Sacrosanto, ai tempi del coronavirus, il diritto a vedersi riconosciuta dall’azienda la possibilità del c.d. smartworking. Esemplare la valutazione compiuta in merito alla posizione di una donna che, pur essendo invalida e avendo una figlia affetta da un handicap grave, si era vista negare l’ipotesi del lavoro da casa e si era ritrovata in cassa integrazione (Tribunale di Bologna, sezione lavoro, decreto 23 aprile 2020)
Protagonista della battaglia legale è una impiegata con quasi vent’anni di lavoro alle spalle nella stessa azienda. Il rapporto sembra solido, ma vacilla a causa dei problemi causati dal Coronavirus: a fine marzo la donna «chiede con una email di poter usufruire dello smartworking» nel periodo di emergenza sanitaria e allega «certificazione del suo stato di invalidità». Dall’azienda però arriva, sempre via email, una risposta negativa: alla dipendente viene negato in sostanza lo smartworking e, allo stesso tempo, e viene comunicato che «sarebbe stata in cassa integrazione per la settimana successiva»
A censurare la presa di posizione dell’azienda provvede il Giudice, ponendo in evidenza, da un lato, la situazione familiare della lavoratrice – con annesso elevato rischio per il potenziale contagio da coronavirus in caso di obbligo di recarsi in ufficio –, e, dall’altro, che la società «sta utilizzando la modalità smartworking per taluni dipendenti» appartenenti allo stesso ufficio della donna.
In premessa viene sottolineato che «nell’attuale situazione di emergenza sanitaria il lavoro da casa è raccomandato», se non addirittura imposto, per «quelle attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza». Subito dopo viene ricordato che «i dipendenti disabili o che abbiano nel proprio nucleo familiare una persona con disabilità hanno diritto a svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile», sempre che, ovviamente, «tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione», e, in particolare, «ai lavoratori del settore privato, affetti da gravi e comprovate patologie con ridotta capacità lavorativa, è riconosciuta la priorità nell’accoglimento delle istanze di svolgimento delle prestazioni lavorative in modalità agile».
Alla luce di tali paletti, è sacrosanto, secondo il Giudice, il diritto della donna «ad accedere allo smartworking», essendo ella «invalida al 60 per cento e convivente con figlia con handicap grave». Decisiva anche la constatazione della «compatibilità della modalità agile del lavoro con le caratteristiche della prestazione», poiché «la donna svolge mansioni con l’utilizzo del telefono e di strumenti informatici».
Evidenti, poi, i pericoli per la donna e per la figlia in caso di lavoro svolto in ufficio.
Su questo punto il giudice evidenzia che la lavoratrice «è invalida al 60 per cento e convive con figlia con handicap grave»: ci si trova di fronte, quindi, a «due soggetti fortemente esposti al rischio di contagio, anche in forma grave». Logico perciò il timore che «lo svolgimento delle attività di lavoro in modalità ordinarie», cioè «uscendo da casa per recarsi in ufficio», possa esporre la donna «»al rischio di un pregiudizio imminente ed irreparabile per la salute sua e della figlia convivente».
Tirando le somme, quindi, l’azienda, conclude il giudice, deve «procedere immediatamente ad assegnare la dipendente a modalità di lavoro agile, dotandola degli strumenti necessari o concordando l’uso di quelli personali».