mercoledì 27 giugno 2018

La comunione dei beni prosegue anche in regime di separazione

I beni soggetti al regime della comunione legale coniugale rimangono disciplinati da tale regime anche dopo che i coniugi abbiano convenuto di adottare il regime della separazione dei beni: è questo l'inedito e sorprendente principio sancito dalla Cassazione nella sentenza n. 4676 del 28 febbraio 2018.
Prima di questa sentenza, infatti, non è stato mai messo in discussione che l'adozione del regime di separazione dei beni, da parte dei coniugi, i quali si trovassero in regime di comunione legale, avrebbe comportato, come conseguenza, la sottoposizione alle regole della comunione “ordinaria” dei beni acquistati durante la vigenza del regime di comunione legale (e, correlativamente, la cessazione della vigenza delle regole proprie del regime di comunione “legale”).

fonte:www.ilsole24ore.com/La comunione dei beni prosegue anche in regime di separazione

Cresce la voglia di sicurezza fai da te: il 39% degli italiani vorrebbe la “pistola facile”

«Cresce la voglia di sicurezza fai da te»: il 39% degli italiani è favorevole all’introduzione di criteri meno rigidi per il possesso di un’arma da fuoco per la difesa personale. Il dato è in netto aumento rispetto al 26% rilevato nel 2015. A dirlo è il primo Rapporto sulla filiera della sicurezza in Italia realizzato dal Censis. Più favorevoli sono le persone meno istruite, il 51% tra chi ha al massimo la licenza media, e gli anziani, il 41% degli over 65 anni).
Secondo il rapporto realizzato da Censis con Federsicurezza, aumenta anche il numero degli italiani che possono sparare: nel 2017 nel nostro Paese si contavano 1.398.920 licenze per porto d’armi, considerando tutte le diverse tipologie (dall’uso caccia alla difesa personale), con un incremento del 20,5% dal 2014 e del 13,8% rispetto all’anno prima.
La crescita più forte si è avuta per le licenze per il tiro a volo (sono quasi 585.000: +21,1% in un anno), più facili da ottenere. Il Censis stima così che «oggi complessivamente c’è un’arma da fuoco nelle case di quasi 4,5 milioni di italiani (di cui 700.000 minori)».

fonte: Cresce la voglia di sicurezza fai da te: il 39% degli italiani vorrebbe la “pistola facile” - La Stampa

Scontri successivi tra più veicoli: responsabile chi ha determinato le collisioni

Nel caso di scontri successivi tra veicoli facenti parte di una colonna in sosta, l’unico responsabile è il conducente che le abbia determinate, tamponando l’ultimo dei veicoli della colonna stessa.
Il caso. A seguito di un tamponamento a catena che vedeva coinvolte tre autovetture, il proprietario della vettura di testa ricorre in giudizio per ottenere il risarcimento dei danni subiti da parte del proprietario e conducente della terza vettura. Il Giudice di Pace prima, e la Corte d’appello poi, respingono la domanda perché non avanzata anche nei confronti del conducente della seconda vettura. I soccombenti ritenevano unico responsabile del sinistro il conducente della terza vettura, ma la Corte d’appello ritiene che il Giudice di Pace abbia correttamente ritenuto che, in ipotesi di tamponamento a catena, «la colpa in egual misura di entrambi i componenti di ciascuna coppia di veicoli, in assenza di prova liberatoria volta a dimostrare di aver fatto il possibile per evitare il danno».
Tamponamento a catena e scontri successivi tra più veicoli. La Cassazione ricorda che, in tema di circolazione stradale, nel caso di tamponamento a catena si presume, fino a prova contraria, che ciascun conducente abbia ugualmente concorso alla realizzazione del danno.
Diversa è la fattispecie concreta, che concerne non un vero e proprio tamponamento a catena bensì scontri successivi tra veicoli facenti parte di una colonna unica in sosta. In questo caso, l’unico responsabile è il conducente che determina le collisioni, tamponando da dietro l’ultimo veicolo della colonna.
La Cassazione dunque accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Cosenza.

Fonte: ridare.it/Scontri successivi tra più veicoli: responsabile chi ha determinato le collisioni - La Stampa

venerdì 22 giugno 2018

Astensione avvocati dal 25 al 27 giugno 2018

L'UCPI delibera l'astensione dalle udienze dal 25 al 27 giugno prossimi per protestare contro l’assoluta gravità della situazione nella quale versano gli uffici giudiziari baresi, la cui inadeguatezza e fatiscenza è emblematica della condizione nella quale versa la Giustizia del Paese e la irresponsabile incuria dei Governi che non hanno mai inteso operare seri investimenti manifestando così un atteggiamento di totale disinteresse per la effettiva qualità della giurisdizione, considerato anche che le proposte del Ministro Bonafede risultano certamente incompatibili con il rispetto dei minimi standard di efficienza e, soprattutto, della dignità della funzione difensiva.

Scarica la Delibera della Giunta UCPI: Astensione dalle udienze 25 - 27 giugno 2018

Indennità di maternità anche al padre adottivo

La Corte costituzionale dichiara che la regola che preclude al padre adottivo il godimento dell’indennità di maternità in posizione di parità con la madre ha cessato di avere efficacia.
Il caso. La Corte d’appello di Trieste ha sollevato questione di legittimità costituzionale relativamente alle norme che vietano l’erogazione dell’indennità di maternità al padre adottivo anche nel caso in cui la madre abbia rinunziato alla prestazione.
Il Giudice deve riferirsi al principio di parità tra i genitori adottivi. La Corte costituzionale richiama la sentenza Corte cost. n. 385/2005 con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale delle norme che non prevedono il principio che al padre spetti percepire, in alternativa alla madre, l’indennità di maternità.
Alla luce di ciò, afferma la Corte, deve ritenersi che «la regola che preclude al padre adottivo il godimento dell’indennità di maternità in posizione di parità con la madre ha cessato di avere efficacia e non può più ricevere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione».
La Corte costituzionale, dunque, indica quale principio cui fare riferimento per individuare un criterio di giudizio della controversia quello di perfetta parità tra i genitori adottivi.

Fonte: ilfamiliarista.it/Indennità di maternità anche al padre adottivo - La Stampa

giovedì 21 giugno 2018

Conto in banca (quasi) gratis per i meno abbienti

In banca con l'Isee. Canone flat annuo calmierato e senza spese ulteriori per i non abbienti (Isee inferiore a 11.600 euro) e per i pensionati (fino a 18 mila euro lordi). Ma con un tetto di operazioni fruibili all'anno. Per i poveri: 36 bonifici in arrivo, compreso lo stipendio, 12 versamenti allo sportello, 12 prelevamenti bancomat su banca diversa dalla propria; illimitate le operazioni bancomat sulla stessa banca.
Per i pensionati 6 versamenti allo sportello, 6 prelevamenti bancomat su banca diversa dalla propria; senza limiti le operazioni bancomat sulla stessa banca e i bonifici in arrivo.
Sopra la soglia, si deve pagare una spesa «ragionevole» da definire sulla base della media delle commissioni praticate.
È quanto prevede il decreto n. 70 del 3 maggio 2018 del Ministero dell'economia e delle finanze (Mef), pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n.140 del 19 giugno 2018 (in vigore da ieri 20 giugno 2018).
Ma che cos'è il conto di base? È un conto leggero, che consente di fare operazioni bancarie minime, tipiche del consumatore, che non ha esigenze finanziarie. Il conto di base è un diritto di chi ha i presupposti di reddito. In caso di rifiuto di apertura del conto, la banca deve dirlo al più tardi entro dieci giorni lavorativi dalla richiesta, informando il cliente delle procedure di reclamo disponibili e della facoltà di inviare un esposto alla Banca d'Italia o di chiedere una conciliazione.
Il conto di base prevede il solo pagamento di un canone annuale onnicomprensivo e senza addebito di altre spese, oneri o commissioni di alcun tipo e natura, e si ottiene un numero predeterminato di operazioni annue, elencate in due allegati al decreto stesso.
Se si sta entro il numero delle operazioni si paga solo il canone calmierato annuo; se si supera il numero, c'è l'addebito di spese ulteriori, che devono essere ragionevoli.
l decreto non stabilisce la tariffa, ma solo il metodo di calcolo (di canone e spese ulteriori): si indica la media dei canoni e delle spese. Si è detto di due allegati: uno riguarda i poveri e l'altro i pensionati. Sono le due fasce deboli che hanno diritto a questa agevolazione. Per poveri si intendono i consumatori il cui Isee in corso di validità sia inferiore a 11.600 euro.
Questa condizione va autocertificata alla banca all'apertura del conto e la dichiarazione va ripetuta ogni anno (entro il 31 maggio), pena la perdita dell'agevolazione. La banca, inoltre, è tenuta a passare le informazioni all'anagrafe tributaria, per eventuali controlli incrociati.
Da ricordare che si può aprire uno e uno solo conto base: al momento dell'apertura l'interessato deve attestare di non avere aperto altri conti agevolati. La fascia dei pensionati possibili beneficiari comprendi chi ha pensioni lorde fino all'importo annuo di 18 mila euro. Anche in questo caso valgono le regole dell'autocertificazione, della reiterazione annuale della dichiarazione del possesso dei requisiti, della comunicazione al fisco e della limitazione a un solo conto.
Passando alle operazioni comprese nel canone flat, per i poveri il decreto inserisce: 6 prelievi di contante allo sportello, prelevamenti bancomat illimitati sulla stessa banca, 12 prelievi bancomat su banca diversa, addebiti diretti Sepa senza limiti, 36 bonifici in arrivo (compresi stipendi e pensione), 12 bonifici ricorrenti, altri 6 bonifici, 12 versamenti contanti e assegni, illimitati pagamenti con il bancomat e una emissione/rinnovo/sostituzione del bancomat.
Per i pensionati poveri il decreto inserisce:12 prelievi di contante allo sportello, prelevamenti bancomat illimitati sulla stessa banca, 6 prelievi bancomat su banca diversa, addebiti diretti Sepa senza limiti, illimitati bonifici in arrivo (compresa la pensione), 6 bonifici ricorrenti, 6 versamenti contanti e assegni, illimitati pagamenti con il bancomat e una emissione/rinnovo/sostituzione del bancomat.

fonte: Conto in banca (quasi) gratis per i meno abbienti - ItaliaOggi.it

Consiglio superiore della Sanità: “Stop alla vendita di prodotti a base di cannabis light”

Stop alla vendita dei prodotti a base di cannabis «light», cioè con il principio attivo Thc inferiore ai limiti di legge, con i negozi «green» proliferati negli ultimi mesi in tutta Italia. I prodotti a base di cannabis, nel rispetto del tetto fissato per la dose di Thc contenuta, si possono vendere in Italia, in base alla legge 242 del 2016, entrata in vigore il 14 gennaio 2017 e il giro d’affari è in forte crescita (almeno 40 milioni di euro). Secondo il parere del Consiglio Superiore di Sanità, richiesto dal ministero della Salute a febbraio «non può essere esclusa la pericolosità dei prodotti contenenti o costituiti da infiorescenze di canapa», avverte il Css, che «raccomanda che siano attivate nell’interesse della salute individuale e pubblica misure atte a non consentire la libera vendita». Questo perché il limite di Thc previsto dalla legge (0,2-0,6%) «non è trascurabile», e gli effetti psicotropi possono comunque prodursi, magari aumentando le dosi. Peraltro con un consumo «al di fuori di ogni possibilità di monitoraggio e controllo della quantità effettivamente assunta e quindi degli effetti psicotropi che possa produrre».
Che cosa prevede la legge
La legge è finalizzata alla coltivazione e alla trasformazione; all’incentivazione dell’impiego e del consumo finale di semilavorati di canapa provenienti da filiere prioritariamente locali destinate in particolare alla produzione di alimenti, cosmetici, materie prime biodegradabili e semilavorati innovativi per le industrie di diversi settori; alla realizzazione di opere di bioingegneria, bonifica dei terreni, attività didattiche e di ricerca.
Il boom delle coltivazioni
Secondo Coldiretti in Italia nel giro di cinque anni i terreni utilizzati per la coltivazione della cannabis sativa sono passati dai 400 ettari del 2013 ai quasi 4000 stimati per il 2018. Secondo l’organizzazio agricola la cannabis light ha contribuito alla diffusione della coltivazione in Italia utilizzata anche per esperienze innovative, con produzioni che vanno dalla ricotta agli eco-mattoni isolanti, dall’olio antinfiammatorio alle bioplastiche, fino a pasta, biscotti e cosmetici. «Ora – sottolinea la Coldiretti - occorre fare chiarezza per tutelare i cittadini e le centinaia di aziende agricole che hanno avviato nel 2018 la coltivazione di canapa, dalla Puglia al Piemonte, dal Veneto alla Basilicata, ma anche in Lombardia, Friuli, Sicilia e Sardegna con il moltiplicarsi di esperienze innovative».
I prodotti contenenti o costituiti da infiorescenze di canapa sono attualmente venduti nei `canapa shop´ come un prodotto da collezione, dunque non destinato al consumo. Il Css mette però in guardia rispetto ad un possibile uso di tali prodotti, avvertendo che «non può essere esclusa la pericolosità» della cosiddetta cannabis o marijuana light. per questo «raccomanda che siano attivate nell’interesse della salute individuale e pubblica misure atte a non consentire la libera vendita».
La rezione dell’Associazione Coscioni
«Sfidiamo il Consiglio Superiore della Sanità a portar avanti studi propri, se ne è capace, invece che raccogliere “dati in letteratura” che sono spesso datati e frutto di impostazioni ideologiche se non antiscientifiche - dichiara Marco Perduca, l’ex Senatore Radicale dell’Associazione Luca Coscioni -. Piuttosto che perseguire il “niet” e il “verboten”, il CSS dovrebbe adoperarsi per fare informazione corretta e scientificamente verificabile sulla qualità dei prodotti di cui parla - e magari sulle modalità di consumo».

fonte: “Stop alla vendita di prodotti a base di cannabis light” - La Stampa

domenica 17 giugno 2018

Gratuito patrocinio: indennità di accompagnamento non incide sul reddito

L'accesso al patrocinio a spese dello Stato (c.d. gratuito patrocinio) è subordinato alla titolarità di un reddito imponibile ai fini dell'imposta personale sul reddito, risultante dall'ultima dichiarazione, non superiore ad un importo aggiornato ogni biennio con decreto del Ministero della Giustizia (art. 76 d.P.R. n. 115/2002); attualmente la soglia è fissata a 11.528,41 euro.
Se l'interessato convive con il coniuge o altri familiari si cumulano i redditi di ciascun componente, ma nel processo penale i limiti di reddito sopra indicati sono elevati di euro 1.032,91 per ognuno dei familiari conviventi.
L'indennità di accompagnamento per invalidi civili costituisce "reddito" ai fini della soglia di accesso al gratuito patrocinio?
Al quesito risponde la Corte di Cassazione, Sezione Quarta Penale, con la sentenza 8 giugno 2018, n. 26302.
"Considerato in diritto
1. Fondato risulta il motivo di ricorso afferente alla valutazione, ai fini della determinazione del reddito del richiedente, della indennità di accompagnamento, che riveste carattere assorbente rispetto alle ulteriori doglianze difensive.
In ordine a tale aspetto, orientamento consolidato della giurisprudenza di questa Corte ha affermato che in materia di gratuito patrocinio, ai fini della determinazione del reddito rilevante per l’ammissione al beneficio, non può tenersi conto di quanto percepito a titolo di indennità di accompagnamento a favore degli invalidi totali (così Sez. 4, n. 24842 del 04/02/2015, Rv. 263720).
Si è invero precisato che tale indennità ha natura di sussidio destinato a fare fronte agli impegni di spesa indispensabili per consentire alla persona disabile, condizioni di vita compatibili con la dignità umana. Per tale ragione essa non rientra nella nozione di reddito, di cui all’art. 76 d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
2. Si impone pertanto l’annullamento del provvedimento impugnato, con rinvio al Tribunale di Roma per nuovo esame.
P.Q.M.
Annulla il provvedimento impugnato e rinvia, per nuovo esame, al Tribunale di Roma".

fonte: Gratuito patrocinio: indennità di accompagnamento non incide sul reddito | Altalex

Scopre che il coniuge è gay: Matrimonio nullo per la Chiesa, non sempre per lo Stato

E’ ostativo alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario, il fatto che la coppia abbia avuto una convivenza prolungata in seguito alla celebrazione del matrimonio. Se la convivenza "come coniugi” si è protratta per almeno tre anni dalla celebrazione del matrimonio concordatario, ciò integra una situazione giuridica di ordine pubblico, la cui inderogabile tutela trova fondamento nei principi supremi di sovranità e di laicità dello Stato.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza del 15 maggio 2018, ha respinto la richiesta della moglie volta a ottenere la declaratoria di efficacia nella Repubblica italiana, della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio pronunciata dal Tribunale Ecclesiastico e confermata dal Tribunale della Rota Romana.
La nullità del matrimonio era stata dichiarata in ragione della scoperta dell’omosessualità del marito e ciò avrebbe reso nullo il matrimonio per incapacità del marito di assumere gli oneri e gli obblighi del matrimonio.
Secondo la Corte d’Appello è ostativo alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario, il fatto che i coniugi abbiano avuto una convivenza prolungata successivamente alla celebrazione del matrimonio, poiché in questo caso c’è un’accettazione del rapporto, incompatibile con l'esercizio del diritto di annullarlo.
La Corte territoriale aveva, infatti, accertato che la convivenza era durata ben quattordici anni, di cui i primi sei o sette si erano svolti in maniera “coerente con un’unione coniugale", tanto che la coppia aveva, di comune accordo, deciso di avere una figlia.
Solo dopo la nascita di quest'ultima, era venuta alla luce la tendenza omosessuale del marito.
Il ricorso in Cassazione si fonda su un unico motivo, ossia l’aver disatteso da parte della Corte territoriale, l’orientamento giurisprudenziale della Corte suprema, richiamando il principio di diritto espresso dalle Sezioni Unite della Corte nella decisione del 17 luglio 2014, n. 16379, circa la valenza ostativa, al procedimento di delibazione, della successiva coabitazione triennale.
La Corte di Cassazione ha specificato che la sentenza richiamata, ha in realtà confermato l’indirizzo contenuto in una precedente sentenza n. 1343 del 20/01/2011 – seguita, nello stesso senso da Cass. Civ. 15/06/2012 n. 9844 – secondo cui se la convivenza "come coniugi” si è protratta per almeno tre anni dalla celebrazione del matrimonio concordatario, integra una situazione giuridica di "ordine pubblico italiano", la cui inderogabile tutela trova fondamento nei principi supremi di sovranità e di laicità dello Stato.
Ciò preclude la dichiarazione di efficacia della sentenza di nullità pronunciata dal tribunale ecclesiastico per qualsiasi vizio genetico del "matrimonio-atto".
Inoltre, le citate statuizioni hanno ricevuto conferma nella successiva giurisprudenza (Cass. Civ. 27.01.2015 n. 1494 e Cass. Civ. 19.12.2016 n. 26188).
Anche con la recente pronuncia n. 8800 del 5.4.2017, la Corte ha confermato che per accertare se una sentenza emessa dal Tribunale ecclesiastico possa essere riconosciuta in Italia è necessario verificare se sussista un contrasto con l’ordine pubblico, tenendo conto del “matrimonio-rapporto” che ha un fondamento nella Costituzione, nelle Carte europee dei diritti e nella legislazione italiana.
La coabitazione prolungata, secondo la Cassazione, è connessa a una pluralità di diritti inviolabili, di doveri inderogabili e di responsabilità.
Pertanto si ribadisce che la convivenza "come coniugi", quale elemento essenziale del "matrimonio-rapporto", se durata per almeno tre anni dalla celebrazione del matrimonio concordatario, impedisce il riconoscimento della sentenza di nullità ecclesiastica.

fonte: Scopre che il coniuge è gay? Matrimonio nullo per la Chiesa ma non sempre per lo Stato | Altalex

Patente a punti: per l'azzeramento non occorre la comunicazione

Il provvedimento col quale viene disposta la revisione della patente di guida non presuppone l’avvenuta comunicazione, ad opera della Pubblica Amministrazione, della modificazione del punteggio, in quanto il titolare della patente di guida può conoscerla in ogni momento, e già dall’esame del verbale di accertamento dell’infrazione cui sia connessa la sanzione accessoria della sottrazione dei punti.
E' quanto affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. II Civile, con l'ordinanza 16 aprile 2018, n. 9270.
Il titolare di una patente di guida aveva infatti convenuto in giudizio il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, la Direzione Generale e Territoriale della competente Motorizzazione Civile, chiedendo l’annullamento del provvedimento col quale la Motorizzazione civile aveva disposto la revisione del proprio titolo di guida.
Soccombente anche in grado d’appello, l’uomo adiva i giudici di piazza Cavour, denunciando, peraltro, l’omessa comunicazione, ad opera dell’Anagrafe Nazionale degli abilitati alla guida, delle intercorse diminuzioni dei punti patente, collegate ad antecedenti trasgressioni stradali. Secondo la difesa sostenuta dal ricorrente, l’omessa comunicazione del saldo punti avrebbe inficiato la validità del provvedimento amministrativo di revisione della patente, poiché lo stesso abilito alla guida, nell’ipotesi ove avesse avuto contezza del numero effettivo dei punti, avrebbe potuto iscriversi ai corsi di recupero del punteggio, così come prescritto dall’art. 6, D.M. 29 luglio 2003.
I giudici ermellini condividono e confermano la tesi dei colleghi di merito, rilevando che l’art. 126 bis del Codice della Strada (D.lgs. n. 285/1992), pur prescrivendo che ogni mutamento di punteggio sia comunicata agli interessati dall’Anagrafe Nazionale degli abilitati alla guida, al contempo consente ad ogni patentato di controllare, agevolmente, ed in tempo reale, il saldo del proprio punteggio. Consegue pertanto che la comunicazione di cui all’art. 126 bis C.d.S., rivesta valore unicamente “informativo” e, per l’effetto, sia priva di valore provvedimentale.
Il provvedimento amministrativo di revisione della patente di guida secondo i giudici, rappresenta un atto vincolato all’azzeramento dei punti patente, agganciato alla definitività dell’accertamento delle trasgressioni stradali, in esito alle quali sia stato decurtato la globalità del punteggio disponibile, e senza che occorra quindi la previa comunicazione della variazione dei punti, di cui il conducente può sincerarsi in qualsiasi momento. Ulteriore conseguenza è che, una volta accertato il saldo dei punti, l’abilitato alla guida ben può iscriversi ai corsi di recupero.
Ad ulteriore supporto del dichiarato rigetto, la II Sezione civile ha evidenziato che il sistema normativo in questione garantisce la possibilità del recupero dei punti patenti decurtati già in epoca anteriore all’eventuale azzeramento, ed al preciso fine di evitare la revisione, rimarcando l’evidenza, ai fini dell’iscrizione ai corsi di recupero del punteggio, che non debba essere richiesta la previa comunicazione della avvenuta decurtazione dei punti. Ciò è stato anche affermato, ed in più occasioni, dalla giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza n. 6189 del 2012), la quale ha finanche chiarito che l’iscrizione ai corsi di recupero è consentita agli automobilisti che esibiscono:
a) la comunicazione dell’Anagrafe;
b) il duplicato della comunicazione, ottenuto tramite il numero verde;
c) la stampa del report in rete su “il portale dell’automobilista”;
d) l’attestazione a stampa della posizione del conducente rilasciata dall’Ufficio della Motorizzazione (Circolare Ministero dei trasporti, n. 11490 in data 8 maggio 2013).

fonte: Patente a punti: per l'azzeramento non occorre la comunicazione | Altalex

venerdì 15 giugno 2018

Telefonate mute alla segreteria: è molestia

L’autore delle chiamate, identificato attraverso il proprio cellulare, viene sanzionato con 500 euro di ammenda. Impossibile parlare di offesa tenue, soprattutto considerando il numero delle telefonate e il fatto che la fastidiosa condotta si sia protratta per oltre due mesi.
Segreteria telefonica bombardata per oltre due mesi. Numerose anche le chiamate mute. Logico parlare di molestie in piena regola. Legittima perciò la condanna di un uomo – inchiodato dal proprio cellulare – a pagare 500 euro di ammenda (Cassazione, sentenza n. 27222/18, sez. I Penale, depositata il 13 giugno).
Silenzio. A dare il ‘la’ alla vicenda giudiziaria è la denuncia della persona offesa, preoccupata per le tantissime telefonate pervenute da un cellulare alla sua segreteria telefonica. In alcuni casi la persona che ha chiamato si è spinta a pronunciare «messaggi minatori ed ingiuriosi», mentre in altri casi ha semplicemente «telefonato senza parlare», affidandosi a un inquietante silenzio.
Rapide indagini hanno permesso di identificare il telefono cellulare da cui sono partite le chiamate. Così il proprietario è finito sotto accusa per «molestie».
Inevitabile la condanna, secondo i Giudici. Innanzitutto, è stato individuato con certezza l’autore delle telefonate, che, peraltro, aveva anche effettuato una chiamata «per identificarsi e scusarsi» con la propria vittima. Illogico, poi, ipotizzare la «tenuità dell’offesa»: su questo fronte vengono richiamati «il numero delle telefonate; le minacce profferite in alcune occasioni; la durata della condotta».
Confermata perciò in Cassazione la sanzione decisa in Tribunale: 500 euro di ammenda.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Telefonate mute alla segreteria: condannato - La Stampa

Stalking anche se la vittima risponde al telefono per non aggravare la situazione

L'atteggiamento conciliante della vittima di stalking non rappresenta un elemento che comporti uno sconto di pena nei confronti dell'imputato. Questo il principio enunciato dalla Cassazione con la sentenza n. 27466/18.
Il ragionamento della Cassazione. La Corte ha rilevato, infatti, come era stato corretto il ragionamento fatto dalla Corte territoriale che aveva giustificato la conferma della responsabilità dell'imputato richiamando proprio la testimonianza della persona offesa, la quale aveva riferito che, di fronte alla reiterata petulanza dell'imputato e conoscendo la sua fragilità psicologica, spesso non sapeva come comportarsi e per questo aveva tenuto un atteggiamento conciliante, in altre aveva risposto al telefono in maniera più decisa. Non aveva voluto e potuto cambiare il numero del telefono in quanto diversi soggetti avevano quel numero e per la vittima il cambiamento avrebbe comportato un'altra serie di problemi. Respinto così l'appello dello stalker che contestava la precedente sentenza perché non avrebbe tenuto conto dell'atteggiamento conciliante della presunta vittima, che aveva sempre risposto alle telefonate ritenute moleste, intrattenendosi a parlare con l'imputata e non aveva cambiato numero di telefono, dimostrando in tal modo di non aver subito alcun turbamento psicologico dai comportamenti dell'imputato. La condotta della persona offesa, quindi, avrebbe dimostrato (a parere del ricorrente) l'assenza di ogni pregiudizio e degli eventi tipici del delitto e una condizione in cui poteva vivere liberamente la propria quotidianità. La Cassazione, inoltre, ha confermato la responsabilità in ordine al delitto di danneggiamento aggravato. Bene hanno fatto secondo la Cassazione i giudici di merito a confermare pieno valore probatorio alle dichiarazioni delle persone offese che avevano precisato di aver riscontrato danni alle auto in occasione dei passaggi sul posto dell'imputata, ignorando la proposizione difensiva, secondo la quale l'imputato aveva motivi personali per frequentare le stesse strade sulle quali le presunte vittime parcheggiavano i loro veicoli.
Danneggiamento auto. I giudici di legittimità hanno chiarito che il danneggiamento degli autoveicoli parcheggiati per strada non era soggetta a depenalizzazione ex Dlgs 7/2016 ed era perseguibile d'ufficio.

Fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

giovedì 14 giugno 2018

Divieto di sosta valido: basta sia visibile un solo tipo di segnaletica

Al fine della validità dell'accertamento della violazione del divieto di sosta, è sufficiente che vi sia la visibilità di un solo tipo di segnaletica (verticale o orizzontale) anche in difetto della compiuta e contemporanea visibilità di entrambi i detti tipi di segnaletica. Lo stabilisce la Cassazione con l’ordinanza n. 2417 del 2018.
In caso di cattiva visibilità - In termini diversi, e, in particolare, per l'affermazione che qualora sia ben visibile il segnale che attribuisce il diritto di precedenza ai veicoli procedenti su una determinata strada, e sia, per circostanze fortuite, mal visibile il segnale che impone l'obbligo di dare la precedenza ai veicoli che alla detta strada debbano accedere, erra per difetto di motivazione il giudice del merito che, dovendo ripartire le responsabilità per l'urto di due veicoli, giudica come se non esistesse alcun segnale e, perciò, come se operasse il criterio generale dell'articolo 105, secondo comma, codice della strada, attribuente la precedenza ai veicoli provenienti da destra. Infatti la fortuita attenuazione della visibilità dei segnali non importa la revoca automatica del relativo provvedimento amministrativo, Cassazione, sentenza 3 maggio 1976, n. 1569, in Responsabilità civile e previdenza, 1977, p. 86.
Il comportamento dell’utente - Sempre in un'ottica parzialmente diversa, rispetto a quella che sorregge la pronunzia in rassegna, nel senso che in tema di circolazione stradale, il principio di tipicità posto a fondamento della disciplina sulla segnaletica stradale comporta che un determinato obbligo (o divieto) di comportamento è legittimamente imposto all'utente della strada solo per effetto della visibile apposizione del corrispondente segnale specificamente previsto dalla legge.
In particolare, per potersi ritenere in capo agli automobilisti un dovere di comportamento di carattere derogatorio rispetto ai principi generali in tema di circolazione veicolare, è necessario il perfezionamento di una fattispecie complessa, costituita da un provvedimento della competente autorità impositivo dell'obbligo (o del divieto) e dalla pubblicizzazione di detto obbligo attraverso la corrispondente segnaletica predeterminata dalla legge, con la conseguenza che la conoscenza del provvedimento amministrativo acquisita aliunde dall'utente è del tutto inidonea a far sorgere qualsivoglia obbligo specifico nei suoi confronti, costituendo la segnaletica stradale non una forma di pubblicità-notizia del comportamento imposto, bensì un elemento costitutivo della fattispecie complessa da cui l'obbligo stesso scaturisce, Cassazione, sentenza 28 giugno 2005, n 13875, in Il giudice di pace, 2006, p. 314, (con nota di Busca, Segnaletica stradale e sosta nell'area portuale di un autoveicolo) che ha cassato la sentenza con la quale il giudice di pace aveva rigettato l'opposizione all'ordinanza ingiunzione emessa dal Comandante del Porto di Salerno per violazione dell'art. 40 dell'Ordinanza d.d. 15 gennaio 1996 di Compamare Salerno, sanzionata dall'art. 1140 cod. nav., osservando essere rimasto nel caso pacificamente accertato, in fatto, che ove era stato lasciato in sosta il veicolo del ricorrente non vi era alcun divieto, ed evidenziando al riguardo che un segnale orizzontale relativo a una zona destinata al parcheggio - esplicitamente disciplinante lo spazio fisico sul quale esso incombe - non può essere anche ad altro spazio a essa esterno riferito e applicato, non essendo possibile, in contrasto con il principio di tassatività della norma prescrittiva, estendere in via interpretativa la portata di un divieto.
In questo ultimo senso, altresì, per l'affermazione che in tema di circolazione stradale, il principio di tipicità posto a fondamento della disciplina sulla segnaletica stradale comporta che un determinato obbligo (o divieto) di comportamento è legittimamente imposto all'utente della strada solo per effetto della visibile apposizione del corrispondente segnale specificamente previsto dalla legge. La segnaletica stradale, infatti, costituisce non una forma di pubblicità-notizia del comportamento imposto, bensì un elemento costitutivo della fattispecie complessa da cui l'obbligo stesso scaturisce, Cassazione, sentenza 19 febbraio 2009, n. 4058, in Archivio giuridico circolazione e sinistri, 2009, p. 521, resa in una fattispecie, riguardante una infrazione elevata per eccesso di velocità, i cui il limite violato non era evidenziato da apposita segnaletica, bensì era stato apoditticamente affermato dal Comune come esistente da molti anni sulla base delle affermazioni di persone qualificate.
Ulteriori riferimenti - Per utili riferimenti - ricordata in motivazione nella pronunzia in rassegna - nel senso che nel giudizio di opposizione a ordinanza ingiunzione relativo al pagamento di una sanzione amministrativa è ammessa la contestazione e la prova unicamente delle circostanze di fatto della violazione che non sono attestate nel verbale di accertamento come avvenute alla presenza del pubblico ufficiale o rispetto alle quali l'atto non è suscettibile di fede privilegiata per una sua irrisolvibile contraddittorietà oggettiva, mentre è riservata al giudizio di querela di falso, nel quale non sussistono limiti di prova e che è diretto anche a verificare la correttezza dell'operato del pubblico ufficiale, la proposizione e l'esame di ogni questione concernente l'alterazione nel verbale, pur se involontaria o dovuta a cause accidentali, della realtà degli accadimenti e dell'effettivo svolgersi dei fatti, Cassazione, sez. un., sentenza 24 luglio 2009, n. 17355, che ha ritenuto assistita da fede privilegiata l'indicazione nel verbale del mancato uso della cintura di sicurezza da parte del trasgressore, in quanto oggetto diretto della constatazione visiva del pubblico ufficiale accertatore.
La giurisprudenza di merito - Per la giurisprudenza di merito, la mancata segnalazione di strada gravata da obbligo assoluto di cedere la precedenza (segnale di stop) non dà origine a una situazione di pericolo occulto quando, lungi dal creare contraddittorietà di segnali, determina la reviviscenza delle normali regole sulla precedenza stabilita dal codice della strada, App. Milano 24 novembre 1981, in Archivio giuridico circolazione e sinistri, 1982, p. 131, resa in una fattispecie in cui il segnale verticale di stop era stato apportato da ignoti e quello orizzontale era scarsamente visibile, mentre la segnaletica era stata con ritardo ripristinata.

fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

mercoledì 13 giugno 2018

Fattura elettronica, i benzinai scioperano il 26 giugno per protesta

I benzinai lanciano l'allarme fattura elettronica. Le organizzazioni di categoria dei gestori degli impianti di rifornimento carburanti - Faib Confesercenti, Fegica Cisl e Figisc/Anisa Confcommercio - hanno infatti proclamato uno sciopero nazionale per il giorno 26 giugno, sia sulla rete ordinaria che sulla viabilità autostradale, per denunciare le criticità che il settore ed i suoi utenti rischiano di dover affrontare con «i nuovi obblighi relativi alla fatturazione elettronica che, in assenza di provvedimenti normativi, scatteranno dal prossimo primo luglio». «A meno di 3 settimane dalle scadenze poste dalla legge», si legge in un comunicato congiunto delle tre federazioni sindacali, «sono tali e tanti i ritardi e le incoerenze sia sulla certezza delle modalità operative che sui supporti tecnologici che l'amministrazione si era impegnata a mettere a disposizione che, senza alcuna enfasi, si può ragionevolmente affermare come la rete distributiva, per lo più costituita da 'chioschi da marciapiede', sia effettivamente a rischio di blocco e paralisi». «Una conseguenza inaccettabile per un settore ed una intera categoria che pure nei scorsi mesi si era resa ampiamente disponibile, collaborando con l'amministrazione fattivamente per consentire la sperimentazione in anticipo l'introduzione di norme che dal primo gennaio prossimo interesseranno tutti gli altri indistintamente", prosegue la nota. «Pur comprendendo il delicato momento di transizione di Parlamento e Governo, le scadenze ravvicinatissime ed il livello di impreparazione del 'sistema' dovrebbero di per sé consigliare un intervento normativo urgente e risolutivo che, oltre al resto, posponga i termini già fissati", osservano le tre sigle dei gestori, che aggiungono: "Al contrario, le ripetute sollecitazioni avanzate anche direttamente verso il Ministro Tria non sono riuscite finora a sortire neanche un segnale di attenzione. Per queste ragioni - conclude la nota sindacale - alla categoria non rimane altro strumento di azione che proclamare lo sciopero nazionale di 24 ore, per martedì 26 giugno".

fonte: Fattura elettronica, i benzinai scioperano il 26 giugno per protesta - ItaliaOggi.it

Cid: ha valore confessorio solo se firmato dal proprietario del veicolo assicurato

I giudici della terza sezione civile della Corte di cassazione, con la sentenza n. 4010 del 20 febbraio 2018 hanno ritenuto che il danneggiato ha l'obbligo di convenire in giudizio oltre alla compagnia di assicurazioni, anche il proprietario del veicolo.
Il caso - Il legale rappresentante di un'autocarrozzeria ricorre per la cassazione sulla sentenza del Tribunale di Palermo che, confermando la pronuncia di primo grado resa tra il conducente del veicolo danneggiato, la proprietaria del veicolo danneggiante e il conducente del veicolo danneggiante, ha condannato solo quest'ultimo al risarcimento del danno nei confronti della conducente del veicolo danneggiato. Il Giudice di Pace, confermato dal Tribunale, aveva ritenuto che la ficta confessio determinata dalla mancata presentazione del conducente del veicolo danneggiante a rendere l'interrogatorio formale, trattandosi nel caso di specie di litisconsorzio facoltativo, non spiegava alcun effetto nei confronti del proprietario del veicolo e dell'assicurazione ma soltanto nei confronti del confitente.
Entrambi i giudici di merito hanno precisato che, non essendo il conducente del veicolo assicurato un litisconsorte necessario della compagnia di assicurazioni e/o del proprietario assicurato ma un coobbligato solidale con il proprietario del veicolo, la confessione del conducente stesso, ivi compresa quella resa nel Cid, debba essere liberamente apprezzata dal giudice del merito nei confronti del proprietario del veicolo e dell'assicuratore, mentre faccia piena prova, a norma degli artt. 2733 e 2735 c.c., nei confronti del conducente confitente.
La decisione - Gli Ermellini rigettano il ricorso ricordando che il codice delle assicurazioni private prevede all'art. 143 la denuncia di sinistro, per cui, nel caso di sinistro avvenuto tra veicoli a motore per i quali vi sia obbligo di assicurazione, i conducenti dei veicoli coinvolti o, se persone diverse, i rispettivi proprietari, sono tenuti a denunciare il sinistro alla propria impresa di assicurazione, avvalendosi del modulo fornito dalla medesima, il modello di contestazione amichevole di incidente (Cid o Cai). Quando il modulo sia firmato congiuntamente da entrambi i conducenti coinvolti nel sinistro si presume, salvo prova contraria da parte dell'impresa di assicurazione, che il sinistro si sia verificato nelle circostanze, con le modalità e con le conseguenze risultanti dal modulo stesso. Tale modello, per assumere pieno valore confessorio, deve essere sottoscritto dal conducente del veicolo che sia, tuttavia, anche proprietario dello stesso. Inoltre il danneggiato ha l'obbligo di convenire in giudizio oltre alla compagnia di assicurazioni, anche il proprietario del veicolo, atteso che, ai sensi dell'art. 102 del codice di procedura civile, la decisione in questi casi non può che pronunciarsi nei confronti di più parti, quali appunto l'assicuratore e il proprietario che, pertanto, deve essere necessariamente convenuto nello stesso processo. Il conducente, qualora non rivesta contestualmente anche la qualità di proprietario, è un mero litisconsorte facoltativo, ex art. 103 codice di procedura, vale a dire che lo stesso può anche essere citato in giudizio ma che, tuttavia, non esiste alcun obbligo in tal senso, al pari dello stipulante il contratto di assicurazione qualora sia persona diversa tanto dal proprietario quanto dal conducente del veicolo.

fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

lunedì 11 giugno 2018

Nel processo penale inammissibile l’opposizione via Pec

E' inammissibile l'apposizione al decreto penale di condanna fatta via Pec. La corte di cassazione, con la sentenza 25986, chiarisce, infatti le parti private, e per loro i propri difensori, possono assumere, rispetto all'utilizzo del sistema telematico, solo la posizione di soggetti destinatari delle comunicazioni, ma mai di soggetti agenti. In assenza di una un'esplicita norma in tal senso non possono, infatti, “fare comunicazioni o depositare gli atti di notifica a mezzo Pec, le cui forme sono tassativamente disciplinate dal Codice di procedura penale. Partendo da questo presupposto i giudici della seconda sezione penale, bollano come inammissibile il l'opposizione del ricorrente affidata ad una posta certificata elettronica. La Suprema corte ricorda che il principio è stato affermato anche in relazione ad altri casi. Si è ritenuto ad esempio che fosse inammissibile l'impugnazione cautelare proposta dal Pm, attraverso l'uso della pec, in quanto le modalità di presentazione e di spedizione disciplinate dal Codice di rito penale, sono applicabili anche alla pubblica accusa “e non ammettono equipollenti, stabilendo soltanto la possibilità di spedizione dell'atto mediante lettera raccomandata o telegramma al fine di garantire l'autenticità dell'uso della Pec. Per il ricorrente all'inammissibilità del ricorso si aggiunge anche la condanna alle spese processuali e il versamento di 2 mila euro alla cassa ammende.

fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

L'amministratore di una fanpage su Facebook è responsabile del trattamento dei dati

L'amministratore di una fanpage su Facebook è responsabile assieme a Facebook del trattamento dei dati dei visitatori della sua pagina. Lo ha stabilito la Corte di Giustizia con la sentenza 5 giugno 2018 causa C-210/16 indicando che «l'autorità per la protezione dei dati dello Stato membro in cui l' amministratore ha la propria sede può agire, in forza della direttiva 95/46, sia nei confronti di quest'ultimo sia nei confronti della filiale di Facebook stabilita in tale medesimo Stato». Il caso ha origine da una controversia che ha coinvolto la società tedesca Wirtschaftsakademie Schleswig-Holstein e l'Autorità di vigilanza.
Il caso - La società tedesca Wirtschaftsakademie Schleswig-Holstein è specializzata nel settore della formazione. Essa offre servizi di formazione attraverso segnatamente una fanpage presente su Facebook. li amministratori di fanpage possono ottenere dati statistici anonimi sui visitatori di tali pagine servendosi di una funzione denominata Facebook Insights, messa a loro disposizione gratuitamente da Facebook secondo condizioni d'uso non modificabili. Tali dati sono raccolti grazie a marcatori («cookie») contenenti ciascuno un codice utente unico, attivi per due anni e salvati da Facebook sul disco fisso del computer o su qualsiasi altro supporto dei visitatori della fanpage. Il codice utente, che può essere associato ai dati di collegamento degli utenti registrati su Facebook, è raccolto ed elaborato al momento dell'accesso alle fanpage.
Con decisione del 3 novembre 2011, l'Unabhängiges Landeszentrum für Datenschutz Schleswig-Holstein (autorità di vigilanza regionale indipendente per la protezione dei dati dello Schleswig-Holstein, Germania), in qualità di autorità di controllo incaricata, in forza della direttiva 95/46 sulla protezione dei dati, di sorvegliare l'applicazione nel Land Schleswig-Holstein delle disposizioni adottate dalla Germania in attuazione di tale direttiva, ordinava alla Wirtschaftsakademie la disattivazione della sua fanpage. Infatti, secondo l'Unabhängiges Landeszentrum, né la Wirtschaftsakademie né Facebook avevano informato i visitatori della fanpage del fatto che Facebook raccoglieva, mediante cookie, informazioni personali che li riguardavano e che essi elaboravano successivamente tali informazioni.
Contro tale decisione, la Wirtschaftsakademie proponeva ricorso dinanzi ai tribunali amministrativi tedeschi affermando che il trattamento dei dati personali realizzato da Facebook non può esserle imputato e negando inoltre di aver incaricato Facebook di effettuare un trattamento di dati soggetto al suo controllo o rientrante nella sua sfera d'influenza. La Wirtschaftsakademie ne deduce che l'Unabhängiges Landeszentrum avrebbe dovuto agire direttamente contro Facebook e non contro di essa.
È in tale contesto che il Bundesverwaltungsgericht (Corte amministrativa federale, Germania) ha chiesto alla Corte di giustizia d'interpretare la direttiva 95/46 sulla protezione dei dati.
La posizione della Corte - Nella sua sentenza, la Corte di giustizia osserva, innanzitutto, che non si dubita nella presente causa del fatto che la società americana Facebook e, per quanto riguarda l'Unione, la sua filiale irlandese Facebook Ireland debbano essere considerate quali «responsabili del trattamento» dei dati personali degli utenti di Facebook nonché delle persone che hanno visitato le fanpage presenti su Facebook. Infatti, tali società determinano, in via principale, le finalità e gli strumenti del trattamento di tali dati.
In seguito, la Corte constata che un amministratore quale la Wirtschaftsakademie deve essere considerato responsabile, all'interno dell'Unione, assieme alla Facebook Ireland del trattamento dei dati interessati. Infatti, un amministratore del genere partecipa, attraverso la propria azione d'impostazione dei parametri (in funzione, segnatamente, del suo pubblico destinatario nonché di obiettivi di gestione o promozione delle proprie attività), alla determinazione delle finalità e degli strumenti del trattamento dei dati personali dei visitatori della sua fanpage. In particolare, la Corte rileva a tal riguardo che l'amministratore della fanpage può chiedere di ricevere (in forma anonima) - e, quindi, di trattare – dati demografici concernenti il suo pubblico destinatario (in particolare tendenze in materia di età, sesso, situazione sentimentale e professionale), informazioni sullo stile di vita e sugli interessi di detto pubblico (incluse informazioni sugli acquisti e il comportamento di acquisto online dei visitatori della sua pagina, nonché le categorie di prodotti o di servizi di loro maggiore interesse) e dati territoriali che consentono all'amministratore della fanpage di stabilire dove avviare promozioni speciali o organizzare eventi e, in generale, di offrire informazioni maggiormente mirate.
Secondo la Corte, la circostanza che un amministratore di una fanpage utilizzi la piattaforma realizzata da Facebook per beneficiare dei servizi a essa collegati non può esonerarlo dal rispetto degli obblighi ad esso incombenti in materia di protezione dei dati personali.
La Corte sottolinea che il riconoscimento di una responsabilità congiunta del gestore del social network e dell'amministratore di una fanpage presente su tale network in relazione al trattamento dei dati personali dei visitatori di tale fanpage contribuisce a garantire una più completa tutela dei diritti di cui godono le persone che visitano una fanpage, conformemente alle prescrizioni della direttiva 95/46 sulla protezione dei dati.

fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

sabato 9 giugno 2018

Tempi di pagamento della Pa alle imprese di nuovo più lunghi. Italia maglia nera in Europa

Dopo alcuni anni di progressiva diminuzione, dallo scorso mese di gennaio ad oggi sono tornati ad aumentare i tempi medi di pagamento della nostra Amministrazione pubblica. Si tratta di un andamento rilevato dalla Cgia che ha elaborato dati recentissimi: quelli contenuti nell’indagine «European Payment Report 2018» presentata da Intrum Justitia il 28 maggio 2018.
Se nel 2017, dice l’Associazione, il compenso veniva corrisposto dopo 95 giorni dall’emissione della fattura - contro i 30 stabiliti dalla normativa europea che possono salire a 60 per alcune tipologie di forniture, come quelle sanitarie – nell’anno in corso la media è salita a 104 giorni.
In altri termini, nessun altra Pubblica amministrazione (Pa) in Ue salda i debiti commerciali con tempi così lunghi. Rispetto alla media europea, ad esempio, in Italia i ritardi sono superiori di oltre due mesi (precisamente 63 giorni).
I dati sui tempi di pagamento dei paesi europei fanno rifermento ad un’indagine condotta tra il mese di gennaio e marzo di ogni anno presso un campione di circa 10 mila imprese in Europa (fonte dati: Intrum Justitia).
«Siamo maglia nera in Ue e nonostante le promesse fatte in questi ultimi anni – dichiara Paolo Zabeo coordinatore dell’Ufficio studi – gli enti pubblici continuano a liquidare i propri fornitori con ritardi inammissibili, mettendo in seria difficoltà soprattutto le imprese di piccola dimensione che, da sempre, sono sottocapitalizzate e a corto di liquidità. E sebbene da almeno 3 anni chi lavora per il pubblico ha l’obbligo di emettere la fattura elettronica, ancora adesso il sistema informatico messo a punto dal ministero dell’Economia non è in grado di stabilire a quanto ammonta complessivamente il debito commerciale della nostra Pa; una situazione surreale».
Alla luce di tutto ciò, alla CGIA sorge un dubbio: che attendibilità può avere un debitore, in questo caso lo Stato italiano, se non conosce nemmeno l’ammontare complessivo delle risorse che deve ai propri creditori, nonostante possa monitorare lo stato di avanzamento dei pagamenti attraverso la propria piattaforma informatica? Dalla CGIA ricordano che a seguito di questa situazione nel dicembre scorso la Commissione europea ha deferito l’Italia alla Corte di Giustizia dell’Unione a causa del sistematico mancato rispetto delle disposizioni europee contro i ritardi di pagamento.
I dati di Bankitalia
Secondo gli ultimi dati riportati dalla Banca d’Italia nella “Relazione annuale 2017” (pag. 154-155), lo stock di debiti commerciali in capo all’Amministrazione pubblica italiana sarebbe sceso da 64 a 57 miliardi di euro. E in attesa che il ministero dell’Economia riesca a dimensionarli con esattezza, si stima, al netto della quota riconducibile ai ritardi fisiologici (ovvero entro i 30/60 giorni come previsto dalla legge), che le imprese fornitrici vanterebbero circa 30 miliardi di crediti dalla Pa.
Va altresì sottolineato che dall’inizio del 2015 ha fatto il suo “debutto” lo split payment. Questa misura obbliga le amministrazioni centrali dello Stato (e dal 1° luglio 2017 anche le aziende pubbliche controllate dallo stesso) a trattenere l’Iva delle fatture ricevute e a versarla direttamente all’erario. L’obbiettivo è stato quello di contrastare l’evasione fiscale, ovvero, evitare che una volta incassata dal committente pubblico, le aziende fornitrici, che secondo Banca IFIS nel 2017 sono state circa 1 milione, non la versino al fisco.

fonte: Tempi di pagamento della Pa alle imprese di nuovo più lunghi - La Stampa

giovedì 7 giugno 2018

Guida in stato di ebbrezza: nel caso di incidente stradale è esclusa la sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità

Qualsiasi tipologia d'incidente stradale, provocato dal conducente in stato di ebbrezza alcolica ovvero dal conducente in stato di intossicazione da stupefacenti, impone l'applicazione del comma 2 bis dell'articolo 186 e dunque esclude l'applicabilità della sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, prevista dal comma 9 bis dell'articolo 186 C.d.S. A tal fine per incidente si intende qualsiasi avvenimento inatteso che, interrompendo il normale svolgimento della circolazione stradale, possa provocare pericolo alla collettività, senza che assuma rilevanza l'avvenuto coinvolgimento di terzi o di altri veicoli (Corte di Cassazione, sezione IV, sentenza 30 maggio 2018 n. 24433)
In tema di reato di guida in stato di ebbrezza ai fini dell' operatività del divieto di sostituzione della pena detentiva e pecuniaria con il lavoro di pubblica utilità, previsto dall'articolo 186 C.d.S., comma 9 bis, è sufficiente che ricorra la circostanza aggravante di aver provocato un incidente stradale essendo, invece, irrilevante che, all'esito del giudizio di comparazione con circostanza attenuante, essa non influisca sul trattamento sanzionatorio.
Affinché ricorra l'aggravante di cui all'articolo 186, c. 2 bis, C.d.S. nella nozione di incidente sono da ricomprendersi sia l'urto del veicolo contro un ostacolo, sia la fuoriuscita del veicolo dalla sede stradale. A tale fine non è previsto quale presupposto ne' i danni alle persone ne' i danni alle cose; deve trattarsi dunque di una qualsiasi, purche' significativa, turbativa del traffico, potenzialmente idonea a determinare danni: (Secondo la Suprema Corte questa situazione era assolutamente riscontrabile nella fattispecie esaminata, in quanto ritenuta evidentemente dal legislatore rivelatrice di effetti particolarmente pericolosi derivati dall'uso di bevande alcoliche (articolo 186 C.d.S.) o sostanze stupefacenti (articolo 187 C.d.S.).

fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

sabato 2 giugno 2018

Reddito di inclusione, da giugno più facile ottenerlo

In questi ultimi tempi l’attenzione è stata accesa sul reddito di cittadinanza, vale a dire l’aiuto economico nel programma elettorale del M5S che è rivolto a 9 milioni di italiani. C’è però un’altra misura che è già operativa e che si chiama reddito di inclusione (Rei), un’sostegno di contrasto alla povertà che è stato introdotta di recente dal governo Gentiloni e che è già operativo. Da giugno, vale a dire da questo mese, sarà più facile accedere a questa misura perché la platea dei beneficiari è stata allargata. Sono infatti stati tolti alcuni paletti che frenavano le domande.
Come spiega l’Inps, per ottenere il sussidio, non sarà più necessario avere in famiglia almeno un minore, un disabile, una donna in stato di gravidanza o un disoccupato over 55. E’ quanto era previsto in passato. Adesso le maglie sono state allargate e consentiranno di far richiesta del Reddito di inclusione a circa 200mila nuclei familiari in più. Si passerà così dalle 500 mila famiglie (per 1,8 milioni di persone) alle 700 mila (2,5 milioni di persone coinvolte) che avranno accesso.
Le domande, con le nuove condizioni, potranno essere presentate dal primo giugno. Il primo accredito arriverà a partire dal mese di luglio. Verrò erogato, come previsto da questa misura, tramite una carta prepagata di Poste Italiane (carta REI). E’ stato, di recente, aumentato anche l’importo riconosciuto mensilmente ai nuclei familiari composti da almeno 5 membri, che passa da 485,41 euro a 534 euro. Restano invariati, invece, gli importi per i nuclei familiari in difficoltà economica composti da 1 a 4 membri. Per i dettagli si può consultare i dettagli pubblicati sul sito dell’Inps.
Come fare domanda
La domanda per accedere ai servizi assistenziali del reddito di inclusione può essere presentata presso gli uffici del proprio Comune di residenza. Il contributo verrà pagato attraverso l’Inps. Sul sito dell’Inps è possibile trovare il modulo per la richiesta del Rei dove sono pubblicate (ma non ancora del tutto aggiornate) le condizioni relative a questa misura.

fonte: www.lastampa,it/Reddito di inclusione, da giugno più facile ottenerlo - La Stampa

Perse le foto del matrimonio: escluso il danno esistenziale

Chiuso il contenzioso con lo studio fotografico. Il professionista dovrà risarcire la fresca sposa per non aver adempiuto correttamente al contratto. Confermato quindi il danno patrimoniale. Escluso invece il ristoro economico per il danno morale lamentato dalla donna.
Le lacrime della sposa, distrutta per non aver ottenuto, contrariamente a quanto previsto, il book fotografico delle nozze, non sono sufficienti per ipotizzare l’esistenza di un “danno esistenziale”, meritevole cioè di adeguato ristoro economico.
Pur essendo evidente l’errore compiuto dal fotografo, che ha perduto tutti gli scatti relativi alla cerimonia e al ricevimento, è comunque impossibile sostenere, spiegano i Giudici del ‘Palazzaccio’, che la fresca sposa abbia visto violato un proprio diritto fondamentale (Cassazione, sentenza n. 13370/18, Sezione Terza Civile).
Errore del fotografo. Scenario della strana vicenda è la provincia di Roma, dove il giorno più bello degli sposi si trasforma in dramma: il fotografo commette un errore imperdonabile e perde tutte le fotografie riguardanti le nozze. Il marito reagisce all’imprevisto in maniera sobria, mentre la moglie manifesta chiaramente la propria rabbia e cita in giudizio lo studio fotografico, chiedendo il risarcimento non solo per «il danno patrimoniale» per la «mancata consegna del servizio fotografico» ma anche per «il danno morale ed esistenziale» arrecatole dalla «impossibilità di rivivere nel tempo le emozioni del matrimonio».
La posizione assunta dalla donna è ritenuta legittima dai giudici del Tribunale capitolino, che riconoscono anche un ristoro economico per la ‘ferita’ alla memoria da lei lamentata.
Di parere opposto sono invece i giudici della Corte d’appello di Roma, i quali confermano solo il risarcimento del danno patrimoniale. Sul fronte del «danno esistenziale», invece, essi escludono si possa parlare di «diritto costituzionalmente rilevante», riferendosi alla possibilità di richiamare alla mente, grazie alle immagini, «le emozioni delle nozze», e aggiungono che, comunque, «la coppia può rivivere il proprio matrimonio attraverso il video e ricavare da esso anche delle immagini fotografiche».
Risarcimento? La sconfitta subita in Appello ha ravvivato la rabbia della sposa, convintasi a presentare ricorso in Cassazione per vedere riconosciuta la gravità della ‘ferita’ morale subita. Così, ella ha spiegato, tramite il proprio legale, che «lo studio fotografico ha leso il diritto alla memoria e al ricordo, componenti del diritto all’identità personale riconosciuto dalla Costituzione italiana».
Ancora più in dettaglio, la sposa ha spiegato ai Giudici del Palazzaccio che «il diritto alla memoria del giorno del proprio matrimonio attraverso il servizio fotografico commissionato deve trovare riconoscimento, trattandosi di evento non ripetibile e di notevole importanza personale», e ha aggiunto, in conclusione, che «la perdita delle foto del matrimonio costituisce una lesione di grave importanza del diritto alla memoria».
Questa visione – comprensibile se si adotta l’ottica della sposa – non ha convinto però i magistrati della Cassazione, i quali hanno riconosciuto che «l’innegabile rilievo che la data delle nozze riveste per gli sposi» e che la situazione vissuta dalla sposa è «certamente in grado di creare turbamento d’animo», ma hanno poi precisato che «il danno lamentato dalla donna non assurge a una gravità tale da incidere su interessi di rango costituzionale».
Per i Giudici «il diritto a ricordare il giorno del matrimonio attraverso documentazione fotografica non costituisce, di per sé, un diritto fondamentale della persona, tutelato a livello costituzionale». A corroborare questa considerazione viene anche ricordato che «l’esercizio di tale diritto è rimesso esclusivamente agli stessi sposi, che possono, per varie ragioni, anche decidere di affidare il ricordo alla propria memoria».
Tirando le somme, il diritto sostenuto dalla sposa è «un diritto immaginario», concludono i Giudici, quindi inidoneo a essere fonte di «un obbligo risarcitorio» a livello di «danno morale».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Perse le foto del matrimonio: escluso il danno esistenziale - La Stampa

Schiamazzi e rumori nel condominio: è disturbo alla quiete pubblica

Ai fini della configurabilità della reato di “disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone” non sono necessarie né la vastità dell’area interessata dalle immissioni sonore, né il disturbo di un numero rilevante di persone. È infatti sufficiente che il fastidio venga arrecato a un gruppo di persone, anche se raccolte in un ambito ristretto, come un condominio, e non al singolo individuo.
Un circolo ricreativo disturba i condomini. Il Tribunale di Bergamo condanna il legale rappresentante di un’associazione al pagamento di un ammenda per aver, mediante schiamazzi e rumori superiori alla soglia consentita dalla legge, disturbato le occupazioni e il riposo delle persone che abitano il condominio in cui è sito il locale.
Il Tribunale accerta la produzione delle immissioni sonore provenienti dal circolo gestito dall’imputato, il quale, avverso tale sentenza, ricorre per cassazione.
Il ricorso è affidato a due motivi: con il primo motivo l’imputato deduce che non è stato accertato che le immissioni disturbino un numero indeterminato di persone, come richiesto ai fini della configurabilità del reato, di conseguenza, non ci sarebbe neanche un pericolo concreto per la quiete pubblica. Con il secondo motivo egli deduce la manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione, non essendo stato affermato, dai testi escussi, che la musica proveniente dal locale fosse assordante e fastidiosa anche al di fuori del condominio in cui si trovava il locale stesso.
La Corte di Cassazione osserva che i rumori e la musica proveniente dall’associazione gestita dall’imputato sono sicuramente idonei a disturbare l’occupazione e il riposo non solo della famiglia del denunciante, residente in un appartamento ubicato sopra il locale, ma di tutti gli abitanti presenti nelle vicinanze, tanto che una residente era stata costretta a trasferirsi.
Quando le immissioni configurano il reato. Per la configurabilità del reato di disturbo delle occupazioni e del riposo non sono necessarie né la vastità dell’area interessata dalle immissioni sonore, né il disturbo di un numero rilevante di persone, essendo sufficiente che il disturbo venga arrecato a un gruppo di un numero indeterminato di persone e non solo a un singolo, anche se raccolte in un ambito ristretto come ad esempio il condominio.
Inoltre, il fatto che dei rumori se ne siano lamentati solo i condomini potenzialmente lesi dalle immissioni sonore, non esclude la configurabilità del reato, allorquando, come nel caso di specie sia stata accertata l’idoneità delle stesse ad arrecare disturbo ad un numero indeterminato di persone, quali gli abitanti del medesimo condominio, con la conseguente incidenza sulla tranquillità e quiete pubblica.

Fonte: condominioelocazione.it/Schiamazzi e rumori nel condominio: è disturbo alla quiete pubblica? - La Stampa

Ferrara: Violentò minore in auto. Condanna a dieci anni per il pedofilo seriale

Ieri la sentenza del Tribunale nei confronti uno straniero di 32 anni. Al termine dell’udienza la vittima, ora maggiorenne, ha pianto. É sta...