Il racconto poco credibile fatto dallo straniero non è sufficiente per negargli protezione, se egli si è dichiarato gay, se nel suo Paese l’omosessualità è considerata reato e se lo Stato non garantisce, ovviamente, protezione da minacce provenienti da soggetti privati (Cassazione, ordinanza n. 9581/20, sez. I Civile, depositata il 25 maggio).
Protagonista della vicenda è un cittadino della Guinea, che, una volta approdato in Italia, chiede protezione e spiega di «essere di religione musulmana» e di essere scappato dalla propria patria perché «lo zio lo aveva denunciato alla polizia come omosessuale».
Lo straniero aggiunge di essere omosessuale, di avere sempre avuto amici gay, di avere avuto anche relazioni omosessuali a pagamento, e spiega che «la cosa non creava problemi alla madre e ai fratelli, che pure erano musulmani».
Il racconto è però ritenuto poco credibile, e così prima la ‘Commissione territoriale’ e poi i giudici del Tribunale respingono la richiesta di protezione presentata dallo straniero.
Per il cittadino della Guinea il ricorso in Cassazione è l’ultima carta a disposizione. Così egli pone l’attenzione, tramite il proprio legale, sugli atti persecutori che potrebbe subire in patria.
Più precisamente, l’uomo pone in evidenza l’errore compiuto dal Tribunale: da un lato, difatti, i Giudici hanno sostenuto che «nell’ultimo rapporto sul Paese non si parlava di carcerazioni o persecuzioni nei confronti degli omosessuali», ma allo stesso tempo hanno dato atto della «incriminazione prevista dal locale codice penale» e dei «recenti arresti» nei confronti di persone gay con «irrogazione di sanzioni penali»
Evidente, quindi, secondo l’uomo, «il rischio di sottoposizione a trattamenti inumani e degradanti» in patria a causa della «sua condizione di omosessuale» e della «sua giovane età».
Tali considerazioni hanno senso, osservano i Giudici della Cassazione.
In prima battuta, comunque, i magistrati rilevano che «il Tribunale non ha affatto escluso – e, per vero, neppure valutato – l’allegato orientamento omosessuale e i riferiti comportamenti omosessuali dello straniero, limitandosi a ritenere molto genericamente non credibile il suo racconto della vicenda, ma senza prender posizione», contrariamente a quanto doveroso, «sull’elemento fondamentale, ossia l’omosessualità». Soprattutto tenendo presente che «potrebbe rispondere al vero l’omosessualità dello straniero, pur avendo egli raccontato una vicenda personale implausibile».
Illogico, peraltro, sostenere, come fatto dal Tribunale, che non ci si trovi di fronte a potenziali «atti di persecuzione». Anche perché «la nozione di rifugiato, quale cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese, ricomprende anche i timori di persecuzione collegati all’orientamento sessuale».
Peraltro, la norma, aggiungono dalla Cassazione, «vieta l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione anche per motivi di orientamento sessuale». E in passato i Giudici hanno chiarito che «l’orientamento sessuale del richiedente protezione costituisce fattore di individuazione del particolare gruppo sociale la cui appartenenza, costituisce ragione di persecuzione idonea a fondare il riconoscimento dello status di rifugiato», anche se «dedotta per la prima volta solo davanti al Tribunale».
Ampliando l’orizzonte, poi, non si può dimenticare che «per persecuzione deve intendersi una forma di lotta radicale contro una minoranza che può anche essere attuata sul piano giuridico e specificamente con la semplice previsione del comportamento che si intende contrastare come reato punibile con la reclusione. Tale situazione si concretizza allorché le persone di orientamento omosessuale sono costrette a violare la legge penale del proprio Paese e a esporsi a gravi sanzioni per poter vivere liberamente la propria sessualità, sì che ben si può ritenere che ciò costituisca una grave ingerenza nella vita privata dei cittadini omosessuali che compromette grandemente la loro libertà personale».
Di conseguenza, «per escludere il diritto di conseguire la protezione da parte dello straniero che si dichiara omosessuale, non è sufficiente neppure verificare che nello Stato di provenienza l’omosessualità non sia considerata alla stregua di un reato, dovendo altresì essere accertata la sussistenza, in tale Paese, di un’adeguata protezione da parte dello Stato, a fronte di gravissime minacce provenienti da soggetti privati».
Applicando questi principi alla vicenda in esame, emerge la solidità della richiesta presentata dal cittadino della Guinea, poiché «il Tribunale non solo non ha revocato in dubbio che il Paese reprima penalmente l’omosessualità, ma ha espressamente riconosciuto, richiamando il più recente rapporto di Amnesty International, che lì il vigente Codice Penale incrimina come reato gli atti sessuali consenzienti fra persone dello stesso sesso». Peraltro, «la Guinea non ha accettato le raccomandazioni riguardanti la depenalizzazione» per i rapporti omosessuali, mentre sono dati certi quelli relativi a «recenti incriminazioni e condanne per questo genere di reato».
In sostanza, è necessario solo verificare – con un nuovo giudizio in Tribunale – la veridicità delle dichiarazioni dello straniero circa il suo orientamento sessuale, prima di poter decidere sulla sua richiesta di protezione, alla luce dei pericoli evidenti per gli omosessuali in Guinea.
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