia per la prima che per la seconda convocazione). D’altra parte «la norma dell’art. 1136, secondo la quale tra la prima e la seconda assemblea deve passare almeno un giorno, va intesa non già nel senso che debbano trascorrere 24 ore, ma che la seconda assemblea deve essere tenuta, come minimo, nel giorno successivo» (Cass., n. 196/1970).

La donna, inoltre, lamenta l’omessa redazione del verbale d’assemblea di prima convocazione e che nel verbale di seconda convocazione non vi era stato nessun accenno, neppure implicito alla prima riunione. Anche questo motivo è però infondato. Infatti, «la necessità della verifica del negativo esperimento della prima convocazione non comporta la necessità di redigere un verbale negativo, ma attiene alla validità della seconda convocazione la quale è condizionata dall’inutile e negativo esperimento della prima, in questo caso per completa assenza dei condomini; la verifica di tale condizione va espletata nella seconda convocazione, sulla base delle informazioni orali rese dall’amministratore, il cui controllo può essere svolto dagli stessi condomini i quali sono stati assenti alla prima convocazione, o, essendo stati presenti, sono in grado di contestare tali informazioni; pertanto, una volta accertata la regolare convocazione dell’assemblea, l’omessa redazione del verbale che consacra la mancata riunione dell’assemblea in prima convocazione non impedisce che si tenga l’assemblea in seconda convocazione, né la rende invalida» (Cass., n. 3862/1996). Nel caso di specie, i condomini sapevano sia della prima convocazione sia della seconda e l’amministratore aveva dato atto della regolare convocazione dell’assemblea, e non essendoci state contestazioni a riguardo, deve ritenersi provato il presupposto di validità della seconda convocazione.

Con un ulteriore motivo di ricorso, la condomina afferma che non c'è menzione della regolarità degli avvisi di convocazione e che gravava sul condominio l’onere di provare che tutti i condomini erano stati tempestivamente convocati, sicché la mancata prova è ragione di annullamento della delibera. Il motivo, in questo caso, è fondato. La Corte d’appello, nell’affermare che l’omessa preliminare verifica della convocazione di tutti i condomini non era causa di invalidità della delibera, è caduta in errore: infatti, ex art. 1136 c.c. «l’assemblea non può deliberare se non consta che tutti i condomini sono stati invitati alla riunione». D’altra parte, come spiega la Suprema Corte, «l’onere di provare che tutti i condomini siano stati tempestivamente avvisati della convocazione incombe (…) sul condominio e non già sul condomino il quale eccepisca l’invalidità della deliberazione assembleare, perché non può porsi a suo carico l’onere di una dimostrazione negativa quale quella della mancata osservanza dell’obbligo di tempestivo avviso all’universalità dei condomini» (Cass., n. 5254/2011). La Cassazione accoglie quest’ultimo motivo di ricorso e rigetta gli ulteriori. Rinvia alla Corte d’appello che dovrà attenersi al principio in base al quale «è illegittima la delibera condominiale se non consta che tutti i condomini sono stati invitati alla riunione».

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Lei scopre su ‘Facebook’ i tradimenti di lui. Reazione bestiale dell’uomo: allontanato da casa

‘Virtuale’ e ‘reale’, pur distanti, si sfiorano, si toccano e, a volte, si scontrano, con impatti fragorosi. Come testimoniato dalla vicenda di una coppia di coniugi, il cui equilibrio si è rotto a causa dei tradimenti di lui, realizzati nella vita reale ma scoperti nel mondo virtuale di ‘Facebook’. Tutto nella norma, soprattutto nella società di oggi. Assolutamente non nella norma, invece, la reazione dell’uomo, che, pur proseguendo nella vita sotto il tetto coniugale, ha pensato di cominciare ad offendere la moglie, anche davanti ai figli, manifestando anche atteggiamenti violenti nei suoi confronti e costringendola a rapporti sessuali ‘particolari’.

Logico, e sensato, catalogare tali condotte come maltrattamenti in piena regola. Conseguenziale, perciò, il provvedimento di allontanamento dell’uomo dalla casa familiare (Cassazione, sentenza 1339/14). Chiarissime, e gravissime, come detto, le accuse nei confronti di un uomo, a cui viene addebitato di «avere sottoposto a maltrattamenti la propria moglie» e di «avere abusato sessualmente di lei». Ciò spiega la decisione del Giudice per le indagini preliminari, poi confermata dal Tribunale, di sottoporre l’uomo «alla misura dell’allontanamento» dall’abitazione condivisa con la moglie.

Decisione corretta? Assolutamente no, risponde, ovviamente, l’uomo, il quale propone ricorso in Cassazione, contestando la sostanza delle accuse a lui mosse. Più precisamente, egli sostiene la tesi della «carenza del bagaglio indiziario», fondato «solo sulle parole» della moglie, senza tener presente la «conflittualità accesa» tra lui e la coniuge. Di conseguenza, afferma ancora l’uomo, il provvedimento adottato dal Gip «sembra rivolto a fronteggiare più un sentimento comune di allarme che una concreta esigenza cautelare».

Obiezioni assolutamente risibili, ribattono ora i giudici del ‘Palazzaccio’, i quali, difatti, confermano la misura dell’«allontanamento» dell’uomo «dalla casa familiare». Ciò perché è assolutamente cristallina la ricostruzione della brutta vicenda, ricostruzione poggiata sulle dichiarazioni della donna e delle sue sorelle. Ebbene, è emerso che «la moglie» ha scoperto su ‘Facebook’ che «il marito usava intrattenersi con varie donne», e a seguito della «contestazione», fatta all’uomo, di tale condotta, «il clima familiare è cambiato», cioè l’uomo «ha assunto atteggiamenti violenti; ha lasciato la moglie priva di disponibilità economiche; non si è fatto scrupolo di offenderla e di minacciarla (anche di morte), pure in presenza dei figli minori» e, infine, ha «preteso rapporti sessuali ‘particolari’ cui la moglie non voleva consentire».

Assolutamente indiscutibili, alla luce del «quadro di condotte offensive, di infedeltà e di sopraffazione», le accuse, nei confronti dell’uomo, di «maltrattamenti» e «violenza sessuale», accuse che, chiariscono i giudici, «specie per i reati che maturano in un contesto così ‘privato’, è ben possibile basare sulle parole della sola persona offesa, spesso unica testimone». Resta intatta, quindi, la decisione dell’«allontanamento» del coniuge.

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mercoledì 14 gennaio 2015

Revisione obbligatoria per i veicoli: alcune indicazioni utili

La legislazione stradale prevede che i veicoli a motore ed i loro rimorchi durante la circolazione debbano essere tenuti in condizioni di massima efficienza, comunque tale da garantire la sicurezza e da contenere il rumore e l’inquinamento.

Oltre al citato provvedimento imposto dal codice della strada, nel regolamento di esecuzione e approvazione sono stabilite le prescrizioni tecniche relative alle caratteristiche funzionali ed a quelle dei dispositivi di equipaggiamento che devono essere periodicamente controllate durante la revisione dei veicoli.

La revisione auto periodica mira quindi ad accertare il rispetto delle condizioni di sicurezza ed il mantenimento del rumore e delle emissioni inquinanti entro i limiti di legge.

Si ricorda che le scadenze per il 2015 relativamente alla revisione obbligatoria, sono differenziate a seconda della categoria veicolo e dell’anno di immatricolazione o di ultima revisione.

Tre le categorie di veicoli chiamati nel 2015 alla visita di prova: vi sono tutti i mezzi a revisione generale annuale, quelli immatricolati nel 2011 e quelli revisionati l’ultima volta nel 2013.

Devono essere revisionati ogni anno i veicoli per trasporto di persone con più di nove posti, autocarri e rimorchi con massa a pieno carico superiore a 3,5 tonnellate, i veicoli in servizio pubblico di piazza e le ambulanze.

Quadriennale è invece la scadenza per motocicli, ciclomotori, autovetture fino a nove posti compreso il conducente e autocarri fino a 3,5 tonnellate immatricolati nel 2011.

Dopo la prima revisione a quattro anni dall’immatricolazione, le successive prove sono biennali: perciò la revisione nel 2015 deve essere superata anche dai veicoli già revisionati nel 2013.

Le visite possono essere effettuate sia in Motorizzazione sia nelle officine autorizzate entro il mese di riferimento, inteso come mese di prima immatricolazione o di ultima revisione.

Ad esclusione dei casi previsti dall’articolo 176, comma 18, nel quale è stabilito che il conducente che circola sulle autostrade con veicolo non in regola con la revisione prevista dall’art. 80, ovvero che non l’abbia superata con esito favorevole, è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 169 a euro 679. É sempre disposto il fermo amministrativo del veicolo che verrà restituito al conducente, proprietario o legittimo detentore, ovvero a persona delegata dal proprietario, solo dopo la prenotazione per la visita di revisione, chiunque circola con un veicolo che non sia stato presentato alla prescritta revisione è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 169 a euro 679.

Tale sanzione è raddoppiabile in caso di revisione omessa per più di una volta in relazione alle cadenze previste dalle disposizioni vigenti ovvero nel caso in cui si circoli con un veicolo sospeso dalla circolazione in attesa dell’esito della revisione.

L’organo accertatore annota sul documento di circolazione che il veicolo è sospeso dalla circolazione fino all’effettuazione della revisione.

È consentita la circolazione del veicolo al solo fine di recarsi presso una delle autofficine autorizzate, ovvero presso il competente ufficio del Dipartimento per i trasporti, la navigazione ed i sistemi informativi e statistici per la prescritta revisione.

Al di fuori di tali ipotesi, nel caso in cui si circoli con un veicolo sospeso dalla circolazione in attesa dell’esito della revisione, si applica la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 2.004,00 a 8.017,00, oltre all’accertamento della violazione di cui al periodo precedente consegue la sanzione amministrativa accessoria del fermo amministrativo del veicolo per novanta giorni. In caso di reiterazione delle violazioni, si applica la sanzione accessoria della confisca amministrativa del veicolo.

fonte: www.leggioggi.it//Revisione obbligatoria per i veicoli: alcune indicazioni utili

Marche da bollo telematiche a prova di falsificazione

Con il provvedimento firmato il 12 gennaio 2015 dal Direttore dell’Agenzia delle Entrate è stata approvata la veste grafica, utile a prevenire la falsificazione, per i contrassegni emessi dai tabaccai per la riscossione di imposta di bollo, contributo unificato e contributo amministrativo per il rilascio del passaporto. Le etichette, realizzate dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, hanno la stessa forma e dimensione (55 x 40 mm) di quelle emesse fin ad oggi; cambia però la cromia di fondo: si passa dal verde al celeste, visto l’innesto dei nuovi inchiostri dotati di maggiori caratteristiche di sicurezza che prevengano l’alterazione e la falsificazione. Ricordiamo da ultimo che le giacenze in essere presso i tabaccai saranno ancora valide: le etichette con la vecchia grafica saranno utili per emettere i contrassegni fino all’esaurimento delle scorte.

Fonte: www.fiscopiu.it/La Stampa - Marche da bollo telematiche a prova di falsificazione

Gli errori della Giustizia ci costano oltre 35 milioni

Il pianeta giustizia, con le sue lungaggini, gli errori e le manette facili, nasconde un lato oscuro: lo Stato si lava la coscienza con i risarcimenti per gli sfortunati che sono finiti incolpevolmente negli ingranaggi della Giustizia. E basta vedere l’entità dei risarcimenti, per capire che il fenomeno è clamoroso.

In carcere ingiustamente

Si prenda il caso delle ingiuste detenzioni: cittadini che sono stati portati ingiustamente in carcere in custodia cautelare e dopo sono stati assolti o addirittura prosciolti «perché il fatto non costituisce reato». Ebbene, nel corso del 2014 sono state accolte dai giudici delle corti d’appello 995 domande di risarcimento e liquidati 35,2 milioni di euro. Soldi che si sarebbero potuti spendere per migliorare la giustizia medesima.

A scorrere le statistiche - secondo le schede approntate dal ministero dell’Economia e Finanze appena recapitate al ministero della Giustizia - in un anno c’è stato un incremento del 41,3% dei pagamenti. Nel 2013, le domande accolte erano state 757, per un totale di 24,9 milioni di euro.

Fanno impressione anche i numeri complessivi. Da quando esistono i risarcimenti per ingiusta detenzione, cioè dal 1991, lo Stato ha speso la stratosferica cifra di 580 milioni di euro. Complessivamente, nel giro di 15 anni, sono 23.226 i cittadini che hanno sofferto di una custodia cautelare ingiusta e che perciò sono stati risarciti. Si consideri che per non far esplodere oltremodo la spesa, la legge stabilisce un tetto di 516.400 euro per singolo risarcimento.

Catanzaro maglia nera

Se si entra nel dettaglio, città per città, spicca Catanzaro, con un 6,2 milioni di euro in risarcimenti per 146 persone ingiustamente detenute nel 2014. Segue Napoli, dove le domande accolte sono state 143 domande e i risarcimenti ammontano a 4,2 milioni di euro. A Palermo, a fronte di una spesa liquidata pressoché equivalente, pari a 4,4 milioni di euro, i casi di ingiusta detenzione sono soltanto 66. Nella Capitale, 90 i fascicoli accolti per ingiusta detenzione e 3,2 milioni di euro i risarcimenti.

Gli errori giudiziari

Ma il 2014 registra un incremento record dei pagamenti anche per i casi di errore giudiziario: si è passati dai 4640 euro del 2013 relativamente a 4 casi, a 17 casi e a 1,6 milioni di euro del 2014. È stata disposta una superliquidazione per oltre 1 milione di euro a Catania; il resto è andato a 12 persone a Brescia, due a Perugia e una a Milano e Catanzaro.

Dal 1991 al 2014, per gli errori giudiziari sono stati liquidati complessivamente 31,8 milioni di euro. Qui non si risarcisce un’ingiusta custodia cautelare, bensì una condanna sbagliata e magari anche un lungo periodo di detenzione. Perciò non c’è tetto ai risarcimenti e da un anno all’altro ci possono essere enormi oscillazioni. Finora il record era un risarcimento da 4,6 milioni di euro. Ma sempre a Catania si sta discutendo di una richiesta eccezionale, avanzata dal signor Giuseppe Gulotta, condannato ingiustamente per l’omicidio di tre carabinieri ad Alcamo Marina, il quale ha scontato 22 anni di carcere da innocente: ha chiesto 69 milioni di euro allo Stato.

fonte: www.lastampa.it//La Stampa - Gli errori della Giustizia ci costano oltre 35 milioni

Lavoro in cantiere: il capo deve essere anche un maestro

Condannato il titolare di una ditta edilizia che non fornisce adeguata formazione a dei dipendenti minorenni in materia di sicurezza e salute al momento di inizio dell’attività lavorativa in cantiere. Così si è espressa la Cassazione nella sentenza 43427/14.

Il caso

Il titolare di una ditta edilizia veniva condannato per non aver fornito a due lavoratori minorenni un’adeguata informazione sui rischi per la sicurezza e la salute e sulle misure di prevenzione in atto presso il proprio cantiere. Ulteriori condanne gli venivano poi inflitte per aver omesso un’adeguata formazione al momento dell’inizio dell’attività e per non aver redatto il piano operativo di sicurezza. L’imputato ricorreva in Cassazione, lamentando il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche e affermando che non era stato provato che fosse titolare della ditta, né che i due ragazzi stessero lavorando presso il cantiere. Il primo motivo di ricorso è accolto: la motivazione dei giudici di merito era stata, infatti, insufficiente. Al contrario, il secondo motivo viene ritenuto infondato: i giudici di merito avevano ricostruito correttamente che i minorenni stavano lavorando per conto del ricorrente, il quale aveva anche omesso di redigere il piano operativo di sicurezza.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Lavoro in cantiere: il capo deve essere anche un maestro

Linea telefonica dello studio interrotta? Sì al risarcimento

L’interruzione improvvisa e non causata dal fruitore del servizio, della linea telefonica, ad uso affari in ragione dell’utilizzo professionale, è idonea ad arrecare danni e disagi che, pertanto, devono trovare ristoro mediante il risarcimento dei danni.

Così il Tribunale di Roma nella decisione del 15 novembre 2014.

Nella fattispecie concreta sottoposta all’attenzione del giudicante, lo stesso ha precisato che il rapporto contrattuale dedotto in giudizio tra le parti è inquadrabile nello schema del contratto di somministrazione a prestazioni corrispettive ed efficacia obbligatoria.

Gli obblighi nascenti da tale tipo di rapporto impongono, di conseguenza, ogni forma di assistenza, correttezza e diligenza alla luce (costituzionalmente orientata) degli artt. 1175, 1375 e 1176, comma 2, c.c.

Già altri precedenti sul tema (cfr. Tribunale Brindisi, sez. Ostuni, sentenza 30 dicembre 2011) avevano precisato che la sospensione del servizio in assenza di congruo preavviso è affetta da illiceità; pertanto, in ragione dell’uso professionale della linea telefonica deve ritenersi, in applicazione di una regola di esperienza di difficile smentita, che l’interruzione improvvisa della medesima sia idonea ad arrecare disagi e danni.

In ragione dell’uso professionale e sistematico della linea il Giudice, nella menzionata decisione del 2011, ha argomentato che “deve ritenersi, in applicazione di una regola di esperienza di difficile smentita, che l’interruzione improvvisa della linea telefonica (…) sia stata idonea ad arrecare disagi e danni all’attore”.

In particolare, nel caso in esame il Giudice identifica: il danno emergente nelle spese relative alla divulgazione del nuovo recapito telefonico; il lucro cessante nella perdita di clientela per l’impossibilità di ricevere le prenotazione mediante l’uso del mezzo telefonico.

Nella decisione che si commenta del Tribunale di Roma del 15 novembre 2014 il Giudice ha, altresì, rilevato che, all’esito delle risultanze istruttorie, è stata provata l’inadempienza contrattuale da parte del gestore del servizio telefonico, per non avere assicurato la regolare fruizione del servizio stesso, alle condizioni contrattuali concordate.

Da ciò ne consegue il pagamento da parte della società telefonica dell’indennizzo (in favore dell’attore) proporzionato al disservizio subito.

Tutto ciò da calcolarsi in base alle condizioni generali di abbonamento.

Il giudice precisa, inoltre, che per quanto concerne il profilo del danno non patrimoniale non è stato provato alcun pregiudizio esistenziale idoneo a superare la soglia di sufficiente gravità e compromissione della sfera personale (come individuata dalle Sezioni Unite con le sentenze gemelle del 2008), quale limite imprescindibile al risarcimento del danno non patrimoniale.

fonte: www.altalex.com//Linea telefonica dello studio interrotta? Sì al risarcimento

lunedì 12 gennaio 2015

Cartelle Equitalia, sanatoria 2015. Salvi evasori del canone Rai

Dalle pieghe della legge di stabilità 2015, arriva la sorpresa inaspettata per i contribuenti italiani: una nuova mini sanatoria sulle cartelle di Equitalia, che arriva a togliere dal groppone qualche debito di troppo alle famiglie.

Niente di epocale, sia chiaro, ma comunque un bonus per chi deve un po’ di euro all’erario e si trova gli esattori alle calcagna. A rientrare nella cancellazione dei debiti pregressi con il fisco, infatti, saranno tutte le cartelle emanate da Equitalia e dagli agenti di riscossione a partire dal 2000 e che non superino i 300 euro di importo.

In sostanza, sarebbero coinvolte fino al 70% delle cartelle attualmente aperte da parte dell’ente responsabile alla riscossione: tra esse, figurano spese inevase come il mancato pagamento del canone Rai, oppure multe mai saldate per infrazioni al codice della strada.

E’ tutto scritto nel comma 688 della finanziaria diventata legge i giorni prima di Natale, ed entrate in vigore a partire dallo scorso primo gennaio 2015:

“Alle comunicazioni di inesigibilita’ relative alle quote di cui al comma 684 del presente articolo si applicano gli articoli 19 e 20 del decreto legislativo 13 aprile 1999, n. 112, come da ultimo rispettivamente modificato e sostituito dai commi 682 e 683 del presente articolo. Le quote inesigibili, di valore inferiore o pari a 300 euro, con esclusione di quelle afferenti alle risorse proprie tradizionali di cui all’articolo 2, paragrafo 1, lettera a), delle decisioni 2007/436/CE, Euratom del Consiglio, del 7 giugno 2007, e 2014/335/UE, Euratom del Consiglio, del 26 maggio 2014, non sono assoggettate al controllo di cui al citato articolo 19″

Come chiedere il condono

Per le cartelle di recente emanazione – come il 2014 – si dovranno attendere ancora tre anni prima di poter vedere attivata la sanatoria, ma per quelle più vecchie si potrà accedere alla cancellazione.

Non sarà necessario avanzare alcuna richiesta da parte del debitore: se entro il terzo anno dall’emanazione Equitalia non è riuscita a ottenere quanoto dovuto, entro i 300 euro la cartella emanata si considererà estinta e inesigibile.

fonte: www.leggioggi.it//Cartelle Equitalia, sanatoria 2015. Salvi evasori del canone Rai

Un solo giorno di ritardo sul pagamento dell’ultima rata e salta il condono

Non c’è soluzione per il contribuente che ha pagato con un solo giorno di ritardo l’ultima rata del condono previsto dalla legge 289/2002: per lui la definizione agevolata è ormai preclusa, il rifiuto da parte dell’Agenzia delle entrate è legittimo. A stabilirlo è la Cassazione, nell’ordinanza dell’8 gennaio scorso, n. 109, con cui viene rigettato il ricorso del contribuente e negato per sempre il suo diritto al condono.

Solo i Giudici di primo grado avevano “sopportato” il ritardo di un giorno, annullando il diniego opposto dall’Amministrazione, che, però, veniva confermato già in Appello. A impedire che il ritardo non travolga il condono, chiariscono i Supremi Giudici, il carattere eccezionale di tutte le ipotesi di definizione agevolata contenute nella legge 289/2002 che obbliga a una “stretta interpretazione” la quale non può essere integrata con altre norme generali dell’ordinamento tributario e “neppure da quelle dettate per altre forme di definizione, ancorché contemplate dalla medesima legge”.

Stando al dettato dell’art. 9 bis (condono dei fatti di causa) la Cassazione sottolinea che viene “semplicemente” previsto che le sanzioni non si applichino se entro un certo termine (evidentemente non superabile) si provveda al pagamento delle imposte, pagamento che può, in alcuni casi, essere rateale. In assenza di altre disposizioni (quali quelle contenute in altri articoli, tipo “l’omesso versamento delle rate successive alla prima entro le date indicate non determina l’inefficacia della definizione”), il singolo giorno di ritardo sul versamento dell’ultima rata manda a monte il condono.

Fonte: www.fiscopiu.it/La Stampa - Un solo giorno di ritardo sul pagamento dell’ultima rata e salta il condono

Meno soldi in tasca per l’uomo, meno soldi in mano all’ex-moglie

Un rilevante periodo di tempo tra il licenziamento di un coniuge (anche se avvenuto dopo la sottoscrizione dell’accordo di divorzio) e la richiesta di modifica delle condizioni economiche, in cui il patrimonio si è notevolmente ridotto, può giustificare una riduzione degli oneri a suo carico. Lo afferma la Cassazione nell’ordinanza 21670/14.

Il caso

La Corte d’appello di Lecce respinge il reclamo proposto da un uomo, che chiedeva la modifica delle condizioni di divorzio. I giudici affermano che, dopo la pronuncia di divorzio, i coniugi avevano sottoscritto un accordo di modifica consensuale delle condizioni concordate in sede di divorzio, in cui avevano provveduto in merito alla casa coniugale (sostituendo il primo immobile con altro di proprietà dell’uomo) e confermato il contributo al mantenimento della figlia minore a carico del padre.

La risoluzione del contratto di lavoro dell’uomo, con conseguente riduzione del reddito, era stata comunicata quattro mesi prima della sottoscrizione dell’accordo: dovevano quindi essere considerate delle condizioni conosciute e valutate al momento dell’accordo, non sopravvenute. La Corte d'appello riteneva, perciò, che non ci fossero state delle circostanze nuove e idonee a giustificare un mutamento delle statuizioni economiche. L’uomo ricorre in Cassazione. La Suprema Corte rileva che nell’accordo sottoscritto non risultano variazioni delle preesistenti condizioni di divorzio, non essendoci state modifiche favorevoli all’uomo: si stabiliva, infatti, solo il trasferimento della casa coniugale.

I giudici non avevano valutato che tra il momento del licenziamento e la richiesta di modifica delle condizioni di divorzio erano passati due anni, in cui il ricorrente aveva tentato, senza successo, di iniziare una nuova carriera professionale, con conseguente diminuzione del patrimonio. Perciò la Cassazione ritiene che non sia stato adeguatamente valutato il criterio dei giustificati motivi che possono portare alla modifica delle condizioni di divorzio. Da ciò consegue il rinvio alla Corte d’appello per un nuovo esame della vicenda.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Meno soldi in tasca per l’uomo, meno soldi in mano all’ex-moglie

sabato 10 gennaio 2015

Nozze gay all’estero cancellate

Legittima la cancellazione delle nozze gay, celebrate all’estero. A chiarirlo il ministero della giustizia rispondendo, per bocca del sottosegretario Cosimo Maria Ferri, ieri mattina, a un’interpellanza urgente bipartisan firmata da 32 deputati (di Psi, Pd, Sc e Gruppo Misto). È stato, sottolinea nell’Aula di Montecitorio, «del tutto appropriato» l’annullamento d’ufficio disposto dai prefetti delle trascrizioni da parte dei sindaci di alcune città italiane di unioni civili omosessuali. Nello scorso ottobre, infatti, il titolare del Viminale Angelino Alfano aveva inoltrato alle autorità prefettizie un «invito formale al ritiro e alla cancellazione» delle registrazioni dei matrimoni fra persone dello stesso sesso, avvenuti in altre nazioni, mediante circolare, avvertendo i comuni che, «in caso di inerzia», si sarebbe proceduto all’abrogazione degli atti «illegittimamente adottati», di cui nel testo si evidenziava la «inidoneità a produrre qualsiasi effetto giuridico nell’ordinamento italiano», nel quale, com’è noto, tali nozze non sono previste (si veda ItaliaOggi dell’8/10/2014). Il sindaco «è tenuto, ai sensi dell’art. 9 del dpr 396/2000 a uniformarsi alle istruzioni che vengono impartite dal ministero dell’interno». E, «allo stato», prosegue il sottosegretario, non vi sono «i presupposti né per il ritiro della circolare, né per la cessazione dell’esercizio dei poteri di annullamento dei prefetti»; inoltre, l’avvio di iniziative normative sulle unioni omosessuali «non rientra nei programmi del governo».

Fonte: www.italiaoggi.it//Nozze gay all’estero cancellate - News - Italiaoggi

Donna bagnata fradicia, colpevole un uomo armato di innaffiatoio: nessuna offesa

Parole non proprio cordiali – “Vedrai cosa ti succederà...” –, accompagnate dalla minaccia di utilizzare il tubo di gomma – di solito impiegato per innaffiare il giardino – per bagnare la vicina di casa. Davvero poco elegante il comportamento tenuto dall’uomo, protagonista negativo della vicenda. Ma, mettendo da parte il ‘bon ton’, è impensabile contestare il reato di ingiuria (Cassazione, sentenza 460/15).

Il caso

Ricostruito facilmente l’episodio approdato nelle aule di giustizia: un uomo è accusato di avere «leso il decoro» di una donna, «minacciando di cagionarle un danno» utilizzando il tubo di gomma per innaffiare «per bagnarla», per giunta gridando «“Vedrai cosa ti succederà...”, “Ti rimando da dove sei venuta!”». Per il Giudice di pace, però, nonostante le lamentele della donna, è inevitabile l’assoluzione dell’uomo. La decisione provoca la replica del Procuratore della Repubblica, che contesta le valutazioni del Giudice di pace, ricordando che un «brigadiere dell’Arma dei Carabinieri ha dichiarato di aver visto» l’uomo «spruzzare acqua contro la parte offesa».

Il «gesto», sostiene il Procuratore ricorrendo in Cassazione, «è qualificabile quale offesa contro la persona». Ma quest’ultima considerazione non viene affatto condivisa dai giudici del ‘Palazzaccio’, i quali affermano che «la condotta contestata» all’uomo, ossia «avere innaffiato» la donna, non integra «il delitto di ingiuria», poiché «tale gesto» non si presenta come «oggettivamente idoneo a ledere l’onore e il prestigio della persona offesa». A meno che, aggiungono i giudici, tale condotta non sia collocata – cosa non avvenuta in questa vicenda – in un contesto particolare, ad esempio in una situazione di «rapporti» conflittuali...

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Donna bagnata fradicia, colpevole un uomo armato di innaffiatoio: nessuna offesa

Insulto razzista e pugno: minorenne condannato

Prima un pugno, poi, a corredo, anche la frase «negro di merda». Chiarissima la ricostruzione dell’episodio, con ‘protagonista’ negativo un minorenne: consequenziale la condanna per i reati di lesioni personali e di ingiuria (Cassazione, sentenza 53737/14).

Il caso

I giudici di secondo grado confermano la sanzione decisa dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale per i minorenni, ossia tre mesi di reclusione, nei confronti di un ragazzo albanese, autore di un’aggressione a sfondo razziale verso un ragazzo di colore. Quest’ultimo, in particolare, ha riportato un «trauma cranico» a seguito di un «pugno», e ha anche dovuto sopportare di essere apostrofato come «negro di merda». Evidente, per i giudici di merito, la colpevolezza del ragazzo albanese. E su questo punto concordano anche i giudici della Cassazione, ritenendo pienamente corretto l’utilizzo fatto, a sostegno dell’accusa, delle «dichiarazioni dei testi che avevano assistito all’aggressione» e delle parole «della persona offesa», confermate anche dalla «certificazione sanitaria». E poi, concludono i giudici della Cassazione, evidente è il ‘peso’ delle «dichiarazioni confessorie» del ragazzo albanese, il quale «ha ammesso di avere sferrato un pugno alla persona offesa e di averle rivolto l’espressione offensiva» a sfondo razziale.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Insulto razzista e pugno: minorenne condannato

giovedì 8 gennaio 2015

Contributi: datore di lavoro fa lo “scaricabarile” sul professionista, ma questo non lo salva dalla pena

La Corte d’appello conferma la sentenza di condanna ai danni di un’imputata per il reato di omesso versamento delle ritenute contributive operate sulla retribuzione dei dipendenti.

La donna ricorre in Cassazione, contestando ai giudici di merito di non aver considerato che l’imputata si era affidata ad un professionista. Perciò, la mancata vigilanza della relativa condotta non poteva essere imputato a titolo doloso, ma, al massimo, colposo.

La Corte di Cassazione, però, nella sentenza 42324/14, sottolinea che il reato di omesso o intempestivo versamento di ritenute previdenziali e assistenziali non richiede il dolo specifico, in quanto si esaurisce con la coscienza e la volontà o dell’omissione o della tardività del versamento. Perciò, essendo sufficiente il dolo generico, questo non viene meno se il datore di lavoro ha demandato a terzi, anche professionisti, l’incarico di provvedere, perché è comunque il titolare del rapporto di lavoro ad avere l’obbligo del versamento, per cui deve vigilare che il terzo adempia l’obbligazione di cui egli è l’esclusivo destinatario. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Contributi: datore di lavoro fa lo “scaricabarile” sul professionista, ma questo non lo salva dalla pena

‘Orco’ regala soldi a una bambina per fare sesso: violenza sì, induzione alla prostituzione no

Confermata la condanna nei confronti di un uomo, fermato, per fortuna, dagli addetti alla vigilanza di un centro commerciale: aveva portato sul proprio furgone una bambina di 11 anni, dandole una piccola somma di denaro e proponendole di avere rapporti sessuali. Decade, però, l’ipotesi della induzione alla prostituzione minorile.

Il caso

Ennesimo episodio da ‘cronaca nera’, ennesimo ‘orco’, bloccato, per fortuna, giusto in tempo. Decisivo l’intervento degli addetti alla vigilanza di un centro commerciale, i quali hanno fermato un uomo – di oltre 60 anni – che aveva attirato sul proprio furgone una bambina di appena 11 anni, consegnandole una somma di denaro, col chiaro obiettivo di avere con lei un rapporto sessuale.

Episodio disgustoso ricostruito nei dettagli, inequivocabile la condotta dell’uomo. Consequenziale la condanna per il reato di violenza sessuale. Cade, invece, l’ipotesi del reato di induzione alla prostituzione (Cassazione, sentenza 55/2015). La dinamica della vicenda è chiarissima. l’uomo ha consegnato «una somma di 5 o 10 euro» a una «bambina di 11 anni» per «consumare con lei un rapporto sessuale, non riuscendo nell’intento (...) per l’intervento degli addetti alla vigilanza» di un vicino centro commerciale. Di fronte a un quadro così netto, il gip prima e i giudici della Corte d’Appello poi non mostrano dubbi: è evidente la gravità della condotta dell’uomo, e consequenziale la condanna per il reato di «violenza sessuale» ai danni della minorenne e per quello di «induzione alla prostituzione».

Anche per i giudici della Cassazione, nonostante il ricorso proposto dall’uomo, è acclarata la gravità della sua «condotta». Ciò conduce a confermare la condanna. Però, viene aggiunto, solo in parte. Per essere chiari, i giudici del ‘Palazzaccio’ ritengono che non vi sono i presupposti per contestare il reato di «induzione alla prostituzione minorile», né alla luce della normativa «vigente all’epoca del fatto» – 2010 – né alla luce della «legge 172 del 2012». Ciò in base al del principio secondo cui «l’induzione deve essere diretta a fare sì che il minore abbia rapporti sessuali con un soggetto diverso dall’induttore, perché altrimenti si risolve nel compimento di rapporti sessuali con minorenne in cambio di denaro o altra utilità economica».

In sostanza, esaminando la vicenda, si può affermare, secondo i giudici, che «l’offerta di una piccola somma di denaro», da parte dell’uomo, alla «minore» – per «convincerla a compiere con lui atti sessuali poi non effettivamente compiuti» – vada collocata «nell’ipotesi di reato di atti sessuali con minorenne».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - ‘Orco’ regala soldi a una bambina per fare sesso: violenza sì, induzione alla prostituzione no

mercoledì 7 gennaio 2015

Per dimostrare che il bene donato è escluso dalla comunione legale, non basta un atto notarile

Nel caso di donazione indiretta di un immobile, per verificare se tale bene rientri o meno nella comunione legale, l’attestazione del notaio, del pagamento del corrispettivo dell’immobile con denaro donato dal padre alla figlia, non può considerarsi sufficiente, perchè è una semplice presa d’atto della dichiarazione delle parti. L’atto pubblico forma piena prova solo della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha redatto, delle dichiarazioni rese dalle parti o dei fatti che agli attesti avvenuti in sua presenza, ma non è piena prova della veridicità intrinseca delle predette dichiarazioni (Cassazione, sentenza 21494/14).

Il caso

L’ex marito porta in giudizio la moglie, chiedendo che il Giudice accerti che un appartamento e un box, acquistato dalla donna in comunione con il fratello, rientravano nella comunione legale tra i coniugi. L’uomo sostiene che l’acquisto, effettuato con atto notarile, è stato compiuto durante il matrimonio, quindi gli immobili sono entrati a far parte della comunione legale, non avendo l’uomo partecipato alla compravendita. Il Tribunale e la Corte d’appello gli danno torto. Dal momento che l’acquisto era stato eseguito con denaro fornito dal padre della ex moglie, i Giudici di merito avevano ritenuto che ci fosse stata una donazione indiretta: era esplicita la volontà del padre di aiutare la figlia ad acquistare l’immobile in un momento in cui il rapporto coniugale era già in crisi. In definitiva, il regalo di un importo di denaro per l’acquisto di un immobile poteva considerarsi come una donazione indiretta del bene, il quale, anche se acquistato in costanza di matrimonio, restava escluso dalla comunione legale.

L'uomo ricorre in Cassazione l’uomo, sostenendo di essere tenuto a fornire solo la prova dell'esistenza della comunione legale tra i coniugi e che questa si era sciolta dopo la compravendita, mentre sarebbe spettato alla ex moglie l’onere di dimostrare che l’acquisto rientrava in una delle ipotesi di esclusione della comunione. Nell’affrontare la questione, la Cassazione ricorda che «l’elargizione di una somma di denaro quale mezzo per l’unico e specifico fine dell’acquisto di un immobile da parte del destinatario, che il disponente intenda in tal modo beneficiare, si configura come una liberalità che, in quanto avente ad oggetto l’immobile e non già la somma di denaro, è qualificabile coma donazione indiretta, con la conseguenza che, ove il donatario risulti coniugato in regime di comunione legale, il bene non resta assoggettato al predetto regime, senza che risulti necessario, a tal fine, che l’attività del donante si articoli in attività tipiche, essendo invece sufficiente la dimostrazione del collegamento tra il negozio-mezzo e l’arricchimento del soggetto onorato per spirito di liberalità» (Cass., n. 14197/2013).

La sentenza impugnata trova consenso nella parte in cui ha ritenuto irrilevante, ai fini della validità della donazione, la circostanza che la stessa non fosse stata posta in essere con atto pubblico; mentre, non può essere condivisa nella parte in cui ha ritenuto di poter desumere la prova della liberalità dalla mera dichiarazione, resa dalle parte in seno al rogito notarile, dell’avvenuto pagamento del corrispettivo dell’immobile con denaro fornito dal padre della convenuta, anche perché dall’atto risultava che il predetto pagamento non era avvenuto contestualmente alla stipulazione dell’atto pubblico di compravendita, ma in data precedente: l’attestazione del notaio non poteva considerarsi sufficiente, trattandosi di una mera presa d’atto della dichiarazione resa al riguardo delle parti. In sostanza, l’atto pubblico forma piena prova solo della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha redatto, delle dichiarazioni rese dalle parti o dei fatti che agli attesti avvenuti in sua presenza, ma non è piena prova della veridicità intrinseca delle predette dichiarazioni (Cass., n. 11012/2013). Sulla base di tali argomenti la Corte Suprema accoglie il ricorso e cassa con rinvio alla Corte d’appello.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Per dimostrare che il bene donato è escluso dalla comunione legale, non basta un atto notarile

martedì 6 gennaio 2015

Riflettori sulla cassiera, l’agenzia investigativa ‘certifica’ le somme sottratte: licenziata

Operazioni poco chiare alla cassa. Da qui i dubbi e gli accertamenti – attraverso un’agenzia investigativa – della società proprietaria del supermercato nei confronti della cassiera. A controllo concluso, emerge la condotta scorretta della dipendente, la quale non ha provveduto alla registrazione di alcuni prodotti acquistati dai clienti, appropriandosi delle somme incassate. Non si può, dunque, contestare la decisione dell’azienda di licenziare la donna (Cassazione, sentenza 25674/14) «per giusta causa».

Come accennato, la cassiera era stata colta nel momento in cui si metteva in tasca le somme relative ad alcuni prodotti – confezioni di shampoo, in particolare –, acquistati dai clienti ma mai registrati alla cassa. Inevitabile la reazione della lavoratrice in bilico, che non accetta l’idea di dovere addirittura tornare a casa. E consequenziale è il ricorso in Cassazione, per contestare l’operato dell’azienda, colpevole, secondo la donna, di avere esagerato nei controlli sul suo operato come cassiera e nella sanzione adottata. Senza dimenticare, poi, aggiunge la donna, la «non tempestività della contestazione dell’addebito».

Tutte queste obiezioni si rivelano irrilevanti. Innanzitutto, alla luce della «avvenuta sottrazione delle somme non contabilizzate» – per giunta, «sottrazione reiterata a distanza di sole quarantotto ore» –, è lapalissiana, sottolineano i giudici del ‘Palazzaccio’, la gravità della condotta tenuta dalla cassiera, che «svolgeva funzioni di particolare delicatezza e responsabilità»: di conseguenza, è evidente il «venir meno del legame fiduciario», e, quindi, l’«impossibilità», per il datore di lavoro, di «confidare sull’affidabilità e sulla lealtà del dipendente». Già queste considerazioni sono sufficienti per confermare la legittimità del «licenziamento». A completare il quadro, però, va anche ribadita la correttezza dell’operato dell’azienda, poiché «sono leciti i controlli del datore di lavoro, a mezzo di agenzia investigativa, in ordine agli illeciti del lavoratore che non riguardino il mero inadempimento della prestazione» bensì, come in questa vicenda, «incidano sul patrimonio aziendale». Non a caso, i «controlli» messi in atto, ricordano i giudici, erano «diretti a verificare eventuali sottrazioni di cassa», quindi «a salvaguardare il patrimonio aziendale».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Riflettori sulla cassiera, l’agenzia investigativa ‘certifica’ le somme sottratte: licenziata

Al via il bonus assunzioni 2015, sgravi contributivi per tre anni

Per ogni nuova assunzione con contratto a tempo indeterminato effettuata dal 1° gennaio al 31 dicembre 2015, i datori di lavoro privati saranno esonerati, per un periodo massimo di 36 mesi e nel limite massimo di 8060 euro su base annua per ciascun lavoratore assunto, dal versamento dei contributi previdenziali a loro carico, con esclusione dei premi e contributi dovuti all’INAIL.

Il bonus (commi 118-124 dell'art. 1 della Legge di Stabilità 2015 - 190/2014), non spetta:

1) per le assunzioni con contratti di apprendistato e per i contratti di lavoro domestico;

2) per le assunzioni relative a lavoratori che nei sei mesi precedenti siano risultati occupati a tempo indeterminato presso qualsiasi datore di lavoro;

3) con riferimento a lavoratori per i quali il beneficio in parola sia già stato usufruito in relazione a precedente assunzione a tempo indeterminato;

4) per le assunzioni di lavoratori con i quali i datori di lavoro avevano già in essere un contratto a tempo indeterminato nei tre mesi antecedenti la data di entrata in vigore della legge di Stabilità in esame (tenuto conto delle società controllate o collegate ai sensi dell’art. 2359 del c.c. o facenti capo, anche per interposta persona, allo stesso soggetto).

Le disposizioni in esame (comma 121) sopprimono i benefici contributivi, consistenti nella riduzione del 50% dei contributi previdenziali per tre anni, con riferimento alle assunzioni con contratto a tempo indeterminato di lavoratori disoccupati o beneficiari di Cigs da almeno 24 mesi decorrenti dal 1° gennaio 2015.

Per ulteriori informazioni:  www.fiscopiu.it/La Stampa - Al via il bonus assunzioni 2015, sgravi contributivi per tre anni

“Sei pazzo...”: contesto e linguaggio rendono meno grave l’espressione

Dal vocabolario ‘Treccani’: ‘pazzo’, ossia «malato di mente (...) chi è o sembra fuori di sé». Nessun dubbio è possibile, quindi, sulla carica offensiva dell’espressione ‘pazzo’. Eppure, nonostante ciò, se il contesto – in cui è stata pronunciata il fatidico termine – è assai conflittuale, e la parola è caratterizzata da un evidente tono interrogativo, allora è possibile considerare nulla la lesione dell’onore della persona apostrofata come “pazzo” (Cassazione, sentenza 50969/14).

Il caso

Sfogo verbale di una donna nei confronti dell’ex marito di un’amica, resosi responsabile di azioni non proprio corrette nei confronti della ex coniuge. Proprio alla luce della «situazione di conflittualità» all’interno della coppia, la donna, per difendere le ragioni dell’amica, si rivolge in malo modo nei confronti dell’uomo: più precisamente, la frase incriminata è «Ma tu sei pazzo, chi sei tu?». L'episodio è sufficiente, sancisce il Giudice di pace, per condannare la donna «alla pena di 258 euro di multa». Ciò perché è evidente, in sostanza, la «lesione dell’onore» dell’uomo. Di avviso opposto, invece, i giudici della Cassazione, i quali, a sorpresa, demoliscono la linea accusatoria, ritenendo legittime le obiezioni mosse dalla donna. Che, a propria difesa, ha richiamato il contesto dell’episodio – è acclarato che «la frase è stata pronunciata nei locali della caserma dei Carabinieri, ove la sua amica si era recata a sporgere denuncia nei confronti del coniuge separato, per reati commessi nei suoi confronti, nell’ambito di un rapporto di conflittualità originato da un provvedimento del Tribunale per i minorenni che limitava il diritto dell’uomo di incontrare i figli» –, e il fatto che la «parola pazzo» sia entrata «ormai nel linguaggio parlato di uso comune, tanto da divenire espressione, sintetica ed efficace, rappresentativa di un comportamento fuori dalla buona educazione e dalle righe della pacata discussione». Ebbene, per i giudici è necessario ‘pesare’ le parole, perché il loro «significato» dipende «dall’uso che se ne fa e dal contesto comunicativo» in cui sono inserite. Ciò ancor di più oggi, in una società in cui «l’utilizzo di un linguaggio più disinvolto, più aggressivo, meno corretto» rispetto al passato «caratterizza anche il settore dei rapporti tra i cittadini».

Però, in questo caso, nonostante l’evidente «carica offensiva dell’espressione ‘pazzo’», non si è concretizzato un «oggettivo giudizio di disvalore sulle qualità personali» dell’uomo, anche tenendo presenti il «contesto di conflittualità» e la «forma interrogativa» adoperata dalla donna. Ciò conduce, in conclusione, a ritenere non sussistente una «comunicazione offensiva», lesiva cioè della «reputazione» della persona apostrofata come pazzo. E consequenziale è l’azzeramento, definitivo, di ogni accusa nei confronti della donna.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - “Sei pazzo...”: contesto e linguaggio rendono meno grave l’espressione

venerdì 2 gennaio 2015

Al via il nuovo regime forfettario per imprese e autonomi, ma con il vecchio modello

Da ieri il vecchio regime dei c.d. minimi è andato definitivamente in pensione, lasciando il posto al nuovo regime forfettario per i lavoratori autonomi e le imprese disciplinato dall'art. 1, commi da 54 a 89, della Legge di Stabilità 2015 (Legge n. 190/2014).

Il nuovo regime fa il suo esordio tra molte polemiche, tanto che lo stesso Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha dovuto promettere nei giorni scorsi un intervento correttivo da realizzare con "un provvedimento ad hoc nei prossimi mesi". I tempi ristretti tra l'approvazione della Legge di Stabilità - avvenuta lo scorso 22 dicembre - e l'entrata in vigore del nuovo regime non hanno consentito all'Agenzia delle Entrate di aggiornare il modello di dichiarazione di inizio attività per poter esercitare la relativa opzione, dunque, come chiarito con comunicato diffuso lo scorso 31 dicembre dalla stessa Agenzia, fino all'approvazione e pubblicazione del modello aggiornato per accedere al nuovo regime bisognerà utilizzare il vecchio modello di dichiarazione, barrando la casella prevista per l’adesione al precedente "Regime fiscale di vantaggio per l’imprenditoria giovanile e lavoratori in mobilità, previsto dall’art 27, commi 1 e 2 del D.L. n. 98/2011”.

Il nuovo regime forfettario presenta notevoli differenze rispetto al vecchio regime dei minimi. A fronte della eliminazione dei limiti di tempo di permanenza nel regime agevolato (in precedenza il limite era fissato a 5 anni o al compimento del trentacinquesimo anno di età, se successivo allo scadere dei 5 anni) e dei limiti di età, coloro che aderiranno al nuovo regime dovranno fare i conti con una disciplina certamente peggiorativa rispetto a quella previgente: imposta sostitutiva: l'aliquota dell'imposta applicata ai contribuenti "minimi", che sostituisce le imposte dovute ai fini IRPEF e IRAP, passa dal 5 al 15%; condizioni di accesso al regime: oltre alla soglia dei ricavi, che viene diversificata a seconda del codice ATECO dell'attività esercitata (in precedenza era fissata a 30 mila euro per tutte le attività, mentre ora va dai 15 mila euro per le attività professionali ai 40 mila euro per i commercianti), altri limiti sono dati dalla prevalenza dei redditi di lavoro autonomo rispetto ai redditi di lavoro dipendente e assimilati eventualmente percepiti (la verifica di detta prevalenza va effettuata per redditi superiori a 20 mila euro), nonché dalle spese sostenute per dipendenti e collaboratori (che non devono superare i 5 mila euro) e dai costi per beni strumentali (che non devono superare, alla chiusura dell'esercizio, i 20 mila euro); base imponibile: all'ammontare dei ricavi e dei compensi va applicato un coefficiente di redditività, che varia a seconda del codice ATECO dell'attività esercitata (78% per le attività professionali), finalizzato alla forfetizzazione dei costi.

Restano, nel nuovo regime, l'esonero dall'applicazione della ritenuta d’acconto su compensi e ricavi (comma 67), dal versamento dell’IVA - salvo specifici casi indicati -, dall'applicazione degli studi di settore e dai principali adempimenti (come l'obbligo di registrazione e di tenuta delle scritture contabili). Inoltre, ai sensi dell'art. 1, comma 65, della Legge, chi si avvale del nuovo regime per avviare una nuova attività beneficerà di un’ulteriore riduzione di un terzo del reddito imponibile per i primi 3 anni. Ai sensi del comma 56 dell'art. 1 della Legge di Stabilità, per avvalersi del nuovo regime è sufficiente comunicare, nella dichiarazione di inizio di attività di cui all'art. 35 del D.P.R. n. 633/1972, e successive modificazioni, di presumere la sussistenza dei requisiti richiesti dal comma 54 della medesima norma.

Fonte: www.fiscopiu.it/La Stampa - Al via il nuovo regime forfettario per imprese e autonomi, ma con il vecchio modello

Ferrara: Violentò minore in auto. Condanna a dieci anni per il pedofilo seriale

Ieri la sentenza del Tribunale nei confronti uno straniero di 32 anni. Al termine dell’udienza la vittima, ora maggiorenne, ha pianto. É sta...