martedì 15 gennaio 2019

#Stalking: condanna anche con una sola telefonata e pochi messaggi WhatsApp

Per la configurazione del reato di stalking, anche in assenza di un incontro fisico tra vittima ed imputato, sono sufficienti pochi messaggi via WhatsApp ed una telefonata dal tono minaccioso, che portano a modificare le abitudini della persona offesa. È quanto stabilito dalla Cassazione penale con sentenza 2 gennaio 2019, n. 61.
Con la pronuncia in esame, la Corte di Cassazione, nel ribadire i principi già espressi in altre sentenze, chiarisce che - indipendentemente dall’incontro fisico tra vittima e imputato – il reato di atti persecutori si configura nel momento in cui la condotta minacciosa del reo destabilizzi l’equilibrio psichico della persona offesa.
In primo luogo, la Corte individua nel contenuto di vari messaggi WhatsApp e di una conversazione telefonica le gravi “intrusioni” perpetrate nella sfera intima della persona offesa che, indipendentemente dal limitato arco temporale nel quale si erano verificate, assumono rilevanza penale per l’intensità del loro contenuto.
Infatti, accertato che il tenore di dette comunicazioni era chiaramente minaccioso (ad es. ti faccio vedere io) e che si faceva riferimento esplicito alla famiglia dell’interlocutrice ed alla città nella quale viveva, per i Giudici della Cassazione risulta credibile il racconto della persona offesa la quale aveva riferito che, dopo tali conversazioni, nel timore che l’imputato potesse raggiungerla, aveva modificato il proprio stile di vita, pernottando, provvisoriamente, presso un’altra abitazione e sospendendo la propria attività professionale.
Partendo da questi presupposti, la Suprema Corte di Cassazione ha considerato integrato il reato de quo posto che si era realizzato l'evento di danno richiesto dalla norma, escludendo, al contempo, che il comportamento tenuto dall’imputato potesse rientrare nelle fattispecie meno gravi di molestie o minacce.
Pertanto, i Giudici di legittimità hanno ritenuto configurato il reato di cui all'art. 612-bis c.p. sul presupposto che l’imputato, con una telefonata e 12 messaggi di WhatsApp inviati, avesse adottato reiteratamente un comportamento persecutorio idoneo a cagionare nella vittima uno dei tre eventi, alternativamente previsti, dalla norma incriminatrice.
Sul punto è bene precisare che il delitto di stalking rientra nella categoria dei reati abituali e si differenzia dal reato di minaccia e molestia in quanto richiede, innanzitutto, la presenza di condotte reiterate, anche in tempi e contesti differenti, e tali condotte devono cagionare alla vittima, alternativamente, un perdurante e grave stato di ansia o di paura, oppure un fondato timore per l'incolumità propria, di un prossimo congiunto o di persona legata alla vittima da una relazione affettiva, oppure l'alterazione delle abitudini di vita della persona offesa.
Con riferimento alla reiterazione, sebbene la stessa costituisce un requisito essenziale del reato, non è necessaria una lunga sequela di azioni delittuose, viceversa - dopo orientamenti altalenanti – si è oramai pacificamente affermato il principio in base al quale si considera consumato il suddetto reato anche in presenza di due soli episodi di minaccia o molestia, se abbiano cagionato alla vittima un perdurante stato di ansia o di paura per la propria o altrui incolumità o che si sia vista costretta a modificare le proprie abitudini di vita.
Quanto al contenuto di tali condotte è bene precisare che, già in precedenza, la giurisprudenza ha ritenuto configurato il delitto di cui all’art. 612 bis c.p. indipendentemente dalla presenza fisica dello stalker.
Pertanto, oltre ai comportamenti di semplice controllo quali i pedinamenti, le visite sotto casa o sul posto di lavoro, sono stati considerati atti persecutori anche il ripetuto invio di e-mail, sms, messaggi sui social network, telefonate, lettere e persino murales e graffiti, tutti dal contenuto ingiurioso, minaccioso o sessualmente offensivo.
Appare opportuno chiarire che l’elencazione appena fatta individua le condotte che sono state più frequentemente denunciate e, pertanto, non deve essere considerata esaustiva ma semplicemente esemplificativa.
Con riferimento al perdurante e grave stato di ansia o di paura sofferto dalla persona offesa, la giurisprudenza maggioritaria ritiene che, ai fini della sussistenza del reato de quo, sia sufficiente che gli atti persecutori abbiano avuto un effetto destabilizzante della serenità e dell'equilibrio psicologico della vittima, non ritenendo pertanto, necessario l'accertamento di uno stato patologico, precisando, altresì che “lo stato d'ansia e di paura deve essere accertato mediante l'osservazione di segni e indizi comportamentali, desumibili dal confronto tra la situazione pregressa e quella conseguente alla condotta dell'agente”(Cfr. Cass. pen., Sez. V, 14/4/2015, n. 28703).
Mentre per quanto riguarda il fondato timore che si ingenera nella persona offesa per la propria incolumità o per quella di un soggetto terzo, per così dire, qualificato per la consumazione del reato occorre accertare la concretezza e l'oggettività della situazione di paura vissuta dalla vittima.
Infine, per quanto concerne il riferimento all'alterazione delle proprie abitudini di vita occorre verificare se la vittima, a seguito dell'intrusione rappresentata dall'attività persecutoria, ha modificato quel complesso di comportamenti che una persona solitamente mantiene nell'ambito familiare, sociale e lavorativo.
Per quanto concerne l'elemento soggettivo del reato la sentenza in commento, ribadisce, infine, il principio consolidato secondo il quale “nel delitto di atti persecutori, l'elemento soggettivo è integrato dal dolo generico, che consiste nella volontà di porre in essere le condotte di minaccia e molestia nella consapevolezza della idoneità delle medesime alla produzione di uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice; esso, avendo ad oggetto un reato abituale di evento, deve essere unitario, esprimendo un'intenzione criminosa che travalica i singoli atti che compongono la condotta tipica, anche se può realizzarsi in modo graduale, non essendo necessario che l'agente si rappresenti e voglia fin dal principio la realizzazione della serie degli episodi”.
Non è necessaria, dunque, una rappresentazione anticipata del risultato finale, essendo sufficiente la coscienza e la volontà delle singole condotte con la consapevolezza che ognuna di esse andrà ad aggiungersi alle precedenti formando un insieme di comportamenti offensivi.
Tant’è che si parla di dolo in "itinere" quale rappresentazione di tutti gli episodi già posti in essere, della loro frequenza e del nesso che li collega all'ulteriore apporto criminoso.
Dalla lettura dell’intera sentenza si evince che i Giudici, nel confermare i principi già espressi in precedenti pronunce, hanno voluto ribadire che per la configurazione del reato di stalking non è necessario né un arco temporale ampio né tanto meno un numero elevato di telefonate o messaggi dal contenuto minaccioso.

fonte: quotidianogiuridico.it

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