martedì 29 gennaio 2019

Sinistri stradali: se il pedone non attraversa sulle strisce deve dare la precedenza alle auto

Il pedone che attraversa la strada non sulle strisce e viene investito dall'auto può concorrere (anche pesantemente) nella responsabilità del sinistro. La Cassazione - con ordinanza n. 2241/19 - ha puntualizzato che non ha i poteri per rivedere le percentuali di responsabilità fissate in appello ossia il 60% a carico del pedone e il restante 40% per il conducente. Questo perché - si legge nella decisione - il giudice deve partire inizialmente da un presunzione di colpa pari al 100% a carico del guidatore; successivamente accertare in concreto la colpa del pedone e, infine, ridurre progressivamente la percentuale di colpa presunta a carico del conducente via via che emergono circostanze a dimostrare la colpa in concreto del pedone.
Il giudice di prime cure, quindi, non ha fatto altro che applicare tale regola sulla scorta di quanto appurato dalla consulenza tecnica d'inchiesta. A nulla sono valsi i motivi d'appello dei superstiti del parente investito nell'affermare che il sinistro fosse avvenuto nei pressi di una chiesa o che al momento dell'investimento la congiunta si trovava “in prossimità dell'attraversamento pedonale segnalato per attraversamento perdonale”.
Ricordano i giudici che sul pedone che attraversa la strada al di fuori delle strisce pedonali grava l'obbligo di dare la precedenza ai veicoli. Confermate le percentuali di responsabilità del giudice di prime cure.
fonte: CassaForense-DatAvv

giovedì 24 gennaio 2019

Casa coniugale: cade in comunione anche se acquistata con denaro del genitore di uno dei coniugi

La somma di denaro donata dal genitore al figlio, coniugato in regime di comunione legale dei beni, non costituisce un’ipotesi di donazione indiretta ed entra a far parte del regime di comunione legale dei beni, anche se manca un atto che rivesta la forma richiesta dalla legge per la validità delle donazioni, e cioè l’atto pubblico stipulato alla presenza di due testimoni.
Ove la donazione riguardi una somma di denaro impiegata dal donatario per l’acquisto della casa familiare e ove detto acquisto sia condiviso con il coniuge, il donatario in tal modo dona al coniuge il 50% della proprietà consentendone l’intestazione allo stesso. Non può pertanto ravvisarsi una donazione indiretta dell’intero immobile al donatario tale da escludere la comunione del bene tra i coniugi.
Questi i principi espressi dalla Corte di Cassazione, Sez. VI, Pres. D’Ascola – Rel. Orilia con l’ordinanza n. 19537 del 24.07.2018.
La vicenda ha riguardato un soggetto che ha proposto ricorso per cassazione avverso la pronuncia di rigetto della corte territoriale che a sua volta aveva respinto la domanda spiegata dallo stesso in primo grado nei confronti dell’ex coniuge e di una società di costruzioni.
In particolare il soggetto aveva convenuto in giudizio l’ex moglie al fine di vedersi riconosciuta l’esclusiva proprietà dell’immobile oggetto, a suo dire, di donazione indiretta da parte della madre la quale gli aveva fornito il denaro necessario all’acquisto.
La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso, oltre che inammissibile, anche infondato in quanto il giudice di appello aveva accertato che la donazione tra madre e figlio aveva riguardato solo una somma di danaro da utilizzare per l’acquisto della casa familiare e che il figlio, impiegando tale somma nell’acquisto da condividere con la futura moglie, ha in tal modo donato a questa il 50% della proprietà consentendone l’intestazione alla medesima
Pertanto, a parere degli ermellini, l’apprezzamento della Corte di merito, in linea con i principi che regolano la forma delle donazioni indirette (non necessità dell’atto solenne, ma sufficienza del rispetto della forma prescritta per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità), non è pertanto censurabile.
In conclusione, i giudici di legittimità hanno respinto il ricorso con addebito di spese alla parte soccombente.

fonte: www.expartecreditoris.it

Furbetti del cartellino, truffa aggravata anche se il danno arrecato è lieve

È configurabile il reato di truffa aggravata per il dipendente che attesti la sua presenza malgrado si allontani dall'ufficio, anche se il danno economico cagionato all'ente sia di per sé poco rilevante dal punto di vista economico. Difatti, un tal tipo di condotta incide sull'organizzazione dell'ente stesso e lede gravemente il rapporto fiduciario tra il singolo impiegato e il datore di lavoro pubblico. In tali ipotesi può, eventualmente, configurarsi l'attenuante della speciale tenuità del danno. Ad affermarlo è la Cassazione con la sentenza 3262, depositata ieri.

Il caso - Al centro della vicenda c'è l'ennesimo caso di furbetti del cartellino. Questa volta il protagonista è un solo dipendente pubblico, indagato per truffa aggravata perché quasi quotidianamente, aggirando il sistema di rilevazione dell'orario di presenza, decurtava minuti dalle sue giornate lavorative. Per tale motivo il Gip disponeva la misura interdittiva della sospensione dall'esercizio dei pubblici uffici per la durata di due mesi. Il dipendente pubblico però impugnava la decisione ottenendo dal Tribunale del riesame la revoca della misura. Per quest'ultimo, infatti, il raggiro contestato era sì quasi quotidiano, ma di fatto inconsistente perché avrebbe prodotto nel complesso assenze di pochi minuti quantificabili in termini retributivi in poco più di 50 euro, traducendosi perciò in un danno poco apprezzabile per la pubblica amministrazione.
La decisione - Su ricorso del Pubblico ministero interviene la Cassazione che con una sentenza concisa e ben argomentata boccia totalmente la decisione del riesame. Il Tribunale, infatti, ha escluso la configurabilità della truffa valorizzando elementi che, al più, evidenziano la sua non particolare gravità, ma non ne impediscono la configurabilità. La Corte ricorda che la falsa attestazione del pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, in qualunque modo essa avvenga, integra il reato di truffa aggravata, sempre che i periodi di assenza siano economicamente apprezzabili. In quest'ottica, anche una indebita percezione di poche centinaia di euro costituisce un danno economicamente apprezzabile per il datore di lavoro pubblico, potendo l'esiguità della somma integrare l'attenuante della speciale tenuità, ex articolo 62 comma 4 Cp, non certo impedire la configurabilità del reato di cui all'articolo 640 comma 2 n. 1 Cp.
Ciò posto, il Collegio rincara la dose affermando che per valutare l'entità del danno non basta avere riguardo alla perdita economica, ma assume rilievo anche l'incidenza della condotta delittuosa sull'organizzazione dell'ente pubblico, il quale potrebbe aver subito un pregiudizio rilevante per effetto delle pur minime assenze, non tanto sotto un profilo quantitativo, ma sul piano dell'efficienza degli uffici. Per i giudici di legittimità, infatti, le singole assenze incidono sull'organizzazione dell'ufficio «alterando la preordinata dislocazione delle risorse umane» e «modificando arbitrariamente le prestabilite modalità di prestazione della propria opera». In sostanza, chiosa il Collegio, lo svolgimento della quotidiana attività amministrativa è «messa a repentaglio dalle personali iniziative di quei dipendenti che mutino a proprio piacimento i prestabiliti orari di presenza in ufficio» e che forniscono una «prestazione diversa da quella doverosa».

fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

Diffamazione: oneri meno stringenti per i post satirici su Facebook

Il giudice non può addossare a chi pubblica un post su Facebook gli stessi oneri di un giornalista. Va dunque esclusa la diffamazione per il commento negativo sul social network, con il quale si stronca un'attività gastronomica, accusando il gestore di avere prezzi alti e “truffare” sul peso. La Cassazione, con la sentenza 3148, accoglie il ricorso contro una doppia condanna, incassata sia in primo sia in secondo grado, per aver offeso la reputazione della titolare di una gastronomia, pubblicando sul profilo Facebook una guida satirica ai peggiori ristoranti della città e dintorni. Nel mirino era finito un signore accusato di vendere pasta a prezzi esorbitanti bluffando anche sul peso. Per il Tribunale e per la Corte d'appello la diffamazione c'era, senza che si potesse invocare la scriminante del diritto di critica o la verità dei fatti narrati. L'offesa maggiore sarebbe stata nell'accusa di aver venduto 750 grammi ravioli spacciandoli per un chilo. Per i giudici di merito non era detto che l'esercente avesse agito volontariamente, né che fosse sua abitudine frodare i clienti. In più l'imputato aveva prima bollato il locale come uno dei peggiori della zona, poi aveva additato il proprietario come truffatore e, solo dopo, aveva fatto riferimento all'acquisto dei ravioli con il peso “taroccato” . Per la Cassazione però il fatto non costituisce reato. Il fatto che il locale fosse caro corrispondeva al vero, l'impiego del termine “truffatore” andava riferito ai prezzi esorbitanti e ai dubbi sulla rispondenza tra peso e prezzo pagato: era dunque una critica all'attività e non un giudizio sull'etica del privato. Il post, pubblicato sul social network, era caratterizzato da aspetti satirici, come dimostrato dal nome della rubrica “Guida cupittuna lisci” : “Guida ai copertini lisci” in antitesi alla nota “Guida Michelin”. I giudici, in quel contesto, non potevano porre a carico del soggetto che aveva pubblicato il post oneri informativi analoghi a quelli che gravano su un giornalista professionista, senza tenere conto della profonda diversità tra le due figure, per ruolo, funzione, formazione, capacità espressive, spazio divulgativo e relativo contesto.

fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

martedì 22 gennaio 2019

Cellulari e danni alla salute: i Ministeri dovranno informare sull’uso corretto

Con una storica sentenza (n. 500/2019), il Tar Lazio ha disposto che i ministeri dell’Ambiente, della Salute e dell’Istruzione, Università e Ricerca, dovranno “adottare una campagna informativa rivolta all’intera popolazione” destinata ad individuare “le corrette modalità d’uso degli apparecchi di telefonia mobile (telefoni cellulari e cordless)”, informando “dei rischi per la salute e per l’ambiente connessi ad un uso improprio degli apparecchi”.
Il Tribunale amministrativo regionale ha dunque accolto il ricorso dell'Associazione per la prevenzione e la lotta all' elettrosmog, in quanto i Ministeri non hanno adempiuto ad "informare la popolazione sui danni a breve e lungo termine connessi all’uso dei telefoni mobili".
I ministeri si sono difesi sostenendo che non è stato provato che i cellulari causino il cancro ed in ogni caso, vi è già un foglietto illustrativo contenuto nella confezione dei telefonini. Pertanto, non è necessaria alcuna campagna d’informazione.
Al contrario, il giudice amministrativo non ha ritenuto sufficiente l’informazione contenuta nei “bugiardini” dei  cellulari, per cui dovrà partire la campagna sulle corrette modalità d’uso e su “cosa capita quando non si usa correttamente il telefonino”, ovvero sui gravi danni alla salute può causare l’esposizione a campi elettromagnetici.
Inoltre, dovrà essere evidenziato «cosa capita quando non si usa correttamente il telefonino», ovvero «che l'esposizione a campi elettromagnetici può causare danni alla salute».
Esprime la sua soddisfazione il Presidente dell’associazione per la lotta all’elettrosmog Laura Masiero, la quale ha dichiarato: “E’ un segnale importante e molto forte che chiedevamo da molto tempo: si tratta di rischi che non possiamo più sottovalutare. Gli studi scientifici stanno progredendo enormemente, abbiamo dei lavori importanti che indicano come ci siano dei rischi. Siamo di fronte a una sperimentazione globale, di massa, ma non ci si rende conto delle conseguenze che ci sono soprattutto per le fasce più deboli, i bambini sono i più a rischio. I cellulari non sono giocattoli, ma una tecnologia che è utile ma che va usata adeguatamente. Vigileremo sulla campagna informativa”.

fonte: www.altalex.com

lunedì 21 gennaio 2019

Guida in stato di ebbrezza: sì ai lavori di pubblica utilità se l'imputato non si oppone

Qualora il giudice disponga con decreto penale di condanna la sostituzione della pena pecuniaria con il lavoro di pubblica utilità, non è richiesto all'imputato di esprimere una manifestazione di volontà adesiva, essendo sufficiente la sua mancata opposizione, né, qualora l'assenso sia formulato con atto scritto, questo deve essere redatto dall'imputato personalmente, o dal suo difensore munito di procura speciale.
E' quanto emerge dalla sentenza della Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione del 20 dicembre 2018, n. 58485.
L'art. 186, comma 9-bis, cod. strad., introdotto dalla l. n. 120 del 2010, dispone che, al dì fuori dei casi in cui il conducente in stato di ebbrezza provochi un incidente stradale, la pena detentiva e pecuniaria che il giudice intenda irrogare può essere sostituita, anche con il decreto penale di condanna, se non vi è opposizione da parte dell'imputato, con quella del lavoro di pubblica utilità di cui al D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 54, consistente nella prestazione di un'attività non retribuita a favore della collettività, da svolgere, in via prioritaria, nel campo della sicurezza e dell'educazione stradale presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato, o presso centri specializzati di lotta alle dipendenze.
Dal testo dell'art. 186, comma 9-bis, cod. strad., né da alcuna altra disposizione di legge riferibile alla fattispecie in esame, è rinvenibile la disposizione che impone al condannato di aderire all'indicazione di sostituzione della pena con l'attività di pubblica utilità mediante una dichiarazione formulata personalmente, oppure dal solo difensore procuratore speciale, valendo tale prescrizione per istituti similari, ma differenti da quello applicabile per il caso di trasgressione dell'art. 186 cod. strad., nell'ambito di un diverso meccanismo di accesso alla sostituzione.
Ad esempio, nel caso di reati di competenza del giudice di pace, puniti con la permanenza domiciliare, spetta all'imputato avanzare la richiesta di conversione di tale sanzione nel lavoro di pubblica utilità ed altrettanto è previsto nell'ipotesi di cui all'art. 73, comma 5-bis, d.P.R. n. 309 del 1990, quando per il reato contemplato, commesso dal tossicodipendente o dall'assuntore di sostanze stupefacenti o psicotrope, il giudice, con la sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti, su richiesta dell'imputato e sentito il pubblico ministero, qualora non debba concedersi il beneficio della sospensione condizionale della pena, può applicare, anziché le pene detentive e pecuniarie, il lavoro di pubblica utilità.
In questi casi si esige un impulso personale da parte dell'imputato, da realizzare anche per il tramite di procuratore speciale, per garantire che il diretto interessato sia consapevole delle modalità di emenda e delle conseguenze in caso di violazione degli obblighi connessi all'attività da svolgere. Nell'ipotesi di cui all'art. 186 cod. strad., invece, non si richiede all'imputato di sollecitare la sottoposizione al lavoro di pubblica utilità, ma solo di non opporsi alla sostituzione già disposta dal giudice con la sentenza o il decreto penale di condanna.

fonte: www.altalex.com

Scioglimento delle unioni civili: la (prima) pronuncia del Tribunale di Novara

Con articolata decisione depositata il 5 luglio 2018, il Tribunale di Novara interpreta sistematicamente la legge 76/2016 e stabilisce che, ai fini della legittimità della dichiarazione giudiziale di scioglimento, la c.d. fase amministrativa della dichiarazione di scioglimento dell'unione civile non costituisce condizione di procedibilità della domanda. Inoltre, stabilisce le condizioni della garanzia di comunicazione al partner e del rispetto dello spatium deliberandi previsto dall'art. 1, comma 24 della legge n. 76 del 2016.

Tribunale di Novara
sezione Civile, sentenza 5 luglio 2018
Fatto e motivi della decisione
Con ricorso depositato in data 17.11.2017 il sig. (omissis...) ha esposto: di aver costituito unione civile con il sig. (omissis...) in Torino in data (omissis...) di aver stabilito con il convenuto la comune residenza in (omissis...) che il rapporto non si è evoluto in modo positivo per incompatibilità caratteriali; che il sig. (omissis...) ha abbandonato l'abitazione ove conviveva con l'esponente; ha pertanto chiesto al Tribunale di pronunciare scioglimento dell'unione civile celebrata in data (omissis...) e dichiarare l'autosufficienza economica delle parti.
All'udienza del 27.02.2018 il Presidente ha sentito il ricorrente; il resistente, invece, pur ritualmente avvisato, non è comparso né si è costituito in giudizio. Con ordinanza di pari data il Presidente ha autorizzato le parti unite civilmente a vivere separatamente, con facoltà di interrompere la convivenza e la coabitazione, ma con l'obbligo del reciproco rispetto, fissando udienza innanzi al Giudice istruttore per l'ulteriore corso del giudizio. All'udienza celebrata innanzi al Giudice istruttore in data 8.05.2018 l'attore ha depositato copia dell'ordinanza presidenziale notificata nei termini e chiesto dichiararsi la contumacia della parte convenuta, nonché di precisare le conclusioni, con rinuncia ai termini di cui all'art. 190 c.p.c.
Il Giudice istruttore, rilevata la ritualità della notifica, ha dichiarato la contumacia del sig. (omissis...) e trattenuto la causa in decisione sulle conclusioni in epigrafe riportate, riservandosi di riferire al Tribunale in Camera di Consiglio acquisite le conclusioni del P.M.
Il carattere innovativo delle questioni poste dal presente giudizio, in considerazione della recente introduzione dell'istituto delle unioni civili e l'assenza a quanto consta di precedenti, rendono necessaria, ad avviso del Collegio, una breve premessa in diritto.
Come noto, con la legge n. 76 del 20 maggio 2016 è stata istituita l'unione civile tra persone dello stesso (art. 1, comma 1) e, per quanto in questa sede soprattutto rileva, ne sono state altresì disciplinate le modalità di scioglimento. Oltre che per morte, dichiarazione di morte presunta della parte o rettificazione del sesso (commi 22 e 26), l'unione civile si può sciogliere in presenza di due distinte tipologie di presupposti e con due diverse modalità, fra loro alternative, rispettivamente contemplate dai commi 23 e 24 dell'art. 1 della legge n. 76/2016.
Ai sensi del comma 23, "l'unione civile si scioglie altresì nei casi previsti dall'articolo 3, numero 1) e numero 2), lettere a), c), d) ed e), della legge 1. dicembre 1970, n. 898". Ancorché la formulazione della disposizione possa indurre a pensare ad uno scioglimento automatico ex lege conseguente al perfezionamento di una delle fattispecie contemplate dalle disposizioni richiamate, in realtà (arg. ex comma 25) la ricorrenza di uno dei "casi" rende soltanto possibile ottenere lo scioglimento dell'unione attraverso una sentenza pronunciata in esito ad un procedimento contenzioso ovvero attraverso un accordo sottoposto all'ufficiale dello stato civile o, ancora, attraverso un accordo stipulato in esito ad una negoziazione assistita da avvocati. Merita peraltro in proposito di essere evidenziato, con particolare riguardo al procedimento giurisdizionale, come precisato in dottrina, che la ricorrenza di uno dei "casi" contemplati dall'art. 3, nn. 1 e 2, lett. a, c, d ed e, L. n. 898/1970 ha, per lo scioglimento dell'unione civile, un ruolo ben diverso rispetto a quello che ad essa viene attribuito dagli artt. 1 e 2 L. n. 898/1970 ai fini dello scioglimento del matrimonio. Per poter pronunciare una sentenza di scioglimento di matrimonio, infatti, il giudice deve a rigore accertare: a) che la comunione materiale e spirituale di vita tra i coniugi non può più essere mantenuta o ricostituita e b) che tale impossibilità è causalmente imputabile alla ricorrenza di uno dei casi contemplati dall'art. 3.
Per contro, per poter pronunciare una sentenza di scioglimento dell'unione civile è sufficiente al giudice accertare la ricorrenza di uno dei casi contemplati dall'art. 3, nn. 1 e 2, lett. a, c, d ed e, L. n. 898/1970, del tutto irrilevante essendo se, ed in che misura, il perfezionamento di una di tali fattispecie abbia inciso sulla comunione di vita fra le parti, pregiudicando la possibilità di mantenerla o ricostituirla.
Ciò, ad avviso dei commentatori, per la ovvia ragione che l'esistenza ab origine e la conservazione di una comunione materiale e spirituale di vita fra le parti è del tutto priva di rilevanza nell'istituto dell'unione  civile. Il comma 24, invece, dispone che "l'unione civile si scioglie, inoltre, quando le parti hanno manifestato anche disgiuntamente la volontà di scioglimento dinanzi all'ufficiale dello stato civile. In tale caso la domanda di scioglimento dell'unione civile è proposta decorsi tre mesi dalla data della manifestazione di volontà di scioglimento dell'unione". Tale comma reca dunque la disciplina ordinaria dello scioglimento del rapporto venuto in essere a seguito della costituzione di una unione civile, attivabile tutte le volte in cui non ricorra alcuno dei casi previsti dall'art. 3, nn. 1 e 2, lett. a, c, d ed e, L. n. 898/1970. Secondo l'interpretazione più convincente ed aderente al dato normativo, il comma 24 della predetta legge ha disegnato per lo scioglimento dell'unione civile, per la quale non è prevista la separazione, un iter procedimentale che prende le mosse dalla dichiarazione di volontà di scioglimento dell'unione effettuata davanti all'ufficiale di stato civile, anche da una sola delle parti.
Tale dichiarazione non ha effetti dissolutivi dell'unione civile, ma è solo il presupposto per presentare "la domanda di scioglimento", domanda che non potrà essere avanzata prima del termine dilatorio di tre mesi dalla data in cui è stata effettuata la dichiarazione davanti all'ufficiale di stato civile. In altri termini, solo dopo la dichiarazione e decorso il termine di cui sopra, sarà possibile per la parte intraprendere una delle strade individuate dal legislatore per lo scioglimento dell'unione: quella giurisdizionale (sia con la proposizione della domanda di divorzio congiunto, in caso di accordo delle parti, che con la proposizione della domanda di divorzio in sede contenziosa, in caso di disaccordo) o quella stragiudiziale, nelle forme della negoziazione assistita o dello scioglimento dell'unione davanti al Sindaco quale ufficiale dello stato civile. Il termine di tre mesi che deve intercorrere tra la manifestazione di volontà dinanzi all'ufficiale di stato civile e la proposizione della domanda giudiziale è in ultima analisi lo spatium deliberandi che la legge impone ai partners di un'unione civile che decidono di sciogliere il proprio vincolo, in assenza di una delle cause legali sopra ricordate. Nessuna influenza sulla possibilità di ottenere la sentenza di scioglimento viene attribuita alla circostanza che la domanda giudiziale di scioglimento venga presentata da una soltanto delle parti o da entrambe congiuntamente: nell'uno e nell'altro caso la domanda deve infatti essere accolta dal giudice per il solo fatto di essere stata presentata ad oltre tre mesi di distanza dall'avvenuta manifestazione di volontà di scioglimento davanti all'ufficiale dello stato civile, senza che si rendano necessari ulteriori accertamenti.
Il recente D.Lgs. n. 5 del 19 gennaio 2017, in attuazione dell'art. 28 della legge n. 76, è infine intervenuto a colmare alcune lacune dell'articolato normativo descritto. Il D.Lgs. n. 5/2017, introducendo la lettera g-quinquies all'art. 63 D.P.R. n. 396/2000 ha previsto espressamente che la volontà di sciogliere l'unione civile possa essere manifestata da una o da entrambe le parti; sembra invece escludersi l'ipotesi di una manifestazione differita, ovvero l'ipotesi in cui una parte voglia aderire alla richiesta dell'altra giacché il decreto del Ministero dell'Interno 27 febbraio 2017 ha in proposito previsto l'alternativa tra manifestazione congiunta o manifestazione di una sola parte; introducendo la lettera g-quinquies all'art. 63 D.P.R. n. 396/2000 il legislatore ha poi previsto un ulteriore passaggio nell'iter procedimentale consistente nell'obbligo di preventiva comunicazione di una parte all'altra, mediante lettera raccomandata, dell'intento di sciogliere il vincolo: l'ufficiale di stato civile, dunque, verificato l'incombente, raccoglie la dichiarazione di volontà di scioglimento del vincolo e solo da quel momento decorreranno i tre mesi necessari per poter radicare il giudizio.
Infine, il decreto del Ministero dell'Interno 27 febbraio 2017 ha chiarito che la dichiarazione possa essere resa solo innanzi all'ufficiale di stato civile del Comune dove l'unione è stata costituita. Per quanto in questa sede soprattutto rileva, si osserva che, secondo l'interpretazione offerta dai primi commentatori, dal punto di vista processuale, la predetta dichiarazione davanti all'ufficiale dello stato civile, che nel caso di specie non è stata resa, sembra costituire, pur in assenza di una esplicita previsione in questo senso da parte del legislatore, una condizione di procedibilità per lo scioglimento dell'unione civile. Occorre tuttavia interrogarsi più attentamente su quali siano le conseguenze nel caso in cui difetti l'invio della raccomandata al partner e non risulti resa la dichiarazione innanzi all'ufficiale di stato civile.
Ebbene, ritiene il Collegio che, al ricorrere di determinate condizioni, che si andranno appresso indicando,  il Tribunale adito possa comunque delibare la domanda di scioglimento dell'unione civile, pur in difetto di invio della predetta raccomandata e della formale dichiarazione innanzi all'ufficiale dello stato civile. In particolare, ad avviso del Collegio, nel caso in cui l'attore abbia notificato ritualmente il ricorso introduttivo del giudizio al partner, abbia ribadito in sede presidenziale la propria volontà di sciogliere il vincolo e, tra la fase presidenziale ed il momento in cui viene emesso da parte del Tribunale il provvedimento definitorio del giudizio, sia trascorso un lasso di tempo pari o superiore a tre mesi, allora si deve ritenere che l'omissione della fase amministrativa innanzi all'ufficiale di stato civile non pregiudichi la valutazione nel merito della domanda. Tale conclusione, a ben vedere, si impone non solo sulla base di argomenti di ordine letterale, ma anche e soprattutto, teleologico, sol che si rifletta sulla ratio sottesa alla previsione normativa di cui al comma 24 della L. n. 76/2016.
In primo luogo, infatti, l'invocato comma 24, pur stabilendo che la parte renda la dichiarazione innanzi all'ufficiale di stato civile, non qualifica espressamente tale dichiarazione come condizione di procedibilità dell'azione, né fa discendere alcuna conseguenza dall'inadempimento di tale incombente. Inoltre e soprattutto, come ha avuto modo di precisare la dottrina, da tale dichiarazione non derivano altre conseguenze se non quella di determinare il dies a quo per la decorrenza di quel termine di tre mesi al quale i commentatori hanno pressoché unanimemente riconosciuto il significato di spatitum deliberandi, momento di riflessione prodromico alla instaurazione del giudizio.
Tanto chiarito, si può allora agevolmente ritenere che la rituale notifica del ricorso al partner possa tenere luogo all'invio della lettera raccomandata, in quanto idonea al raggiungimento dello scopo che la norma si prefigge, ovvero notiziare in maniera formale il partner della propria volontà di sciogliere il vincolo. Parimenti si può ben sostenere che la manifestazione di volontà ribadita innanzi al Presidente del Tribunale possa tenere luogo alla mancata dichiarazione innanzi all'ufficiale di stato civile.
Ed invero, vale la pena ribadire in proposito che alla dichiarazione resa innanzi all'ufficiale di stato civile la legge non ha attribuito alcuna conseguenza, ad esempio in ordine allo scioglimento del regime di comunione legale dei beni eventualmente in essere, se non quella di fissare la decorrenza del periodo di riflessione di tre mesi. In definitiva, l'unico scopo attribuito a tale dichiarazione è quello di cristallizzare in maniera formale il momento in cui il partner manifesta la propria volontà di sciogliere l'unione al fine di consentire il decorrere del termine di tre mesi. Stando così le cose, allora, non si rinvengono argomenti di ordine letterale né sistematico che portino ad escludere la possibilità di equiparare, quanto a sacralità e formalità, la dichiarazione resa innanzi all'ufficiale di stato civile a quella resa innanzi al Presidente del Tribunale.
Infine, non si ravvisano controindicazioni di sorta nel sostenere che, qualora dal momento in cui il ricorrente espliciti la propria volontà innanzi al Presidente del Tribunale a quello in cui il Tribunale si trova a decidere sulla domanda, sia trascorso un termine pari o superiori a tre mesi, allora si è inverata anche l'ulteriore condizione richiesta dalla legge, vale a dire il trascorrere di un termine che consenta alla parte di riflettere sulla propria determinazione ed, eventualmente, di mutare il proprio avviso. Non sussistono infatti ragioni logiche, prima ancora che giuridiche, che consentano di escludere che il termine di tre mesi decorso nell'ambito del giudizio sia diverso, per quantità e qualità, al medesimo lasso di tempo, se trascorso prima del processo ed al di fuori dello stesso.  In definitiva, in assenza di indici contrari all'interno della legge in esame ed al ricorrere delle circostanze indicate, la fase amministrativa, pur ordinariamente prevista dal legislatore, non costituisce passaggio indefettibile per l'esame ne) merito della domanda di scioglimento dell'unione civile. Del resto, la soluzione interpretativa accolta, ad avviso del Collegio, è la più idonea a contemperare il rispetto del dato normativo con i principi di economia processuale e ragionevole durata del processo di matrice costituzionale.
Diversamente opinando, infatti, il giudizio dovrebbe irrimediabilmente esitare in una pronuncia di improcedibilità del ricorso, così costringendo la parte alla riproposizione della propria domanda.
Ricostruito in questi termini il dettato normativo, si ritiene che nel caso di specie, pur non essendo stata inviata raccomandata dal sig. (omissis...) odierno attore, al compagno, (omissis...), né essendo stata resa la dichiarazione innanzi all'ufficiale di stato civile, la domanda possa essere valutata nel merito ed accolta.
Ed infatti risulta che il sig. (omissis...) abbia notificato il ricorso introduttivo del giudizio per lo scioglimento dell'unione civile al compagno; in sede presidenziale, all'udienza del 27.02.2018, abbia ribadito la propria volontà di sciogliere il vincolo e così innanzi al giudice relatore il giorno 8.05.2018. Sulla domanda il P.M. in sede non ha sollevato rilievi.
Sicché, per tutte le ragioni in diritto esposte, si ritiene che nel caso di specie la ratio sottesa agli adempimenti previsti dal legislatore con la legge n.  76/2016 ed il D.Lgs. n. 5/2017 sia stata rispettata e la domanda di scioglimento dell'unione civile  proposta possa essere accolta. Le spese di lite devono dichiararsi irripetibili.
P.Q.M.
Il Tribunale di Novara, in composizione collegiale, definitivamente pronunciando sulla domanda di scioglimento di unione civile proposta da (omissis...) nei confronti di (omissis...)
1. pronuncia Io scioglimento dell'unione civile costituita in data (omissis...) a Torino tra i signori (omissis...) atto iscritto nel Registro provvisorio delle Unioni civili Comune di Torino al (omissis...) anno (omissis...);
2. ordina all'ufficiale di stato civile del Comune di Torino di provvedere alle incombenze di legge.

fonte: www.altalex.com

Prova a rubare in un negozio: ladra non punibile per tenuità del fatto

Confermata in Cassazione la decisione presa dai Giudici del Tribunale. Riconosciuta la particolare tenuità del fatto compiuto dall’imputata. Decisivo il richiamo al valore della merce, pari a 104 euro.
Tentato furto. Ha provato a rubare una felpa e un paio di scarpe ma il colpo non è riuscito e così si è ritrovata sotto processo per furto. A salvarla, però, la valutazione data all’episodio dai giudici: questi ultimi hanno ritenuto legittimo “non doversi procedere” per “particolare tenuità del fatto”.
Decisivo il richiamo al valore della merce (Cassazione Penale, sentenza n. 1501/2019).
Valore. Ricostruito nei dettagli il fattaccio, verificatosi in un negozio. Una ragazza è stata sorpresa a tentare di portar via senza pagare una felpa e un paio di scarpe di due noti marchi per «un valore complessivo di 104 euro e 9 centesimi».
Ella ha prima «asportato le placche antitaccheggio» e poi «ha oltrepassato le casse, senza pagare il corrispettivo» per la merce prelevata. A quel punto, però, è stata fermata ed è finita sul banco degli imputati per «tentato furto». A sorpresa, però, alla luce degli elementi probatori a disposizione, i Giudici del Tribunale optano per la dichiarazione di «non doversi procedere», evidenziando «la particolare tenuità del fatto», anche tenendo presente «il trascurabile valore della merce».
Questa visione, duramente contestata dalla Procura, viene confermata ora dalla Cassazione.Legittimo, osservano i Giudici, applicare il principio della tenuità del fatto anche al «tentativo di furto» soprattutto quando, come in questa vicenda, «è possibile desumere con certezza, dalle modalità del fatto e in base ad un preciso giudizio ipotetico, che, se il reato fosse stato portato a compimento, il danno patrimoniale per la parte offesa sarebbe stato di rilevanza minima».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it

Criteri più chiari per calcolare l'assegno di divorzio

Canoni sempre più chiari nel valutare la fondatezza e la misura dell'assegno divorzile. È questo la portata del provvedimento emesso l’8 gennaio 2019 dalla presidente Giannone della settima sezione del tribunale di Torino.
Nell'intervenire dopo la prima udienza, quella dei provvedimenti provvisori ed urgenti, il giudice ha osservato come, pur dovendosi considerare le due misure economiche – quella della separazione e quella del divorzio – diverse, «nella fase presidenziale – si sia chiamati a verificare la sussistenza dei requisiti per riconoscere o escludere un assegno divorzile, e si dovrà in particolar modo apprezzare se sia siano verificati fatti nuovi, che consiglino di modificare le previsioni che erano state assunte in sede di separazione tra i coniugi».
Il principio
Partendo da questo presupposto, il tribunale torinese ha ricordato come il principio di diritto - introdotto dalla sentenza n. 19287/18 delle sezioni unite, che ha chiarito la natura e le finalità dell'assegno divorzile dopo il definitivo abbandono del criterio del tenore di vita come criterio guida - sia quello per il quale l'assegno divorzile, laddove debba essere disposto in quanto «si compone di un contenuto perequativo- compensativo», deve comunque tener conto della raggiunta autonomia del richiedente; autonomia che deve però essere, in concreto e di volta in volta, «adeguata al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare».
Di conseguenza, il giudice del divorzio, quando sia chiamato a decidere in merito alla misura dell'assegno divorzile - anche nella prima fase del relativo giudizio, proprio perché «non sarebbe giustificato onerare una delle parti di una contribuzione verosimilmente destinata alla revoca od a una riduzione, all'esito del giudizio»- ha il compito di leggere e parametrare tra loro le diverse realtà patrimoniali dei coniugi. Compito adempiuto, con rara precisione, nel caso de quo : nell'istruire il quale il tribunale di Torino ha letteralmente riportato gli elementi costituenti sia il reddito che il patrimonio dei due coniugi, esaminando quelli dell'anno del matrimonio, quelli goduti in costanza del vincolo e, infine, quelli ottenuti nell'attualità.
Giungendo a ridurre, con il provvedimento in esame, l'importo riconosciuto alla moglie all'esito del giudizio della separazione, specificando come l'assegno divorzile «non può continuare ad essere agganciato allo sviluppo patrimoniale del coniuge, bensì deve essere rivolto alla vita matrimoniale, da un lato al fine di garantire l'autosufficienza e dall'altro per compensare la disparità economica fra le parti», ma solo dove questa «sia stata causata dalle scelte familiari ed in particolare sia riconducibile ai sacrifici fatti dal coniuge debole in favore della famiglia».
Sottolineando così la centralità di due importanti elementi, nell'analisi della sussistenza dei criteri attributivi dell'assegno astrattamente dovuto, all'esito della cessazione del rapporto di coniugio : il primo, quello della possibilità di operare tale valutazione già all'esito del primo provvedimento di giustizia del giudizio di divorzio; il secondo è il fatto che la disparità economica, eventualmente esistente, sia considerata elemento attributivo, ove riconducibile, «ai sacrifici fatti dal coniuge debole in favore della famiglia».

fonte: Cassa Forense

sabato 19 gennaio 2019

Troppi gatti in casa? E' reato

33 gatti in casa. Troppi per un appartamento. Un sovraffollamento che vale ad integrare il reato di maltrattamento di animali. È quanto emerge dalla sentenza n. 1510/2019 con cui la Cassazione ha confermato la condanna ex art. 727 del codice penale nei confronti di una donna che teneva in casa ben 33 gatti in modalità tali da arrecare gravi sofferenze, incompatibili con la loro natura, "in ragione delle condizioni di sovraffollamento" oltre che delle pessime condizioni di igiene dei luoghi.
Il ricorso
Inutile per l'imputata sostenere che il Tribunale aveva tratto dalle condizioni ambientali in cui erano tenuti gli animali, attraverso un automatismo, la sussistenza di sofferenze a carico dei mici, senza accertare l'effettivo danno patito dagli stessi. Né tantomeno, lamentare l'erronea e parziale valutazione delle risultanze istruttorie, tra cui le prove delle fatture d'acquisto di cibo differenziato anche per età degli animali, che "comprovavano cura ed attenzione" della donna nei confronti degli animali, nonché la perizia di parte che affermava che le patologie dei gatti potevano dipendere da ragioni diverse da negligenza nella cura o dal sovraffollamento.
Maltrattamenti animali, scatta la confisca
Per gli Ermellini, infatti, il ricorso è inammissibile, giacchè i motivi addotti espongono censure che si risolvono in una mera rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, senza individuare vizi di logicità, ricostruzione e valutazione da parte del giudice di merito.
Per cui la sentenza è corretta e alla condanna segue anche la confisca dei gatti. La detenzione di animali integrante la fattispecie di cui all'art. 727 c.p., "costituendo reato (sia pure contravvenzionale) – concludono i giudici della terza sezione penale - rientra nell'ipotesi di cui all'art. 240 comma 2 n. 2 del codice penale, in base al quale, come è noto, deve sempre essere ordinata la confisca delle cose, la detenzione delle quali costituisca reato, a meno che esse non appartengano a persone estranee al reato".

fonte: www.ilsole24ore.com

Contributi prescritti ma indebitamente versati: l'Inps deve restituirli

Se i contributi previdenziali risultano già prescritti – perché risalenti a oltre 5 anni prima –  ma risultano comunque versati dal contribuente devono essere necessariamente rimborsati dall’INPS.
Questo è il principio ribadito dai giudici della Corte d’ Appello di Milano, Sez. Lavoro, con la sentenza n. 1731/2018 secondo cui “…il pagamento dei contributi prescritti, non potendo neppure essere accettato dall’ente di previdenza pubblico, comporta che l’autore del pagamento ben può chiederne la restituzione”. Ed ancora “(…) le contribuzioni di previdenza e assistenza sociale obbligatoria sono soggette a prescrizione e “non possono essere versate” dopo il decorso del relativo termine. Pertanto, dopo lo spirare di tale termine, l’Ente di previdenza non solo non può procedere all’azione coattiva rivolta al recupero delle omissioni, ma è tenuto a restituire d’ufficio il pagamento del debito prescritto effettuato anche spontaneamente”.
Sul punto occorre, innanzitutto, ribadire che il versamento dei contributi di natura previdenziale è un obbligo che grava sui datori di lavoro, rispetto ai loro dipendenti e collaboratori nonché sui lavoratori autonomi.
Sia nell’una che nell’altra ipotesi essi si prescrivono, in via generale, in cinque anni dalla data in cui si sarebbero dovuti versare. Si rammenta, a tal proposito, che la prescrizione può essere interrotta con atto formale di parte (dell’Istituto previdenziale o del debitore).
La legge dell’8 agosto 1995 n. 335 rubricata “Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare” all’art. 3, comma 9, let. b), difatti, afferma: “9. Le contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria si prescrivono e non possono essere versate con il decorso dei termini di seguito indicati:
a) (…);
b) cinque anni per tutte le altre contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria”.
Nè discende che l’I.N.P.S. non può richiedere ed accettare contributi per i quali siano compiuti i termini di prescrizione.
Ovvero, decorso il termine di prescrizione quinquennale i contributi previdenziali non potranno essere addebitati al soggetto obbligato, né tantomeno l’Ente previdenziale potrà accettarne il versamento tardivo.
Pertanto, non solo il contribuente può richiederne la restituzione all’Ente ma, quest’ultimo, d’ufficio, è tenuto alla restituzione di quanto indebitamente incassato.
Sul punto la sentenza oggetto di commento così dispone: “… nella materia previdenziale, a differenza di quella civile, il regime della prescrizione già maturata è sottratto alla disponibilità delle parti, sicchè deve escludersi l’esistenza di un diritto soggettivo degli assicurati a versare contributi previdenziali prescritti (Cass. N. 11140/01, Cass. N. 4349/02). (…) Ne consegue che, a differenza di quanto previsto dal diritto delle obbligazioni in generale il pagamento dei contributi prescritti, non potendo neppure essere accettato dall’ente di previdenza pubblico, comporta che l’autore del pagamento ben può chiederne la restituzione (Civile Sent. Sez, L Num. 3489 Anno 2015)”.
Ed invero, cosi come chiarito in sentenza, l’Istituto non può trattenere somme originariamente non dovute: nella materia previdenziale, infatti, a differenza che in quella civile, il regime della prescrizione è sottratto alla disponibilità delle parti.
Tale esito, che ad una prima analisi della vicenda sembrerebbe scontato, così non è; esso costituisce una eccezione a quanto avviene nella disciplina delle obbligazioni in generale.
A norma di quest’ultima, chi effettua spontaneamente il pagamento di una somma di denaro, non dovuta perché prescritta, non può successivamente chiederne la restituzione. L’art. 2940 c.c., norma che disciplina detta fattispecie, prevede: “Non è ammessa la ripetizione di ciò che è stato spontaneamente pagato in adempimento di un debito prescritto”.
Diversamente, in materia previdenziale detta norma non trova applicazione. I Giudici di Milano, ribadendo quanto già sancito dalla pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite n. 23367/2016, sul punto affermano che “nella materia previdenziale a differenza che in quella civile, il regime della prescrizione già maturata è sottratto, ai sensi dell’art. 3, comma 9, della n. 335, alla disponibilità delle parti, sicchè una volta esaurito il termine, la prescrizione ha efficacia estintiva – non già preclusiva- in quanto l’ente previdenziale creditore non potrà rinunziarvi”.
Per quanto detto, dunque, i contribuenti, tutti, non possono versare contributi previdenziali prescritti, di contro l’Inps non può trattenere (indebitamente) tali somme.

fonte: www.altalex.com

Ferrara: il ministro Bonisoli stoppa l’ampliamento del Palazzo dei Diamanti, insorgono gli architetti

Il ministro dei Beni Culturali Alberto Bonisoli ha ufficialmente bloccato, a due ore dalla scadenza del termine previsto dal “silenzio assenso” il discusso e imponente progetto di riqualificazione e ampliamento di Palazzo dei Diamanti. Nei giorni scorsi, contro l’iniziativa si era ampiamente schierata la Fondazione Cavallini-Sgarbi e il critico d’arte aveva presentato sull’argomento un’interpellanza urgente al ministro. Che ha inviato alla Soprintendenza l’ordine di bloccare il progetto, scatenando le polemiche degli architetti di Roma e del sindaco di Ferrara che da oltre due anni seguiva la metamorfosi.
«Le notizie che arrivano da Ferrara e che riguardano lo stop all’ampliamento di Palazzo dei Diamanti costituiscono un precedente pericoloso, oltre che antistorico e anticontemporaneo. Per questo l’Ordine degli Architetti di Roma, a difesa dei suoi iscritti e dell’intera categoria, ha deciso di prendere posizione rispetto alla risoluzione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali che di fatto blocca il progetto, scavalcando la Soprintendenza e bypassando le regole». Secondo gli architetti, «senza voler entrare nel merito della vicenda locale, non è ammissibile infatti che i vincitori di procedure trasparenti, dopo aver impegnato tempo e risorse nell’elaborazione dei progetti, si vedano privati dalla possibilità di esercitare. Del resto non è la prima volta che gli architetti sono protagonisti di simili spiacevoli vicende».
Per questo l’Ordine degli Architetti di Roma fa appello al Ministro Bonisoli affinché, a tutela delle professionalità dell’intera categoria, non ripeta gli errori del passato, vanificando gli sforzi dell’Ordine che ogni giorno lavora per dare credibilità alle procedure investendo sulla diffusione della “cultura” del concorso di progettazione, puntando in particolare al concorso in due fasi.
Poco fa è arrivata anche il commento di Vittorio Sgarbi, che al Maxxi ha commentato: «Non c’è un vincitore, né uno sconfitto. Vincere un concorso non significa realizzarlo automaticamente. Questo #Palazzo Diamanti è un progetto impossibile. La vittoria dell’Italia della tutela». Immediata la controreplica di Chiara Tonelli, Professore universitario e Consigliere dell’Ordine degli Architetti: “Siamo in un paese, culla dell’architettura mondiale, in cui si è intervenuti nel corso delle epoche per sovrapposizione di stili: oggi invece sul contemporaneo non si riesce ad andare avanti”. A proposito dei concorsi, Tonelli aggiunge: «Oggi la credibilità della strumento del concorso di progettazione viene minato in quanto sottoposto a un veto; perché il codice degli appalti continua a proporre questa procedura se poi regolarmente viene bloccata? Di concorsi vinti e mai eseguiti ne è piena la storia italiana recente».

fonte: www.lastampa.it

La breve durata del segnale giallo al semaforo non esclude la sanzione

Se dagli accertamenti tecnici risulta un regolare funzionamento del sistema di segnalazione luminosa,dedurre la breve durata della luce semaforica gialla “di avvertenza” non è sufficiente per sottrarre un automobilista dalla sanzione amministrativa per violazione della segnaletica stradale.
Sul tema la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 567, depositata l’11 gennaio 2019.
La vicenda. Un conducente prosegue la marcia non osservando il segnale rosso d’arresto impartito dal semaforo e nei suoi confronti la Polizia Municipale emette un verbale nel quale accerta la violazione dell’art. 146 del codice della strada.
Avverso tale verbale l’automobilista propone opposizione sostenendo che la durata di proiezione della luce semaforica gialla sia stata così breve da non consentire «l’arresto in sicurezza del veicolo all’apparire della luce rossa».
Secondo i Giudici del Tribunale la prova dell’insufficiente durata della luce gialla avrebbe dovuto essere fornita dall’automobilista e nel caso concreto non è stata dimostrata.
Di conseguenze l’automobilista ricorre in Cassazione sostenendo la violazione delle disposizione del codice civile in tema dell’onere probatorio, poiché, a suo dire, dimostrare l’adeguatezza dei tempi di permanenza della luce semaforica gialla sarebbe un dovere del Comune.
Gli adeguati accertamenti. Riguardo la dedotta violazione delle norme sull’onere della prova, la Corte di Cassazione ritiene che gli accertamenti svolti dal Tribunale non contengano lacune. Dalle risultanze della sentenza impugnata emerge, infatti, che l’esclusione dell’insufficiente durata della luce semaforica gialla è stata la conseguenza del cronometraggio effettuato dagli organi della Pulizia Municipale (verifica che ha comprovato l’adeguatezza del segnale stradale rispetto alla normativa di settore). Inoltre, è stato depositato «il certificato di omologazione e il verbale di collaudo e di verifica annuale» circa il corretto funzionamento del sistema di segnalazione luminosa.
In conclusione, considerato che sulla base degli accertamenti eseguiti in sede d’appello risulta che il segnale d’arresto rosso – sistema correttamente funzionante – era già scattato ancor prima che il veicolo attraversasse la linea semaforica, la Cassazione rigetta il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it

mercoledì 16 gennaio 2019

Video Facebook di Bonafede su Battisti in carcere, esposto dei penalisti contro il ministro

La Camera Penale di Roma è pronta a presentare un esposto in relazione al video pubblicato ieri dal profilo Facebook del ministro della giustizia, Alfonso Bonafede, in cui si riprendono le varie fasi dell’arrivo di Cesare Battisti in Italia, comprese le procedure di fotosegnalamento effettuato negli uffici della Questura della Capitale e quelle relative alle impronte digitali.
Per il sindacato dei penalisti romani, presieduto da Cesare Placanica, si tratta di una iniziativa che potrebbe configurare alcuni reati tra quali quello previsto dall’articolo 114 del codice di procedura che vieta «la pubblicazione dell’immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica» e quella prevista dall’articolo 42 bis dell’ordinamento penitenziario che prevede che «nelle traduzioni sono adottate le opportune cautele per proteggere i soggetti tradotti dalla curiosità del pubblico e da ogni specie di pubblicità».
Già ieri l’Unione delle Camere Penali, in una nota, aveva affermato che «quanto accaduto in occasione dell’arrivo a Ciampino è una pagina tra le più vergognose e grottesche della nostra storia repubblicana. È semplicemente inconcepibile che due Ministri del Governo di un Paese civile abbiano ritenuto di poter fare dell’arrivo in aeroporto di un detenuto, pur latitante da 37 anni e finalmente assicurato alla giustizia del suo Paese, una occasione, cinica e sguaiata, di autopromozione propagandistica».

fonte: www.lastampa.it

Pedopornografia, inoltro via Facebook meno grave di pubblicazione su sito aperto

Inoltrare via Facebook foto e video pedopornografici ad un soggetto determinato integra un'ipotesi meno grave rispetto alla pubblicazione su di un sito accessibile a tutti. In questi casi, dunque, si applica il comma 4, e non 3, dell'articolo 600-ter del codice penale che punisce con la reclusione fino a tre anni (e non da 1 a 5 anni, come il comma precedente) chi commette il reato. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza del 15 gennaio 2019 n. 1647. Il caso riguardava tre persone di origine slava – due fratelli e la moglie di uno dei due – condannati per sottrazione di minori e violenza sessuale. Gli imputati dopo aver portato via nottetempo una ragazzina di quindici anni da una comunità, in provincia di Salerno, in cui era stata collocata dal Tribunale, ne avevano abusato sessualmente. Proposto ricorso, la III Sezione ha confermato le condanne. Riguardo l'ulteriore reato commesso da uno dei due fratelli e cioè l'invio del materiale pornografico ad un amico, dopo essersi ritratto col proprio cellulare durante i rapporti, la Corte afferma che: «Sussiste il delitto di cui all'art. 600 ter comma 3 c.p. qualora il soggetto inserisca foto pornografiche minorili in un sito accessibile a tutti, ovvero quando le propaghi attraverso internet, inviandole a un gruppo o lista di discussione da cui chiunque le possa scaricare, mentre è configurabile l'ipotesi più lieve di cui al comma 4 dell'art. 600 ter, quando il soggetto invii dette foto a una persona determinata allegandole a un messaggio di posta elettronica o, come avvenuto nel caso di specie, tramite il profilo Facebook del destinatario del messaggio, sicché solo questi abbia la possibilità di prelevarle». 
Non può invece applicarsi il diverso articolo 600 quater cod. pen. – Detenzione di materiale pornografico – in quanto, come ribadito di recente dalle Sezioni Unite (sentenza n. 51815/2018), tale reato «sanzionando le condotte del “procurarsi” e del “detenere” materiale pedopornografico, ha natura residuale e di norma di chiusura, rappresentando cioè l'ultimo anello di una catena di condotte illecite di lesività decrescente, che iniziano con la produzione e proseguono con la commercializzazione e con le attività di diffusione e di cessione de materiale pedopornografico, condotte queste autonomamente sanzionate dai primi 4 commi dell'art. 600 ter c.p.». Dunque, dal momento che il comportamento dell'imputato non è consistito «nella mera detenzione o nel solo procacciamento del materiale pedopornografico, ma nella diversa e più grave condotta di cessione a un soggetto determinato del video e delle foto ritraenti la minore nel compimento di atti sessuali, non vi è spazio per l'applicazione della norma residuale, a nulla rilevando né la gratuità della cessione, né la circostanza che, dopo l'invio delle immagini, le stesse siano state cancellate (dall'autore, ndr) non elidendo tale condotta il disvalore penale insito nella precedente trasmissione dei contenuti visivi pornografici».
fonte: CassaForense

Maggiorenne senza permesso di soggiorno espulso malgrado la convivenza con i genitori e la scuola

Al figlio maggiorenne che entra o resta illegalmente in Italia non basta, per evitare l'espulsione, né la convivenza con i genitori né la scuola professionale frequentata con profitto. Elementi che non provano l'effettività del legame familiare, che può essere desunto da una serie di parametri, dalla dipendenza economica alle difficoltà che si possono incontrare in caso di espulsione. La Corte di cassazione, con la sentenza 781, accoglie il ricorso del ministero dell'Interno contro il decreto con il quale il giudice di pace aveva affermato che l'espulsione del ragazzo di 22 anni avrebbe compromesso la sua regolarizzazione. Il giudice di prima istanza aveva valorizzato l'inserimento sociale e familiare del giovane che viveva con i suoi genitori e frequentava con buoni risultati un istituto professionale. Per la Cassazione non basta, alla luce delle norme vigenti che non escludono l'espulsione - pur calibrandola sulle singole situazioni personali – neppure quando sono in gioco altri diritti fondamentali della persona di pari, se non superiore, rango. Per essere in linea con la nozione di “legami familiari” - che devono essere particolarmente stretti - il giudice deve valutare la loro effettiva consistenza desumendola da vari elementi oggettivi.
E la Cassazione li elenca: l'esistenza di un rapporto di coniugio, la durata di un matrimonio, la nascita di figli e la loro età, la convivenza, altri fattori che testimoniano l'effettività di una vita familiare, la dipendenza economica dei figli maggiorenni e dei genitori e le difficoltà che il coniuge o i figli rischiano di affrontare in caso di espulsione. Il fine della verifica è quello di interpretare la clausola della coesione familiare, in funzione ostativa all'espulsione, in modo coerente con le norme vigenti. I giudici ricordano che la stessa Consulta ha affermato di non poter interferire nelle scelte di politica nazionale in tema di immigrazione, riconoscendo al legislatore un'ampia discrezionalità. La Suprema corte sottolinea inoltre che gli altri criteri indicati dalla legge sull'immigrazione - dalla durata del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale, all'esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il paese d'origine - sono integrativi ma non servono in assenza dei presupposti per affermare la coesione familiare. Il decreto impugnato è dunque annullato con rinvio al giudice di pace, che aveva accolto l'istanza del ragazzo, oggetto di un provvedimento di espulsione per essere rimasto in Italia malgrado la scadenza del permesso per ragioni turistiche con il quale era arrivato dall'Albania. Il nuovo giudizio dovrà essere emesso usando un metro più restrittivo.

fonte: CassaForense

martedì 15 gennaio 2019

#Stalking: condanna anche con una sola telefonata e pochi messaggi WhatsApp

Per la configurazione del reato di stalking, anche in assenza di un incontro fisico tra vittima ed imputato, sono sufficienti pochi messaggi via WhatsApp ed una telefonata dal tono minaccioso, che portano a modificare le abitudini della persona offesa. È quanto stabilito dalla Cassazione penale con sentenza 2 gennaio 2019, n. 61.
Con la pronuncia in esame, la Corte di Cassazione, nel ribadire i principi già espressi in altre sentenze, chiarisce che - indipendentemente dall’incontro fisico tra vittima e imputato – il reato di atti persecutori si configura nel momento in cui la condotta minacciosa del reo destabilizzi l’equilibrio psichico della persona offesa.
In primo luogo, la Corte individua nel contenuto di vari messaggi WhatsApp e di una conversazione telefonica le gravi “intrusioni” perpetrate nella sfera intima della persona offesa che, indipendentemente dal limitato arco temporale nel quale si erano verificate, assumono rilevanza penale per l’intensità del loro contenuto.
Infatti, accertato che il tenore di dette comunicazioni era chiaramente minaccioso (ad es. ti faccio vedere io) e che si faceva riferimento esplicito alla famiglia dell’interlocutrice ed alla città nella quale viveva, per i Giudici della Cassazione risulta credibile il racconto della persona offesa la quale aveva riferito che, dopo tali conversazioni, nel timore che l’imputato potesse raggiungerla, aveva modificato il proprio stile di vita, pernottando, provvisoriamente, presso un’altra abitazione e sospendendo la propria attività professionale.
Partendo da questi presupposti, la Suprema Corte di Cassazione ha considerato integrato il reato de quo posto che si era realizzato l'evento di danno richiesto dalla norma, escludendo, al contempo, che il comportamento tenuto dall’imputato potesse rientrare nelle fattispecie meno gravi di molestie o minacce.
Pertanto, i Giudici di legittimità hanno ritenuto configurato il reato di cui all'art. 612-bis c.p. sul presupposto che l’imputato, con una telefonata e 12 messaggi di WhatsApp inviati, avesse adottato reiteratamente un comportamento persecutorio idoneo a cagionare nella vittima uno dei tre eventi, alternativamente previsti, dalla norma incriminatrice.
Sul punto è bene precisare che il delitto di stalking rientra nella categoria dei reati abituali e si differenzia dal reato di minaccia e molestia in quanto richiede, innanzitutto, la presenza di condotte reiterate, anche in tempi e contesti differenti, e tali condotte devono cagionare alla vittima, alternativamente, un perdurante e grave stato di ansia o di paura, oppure un fondato timore per l'incolumità propria, di un prossimo congiunto o di persona legata alla vittima da una relazione affettiva, oppure l'alterazione delle abitudini di vita della persona offesa.
Con riferimento alla reiterazione, sebbene la stessa costituisce un requisito essenziale del reato, non è necessaria una lunga sequela di azioni delittuose, viceversa - dopo orientamenti altalenanti – si è oramai pacificamente affermato il principio in base al quale si considera consumato il suddetto reato anche in presenza di due soli episodi di minaccia o molestia, se abbiano cagionato alla vittima un perdurante stato di ansia o di paura per la propria o altrui incolumità o che si sia vista costretta a modificare le proprie abitudini di vita.
Quanto al contenuto di tali condotte è bene precisare che, già in precedenza, la giurisprudenza ha ritenuto configurato il delitto di cui all’art. 612 bis c.p. indipendentemente dalla presenza fisica dello stalker.
Pertanto, oltre ai comportamenti di semplice controllo quali i pedinamenti, le visite sotto casa o sul posto di lavoro, sono stati considerati atti persecutori anche il ripetuto invio di e-mail, sms, messaggi sui social network, telefonate, lettere e persino murales e graffiti, tutti dal contenuto ingiurioso, minaccioso o sessualmente offensivo.
Appare opportuno chiarire che l’elencazione appena fatta individua le condotte che sono state più frequentemente denunciate e, pertanto, non deve essere considerata esaustiva ma semplicemente esemplificativa.
Con riferimento al perdurante e grave stato di ansia o di paura sofferto dalla persona offesa, la giurisprudenza maggioritaria ritiene che, ai fini della sussistenza del reato de quo, sia sufficiente che gli atti persecutori abbiano avuto un effetto destabilizzante della serenità e dell'equilibrio psicologico della vittima, non ritenendo pertanto, necessario l'accertamento di uno stato patologico, precisando, altresì che “lo stato d'ansia e di paura deve essere accertato mediante l'osservazione di segni e indizi comportamentali, desumibili dal confronto tra la situazione pregressa e quella conseguente alla condotta dell'agente”(Cfr. Cass. pen., Sez. V, 14/4/2015, n. 28703).
Mentre per quanto riguarda il fondato timore che si ingenera nella persona offesa per la propria incolumità o per quella di un soggetto terzo, per così dire, qualificato per la consumazione del reato occorre accertare la concretezza e l'oggettività della situazione di paura vissuta dalla vittima.
Infine, per quanto concerne il riferimento all'alterazione delle proprie abitudini di vita occorre verificare se la vittima, a seguito dell'intrusione rappresentata dall'attività persecutoria, ha modificato quel complesso di comportamenti che una persona solitamente mantiene nell'ambito familiare, sociale e lavorativo.
Per quanto concerne l'elemento soggettivo del reato la sentenza in commento, ribadisce, infine, il principio consolidato secondo il quale “nel delitto di atti persecutori, l'elemento soggettivo è integrato dal dolo generico, che consiste nella volontà di porre in essere le condotte di minaccia e molestia nella consapevolezza della idoneità delle medesime alla produzione di uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice; esso, avendo ad oggetto un reato abituale di evento, deve essere unitario, esprimendo un'intenzione criminosa che travalica i singoli atti che compongono la condotta tipica, anche se può realizzarsi in modo graduale, non essendo necessario che l'agente si rappresenti e voglia fin dal principio la realizzazione della serie degli episodi”.
Non è necessaria, dunque, una rappresentazione anticipata del risultato finale, essendo sufficiente la coscienza e la volontà delle singole condotte con la consapevolezza che ognuna di esse andrà ad aggiungersi alle precedenti formando un insieme di comportamenti offensivi.
Tant’è che si parla di dolo in "itinere" quale rappresentazione di tutti gli episodi già posti in essere, della loro frequenza e del nesso che li collega all'ulteriore apporto criminoso.
Dalla lettura dell’intera sentenza si evince che i Giudici, nel confermare i principi già espressi in precedenti pronunce, hanno voluto ribadire che per la configurazione del reato di stalking non è necessario né un arco temporale ampio né tanto meno un numero elevato di telefonate o messaggi dal contenuto minaccioso.

fonte: quotidianogiuridico.it

sabato 12 gennaio 2019

Nuova famiglia di fatto? Addio al mantenimento per l’ex

La moglie presentava ricorso contro la sentenza con cui la Corte d’Appello di Perugia aveva revocato l’assegno di mantenimento corrisposto dal marito in suo favore in considerazione del fatto che ella aveva costituto una nuova famiglia di fatto.
La nuova famiglia di fatto esclude il mantenimento. La Cassazione si è allineata al suo consolidato orientamento secondo cui anche in tema di separazione dei coniugi, la convivenza stabile e continuativa, intrapresa con un’altra persona può comportare la cessazione dell’obbligo di corrispondere l’assegno di mantenimento che grava sull’altro.
Tale conseguenza trova la sua giustificazione nel principio di autoresponsabilità, «ossia nel compimento di una scelta consapevole e chiara, orgogliosamente manifestata con il compimento di fatti inequivoci» per aver dato luogo a una unione stabile e continuativa «che si è sovrapposta con effetti di ordine diverso, al matrimonio, sciolto o meno che sia».
In caso di separazione legale dei coniugi e di formazione di un nuovo nucleo familiare di fatto da parte del coniuge beneficiario del mantenimento, indipendentemente dalla risoluzione del rapporto coniugale, avviene una rottura tra il preesistente modello di vita e il nuovo assetto fattuale di rilievo costituzionale in quanto espressamente voluto e cercato dal coniuge beneficiario della solidarietà (ancora) coniugale.
La ricerca, la scelta e il concreto perseguimento di un diverso assetto di vita familiare da parte del beneficiario «fa scaturire un riflesso incisivo dello stesso diritto alla contribuzione periodica, facendola venire meno».
A nulla rileva la possibilità che i coniugi non divorziati possano astrattamente ricomporre la propria vita in comune in seguito a un ripensamento: anche in questo caso l’assegno non rivivrebbe ma tornerebbe a operare il precedente assetto di vita caratterizzato dalla ripresa della convivenza.
Per questi motivi, la Corte ha respinto il ricorso.

Fonte: ilfamiliarista.it


martedì 8 gennaio 2019

Mazza da baseball in auto? E' reato se manca il giustificato motivo

La Cassazione conferma la sentenza del Tribunale di Trento che, previo riconoscimento della fattispecie di lieve entità di cui alla L. 110 del 1975, art. 4 comma 3, aveva condannato l’imputato che si era reso responsabile del reato di porto ingiustificato di strumento atto ad offendere, per essere stato trovato in possesso di una mazza da baseball lunga 60 cm.
E’ quanto ha statuito la Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza n. 55037 del 10.12.2018 (ud. 6.11.2018).
Il difensore proponeva ricorso per cassazione, denunciando, con il primo motivo, inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione al disposto della L. n. 110 del 1975, art. 4, e motivazione contraddittoria ed illogica, se non assente. Con il secondo motivo, inosservanza e/o erronea applicazione della L. n. 110 del 1975, art. 4, comma 2.  In sostanza, secondo il ricorrente, il Tribunale non aveva considerato che nel caso specifico difettavano gli elementi costitutivi del reato poiché la mazza rinvenuta in suo possesso non costituiva oggetto atto ad offendere, essendo di ridotte dimensioni ed inoffensiva, oltre che utilizzata in ambito sportivo quale oggetto di libera vendita. In aggiunta, la mazza in sequestro non poteva in alcun modo considerarsi un'arma, ma solo un oggetto decorativo o con finalità pubblicitaria, recante la denominazione della squadra calcistica di cui l'imputato era tifoso.
Secondo la Suprema Corte, l’assunto difensivo non aveva individuato un’unica, precisa e verificabile giustificazione del porto fuori la propria abitazione di una mazza da baseball. Invero, nel caso di specie, la difesa aveva richiamato evenienze teoriche e possibili in natura, senza però offrire una giustificazione positivamente riscontrabile, rapportata al caso concreto. Si era limitata a prospettare, in via astratta ed ipotetica, che la mazza fosse stata detenuta per la passione sportiva per il gioco del baseball o quale gadget della squadra calcistica dell’imputato, ovvero per mero ricordo di viaggio, in ogni caso per scopi del tutto leciti. L’art. 4 co.2 della Legge 110 del 1975 richiede invece espressamente che il porto fuori dalla propria abitazione o dalle pertinenze di essa, di strumenti atti ad offendere, costituisce reato alla sola condizione che esso avvenga “senza giustificato motivo” ed a prescindere quindi dall'ulteriore condizione che esso appaia “chiaramente utilizzabile, per le condizioni di tempo e di luogo, per l'offesa della persona”.
Il Supremo Collegio sottolinea come la giurisprudenza di legittimità detta i criteri per ricostruire la fattispecie di porto ingiustificato di strumento atto ad offendere, nel senso che il “giustificato motivo” del porto degli oggetti di cui alla L. 18 aprile 1975, n. 110, art. 4, comma 2, ricorre solo quando particolari esigenze dell'agente siano perfettamente corrispondenti a regole comportamentali lecite, relazionate alla natura dell'oggetto, alle modalità di verificazione del fatto, alle condizioni soggettive del portatore, ai luoghi dell'accadimento, alla normale funzione del bene (Cass. sez. 1, n. 9662 del 03/10/2013, dep. 27/02/2014, Dibra, rv. 259787; sez. 1, n. 4498 del 14/01/2008, Genepro, Rv. 238946; sez. 1, n. 41098 del 23/9/2004, Caruso, rv. 230630; sez. 1, n. 580 del 5/12/1995, Paterni, rv. 203466).
Il Supremo Collegio condividendo le conclusioni del Tribunale respinge il ricorso dell’imputato in quanto il giustificato motivo rilevante ai sensi della normativa contestata, non è quello dedotto a posteriori dall'imputato o dalla sua difesa, ma quello espresso immediatamente, in quanto riferibile all'attualità e suscettibile di una immediata verifica da parte degli agenti verbalizzanti (sez. 1, n. 18925 del 26/02/2013, Carrara, rv. 256007; sez. 1, n. 4696 in data 14/01/1999, Zagaria, rv. 213023).
Tali indicatori non sono stati nemmeno presi in considerazione nell'impugnazione, che, per la sua astrattezza e la trattazione dei relativi temi in termini generali e soltanto possibilistici, risulta inammissibile, poiché non consente di ravvisare i vizi della sentenza impugnata denunciati, sentenza che, seppur per implicito, ha escluso che la condotta avesse trovato una plausibile ragione lecita.
Quanto al secondo motivo, che investe il giudizio di responsabilità sotto il profilo della potenzialità dell'uso offensivo dell’oggetto portato in luogo pubblico, al di là delle contingenze del singolo momento, la Corte ritiene che siffatto accertamento non sia stato dedotto dalla difesa nel corso del giudizio di prima grado, ma solo con il ricorso per cassazione, incorrendo così nella sanzione della inammissibilità per difetto di prova.
Il ricorso viene dunque rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

fonte: www.altalex.com

Legittima la riduzione del canone se l’immobile presenta vizi

È legittima la riduzione del canone di locazione di un immobile adibito ad abitazione se sussiste un vizio che impedisca il godimento totale o che apporti una riduzione notevole del godimento.
Tizio e Caia (conduttori) avevano chiesto al giudice la responsabilità di Sempronio (locatore) per vizi dell’immobile, con conseguente risarcimento del danno e riduzione del canone. Costituendosi in giudizio il locatore aveva chiesto la condanna delle controparti a risarcirgli i danni che avrebbe subito per le opere rese necessarie dalla spruzzatura a calce del sottotetto eseguita senza autorizzazione dai conduttori.
In primo grado era stata accolta parzialmente la domanda con contestuale riduzione del canone.  In secondo grado, la Corte d’Appello aveva ritenuto che il vizio, consistente in umidità, giustificava la riduzione del canone per la durata del contratto, e che l’ulteriore vizio da infestazione di zecche legittimava la riduzione del canone per un determinato periodo. Avverso tale decisione, il locatore ha proposto ricorso innanzi alla Corte di Cassazione, la quale ha confermato il ragionamento espresso in Appello.
Infatti, a parere della Suprema Corte, i conduttori avevano provato di non aver goduto dell’immobile a causa dell’umidità e della presenza di zecche.
Del resto, nel rapporto locativo, la sospensione totale o parziale dell’adempimento dell’obbligazione del conduttore è legittima solo qualora venga completamente a mancare la controprestazione. Per le suesposte ragioni, il ricorso è stato rigettato.

Fonte: condominioelocazione.it

sabato 5 gennaio 2019

Buchi contributivi riscattabili fino a 5 anni

Riscattabili i «buchi contributivi». Con la pace fiscale, infatti, chi ha una carriera discontinua potrà coprire fino a cinque anni di anzianità contributiva, valida sia ai fini del diritto sia della misura della pensione, mediante riscatto dei periodi non lavoratori. L'opportunità interessa solamente i lavoratori iscritti all'Inps, compresa la gestione separata, rientranti in pieno nel regime «contributivo» di calcolo della pensione (soggetti che non hanno alcun contributo versato fino al 31 dicembre 1995). Il costo del riscatto (pari ai contributi calcolati sull'ultima retribuzione/reddito) è detraibile per il 50% dall'Irpef, in cinque rate annuali. È quanto prevede la bozza di decreto attuativo della riforma delle pensioni, che verrà approvato dal consiglio dei ministri la prossima settimana, quale misura sperimentale per il biennio 2019/2020.
Il riscatto dei buchi. La misura è destinata ad agevolare i soggetti più giovani (che hanno cioè iniziato a lavorare dopo il 1995) con carriere discontinue. Si tratta di una facoltà di riscatto senza altra causa se non quella, appunto, del «buco contributivo»: di periodi, cioè, non già coperti da contribuzione, comunque versata e accreditata, presso forme di previdenza obbligatoria. I periodi riscattabili sono quelli compresi tra la data di prima iscrizione alla previdenza (necessariamente dopo il 31 dicembre 1995) e l'ultimo contributo versato all'Inps (sono escluse le casse professionali); di questi periodi, il lavoratore ha facoltà di scegliere quali e quanti riscattare, nel limite massimo di cinque anni, anche se non continuativi. Come detto la facoltà è riservata esclusivamente ai soggetti in regime contributivo, che cioè non hanno contributi versati prima del 1° gennaio 1996; l'eventuale acquisizione del diritto a contributi antecedenti alla predetta data (così da transitare nel regime «misto» delle pensioni»), successivamente al riscatto, comporterà l'annullamento d'ufficio del riscatto con conseguente restituzione dei contributi.
Il costo del riscatto. La facoltà del riscatto è esercitata a domanda dell'interessato o anche dei suoi superstiti (in tal caso, evidentemente, al fine di raggiungere il «minimo» per una pensione di reversibilità) o dei suoi parenti e affini fino al secondo grado. Per il calcolo dell'onere del riscatto si utilizzano gli stessi criteri previsti per il riscatto della laurea (art. 2, comma 5, del dlgs n. 184/1997), ossia applicando l'aliquota contributiva vigente nella gestione presso la quale è stata fatta domanda di riscatto a una retribuzione/reddito pari a quella/quello meno remota rispetto alla data di presentazione della domanda di riscatto. Ad esempio, un co.co.co. con compenso annuo di 20 mila euro dovrebbe pagare 6.600 euro per riscattare un anno di contributi; 550 per un mese e 3.300 euro per sei mesi (gli importi sono gli stessi per un dipendente con stessa retribuzione). Un professionista senza cassa, iscritto alla gestione separata, avente lo stesso reddito, invece, dovrebbe pagare 5.000 per un anno; 417 euro per un mese e 2.500 euro per sei mesi. L'onere del riscatto può essere sostenuto anche dal datore di lavoro, attingendo eventualmente dai premi di produzione spettanti al lavoratore.
Le agevolazioni. Due le agevolazioni. La prima è di natura fiscale e prevede che l'onere del riscatto è detraibile dall'imposta lorda in misura del 50% con una ripartizione in cinque quote annuali costanti e dello stesso importo. Ciò vuole dire che la metà del riscatto è pagata dallo stato. La seconda agevolazione è nel pagamento; oltre al versamento in unica soluzione, l'interessato può decidere di pagare il riscatto in forma dilazionata, in massimo 60 rate mensili, ciascuna di pari importo non inferiore a 30 euro, senza applicazione di interesse per la rateizzazione.
Quando può servire il riscatto? La misura, come detto, si presta a coprire «buchi» contributivi per quei lavoratori con carriere discontinue (co.co.co, lavoratori a termine, etc.). Per ipotesi, allora, potrebbe tornare utile a un lavoratore che, avanti con l'età, sia in possesso di 15 anni di contributi dal 1996: potrebbe fare domanda di riscatto per un periodo di cinque anni, così da raggiungere il minimo dei 20 anni di contributi che occorrono per la pensione, e il giorno dopo fare domanda di pensione. In tal caso, e in tutti i casi in cui i periodi di riscatto vengono utilizzati per liquidare una pensione o per l'accoglimento di una domanda di autorizzazione ai versamenti volontari, tutto il riscatto va pagato in unica soluzione.

fonte: www.italiaoggi.it

Decurtazione di 5 punti patente per chi circola senza copertura assicurativa

L'art. 23 bis del D.L. 28 ottobre 2018, n. 119, convertito, con modificazioni, nella L. 17 dicembre 2018, n. 136, ha disposto l'inserimento dell'art. 193 comma 2, c.s. nella tabella punti dell'art. 126 bis c.s. prevedendo la decurtazione di 5 punti per chiunque circola senza la copertura dell'assicurazione. Nei casi indicati dal comma 2 bis - così come inserito dal medesimo art. 23 bis - la sanzione amministrativa pecuniaria è raddoppiata
Il nuovo comma 2 bis ha poi previsto che quando lo stesso soggetto sia incorso, in un periodo di due anni, in una delle violazioni di cui al comma 2 per almeno due volte, all'ultima infrazione consegue altresì la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente da uno a due mesi, ai sensi del titolo VI, capo I, sezione II. In tali casi, in deroga a quanto previsto dal comma 4, quando è stato effettuato il pagamento della sanzione in misura ridotta ai sensi dell'articolo 202 e corrisposto il premio di assicurazione per almeno sei mesi, il veicolo con il quale è stata commessa la violazione non è immediatamente restituito ma è sottoposto alla sanzione amministrativa accessoria del fermo amministrativo per quarantacinque giorni, secondo le disposizioni del titolo VI, capo I, sezione II, decorrenti dal giorno del pagamento della sanzione prevista. La restituzione del veicolo è in ogni caso subordinata al pagamento delle spese di prelievo, trasporto e custodia sostenute per il sequestro del veicolo e per il successivo fermo, se ricorrenti, limitatamente al caso in cui il conducente coincide con il proprietario del veicolo

giovedì 3 gennaio 2019

Detenuto suicida: il Ministero deve risarcire i familiari

Spetta il risarcimento ai familiari del detenuto suicida che aveva manifestato il proprio intento, qualora l’amministrazione penitenziaria non abbia posto in essere tutte le misure idonee a prevenire l’evento. Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 30985 del 30 novembre 2018.
Il caso. Un uomo, arrestato per presunta violenza sessuale, durante la sua detenzione si toglie la vita, impiccandosi. Dal momento che aveva già dichiarato la propria intenzione suicida, ma ciò nonostante non era stato posto in regime di sorveglianza speciale, né posto in regime comune, come richiesto dal giudice di turno, i suoi familiari si rivolgono al Tribunale di Catanzaro per ottenere dal Ministero della Giustizia il risarcimento del danno per omessa vigilanza. Il giudice di prime cure condanna il Ministero al pagamento di € 195.696,00 a titolo di risarcimento del danno, ma la Corte d’appello accoglie la richiesta del Ministero, sottolineando come non fosse prevedibile, né prevenibile l’evento suicida, ritenendo il collegamento causale tra comportamento dell’amministrazione penitenziaria e la morte dell’uomo fosse da considerarsi interrotto dall’eccezionalità dell’evento. La Corte territoriale aveva specificato che, nonostante non fosse rinvenibile alcun intento suicida, l’uomo era stato posto in regime di grande sorveglianza, ossia guardato a vista ogni 20 minuti, che il colloquio psicoterapico era stato svolto senza esiti apprezzabili e che il detenuto era in una cella singola in attesa di destinazione definitiva.
I congiunti ricorrono dunque per la Cassazione della sentenza.
Prevenzione del suicidio. La Suprema Corte ritiene fondato il ricorso dei familiari, poiché non erano state effettivamente adottate tutte le misure idonee a prevenire il suicidio, la cui intenzione era stata chiaramente manifestata dall’uomo. Precisa infatti che non è possibile affermare che l’amministrazione penitenziaria abbia adottato tutte le misure idonee ad evitare l’evento; dichiara la Corte che circostanza decisiva doveva considerarsi, inoltre, il fatto che l’uomo non era stato sottoposto ad alcuna «osservazione funzionale a verificarne la capacità di affrontare adeguatamente lo stato di restrizione e ciò in quanto al momento dell’ingresso in carcere non c’erano ne l’educatore, né lo psicologo».
Evidente la responsabilità dell’amministrazione. Decisiva, infine, secondo la Cassazione, l’inottemperanza all’ordine del PM di sottoporre il detenuto a regime di detenzione in regime comune, poiché è «incontestabile, sul piano causale che, ove il detenuto fosse stato sottoposto a regime di detenzione comune, come peraltro chiesto dal PM, i suoi intenti suicidari sarebbero stati impediti o comunque resi di assai più ardua realizzazione dalla presenza di altri detenuti».
La Terza Sezione cassa la 3sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello, che dovrà riesaminare la questione stabilendo il quantum del risarcimento.

Fonte: www.ridare.it


Decreto Fiscale: modifiche al Codice della Strada sull’obbligo della Rca

L’art. 23 bis D.L. 23 ottobre 2018, n. 119, convertito con modificazioni dalla L. 17 dicembre 2018, n. 136 recante disposizioni urgenti in materia di circolazione ha introdotto alcune modifiche all’art. 193 D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285.
La norma - introdotta in forma di emendamento durante l’esame al Senato - inasprisce le sanzioni per i trasgressori dell’obbligo di assicurazione per la responsabilità civile, prevedendo per chiunque circoli senza la copertura dell'assicurazione la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 849 a euro 3.396, precisando che nei casi indicati dal comma 2 bis, la sanzione amministrativa pecuniaria è raddoppiata.
Al riguardo va opportunamente precisato che la stipulazione di un contratto di assicurazione della responsabilità civile relativa alla circolazione di un autoveicolo è obbligatoria qualora il veicolo di cui trattasi, pur trovandosi, per sola scelta del suo proprietario, che non ha più intenzione di guidarlo, stazionato su un terreno privato, sia tuttora immatricolato in uno Stato membro e sia idoneo a circolare (Corte Giustizia UE Grande sezione, 4 settembre 2018, n. 80).
In buona sostanza, l’obbligo della copertura r.c.a. sussiste anche se l’autoveicolo è fermo non influendo detta scelta da parte del proprietario dello stesso, sul rispetto dell’obbligo legale assicurativo.
Inoltre, l'illecito previsto dal comma 2 dell'art. 193 ricorre anche nell’ipotesi in cui sia stata sospesa la copertura assicurativa dell’autoveicolo, perchè la sospensione della copertura assicurativa non concerne soltanto i rapporti di natura contrattuale intercorrenti tra l’assicurato e l’assicuratore, riverberando i propri effetti anche sulla posizione di coloro che assumono il ruolo di terzi danneggiati (Cass. civ. sez. II, 13 aprile 2010, n. 8764).
Vieppiù, ove si consideri che l'art. 196 C.d.S. estende al proprietario del veicolo l'obbligo al pagamento delle sanzioni pecuniarie per gli illeciti commessi da altri soggetti tramite quel mezzo: un'obbligazione a titolo solidale con l'effettivo autore della violazione.
Lo stesso art. 196 C.d.S. consente al proprietario del veicolo di esonerarsi da questa presunzione di responsabilità allorchè riesca a fornire la prova che la circolazione del mezzo è avvenuta contro la sua volontà.
Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito la portata della clausola di esonero da responsabilità, affermando il principio che il proprietario del veicolo non può limitarsi a provare che la circolazione sia avvenuta senza il suo consenso (invito domino), ma deve dimostrare che la stessa abbia avuto luogo contro la sua volontà (prohibente domino), il che postula che la volontà contraria si sia manifestata in un concreto ed idoneo comportamento ostativo specificamente rivolto a vietare la circolazione ed estrinsecatosi in atti e fatti rilevatori della diligenza e delle cautele allo scopo adottate (Cass. civ. sez. III, 14 luglio 2011,  n. 15478; Cass. civ. sez. III, 7 luglio 2006,  n. 15521).
In tale ottica, si è quindi precisato che la valutazione della diligenza del proprietario e della sufficienza dei mezzi adottati per impedire la circolazione del veicolo deve essere compiuta secondo un criterio di normalità ed in relazione al caso concreto e che il relativo accertamento è rimesso al giudice di merito, il cui giudizio, se adeguatamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità (Cass. civ. sez. III, 7 luglio 2006,  n. 15521, cit.).
Il comma 2 bis della norma sopra citata, in tema di recidiva, dispone che quando lo stesso soggetto sia incorso, in un periodo di due anni, in una delle violazioni di cui al comma 2 per almeno due volte, all'ultima infrazione consegue altresì la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente da uno a due mesi, ai sensi del titolo VI, capo I, sezione II.
In tali casi, in deroga a quanto previsto dal comma 4, quando è stato effettuato il pagamento della sanzione in misura ridotta ai sensi dell'art. 202 c.d.s. e corrisposto il premio di assicurazione per almeno sei mesi, il veicolo con il quale è stata commessa la violazione non è immediatamente restituito ma è sottoposto alla sanzione amministrativa accessoria del fermo amministrativo per quarantacinque giorni, secondo le disposizioni del titolo VI, capo I, sezione II, decorrenti dal giorno del pagamento della sanzione prevista.
In ordine a tale punto, la giurisprudenza aveva in precedenza affermato il principio che nei contratti di assicurazione della r.c.a. con rateizzazione del premio, una volta scaduto il termine di pagamento della seconda rata di premio, l'efficacia del contratto resta sospesa a partire dal quindicesimo giorno successivo alla scadenza, e tale sospensione è opponibile anche ai terzi danneggiati, ai sensi dell'art. 1901 c.c.. Ne consegue che, una volta spirato il suddetto termine, il veicolo deve ritenersi sprovvisto di assicurazione - e chi l'ha messo in circolazione incorrerà nella relativa sanzione amministrativa - a nulla rilevando che l'assicuratore abbia accettato un pagamento tardivo, che non costituisce rinunzia alla sospensione della garanzia assicurativa ma impedisce la risoluzione di diritto del contratto ex art. 1901 c.c., comma 3 (Cass. civ. sez. III, 14 marzo 2014, n. 5944).
La restituzione del veicolo è in ogni caso subordinata al pagamento delle spese di prelievo, trasporto e custodia sostenute per il sequestro del veicolo e per il successivo fermo, se ricorrenti, limitatamente al caso in cui il conducente coincide con il proprietario del veicolo.
Inoltre la sanzione amministrativa di cui al comma 2 dell’art. 193 c.d.s. è ridotta alla metà quando l'assicurazione del veicolo per la responsabilità verso i terzi sia comunque resa operante nei quindici giorni successivi al termine di cui all'art. 1901, comma 2, c.c.
La sanzione amministrativa di cui al comma 2 è altresì ridotta alla metà quando l'interessato entro trenta giorni dalla contestazione della violazione, previa autorizzazione dell'organo accertatore, esprime la volontà e provvede alla demolizione ed alle formalità di radiazione del veicolo.
In tale caso l'interessato ha la disponibilità del veicolo e dei documenti relativi esclusivamente per le operazioni di demolizione e di radiazione del veicolo previo versamento presso l'organo accertatore di una cauzione pari all'importo della sanzione minima edittale previsto dal comma 2 della stessa norma citata.
Ad avvenuta demolizione certificata a norma di legge, l'organo accertatore restituisce la cauzione, decurtata dell'importo previsto a titolo di sanzione amministrativa pecuniaria.
Tale ultima disposizione introdotta dal legislatore, sembra recepisce un pregresso consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui i veicoli, ancorchè privi di parti essenziali per un'autonoma circolazione o fortemente danneggiati od usurati, non sono esclusi dall'obbligo assicurativo se non risulti la prova della loro assoluta inidoneità alla circolazione e la loro sostanziale riduzione allo stato di rottame, non rilevando in contrario neppure la circostanza che il proprietario abbia raggiunto accordi con terzi per provvedere all'asporto ed alla successiva demolizione (Cass. civ., sez.II, 2 settembre 2008, n. 22035; Cass. civ., sez. I, 29 novembre 2004, n. 22478; Cass. civ. sez. I, 9 maggio 1991, n. 5189; Cass. civ., sez. I, 15 giugno 1988, n. 4086).

fonte: quotidianogiuridico.it

Ferrara: Violentò minore in auto. Condanna a dieci anni per il pedofilo seriale

Ieri la sentenza del Tribunale nei confronti uno straniero di 32 anni. Al termine dell’udienza la vittima, ora maggiorenne, ha pianto. É sta...