giovedì 3 gennaio 2019

Detenuto suicida: il Ministero deve risarcire i familiari

Spetta il risarcimento ai familiari del detenuto suicida che aveva manifestato il proprio intento, qualora l’amministrazione penitenziaria non abbia posto in essere tutte le misure idonee a prevenire l’evento. Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 30985 del 30 novembre 2018.
Il caso. Un uomo, arrestato per presunta violenza sessuale, durante la sua detenzione si toglie la vita, impiccandosi. Dal momento che aveva già dichiarato la propria intenzione suicida, ma ciò nonostante non era stato posto in regime di sorveglianza speciale, né posto in regime comune, come richiesto dal giudice di turno, i suoi familiari si rivolgono al Tribunale di Catanzaro per ottenere dal Ministero della Giustizia il risarcimento del danno per omessa vigilanza. Il giudice di prime cure condanna il Ministero al pagamento di € 195.696,00 a titolo di risarcimento del danno, ma la Corte d’appello accoglie la richiesta del Ministero, sottolineando come non fosse prevedibile, né prevenibile l’evento suicida, ritenendo il collegamento causale tra comportamento dell’amministrazione penitenziaria e la morte dell’uomo fosse da considerarsi interrotto dall’eccezionalità dell’evento. La Corte territoriale aveva specificato che, nonostante non fosse rinvenibile alcun intento suicida, l’uomo era stato posto in regime di grande sorveglianza, ossia guardato a vista ogni 20 minuti, che il colloquio psicoterapico era stato svolto senza esiti apprezzabili e che il detenuto era in una cella singola in attesa di destinazione definitiva.
I congiunti ricorrono dunque per la Cassazione della sentenza.
Prevenzione del suicidio. La Suprema Corte ritiene fondato il ricorso dei familiari, poiché non erano state effettivamente adottate tutte le misure idonee a prevenire il suicidio, la cui intenzione era stata chiaramente manifestata dall’uomo. Precisa infatti che non è possibile affermare che l’amministrazione penitenziaria abbia adottato tutte le misure idonee ad evitare l’evento; dichiara la Corte che circostanza decisiva doveva considerarsi, inoltre, il fatto che l’uomo non era stato sottoposto ad alcuna «osservazione funzionale a verificarne la capacità di affrontare adeguatamente lo stato di restrizione e ciò in quanto al momento dell’ingresso in carcere non c’erano ne l’educatore, né lo psicologo».
Evidente la responsabilità dell’amministrazione. Decisiva, infine, secondo la Cassazione, l’inottemperanza all’ordine del PM di sottoporre il detenuto a regime di detenzione in regime comune, poiché è «incontestabile, sul piano causale che, ove il detenuto fosse stato sottoposto a regime di detenzione comune, come peraltro chiesto dal PM, i suoi intenti suicidari sarebbero stati impediti o comunque resi di assai più ardua realizzazione dalla presenza di altri detenuti».
La Terza Sezione cassa la 3sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello, che dovrà riesaminare la questione stabilendo il quantum del risarcimento.

Fonte: www.ridare.it


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