È legittima la misura cautelare che impone allo stalker di allontanarsi dall'edificio in cui vive la vittima anche quando tale edificio coincide con il condominio dove lo stesso stalker abita assieme alla propria famiglia, in quanto è irrilevante che la misura cautelare influisca negativamente sull'esercizio del diritto alla genitorialità.
Con la sentenza 9 aprile 2014, n. 15906 la Quinta Sezione della Corte di Cassazione interviene nello spinoso ambito delle misure cautelari recentemente introdotte per far fronte all’insidioso e terribile fenomeno delle condotte persecutorie, affermando che in presenza di conclamate e non altrimenti fronteggiabili esigenze di protezione della vittima recedono anche diritti pur astrattamente soppesabili nella commisurazione dello strumento cautelare.
La vicenda
Procedendosi per il reato di “stalking”, nei confronti del soggetto gravemente indiziato il giudice per le indagini preliminari emette un’ordinanza di allontanamento ai sensi dell’art. 282 ter del codice di rito, provvedimento poi confermato anche in sede di riesame.
La difesa dell’indagato propone ricorso per cassazione nel quale, oltre a dedurre motivi di impugnazione attinenti al quadro indiziario – deponenti per una lettura della vicenda non connotata da gravità e riconducibile nell’alveo di una semplice, ancorché aspra, lite condominiale – si contesta l’adeguatezza e proporzionalità della misura cautelare irrogata.
In particolare, la difesa osserva che il disposto allontanamento dell’indagato dall’edificio dove questi vive con la moglie e le figlie – edificio coincidente con lo stesso stabile condominiale dove ha domicilio la persona offesa – comporta, per effetto della conseguente separazione dal nucleo familiare, una insopportabile lesione del diritto alla genitorialità, in violazione dei principi costituzionali e internazionali sui diritti dell’uomo.
La risposta della Corte
Ricordato che ogni provvedimento in materia di misure cautelari personali può essere sindacato, in sede di legittimità, solo per violazione di specifiche norme di legge ovvero se risulta viziato da manifesta illogicità della motivazione, la Corte rigetta ogni doglianza relativa al quadro indiziario (il cui apprezzamento di fatto non può che essere – nel sistema – esclusivo appannaggio del giudice di merito), escludendo la presenza di illogicità evidenti nel tessuto motivazionale del provvedimento applicativo della misura e della sua conferma in sede di riesame.
Tanto premesso, i giudici della quinta sezione affrontano il “cuore” della impugnazione promossa, ritenendo manifestamente infondata la pretesa violazione del diritto alla genitorialità che deriverebbe dalla impossibilità di continuare a vivere sotto lo stesso tetto condominiale dove insistono sia l’abitazione dell’indagato che quella della vittima.
Gli Ermellini ricordano infatti che non esiste un “diritto alla genitorialità” che, ergendosi in qualche modo fra gli altri diritti fondamentali, possa impedire l’applicazione di misure coercitive personali.
Per definizione, infatti, ogni limitazione della libertà personale entra in conflitto con le plurime manifestazioni - private, personali, familiari, lavorative, sociali, etc. - in cui si estrinseca la vita di ogni persona: proprio per questo, la limitazione, secondo il preciso dettato costituzionale, può avvenire solo nei casi e secondo le rigorose forme previste dalla legge, che si preoccupa anche di disciplinare le situazioni nelle quali particolari condizioni personali (gravidanza, genitorialità di prole inferiore a tre anni) prevalgono, fatte salve situazioni di eccezionale necessità cautelare, sulla possibilità di applicazione della più grave misura carceraria.
In tale ordinato assetto, nessuno spazio vi può essere ovviamente per denunciare, a priori, l’incompatibilità di una misura come l’allontanamento dai luoghi della persona offesa con la condizione di “genitore”, trattandosi di compressione che può avverarsi in maniera del tutto identica anche nei casi di carcerazione.
Esclusa dunque una inconciliabilità “formale”, diverso è il discorso quando si scende sul terreno della singola fattispecie: dovendo comunque rispondere ai requisiti di adeguatezza e proporzionalità, potrebbe anche accadere che l’allontanamento dal proprio domicilio familiare, con il sacrificio che ne consegue, sia reputato non commisurato ai fatti; ipotesi, questa, peraltro totalmente esclusa nella fattispecie portata al giudizio degli Ermellini, in cui, proprio sulla base del complesso degli elementi raccolti, l’unica soluzione cautelare efficace e rispondente all’estrema gravità dei fatti è consistita nell’imporre la fisica estromissione del soggetto dal comune contesto abitativo.
Ulteriori problematiche in tema di allontanamento dello “stalker”
Sulla materia della misura cautelare prevista dall’art. 282 ter cod. pen. è tutt’ora persistente un contrasto interprativo tra di giudici di piazza Cavour, avente ad oggetto un aspetto diverso, e in certo qual modo specularmente opposto, rispetto alla tematica del “domicilio” comune.
Alcune sentenze (cfr. Sez. V, 16 gennaio 2013, n. 36887; Sez. V, 16 gennaio 2012, n. 13568; Sez. V, 26 marzo 2013, n. 19552) hanno infatti affermato che “la misura cautelare del divieto di avvicinamento può contenere anche prescrizioni riferite direttamente alla persona offesa ed ai luoghi in cui essa si trovi, aventi un contenuto coercitivo sufficientemente definito nell'imporre di evitare contatti ravvicinati con la vittima, la presenza della quale in un certo luogo è sufficiente ad indicare lo stesso come precluso all'accesso dell'indagato”.
Questo orientamento muove dal considerare che il divieto di avvicinamento è stata oggetto nel tempo di due interventi normativi.
In un primo momento, attraverso l’art. 1 della Legge 4 aprile 2001, n. 154, il legislatore ha introdotto l’art. 282 bis cod. proc. pen., che al comma 2, prevede la possibilità per il giudice di prescrivere all’indagato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa, in particolare il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia di origine o dei prossimi congiunti: già in questa prima disciplina, la tutela dell’incolumità della persona offesa è vista non solo su un piano statico, limitato cioè al luogo di abitazione della persona offesa, ma esteso invece a tutte le circostanze nelle quali possa rendersi concreto il pericolo di un’aggressione della stessa nel corso dello svolgimento della sua vita di relazione.
Successivamente, a seguito della scrittura del reato di cui all’art. 612 bis c.p. (per effetto del D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito con Legge 23 aprile 2009, n. 38), è stata introdotta la disposizione di cui all’art. 282-ter, comma 1, cod. proc. pen., per la quale il giudice prescrive all’imputato di non avvicinarsi a luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa.
Tale ultima disposizione si inserisce nel solco già tracciato dalla previsione di cui all’art. 282-bis, con il palese scopo di rendere detta tutela più efficace in determinate situazioni: prevedendo il riferimento non più solo ai luoghi frequentati dalla persona offesa, ma, altresì, alla persona offesa in quanto tale, il legislatore esprime una precisa scelta di privilegio della libertà di circolazione del soggetto passivo, garantendone l’incolumità anche quando la condotta dell’autore non sia legata a particolari ambiti locali.
Secondo questa posizione giurisprudenziale, dunque, mentre l’originaria indicazione dei luoghi determinati frequentati dalla persona offesa conserva significato nel caso in cui le modalità della condotta criminosa non manifestino un campo d’azione che esuli dai luoghi nei quali la vittima trascorra una parte apprezzabile del proprio tempo o costituiscano punti di riferimento della propria quotidianità di vita, laddove invece – come accade spesso nel reato di cui all’art. 612 bis cod. pen. - la condotta oggetto della temuta reiterazione abbia i connotati della persistente ed invasiva ricerca di contatto con la vittima in qualsiasi luogo in cui la stessa si trovi, la (nuova) disposizione di cui all’art. 282 ter c.p.p. consente di individuare non tanto i luoghi frequentati, quanto la stessa persona offesa, come riferimento centrale del divieto di avvicinamento.
Conseguenza pratica di tale approccio interpretativo è che, in tali frangenti, non occorrerebbe una puntuale individuazione e indicazione, nel provvedimento impositivo, dei luoghi di abituale frequentazione della vittima, potendosi anche fare semplice riferimento ad essa per imporre che il soggetto indagato non le si avvicini, lasciando che la “concretizzazione” dei luoghi si avveri contestualmente al dipanarsi della vita quotidiana della persona offesa, ovunque essa si svolga: imporre una predeterminazione dei luoghi nel caso in cui sussista una persistente e invasiva ricerca di contatto con la vittima, in qualsiasi luogo in cui essa si trovi, significherebbe porre un’inammissibile limitazione del libero svolgimento della vita sociale della persona offesa, che viceversa costituisce precipuo oggetto di tutela della norma.
A questa tesi si oppone peraltro un non isolato indirizzo (Sez. VI, 7 aprile 2011, n. 26819; Sez. V, 4 aprile 2013, n. 27798) per il quale l’approdo sopra descritto presta il fianco a critiche di eccessiva indeterminatezza.
Secondo questa divergente opinione, infatti, il provvedimento con cui il giudice dispone il divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa non può non indicare, necessariamente in maniera specifica e dettagliata, i luoghi oggetto del divieto, perché solo in tal modo il provvedimento assume una conformazione completa, che ne consente l’esecuzione ed il controllo delle prescrizioni funzionali al tipo di tutela che si vuole assicurare.
L'efficacia di questa misura (così come di quella di cui all’art. 282 bis c.p.p.), funzionale ad evitare il pericolo della reiterazione delle condotte illecite, è subordinata a come il giudice la riempie di contenuti attraverso le prescrizioni che le norme gli consentono; appare allora necessaria la completa comprensione delle dinamiche che sono alla base dell'illecito, nel senso che il giudice deve modellare la misura in relazione alla situazione di fatto.
Sul piano pratico, l’adesione a questo indirizzo reca con sé la necessità che il pubblico ministero nella sua richiesta (e ancor prima la polizia giudiziaria) rappresenti al giudice, oltre agli elementi essenziali per l'applicazione della misura, anche aspetti apparentemente di contorno, che invece possono assumere una importanza fondamentale perché utili per dare il migliore contenuto al provvedimento cautelare: un particolare rilievo assumeranno allora le informazioni circa i luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa o dai suoi parenti, proprio in quanto funzionali al tipo di tutela che si vuole assicurare attraverso l'allontanamento dell'autore del reato, che dovrebbe servire ad evitare il ripetersi di episodi delittuosi ai danni della persona offesa.
Come pare evidente, un contrasto interpretativo destinato probabilmente a ripetersi sino al probabile intervento delle Sezioni Unite, a fronte di una materia nella quale entrano in collisione istanze contrapposte: un’esigenza di tutela effettiva della vittima, che per essere tale non può che connotarsi in termini di “dinamicità” e dunque di estensione capillare a tutti i luoghi in cui si esplica il vivere quotidiano della persona offesa; un'altrettanto importante necessità di individuazione puntuale delle prescrizioni e dei divieti imposti al soggetto sottoposto, pena una indeterminatezza che lascia spazio a situazioni di abuso ovvero a zone grigie di impunità.
La decisione in sintesi
Esito del ricorso: Dichiara inammissibile il ricorso.
fonte: Altalex.com\Stalker vive nel condominio della vittima: scatta l'allontanamento
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mercoledì 23 aprile 2014
Stalker vive nel condominio della vittima: scatta l'allontanamento
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