sabato 30 dicembre 2017

Maternità surrogata: necessario valutare l’interesse del minore

Secondo la Corte Costituzionale (sentenza n. 272/17), il giudice chiamato a pronunciarsi sull’impugnazione del riconoscimento del figlio naturale concepito tramite maternità surrogata è sempre tenuto ad effettuare una valutazione comparativa tra interesse alla verità e interesse del minore.
Il caso. La Corte d’appello di Milano ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 c.c., nella parte in cui non prevede che l’impugnazione del riconoscimento del figlio minore per difetto di veridicità possa essere accolta solo quando sia rispondente all’interesse dello stesso.
La vicenda sottoposta all’esame della Corte distrettuale traeva origine dalla trascrizione del certificato di nascita, formato all’estero, di un bambino, riconosciuto come figlio naturale da una coppia di cittadini italiani i quali avevano in seguito ammesso il ricorso alla surrogazione di maternità.
Comparare esigenza di verità e interesse del minore. Secondo la Consulta, il Giudice chiamato a pronunciarsi sull’impugnazione del riconoscimento del figlio naturale concepito tramite surrogazione di maternità è sempre tenuto a comparare l’interesse alla verità con l’interesse del minore in quanto tale valutazione è ineludibile anche in caso di impugnazione del riconoscimento.
In alcuni casi, sottolinea la Corte, la comparazione è svolta direttamente dalla legge (ad es. per il disconoscimento del figlio concepito da fecondazione eterologa) mentre in altri «il legislatore impone l’imprescindibile presa d’atto della verità con divieti come quello della maternità surrogata. Ma l’interesse del minore non è per questo cancellato».
Nel silenzio della legge, come nel caso in esame, la regola di giudizio che il giudice è tenuto ad applicare deve tenere conto di variabili molto più complesse della rigida alternativa vero o falso: tra queste, oltre alla durata del rapporto instauratosi con il minore e alla condizione identitaria dallo stesso acquisita, devono assumere oggi particolare rilevanza «da un lato le modalità del concepimento e della gestazione e dall’altro la presenza di strumenti legali che consentano la costituzione di un legame giuridico con il genitore contestato che, pur diverso da quello derivante dal riconoscimento, quale è l’adozione in casi particolari, garantisca al minore un’adeguata tutela».
Nella valutazione comparativa richiesta al giudice, inoltre, rientra anche la considerazione dell’elevato grado di disvalore che il nostro ordinamento riconnette alla surrogazione di maternità, vietata da apposita disposizione penale e considerata «un’offesa intollerabile alla dignità della donna che mina nel profondo le relazioni umane».
La Consulta, pertanto, ha dichiarato infondata la questione di legittimità.

Fonte: www.ilfamiliarista.it/Maternità surrogata: necessario valutare l’interesse del minore - La Stampa

giovedì 28 dicembre 2017

Lavoratrice in maternità alla scadenza del contratto: persa la disoccupazione

La domanda della lavoratrice riguarda la possibilità di computare la contribuzione figurativa per maternità ai fini del requisito contributivo di un anno necessario per il diritto all’indennità di disoccupazione. Secondo l’INPS, la richiesta di computazione, nel caso di specie, è impossibile in quanto il periodo di maternità è andato oltre il rapporto di lavoro.
Sulla questione la Cassazione con sentenza n. 30426/17, depositata il 19 dicembre.
Il fatto. La Corte d’Appello di Firenze aveva ritenuto computabile, ai fini del requisito contributivo di un anno per l’indennità di disoccupazione, le settimane di astensione obbligatoria per maternità, che, invece, era stata negata dall’INPS. Secondo l’Istituto previdenziale era inutilizzabile la contribuzione figurativa per maternità in quanto maturata a rapporto di lavoro cessato.
Al contrario i Giudici avevano rilevato che il rapporto di lavoro fosse cessato due giorni dopo l’inizio del congedo per maternità e quindi la contribuzione figurativa per maternità doveva ritenersi utile per l’indennità di disoccupazione.
Avverso tale decisione l’INPS ha proposto ricorso per cassazione.
Rilevanza del rapporto di lavoro. La ricorrente sostiene che ai fini del diritto all’indennità di disoccupazione la Corte territoriale, ritenendo perfezionato il requisito contributivo annuale, non abbia considerato che il periodo di maternità si era protratto non in costanza di rapporto di lavoro.
In primo luogo la Cassazione ha osservato che il legislatore, con il d.l. n. 1827/1935 (Perfezionamento e coordinamento legislativo della previdenza), ha espressamente disciplinato l’incidenza dell’astensione obbligatoria dal lavoro per maternità ai fini del raggiungimento del requisito di un anno di contribuzione per ottenere una tutela contro la disoccupazione.
Inoltre osserva la Suprema Corte che l’ipotesi di rilevanza della contribuzione figurativa implica che «la contribuzione figurativa correlata a periodi di maternità attenga ad un rapporto di lavoro in atto e sia versata in costanza di rapporto di lavoro».
Nella fattispecie, in osservanza di questi principi, non rileva il fatto che l’interruzione obbligatoria del rapporto di lavoro sia iniziata due giorni prima della scadenza del contratto di lavoro a termine, perché ciò che assume rilievo, per il raggiungimento del requisito di un anno di contribuzione ai fini dell’indennità di disoccupazione, «è che il periodo di interruzione sia racchiuso in un rapporto di lavoro in atto, come richiesto dall’art. 56 r.d.l. n. 1827/1935, che evoca “i periodi di interruzione obbligatoria e facoltativa dal lavoro durante lo stato di gravidanza e puerperio”».
In conclusione la Corte ha accolto il ricorso dell’INPS e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, deciso direttamente nel merito rigettando la domanda dell’interessata.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Lavoratrice in maternità alla scadenza del contratto: persa la disoccupazione - La Stampa

sabato 23 dicembre 2017

Modena, una coppia si separa. Il tribunale prevede un assegno di mantenimento per il cane

Il cane è parte di una famiglia, quando quest’ultima di sfalda, allora anche il quattrozampe ha diritto a essere considerato in fase di separazione.
I giudici del Secondo Collegio del Tribunale civile di Modena hanno stabilito, nell’ambito di una separazione consensuale, che un uomo dovrà riconoscere all’ex moglie 50 euro al mese come assegno di mantenimento per il cane, un pastore tedesco di razza.
La donna, racconta la Gazzetta di Modena, aveva spiegato nel suo ricorso giudiziale - poi ricondotto davanti al giudice per una separazione consensuale - come anche il cane, di proprietà del marito, fosse una figura importante per la famiglia e non aveva nessuna intenzione di separarsi da lui e di costringere i figli a non vederlo più. Così il giudice ha deciso di “collocarlo” insieme ai figli minori della coppia, che vivranno con la madre, e di attribuire alla moglie 50 euro mensili a carico dell’ex marito. Un contributo al 50 per cento per il mantenimento del cane, che spetta quindi a entrambi i coniugi come nel caso delle spese straordinarie che sono divise per consuetudine a metà.
L’ex coppia si è detta d’accordo per la decisione del giudice. Una decisione che rappresenta un precedente a cui probabilmente faranno riferimento altri tribunali.

Fonte: Modena, una coppia si separa. Il tribunale prevede un assegno di mantenimento per il cane - La Stampa

La conversazione whatsapp può costituire una prova in Tribunale

La sentenza della Cassazione. Chiamata a decidere il ricorso avverso la sentenza della Corte d’appello di Caltanissetta che confermava la condanna emessa nei confronti del ricorrente a esito di giudizio abbreviato per il delitto di atti persecutori commesso in danno alla ex minorenne, la Corte di Cassazione, sentenza n. 49016/17, ha affrontato la questione se fosse o meno acquisibile la trascrizione delle conversazioni svoltesi sul canale informatico whatsapp tra l’imputato e la persona offesa.
Sul punto il Supremo Collegio ha affermato che:
«la registrazione di tali conversazioni, operata da uno degli interlocutori, costituisca una forma di memorizzazione di un fatto storico, della quale si può certamente disporre legittimamente ai fini probatori, trattandosi di una prova documentale, atteso che l’art. 234 c.p.p., comma 1, prevede espressamente la possibilità di acquisire documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo, l’utilizzabilità della stessa è, tuttavia, condizionata dall’acquisizione del supporto – telematico o figurativo contenente la menzionata registrazione, svolgendo la relativa trascrizione una funzione meramente riproduttiva del contenuto della principale prova documentale: tanto perché occorre controllare l’affidabilità della prova medesima mediante l’esame diretto del supporto onde verificare con certezza sia la paternità delle registrazioni sia l’attendibilità di quanto da esse documentato».

Fonte: www.ilpenalista.it/La conversazione whatsapp può costituire una prova in Tribunale? - La Stampa

venerdì 22 dicembre 2017

Reati edilizi: la tenuità del fatto non blocca la demolizione

In caso di reati edilizi, alla dichiarazione di non punibilità per particolare tenuità del fatto, deve seguire la sanzione amministrativa accessoria dell'ordine di demolizione. La Corte di cassazione, con la sentenza 57118, accoglie il ricorso del pubblico ministero sia per quanto riguarda la possibilità di far ricadere l'abuso contestato all'imputato nel raggio d'azione dell'articolo 131-bis sulla tenuità del fatto, sia per quanto riguarda il mancato passaggio di demandare all'autorità amministrativa competente il compito di applicare la sanzione accessoria della demolizione del manufatto abusivo: nello specifico un bar di 33 metri, sottratto alla valutazione tecnica sulla sicurezza. Per il Pm non un fatto lieve, visto che si trattava di un esercizio frequentato da persone ignare del fatto che la struttura poteva non sopportare il carico. Sul punto il giudice avrebbe avuto l'obbligo di motivare in modo più dettagliato la sua convinzione. Inoltre all'imputato erano state contestate diverse violazioni: dalla realizzazione in assenza di permesso di costruire al mancato avviso al genio civile. Il giudice aveva imboccato la via della non punibilità, partendo dal presupposto che la continuazione di reati non sia assimilabile all'abitualità e dunque non precluda l'applicabilità dell'articolo 131-bis. Il che è vero, ma in presenza di reato continuato il giudice, per applicare il beneficio, deve soppesare diversi elementi, fra i quali la gravità del reato, la capacità di delinquere, i precedenti il numero di disposizioni violate ecc. Nello specifico essendo state violate diverse norma di legge, tra l'altro in relazione alla sicurezza di un luogo pubblico, c'era un obbligo di motivazione “rafforzata”. Sbagliato anche non far conseguire alla non punibilità l'ordine di demolizione, in nome dell'autonomia della sanzione accessoria. L'ordine di demolizione, come sanzione di carattere ripristinatorio e non punitivo, non è, infatti, soggetto ad uno stop a causa della prescrizione e allo stesso modo non può essere ostacolato dalla dichiarazione di non punibilità. La Cassazione annulla il verdetto e rinvia

fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

giovedì 21 dicembre 2017

Tenuità del fatto: il Gip non può archiviare de plano se l'indagato si oppone

Il gip non può archiviare de plano il procedimento per la particolare tenuità del fatto senza notificare le decisione all'imputato che si era già dichiarato contrario. La Corte di cassazione, con la sentenza 56942 depositata ieri, accoglie il ricorso contro la scelta del giudice delle indagini preliminari di archiviare senza fissare un'apposita udienza, malgrado ci fosse un atto di opposizione da parte del diretto interessato. La Suprema corte ricorda che il Dlgs 28 del 2015 che ha introdotto la particolare tenuità del fatto, ha in effetti previsto la possibilità di anticipare la dichiarazione di non punibilità in fase di indagini preliminari per rendere più incisiva la finalità deflattiva della norma ed effettivo l'alleggerimento del carico di lavoro degli uffici giudiziari. Il procedimento di archiviazione deve però necessariamente prevedere un “confronto” con l'indagato o con la persona offesa sulla richiesta del Pm, che li metta nella condizione di contestare la particolare tenuità del fatto, nel caso dell'indagato perché punta ad una piena assoluzione nel merito e nel caso della parte lesa perché ha interesse a dimostrare che il fatto non è di lieve entità. Per questo la norma prevede che sia la persona offesa sia quella sottoposta alle indagini preliminari sia no avvisate della richiesta di archiviazione alla quale possono opporsi entro 10 giorni e il giudice, se non rileva motivi di inammissibilità, deve fissare l'udienza camerale dandone notizia al Pm, all'indagato e alla parte lesa. E' dunque evidente, per la Cassazione, che il mancato esame dei motivi dell'opposizione presentata dal ricorrente determina la nullità insanabile del decreto del Gip.

fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

mercoledì 20 dicembre 2017

Prima casa, bonus ampio per chi accorpa più appartamenti

Una nuova Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate riconosce l’agevolazione in caso di acquisto di un nuovo immobile da accorpare ai due preposseduti.
La risposta delle Entrate. Via libera al bonus prima casa per il contribuente che, già proprietario di due appartamenti, vicini ma non contigui, acquista il terzo che gli consente di unificare le tre abitazioni in un’unica unità immobiliare.
La conferma è arrivata ieri dall’Agenzia delle Entrate che, nella Risoluzione n. 154/E, ha preso in analisi il caso di una contribuente proprietaria di due appartamenti siti nello stesso immobile in Torino, e, precisamente, un’abitazione ubicata al secondo piano, acquistata nel 1997, usufruendo dell’agevolazione “prima casa”, e un’altra abitazione ubicata al terzo piano, acquistata nel 2015, senza fruire di agevolazioni fiscali. Intenzionata ora ad acquistare, sempre nello stesso immobile, una nuova abitazione, ubicata al terzo piano e adiacente ai due appartamenti già posseduti (contigua all’appartamento sito al terzo piano e sovrastante l’appartamento ubicato al secondo piano), per poi procedere alla successiva unificazione, anche catastale, delle tre abitazioni in un’unica unità immobiliare, la contribuente chiede all’Amministrazione finanziaria se, in sede di acquisto del nuovo immobile, possa richiedere nuovamente le agevolazioni fiscali previste per l’acquisto della “prima casa”.
La risposta delle Entrate è positiva: per l’Agenzia non ci sono ostacoli alla fruizione del bonus e neppure la circostanza che uno degli immobili preposseduti sia stato acquistato senza fruire delle agevolazioni in commento pregiudica il beneficio. “Si ritiene” hanno scritto dalle Entrate “che la contribuente istante possa fruire delle agevolazioni ‘prima casa’ per l’acquisto del nuovo immobile, a condizione che proceda alla fusione delle tre unità immobiliari e che l’abitazione risultante dalla fusione non rientri nelle categorie A/1, A/8 o A/9”.

Fonte: www.fiscopiu:it/Prima casa, bonus ampio per chi accorpa più appartamenti - La Stampa

Perde il volo e strattona l’addetta al check-in: è violenza privata

Tre mesi di reclusione per una passeggera irrequieta. La donna non ha digerito il «no» al check-in e ha cercato di convincere la dipendente della compagnia a farla salire comunque sull’aereo.
Arrivo tardivo al check-in in aeroporto e volo perduto. La reazione della passeggera è però spropositata: prima inveisce contro l’addetta all’imbarco e poi la strattona, spiegandole che lei deve assolutamente partire. Comportamenti, questi, non solo poco urbani e poco eleganti, ma anche rilevanti penalmente, tanto da valere una condanna per violenza privata (Cassazione, sentenza n. 56317/17, sez. V Penale, depositata il 18 dicembre).
Reazione esagerata. Ricostruito facilmente l’increscioso episodio verificatosi all’aeroporto di Reggio Calabria. Sotto accusa una passeggera che si è comportata malissimo nei confronti di una «addetta al check-in della compagnia ‘Alitalia’», rea di averle impedito di «imbarcarsi sul volo Reggio Calabria-Roma Fiumicino».
Per i Giudici d’Appello è evidente come la donna abbia messo in atto una vera e propria «violenza privata» nei confronti della dipendente della compagnia aerea. Ecco spiegata la relativa condanna a «tre mesi di reclusione».
La passeggera però contesta quella decisione, spiegando il proprio comportamento come frutto di «rabbia e frustrazione», a seguito del ‘no’ alla possibilità di salire sull’aereo, nonostante la presentazione della regolare carta d’imbarco.
Questa visione viene però respinta dalla Cassazione. I giudici annotano innanzitutto che «la reazione istintiva» della passeggera è stata quella di «sbattere i pugni sul tavolo ed inveire all’indirizzo dell’addetta al check-in». Successivamente, però, la situazione è degenerata: la donna, «non rassegnandosi all’idea di restare a terra», ha aggredito fisicamente la dipendente di ‘Alitalia’, «strattonandola e dicendole che lei doveva comunque partire» per Roma.
Quest’ultimo comportamento, osservano i Giudici, era «finalizzato a costringere l’addetta all’imbarco ad accettarla sul volo». Evidente, quindi, la «violenza privata» che la passeggera ha messo in atto per provare a raggiungere il proprio scopo.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Perde il volo e strattona l’addetta al check-in: è violenza privata - La Stampa

lunedì 18 dicembre 2017

Responsabilità sanitaria, per i «vecchi» errori la prova è a carico del medico

Il medico convenuto per il risarcimento del danno subito dal paziente per un errore commesso prima del 1° aprile scorso risponde a titolo di responsabilità contrattuale. Il danneggiato e i suoi eredi devono quindi provare solo il “rapporto di spedalità” e il danno, mentre il sanitario ha l’onere di dimostrare di avere agito in modo professionalmente diligente. Lo ha affermato la Cassazione, con la sentenza 26517 del 9 novembre scorso, che ha deciso in base ai principi stabiliti dal decreto legge 158/2012 (legge Balduzzi), applicabili ai fatti di causa per ragioni temporali.
Si tratta di principi che la legge 24/2017 (legge Gelli-Bianco), in vigore dal 1°aprile scorso, con riferimento all’azione diretta nei confronti del medico, modifica: le nuove disposizioni qualificano infatti la responsabilità del medico come extracontrattuale e impongono al danneggiato che agisce contro di lui di provare il danno, la colpa o il dolo e il nesso di causalità tra il primo e i secondi. Attenzione però: ciò vale per i sanitari che operano come “strutturati” in un’azienda sanitaria pubblica o in una clinica privata; i medici liberi professionisti, invece, che stringono con il paziente un rapporto contrattuale diretto, continuano a rispondere per responsabilità contrattuale.
La vicenda
Gli eredi di un paziente deceduto a seguito di un epitelioma alle mucose orali diagnosticato tardivamente convengono in giudizio il medico che in precedenza, nel suturare le escoriazioni alla bocca del loro congiunto, non aveva prescritto gli esami istologici atti a rivelare la natura cancerosa della lesione.
Il giudizio davanti al tribunale termina con la condanna del sanitario al risarcimento del danno e lo stesso accade in Corte d’appello, con la conferma del provvedimento di primo grado e la condanna al risarcimento del danno per “medical malpractice” a carico del sanitario.
Il medico ricorre per Cassazione contro la sentenza d’appello, chiedendone la riforma. Ma l’impugnazione viene respinta dalla Suprema corte.
La Cassazione
Nel ricorso il medico lamenta la scorrettezza della decisione della Corte d’appello in relazione all’assetto dell’onere della prova, affermando che i giudici avevano erroneamente ritenuto che tale aspetto dovesse essere governato dai principi della responsabilità contrattuale, i quali impongono alla parte attrice solo di dimostrare il rapporto di spedalità e il danno, mentre spetta al sanitario convenuto «provare di avere tenuto una condotta diligente».
La Cassazione ha tuttavia confermato la decisione d’appello, applicando le norme in tema di assetto della responsabilità medica in vigore quando la lite è stata inizialmente promossa (vale a dire la legge Balduzzi).
La riforma
La Legge Gelli/Bianco ha profondamente innovato e cercato di chiarire il contenuto della responsabilità civile sanitaria, ponendo alcuni principi cardine:
• il danneggiato o i suoi eredi possono agire direttamente contro la struttura sanitaria, ovvero la sua assicurazione, a titolo di responsabilità contrattuale;
• in alternativa, il danneggiato o i suoi eredi possono anche agire direttamente contro il medico dipendente della struttura ovvero la sua assicurazione, ma in questo caso solo a titolo di responsabilità extracontrattuale (con, in linea di principio, un ben più gravoso onere della prova a loro carico);
• nei confronti del medico libero professionista legato al paziente da un rapporto contrattuale, o nei confronti della sua assicurazione, il danneggiato o i suoi eredi possono svolgere azione diretta a titolo di responsabilità contrattuale.

fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

La Borsalino è fallita:respinta la seconda richiesta di concordato preventivo

La Borsalino è fallita. Il giudice Caterina Santinello, presidente del tribunale civile di Alessandria, ha emesso oggi la sentenza rigettando la seconda richiesta di concordato preventivo presentata dal cda della società (Marco Moccia, Saverio Canepa, Raffaele Grimaldi): la prima era stata revocata un anno fa, dopo che a marzo 2016 lo stesso tribunale aveva ammesso Borsalino alla procedura.
Il paradosso è che l’azienda non fallisce per ragioni di mercato, ma esclusivamente finanziarie: coinvolta nel maxi-crac del astigiano Marco Marenco, aveva appunto tentato la strada del concordato, trovando anche un investitore, l’italo svizzero Philippe Camperio. Con la prospettiva di acquisire l’azienda al termine della procedura, l’aveva presa in affitto, aveva saldato i debiti con l’Agenzia delle entrate sborsando oltre 4 milioni, poi aveva investito sia in macchinari che nella rete commerciale e in promozione. Ha anche acquistato per 18 milioni il marchio che diversi anni fa era stato dato in pegno alle banche in cambio di soldi freschi: su questa operazione si è concentrata per altro la requisitoria del pm.
Comunque il contratto d’affitto scade a giugno, starà al curatore nominato dal tribunale decidere che fare. È probabile un periodo di stallo non breve: il cda è intenzionato a ricorrere contro la sentenza in appello a Torino, la causa si prevede che possa essere definita da febbraio in poi, salvo eventuali giudizi di terzo grado.
Se restasse il fallimento, la Borsalino andrebbe all’asta. La sentenza ha lasciato nell’incertezza i 134 dipendenti, che ora temono per la prosecuzione dell’attività: i sindacati sarebbero pronti a dare battaglia, visto che il cappellificio è stato risanato e ha grandi potenzialità di sviluppo. La legge è stata applicata, la giustizia è ancora tutta da discutere.

Fonte: La Borsalino è fallita: il crac deciso da un giudice del tribunale di Alessandria per motivi finanziari - La Stampa

sabato 16 dicembre 2017

Rottamazione-bis: ecco come compilare la domanda

Il nuovo Modello DA 2000/17, disponibile da qualche giorno sul sito dell’Agenzia delle Entrate-Riscossione, deve essere inviato entro il 15 maggio 2018.
Entra nel vivo la nuova rottamazione delle cartelle disciplinata dal Decreto Fiscale collegato alla manovra 2018 (D.L. n. 148/2017 convertito con la L. n. 172/2017). La scorsa settimana l’Agenzia delle Entrate-Riscossione ha pubblicato sul proprio sito web il nuovo modello per presentare domanda di adesione alla definizione agevolata, unitamente alle FAQ e alla Guida alla compilazione. Si tratta del modello DA 2000/17.
Ecco in breve come va compilato.
Dati anagrafici. I primi dati a essere richiesti sono quelli anagrafici del soggetto dichiarante, ovvero l’intestatario delle somme per le quali si richiede la definizione. Nel caso in cui il soggetto dichiarante sia legale rappresentante/titolare/tutore/ curatore/erede, oltre ai suoi dati anagrafici, è necessario specificare anche quelli della persona/società/ ditta/ente/associazione ecc., per cui si chiede la definizione agevolata. Dopo i dati anagrafici occorre indicare il domicilio: tale indicazione è indispensabile perché costituirà l’indirizzo presso cui l’Agenzia Riscossione invierà la “Comunicazione delle somme dovute” in risposta alla dichiarazione presentata. In alternativa può essere fornita la PEC.
Oggetto. Segue poi la Sezione “Cartelle/avvisi oggetto di definizione agevolata”. Qui ci sono due possibilità: il numero delle cartelle/avvisi che si intendono definire nell’apposita tabella oppure allegare un elenco riepilogativo delle cartelle/avvisi che si intendono definire.
Identificativo. Il prospetto successivo, “Identificativo carico”, deve essere compilato esclusivamente nel solo caso in cui si intenda aderire alla definizione agevolata solo in relazione ad alcuni dei debiti contenuti nella cartella indicate nel prospetto precedente. ai contribuenti, infatti, è riconosciuta la possibilità di definire solo alcuni ruoli indicati nelle cartelle ed anche solo alcuni carichi che compongono i singoli ruoli indicati nelle cartelle.
Modalità di pagamento. Superate queste Sezioni occorre indicare la modalità di pagamento, se in un’unica soluzione (versamento del 100% entro luglio 2018) ovvero a rate. Il numero massimo di quest’ultime varia a seconda del carico che si rottama (5 rate nel caso di cartelle/avvisi consegnati all’Agente della riscossione dal 1° gennaio al 30 settembre 2017; 4 rate per cartelle/avvisi affidati dal 1° gennaio 2000 al 31 dicembre 2016). nel caso in cui la cartella/avviso indicata nella richiesta fosse interessata da una rateizzazione in corso al 24 ottobre 2016, devono innanzitutto essere saldate, entro luglio 2018, le rate scadute nel 2016. Se non viene indicata una preferenza delle soluzioni a rate, il pagamento si intende richiesto in un’unica soluzione.
Dopo le modalità di pagamento occorre indicare, ove presenti, i giudizi pendenti che interessino le somme oggetto della dichiarazione di adesione e contestualmente assumere l’impegno a rinunciarvi.
Nell’ultimo riquadro trova spazio la dichiarazione sostitutiva/atto di notorietà che deve essere compilata esclusivamente nell’ipotesi di presentazione della dichiarazione da parte di un legale rappresentante/titolare/tutore/curatore/erede.

Fonte: www.fiscopiu.it/Rottamazione-bis: ecco come compilare la domanda - La Stampa

giovedì 14 dicembre 2017

Tribunale di Milano: l’Inps eroghi il “premio di nascita” a tutte le madri (anche straniere)

Ha «carattere discriminatorio» la condotta dell’Inps «consistente nell’aver introdotto requisiti non previsti dalla legge del 2016 per poter beneficiare del cosiddetto “premio alla nascita” come il permesso di soggiorno di lungo periodo. Il premio va quindi esteso «a tutte le future madri» straniere «regolarmente presenti in Italia che ne facciano domanda». Lo ha deciso il giudice del Tribunale civile di Milano accogliendo il ricorso di APN - Avvocati per niente Onlus, A.S.G.I. Associazioni Studi Giuridici sull’Immigrazione e Fondazione Guido Piccini per i Diritti dell’Uomo Onlus.
«Per quanto attiene le modalità attraverso cui ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e l’adozione di provvedimenti idonei a rimuovere gli effetti della discriminazione - scrive il giudice - si rileva che» alla luce della legge e della disciplina comunitaria di riferimento, «l’unica possibile soluzione è quella di estendere il beneficio assistenziale denominato `premio alla nascita´ a tutte le future madri regolarmente presenti in Italia che ne facciano domanda e che si trovino nelle condizione giuridico-fattuali» previste dalla legge stessa.
«Infatti - scrive il magistrato - se è pur vero che la disparità di trattamento può essere superata anche attraverso l’introduzione di requisiti ulteriori a carico dei cittadini comunitari, è altrettanto indiscutibile che l’odierno giudicante deve adottare una soluzione conforme al diritto interno e comunitario, non potendosi in alcun caso sostituire al legislatore».

fonte: Tribunale di Milano: l’Inps eroghi il “premio di nascita” a tutte le madri - La Stampa

Consenso informato come inalienabile forma di rispetto per la libertà dell’individuo

È del tutto legittima, per il paziente, la pretesa di conoscere con precisione le conseguenze dell’intervento medico, per poterle affrontare in modo consapevole, per poter scegliere tra le diverse opzioni di trattamento, acquisire ulteriori pareri, avere la facoltà di decidere di rivolgersi ad altro sanitario, ed infine anche poter rifiutare l’intervento e/o la terapia. Condizione di risarcibilità è che sia varcata la soglia della gravità dell’offesa.
Il caso. Una donna conviene in giudizio l’Ospedale di Verona per sentirlo condannare al risarcimento del danno subito a seguito di un’operazione chirurgica di sostituzione protesica e, in via subordinata, al risarcimento del danno da mancanza di consenso informato. I giudici rigettano la domanda proposta in via principale e accolgono quella formulata in via incidentale. La donna ricorre ora in Cassazione e dichiara che la violazione dell’obbligo di raccogliere un valido consenso avrebbe inciso sia sul suo diritto all’autodeterminazione, sia sul diritto alla salute, dal momento che l’attività terapeutica ha cagionato un peggioramento delle sue condizioni psico-fisiche «anche in presenza di una condotta medica tecnicamente ineccepibile».
Consapevolezza dei rischi dell’intervento? L’Azienda Ospedaliera si duole della ripartizione degli oneri probatori in materia di responsabilità del medico per mancanza di consenso informato, nella convinzione che il documento presente nella cartella clinica della paziente, da lei sottoscritto, costituirebbe esso stesso prova dell’avvenuto rilascio del consenso informato. Dalle dichiarazioni rese alla CTU si desumerebbe, inoltre, come la donna fosse, in realtà, consapevole dei rischi derivanti dall’intervento; in ogni caso, conclude la struttura sanitaria, questa avrebbe dovuto dimostrare il rifiuto dell’intervento in caso di compiuta informazione.
Documento inidoneo. La Cassazione dichiara che la Corte d’Appello aveva correttamente ritenuto che il documento prodotto fosse inidoneo a provare l’adempimento dell’obbligo di acquisire un valido consenso informato da parte della struttura ospedaliera, in quanto il prestampato risultava essere privo di data e del nome della paziente: è consolidato l’orientamento per cui «la sottoscrizione di un modulo di consenso informato del tutto generico da parte del paziente non è idonea a far presumere che il medico a ciò obbligato abbia comunicato oralmente al paziente tutte le informazioni necessarie che egli era contrattualmente obbligato a fornire a tal fine».
Rilievo della mancanza di consenso. Corretto anche, prosegue la Cassazione, che la Corte d’Appello non abbia ritenuto rilevante il fatto che la donna non avesse dimostrato come, se adeguatamente informata, avrebbe rinunciato all’intervento. «La mancanza di consenso assume rilievo solo nel caso in cui siano configurabili conseguenze pregiudizievoli derivate dalla violazione del diritto all’autodeterminazione in sé considerato a prescindere dalla lesione incolpevole della salute del paziente».
Inalienabile forma di rispetto per la libertà dell’individuo. Tale diritto è distinto da quello alla salute e rappresenta una doverosa e inalienabile forma di rispetto per la libertà dell’individuo, strumento relazionale finalizzato al perseguimento e alla tutela dell’interesse dell’individuo ad una compiuta informazione, mediante l’indicazione delle prevedibili conseguenze del trattamento sanitario, del possibile verificarsi di un aggravamento delle condizioni di salute e dell’eventuale impegno, in termini di sofferenza, del percorso riabilitativo.
Legittima la pretesa di essere informato. Secondo la Cassazione è da considerarsi del tutto legittima, per il paziente, la pretesa di conoscere con precisione le conseguenze dell’intervento medico, per poterle affrontare in modo consapevole e per poter decidere di scegliere tra le diverse opzioni di trattamento, mantenendo la libertà di acquisire ulteriori pareri e conseguentemente decidere di rivolgersi ad altri sanitari, nella facoltà di rifiutare sia l’intervento che la terapia. La Cassazione ricorda che condizione di risarcibilità è che sia varcata la soglia della gravità dell’offesa secondo quanto previsto dalle cd. Sentenze di San Martino (Cass. S.U. dell’11 novembre 2008, nn. 26972-75).
Mancanza di consenso consapevolmente prestato. Nel caso di specie, la paziente ha chiesto il risarcimento per le non prevedibili conseguenze di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito, sebbene compiuto senza informazione preventiva sui possibili effetti pregiudizievoli, ma senza fornire alcuna prova del danno arrecato al proprio diritto alla salute.
Pertanto, conclude la Cassazione, la decisione della Corte territoriale risulta conforme a diritto e rigetta ricorso.

Fonte: www.ridare.it/Consenso informato come inalienabile forma di rispetto per la libertà dell’individuo - La Stampa

Vaccino antinfluenzale, diritto all'indennizzo in caso di menomazioni

La Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la legge n. 210 del 1992 nella parte in cui non prevede il diritto a un indennizzo in favore di chiunque abbia subito una permanente menomazione dell`integrità psico-fisica a seguito della vaccinazione contro il virus influenzale, purché sia provato il nesso di causalità tra l'una e l'altra. La legge sottoposta a giudizio della Corte prevede il diritto all`indennizzo solo se la menomazione consegue a una vaccinazione obbligatoria, mentre la vaccinazione influenzale appartiene a quelle raccomandate dalle autorità sanitarie pubbliche. La Corte ha ritenuto che, come accade per quelle obbligatorie, anche la vaccinazione raccomandata antinfluenzale ha l`obbiettivo di assicurare la tutela della salute collettiva, attraverso il raggiungimento della massima copertura vaccinale della popolazione. Pertanto - si spiega in una nota - anche in questo caso esigenze di solidarietà sociale e di tutela della salute del singolo richiedono che sia la collettività ad accollarsi l`onere dell`eventuale pregiudizio individuale, mentre sarebbe ingiusto consentire che siano i singoli danneggiati a sopportare il costo del beneficio collettivo. La sentenza precisa poi che l`estensione del riconoscimento del diritto all`indennizzo non implica affatto valutazioni negative sul grado di affidabilità scientifica della somministrazione delle vaccinazioni. Al contrario, la previsione dell'indennizzo, sempre che sia accertato un nesso di causalità tra somministrazione del vaccino e menomazione permanente, completa il "patto di solidarietà" tra individuo e collettività in tema di tutela della salute e rende più serio e affidabile ogni programma sanitario volto alla diffusione dei trattamenti vaccinali, al fine della più ampia copertura della popolazione.

fonte: Vaccino antinfluenzale, diritto all'indennizzo in caso di menomazioni - News - Italiaoggi

martedì 12 dicembre 2017

Sgombero immobili abusivamente occupati: responsabile dell’inerzia è il Ministero

Occupazione abusiva di uno stabile: il Tribunale di Roma condanna il Ministero dell’Interno al risarcimento dei danni, nella misura di € 266.672,76 mensili, pari al valore locatizio dell’immobile, a decorrere dalla data del sequestro penale e fino alla data dello sgombero, richiedendo l’attivazione delle forze dell’ordine per l’esecuzione del sequestro.
Il caso. Un grosso stabile sito in Roma viene occupato abusivamente da oltre trecentocinquanta persone. La società proprietaria dell’immobile presenta immediata denuncia al locale Commissariato di Pubblica sicurezza e chiede l’immediato sgombero dei locali, senza però ottenere alcun risultato. Nei giorni seguenti gli occupanti abusivi manomettono le centrali termoelettriche, site nello stabile ma serventi anche l’attigua struttura alberghiera, appartenente alla medesima proprietà, provocando un temporaneo blackout; vengono inoltre manomesse sia la rete idrica che quella antincendio, e vengono svolti abusivi lavori di ristrutturazione. Dell’evolversi della situazione vengono informati il Questore, il Prefetto, il Sindaco di Roma e la Procura della Repubblica. La società lamenta l’omesso intervento delle Autorità per procedere allo sgombero. Viene infine disposto il sequestro dell’immobile, con rimessione degli atti al PM; tuttavia, l’occupazione abusiva permane. La società agisce ora in giudizio contro lo Stato italiano e contro il Ministro dell’Interno, chiedendo il risarcimento del danno alla proprietà e al diritto di iniziativa economica.
Omesso intervento delle autorità. La società lamenta il mancato per lo sgombero dell’immobile da parte degli enti pubblici competenti a tutelare l’ordine pubblico, la legalità e il patrimonio dei cittadini, non solo dall’inizio dell’occupazione nel 2013 ma anche a seguito della disposizione del sequestro preventivo dell’edificio, ad agosto 2014, da parte della Procura, che aveva delegato la Questura di Roma per l’esecuzione. Chiede pertanto il risarcimento del danno alla proprietà e al diritto di iniziativa economica, quali interessi fondamentali e garantiti sia dalla Costituzione che dall’Ordinamento comunitario.
Inerzia totale. Il Giudice di merito ritiene sussistente un’inerzia totale, a nulla rilevando nel caso di specie la norma che prevede l’intervento del Prefetto per impartire direttive esecutive di sequestri penali a tutela dell’ordine pubblico. Per quanto riguarda il periodo antecedente al sequestro, il Tribunale non ritiene possibile riconoscere nemmeno un indennizzo per arricchimento senza causa poiché gli enti pubblici «non hanno ricevuto alcuna utilità dalla condotta illecita di occupazione abusiva di immobile».
Danno figurativo. Il danno da lucro cessante, prosegue il Giudice, discende dalla perdita della disponibilità del bene immobile e dall’impossibilità di conseguire l’utilità da esso ricavabile. La liquidazione può essere operata dal giudice sulla base di presunzioni semplici con riferimento al danno figurativo, quale il valore locativo del bene usurpato.
Condanna al risarcimento. Il Tribunale di Roma condanna dunque il Ministro dell’Interno al risarcimento dei danni, nella misura di € 266.672,76 mensili, pari al valore locatizio dell’immobile, a decorrere dalla data del sequestro penale e fino alla data dello sgombero, richiedendo l’attivazione delle forze dell’ordine per l’esecuzione del sequestro. Ritiene esistente una responsabilità diretta del Ministero, in virtù del principio di immedesimazione organica dei suoi funzionari.

Fonte: www.ridare.it/Sgombero immobili abusivamente occupati: responsabile dell’inerzia è il Ministero - La Stampa

Addio alle raccomandate, arriva il domicilio digitale

Le cartoline colorate lasciate nella buca delle lettere che ci comunicano la tentata consegna di una raccomandata o di un atto giudiziario da parte di qualche ente pubblico, con conseguente divinazione su quello che significano, sono più vicine all’estinzione. Certo, le grane dei cittadini non scompariranno allo stesso modo, ma almeno si potranno gestire online, riducendo i pellegrinaggi negli uffici e la corrispondenza cartacea. È l’intento che sta dietro all’idea del domicilio digitale, progetto a lungo vezzeggiato su cui il governo ha infine dato un’accelerata. Infatti il Codice dell’Amministrazione Digitale (Cad), ovvero l’insieme delle norme che dovrebbero regolare e incentivare il processo di digitalizzazione della pubblica amministrazione, e che risale al 2005, ha visto l’ennesimo restyling. Il nuovo decreto è stato approvato ieri sera dal Consiglio dei ministri.
Ma cosa significa, in concreto, la rivoluzione in arrivo? Che ogni cittadino, associazione o ente avrà il diritto di scegliersi un domicilio digitale a un qualsiasi indirizzo di posta elettronica certificata o equivalente, dove potrà e dovrà ricevere anche ogni comunicazione avente valore legale della pubblica amministrazione.
Oggi professionisti e imprese dispongono già di un domicilio digitale. Le nuove norme puntano a includere anche il resto della popolazione, che ancora riceve comunicazioni legali solo tramite una raccomandata all’indirizzo di residenza. Con tutti i disguidi che ne possono seguire. Domani, invece, ci sarà prova digitale dell’invio e della ricezione. Ma come avverrà concretamente il processo di inclusione? «Verrà creato un registro dei domicili digitali delle persone fisiche da parte di Infocamere, la società di informatica delle Camere di Commercio italiane, dove singoli cittadini potranno andare, registrarsi e inserire il loro indirizzo di posta certificata», spiega a La Stampa Guido Scorza, responsabile Affari regolamentari del Team per la Trasformazione Digitale della presidenza del Consiglio, che con il ministero della Pubblica Amministrazione e l’Agenzia per l’Italia Digitale ha lavorato ai correttivi. «A quel punto se sei una pubblica amministrazione dovrai scrivere a quell’indirizzo. E gli indirizzi dovranno essere usati solo per questo scopo». In pratica una volta che singoli cittadini decideranno, su base volontaria, di iscriversi al registro, le amministrazioni dovranno adeguarsi. Scorza azzarda anche una previsione per il lancio della piattaforma: primavera 2018. Il domicilio digitale era già previsto dal Codice, ma era agganciato alla nascita di un’Anagrafe nazionale della popolazione residente, il progetto di unificazione delle varie anagrafi territoriali. Che però richiede ancora tempo. Allora si è deciso intanto di sganciarlo e creare un registro apposito.
Tra le altre correzioni incluse, anche l’istituzione di un unico difensore civico digitale che sostituirà analoghe figure che dovevano nascere in tutte le amministrazioni statali ma che non hanno mai visto la luce. Il difensore dovrà agevolare l’attuazione dei diritti previsti dal Codice. Però potrà esercitare solo una moral suasion, un’opera di convincimento, sull’ente specifico.
E poi c’è il tema del riutilizzo di software da parte della Pa. «Le norme ora prevedono che si dovrà pubblicare tutto il software su cui la pubblica amministrazione dispone dei diritti in un unico sito, con descrizione, codice, licenza e documentazione», spiega Scorza. E gli enti pubblici dovranno verificare l’esistenza di prodotti già adatti alle loro esigenze prima di commissionarne di nuovi.

fonte: Addio alle raccomandate, arriva il domicilio digitale - La Stampa

Dopo la condanna di primo grado, la sospensione del commercialista è definitiva

Se è già intervenuta la sentenza di condanna in primo grado, la sospensione del professionista che ha fatto da regista delle frodi fiscali è ormai definitiva. A queste conclusioni approda la Corte di cassazione con la sentenza della Quarta sezione penale depositata ieri. La Corte ha cosi respinto il ricorso di un commercialista che era stata prima costretto agli arresti domiciliari e, poi, si era visto sostituire questa misura con il divieto di esercitare l'attività professionale per 2 anni. Secondo l'accusa il professionista avrebbe architettato un sistema di frodi fiscali di cui avrebbero beneficiato i propri clienti.

Sulla vicenda, che ha visto diversi ricorsi in Cassazione, era sopraggiunta la sentenza del tribunale con la quale veniva affermata la responsabilità del commercialista per concorso nei reati di dichiarazione fraudolenta ed emissione di fatture per operazioni inesistenti. Era emerso un ruolo di primo piano del professionista suggerendo e agevolando le condotte dei soggetti che mettevano e utilizzavano le fatture.

La Cassazione, ricordando quanto affermato anche dalla Corte costituzionale, sentenza n. 71 del 1996 aveva come, dopo la sentenza di condanna, anche solo di primo grado, non è più possibile sindacare io quadro indiziario che ha dato luogo alla misura interdittiva. Con la condanna dopo una valutazione piena, suscettibile quindi passare in giudicato e di assorbire i gravi indizi di colpevolezza che danno vita alla sanzione cautelare, lo stop allo svolgimento della professione diventa inattacabile.

fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

Omicidio stradale, serve l'accertamento del nesso causale tra la regola cautelare violata e la morte

La violazione di una regola cautelare in materia di circolazione stradale da parte di un automobilista non è sufficiente di per sé a far presumere l'esistenza del nesso causale tra il comportamento di quest'ultimo e l'evento dannoso verificatosi a seguito di incidente. Il nesso eziologico tra la condotta colposa e il danno deve escludersi quando sia dimostrato che l'incidente si sarebbe ugualmente verificato anche qualora la condotta antigiuridica non fosse stata posta in essere. Ad applicare le regole dell'accertamento del nesso causale nei reati stradali è il Tribunale di Firenze con la sentenza 2838/2017, che si è pronunciata su una vicenda alquanto singolare nella sua dinamica.
I fatti - L'incidente che ha dato origine alla vicenda processuale si è verificato a Sesto Fiorentino, in un tratto di strada a senso unico di marcia, con larghezza costante di 3,10 metri e costeggiata da ambo i lati da marciapiedi molto stretti e, precisamente, è avvenuto immediatamente dopo una curva a 90 gradi, che obbliga ad una velocità particolarmente moderata. Nello specifico, una donna anziana con andatura barcollante e appesantita dalla spesa, mentre percorreva la strada a piedi in direzione opposta al senso di marcia dei veicoli, cadeva accidentalmente in prossimità del marciapiede proprio nel momento in cui sopraggiungeva un autocarro, che schiacciava la signora con la ruota posteriore destra causandone il decesso. In seguito si scopriva che il veicolo aveva una larghezza di 2,10 metri, ovvero di 10 centimetri superiore rispetto a quanto consentito dalla segnaletica stradale. L'uomo alla guida dell'autocarro veniva così tratto a giudizio per omicidio colposo per aver contribuito a cagionare l'evento transitando con il suo veicolo su quel punto esatto di strada, nonostante il cartello stradale vietasse il transito per mezzi aventi larghezza superiore a 2 metri.
La decisione - In dibattimento la singolare vicenda viene ricostruita attraverso l'utilizzo di filmati e dei pareri di consulenti tecnici e del medico legale, che consentono al Tribunale di assolvere l'automobilista dall'accusa di omicidio colposo, in quanto la morte della sfortunata signora non è causalmente connessa con la condotta colposa dell'imputato, reo di non aver osservato la segnaletica stradale. Sul punto, il giudice fiorentino richiamandosi alla giurisprudenza di legittimità spiega che la violazione di una specifica norma dettata per la disciplina della circolazione stradale «non può di per sé far presumere l'esistenza del nesso causale tra il suo comportamento e l'evento dannoso, che occorre sempre provare e che si deve escludere quando sia dimostrato che l'incidente si sarebbe ugualmente verificato anche qualora la condotta antigiuridica non fosse stata posta in essere». Ciò vale a dire, nella vicenda in esame, che il rispetto del divieto di transito non osservato dall'automobilista non avrebbe di per sé impedito la morte della signora «inciampata e caduta accidentalmente proprio quando il furgone le è passato accanto, occupando in tale modo la strada».
In sostanza, conclude il Tribunale, non è ravvisabile nella fattispecie un nesso di causalità tra la caduta della persona offesa e il passaggio del veicolo: la morte della signora si sarebbe verificata anche se la condotta dell'automobilista fosse stata conforme alla regola precauzionale, in quanto si è trattato di una caduta accidentale e la produzione dell'evento lesivo inevitabile.

fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

venerdì 8 dicembre 2017

Cassazione: nell’assistenza a un disabile sono validi i congedi anche solo per la notte

La legge sui congedi retribuiti per assistere un familiare con grave disabilità non prevede orari per l’assistenza, basta essere presenti anche solo di notte per avere le carte in regola con i controlli del datore di lavoro. Lo sottolinea la Cassazione che ha accolto il ricorso di un metalmeccanico licenziato dalla `Sevel´ che aveva scoperto che l’operaio, in congedo per due anni, stava con la madre solo di notte e di giorno tornava a casa sua. Sarà reintegrato perchè chi assiste ha diritto a «spazi temporali adeguati alle personali esigenze di vita e di riposo». Non si può ritenere - afferma la Cassazione nel verdetto 29062 - «che l’assistenza che legittima il beneficio del congedo straordinario possa intendersi esclusiva al punto da impedire a chi la offre di dedicare spazi temporali adeguati alle personali esigenze di vita, quali la cura dei propri interessi personali e familiari, oltre alle ordinarie necessità di riposo e di recupero delle energie psico-fisiche, sempre che risultino complessivamente salvaguardati i connotati essenziali di un intervento assistenziale che deve avere carattere permanente, continuativo e globale nella sfera individuale e di relazione del disabile».
Così gli `ermellini´ - con una sentenza che tiene presente i problemi di malattie degenerative come l’Alzheimer - hanno risposto alle obiezioni della `Sevel´, fabbrica che ad Atessa produce auto per Fca, e che insisteva per licenziare in tronco il dipendente sostenendo che «durante le giornate oggetto di accertamento investigativo si era dedicato ad attività di proprio personale interesse e non risultava aver assistito la madre disabile». Il lavoratore era stato infatti spiato dai detective nel giugno 2013 nella sua abitazione di Gessopalena (Chieti), paese a circa una trentina di chilometri da Lanciano, la cittadina dove viveva la madre malata e dove lui aveva spostato la residenza per usufruire della legge 151 del 2001 sui congedi parentali.
I supremi giudici osservano che «pur risultando materialmente accaduto che Franco S. si trovasse in talune giornate del giugno 2013 lontano dall’abitazione della madre ciò non è sufficiente a far ritenere sussistente il fatto contestato - la violazione del dovere di fedeltà e correttezza - perchè una volta accertato che, ferma la convivenza, il lavoratore comunque prestava continuativa assistenza notturna alla disabile, alternandosi durante il giorno con altre persone, con modalità da considerarsi compatibili con le finalità dell’intervento assistenziale, tanto svuota di rilievo disciplinare la condotta tenuta». L’operaio si era giustificato spiegando che la madre era insonne e che la notte bisognava stare attenti che non scappasse di casa, perchè aveva già fato dei tentativi di fuga. In primo grado, il Tribunale di Lanciano dichiarò illegittimo il licenziamento, ma la Corte di Appello de L’Aquila nel 2015 escluse il diritto alla reintegrazione e si limitò a condannare `Sevel´ a pagare 15 mensilità. Ora la Cassazione ha accolto in pieno la tesi del diritto di Franco S. a recuperare il suo posto di lavoro dal momento che non ha commesso alcun illecito disciplinare.

Fonte: Cassazione: nell’assistenza a un disabile sono validi i congedi anche solo per la notte - La Stampa

giovedì 7 dicembre 2017

Danno da perdita di chance: anche al disoccupato spetta il risarcimento

Non può essere escluso il riconoscimento del danno patrimoniale  né quello da perdita di chance solo perché la vittima non svolgeva alcuna attività lavorativa, al momento del sinistro.
E’ quanto statuito dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza 17 settembre - 14 novembre 2017, n. 26850.
Nella vicenda in oggetto, in seguito ad un incidente stradale, una donna, quale terzo trasportato, aveva convenuto in giudizio il conducente del veicolo e l’assicurazione, ottenendo il riconoscimento di  un'invalidità permanente del 25%, ma le era stato negato sia il risarcimento del danno patrimoniale che quello da perdita di chance.
Avverso tale sentenza, aveva proposto ricorso per cassazione, osservando, in particolare, che, riconosciuta in suo favore, la percentuale di invalidità permanente nella predetta misura, il giudice di merito avrebbe dovuto accertare in via presuntiva, il danno patrimoniale, anche a titolo di chances perdute, atteso che, la circostanza che la ricorrente  non svolgeva alcuna attività lavorativa al momento del sinistro, non comportava automaticamente l'esclusione di un danno futuro.
La Suprema Corte ha ritenuto detta censura fondata, rilevando che la Corte d’appello aveva escluso la ricorrenza del danno patrimoniale nonché il danno da perdita di chance in virtù della mancata dimostrazione dello svolgimento di un'attività lavorativa della donna, violando i principi di diritto enunciati dalla Cassazione in subiecta materia.
In effetti, in tema di danno alla persona, l'invalidità del 25 per cento, riconosciuta alla ricorrente, era di una gravità tale da non consentire a quest’ultima la possibilità di svolgere lavori diversi da quello prestato al momento del sinistro, integrando un danno patrimoniale attuale in proiezione futura da perdita di chance, differente ed ulteriore rispetto al danno da incapacità lavorativa specifica. In particolare, tale danno scaturiva dalla diminuzione della capacità lavorativa generica, il cui accertamento spettava  al giudice di merito in base a valutazione necessariamente equitativa ex art. 1226 c.c.
La Cassazione ha inoltre precisato che, nei casi in cui sussiste un’alta percentuale di invalidità permanente, è assai probabile, se non addirittura certa, la menomazione della capacità lavorativa specifica ed il danno che da essa consegue; in dette ipotesi, il giudice può procedere all'accertamento presuntivo della predetta perdita patrimoniale, liquidando tale voce di danno con criteri equitativi o ricorrendo alla prova presuntiva, qualora sia probabile che, in futuro, la vittima percepirà un reddito inferiore a quello che avrebbe conseguito in assenza dell'infortunio.
Pertanto, nella vicenda in oggetto, la Corte d’appello, non riconoscendo  il danno patrimoniale solo per la mancata prova dello svolgimento di un'attività lavorativa della ricorrente, non ha adeguatamente effettuato l'accertamento presuntivo in relazione alla riduzione della perdita di guadagno nella sua proiezione futura, in base all'entità dei postumi, anche in termini di perdita di chance.
Per tali motivi, la Cassazione ha accolto il ricorso  e cassato la sentenza con rinvio alla Corte di appello.

Fonte: Danno da perdita di chance: anche al disoccupato spetta il risarcimento | Altalex

Passa con il rosso per salvare un cane, il giudice gli restituisce i punti patente

Le buona azioni talvolta premiano. È quanto capitato a un uomo che si era visto togliere alcuni punti della patente perché aveva oltrepassato in auto un incrocio con il semaforo rosso per salvare un cagnolino ferito in mezzo alla strada di Montagnana. Un giudice di pace di Rovigo ha però deciso di restituirglieli insieme alla multa che gli era stata comminata. ,
L’uomo, dipendente di una cooperativa sociale di Padova che svolge anche servizio di accalappiacani, si è visto riconosciuto il fatto di aver agito in «stato di necessità», ed è quindi stato dichiarato non punibile. Un comma giuridico pensato per gli esseri umani in pericolo, “adattato” ed esteso in questo caso al rischio corso dall’animale di essere investito, nonchè alle conseguenze di un eventuale incidente stradale.
Così il giudice di pace, Marco Suttini, ha deciso in sostanza che salvare un cane equivale comunque a salvare una vita, ed ha annullato la sanzione accessoria dei punti patente. La multa, invece, è stata pagata dalla coop che aveva fatto intervenire l’accalappiacani sul posto. Inizialmente la segnalazione era stata quella di un cane smarrito che vagava sulla strada, ma quando l’addetto era giunto sul posto - un incrocio semaforico con rilevatore T-Red - aveva scoperto che la bestiola era stata già investita da un’autovettura, e giaceva fermo a terra. Senza pensarci aveva oltrepassato il semaforo, per salvare il cagnolino.

Fonte: Passa con il rosso per salvare un cane, gli tolgono sei punti della patente. Il giudice glieli restituisce - La Stampa

Multa raddoppiata per chi telefona mentre è al volante

Dalla stretta sull’uso del cellulare alla guida ai seggiolini anti-abbandono, dalla tassa sul fumo ai cotton fioc solo biodegradabili. Iniziano ad arrivare i nuovi emendamenti alla manovra che dalla prossima settimana saranno al vaglio della commissione Bilancio della Camera. Sono migliaia quelli attesi per la manovra che la scorsa settimana ha ricevuto il via libera dal Senato. Una serie di misure - alcune delle quali hanno poco a che fare con questioni di finanza e di conti pubblici - che i parlamentari cercano di inserire in questo ultimo treno utile nella fine della legislatura.
In particolare la commissione Trasporti ha approvato e presentato alcuni emendamenti che prevedono sanzioni raddoppiate per l’uso degli smartphone alla guida (che arrivano fino a 1.294 euro) e fino a sei mesi di sospensione della patente, nonché l’obbligo di dispositivi di allarme anti-abbandono per i seggiolini dei bambini in macchina. Torna poi l’ipotesi di una tassa sul fumo. Era stata inizialmente proposta al Senato, ma dopo lo stralcio a Palazzo Madama torna ora alla Camera. La commissione Affari sociali ha infatti presentato un emendamento che prevede il rifinanziamento per 604 milioni del fondo sanitario con la tassa sui tabacchi. Una misura che potrebbe far salire il prezzo di un pacchetto di sigarette fino a 20 centesimi.
Alla Camera il lavoro si concentra soprattutto sul lato delle entrate, visto che le risorse disponibili sono particolarmente scarse. E anche in quest’ottica che il presidente della commissione Francesco Boccia ha proposto di far partire già da gennaio la Web-tax all’italiana con un’aliquota che scende dal 6 all’1-2 per cento, ma estendendo la misura anche all’e-commerce. Oggi intanto scade il termine per la presentazione degli emendamenti, mentre mercoledì 13 inizieranno le votazioni. La manovra - uno degli ultimi atti di questa legislatura - è attesa in aula martedì 19 dicembre, dove molto probabilmente sarà votata con la fiducia per passare poi entro Natale al Senato per il via libera definitivo.
Tra gli altri numerosi emendamenti presentati in commissione Bilancio c’è poi quello del Partito democratico per tagliare la durata dei contratti a tempo dagli attuali 36 a 24 mesi. C’è inoltre l’obiettivo di favorire l’assunzione dei dottorandi e rivedere il settore delle politiche attive. Su questo tema, i deputati della commissione Lavoro puntano a raddoppiare le mensilità che spettano al lavoratore in caso di licenziamento e alla riforma dell’Inps.
Anche la commissione Giustizia ha approvato il suo pacchetto di misure: tra queste la richiesta di inserire in manovra una parte della riforma del processo civile per introdurre il procedimento semplificato davanti al giudice monocratico. Misura che, seppur presentata con alcune modifiche, era stata fortemente criticata da magistrati e avvocati e che al Senato era stata ritirata. Il presidente della commissione Ambiente, Ermete Realacci, presenterà invece un emendamento concordato col governo per vietare dal 2019 la vendita di cotton fioc non biodegradabili «come prescrivono le norme comunitarie».

Fonte: Multa raddoppiata per chi telefona mentre è al volante - La Stampa

Sì all'assegno di divorzio all'ex ultrasessantenne con una pensione bassa

Assegno di divorzio alla ex moglie ultrasessantenne con una pensione bassa e la sola abitazione di proprietà. La Corte di cassazione, considera in linea con la nota sentenza 11504 del 2017, con la quale ha cambiato non solo orientamento sull'assegno divorzile ma ha influito un po' anche sulla “cultura”, inducendo le donne ad abbandonare l'idea che un marito ricco sia per sempre. Ci sono però le dovute eccezioni, il caso esaminato con la sentenza 28994 è decisamente lontano dai divorzi dorati di cui si è molto parlato. Nello specifico in gioco c'era un assegno di 600 euro stabilito dal giudici all'atto di scioglimento del matrimonio in favore dell'ex moglie, che l'uomo non voleva versare o voleva dare in misura ridotta. La corte d'appello però, fatti gli accertamenti del caso, ha verificato sia il diritto all'assegno sia la congruità della cifra, in relazione anche alle possibilità dell'ex marito. La signora aveva 65 anni e una pensione di 400 euro mensili, oltre alla sua casa. Dunque poco denaro e nessuna possibilità di procurarselo vista l'età. Per la Cassazione la decisione della Corte territoriale è conforme a quanto stabilito con la sentenza 11504, e rispetta il criterio “bifasico”, dettato con quella decisione, riguardo all'an, ovvero all'esistenza del diritto da desumere in base all'autoresponsabilità economica di ciascuno dei coniugi come persone singole. Per la Cassazione è corretta la scelta dei giudici di merito anche per quanto riguarda il no alla consulenza tecnica d'ufficio ritenuta non determinante per la decisione

fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

mercoledì 6 dicembre 2017

Stalking: da oggi impossibile estinguere il reato mediante condotte riparatorie

È stata pubblicata sulla Gazzetta ufficiale del 5 dicembre 2017 n. 284 la legge 4 dicembre 2017, n. 172 di “Conversione in legge,con modificazioni, del decreto-legge 16 ottobre 2017, n. 148, recante disposizioni urgenti in materia finanziaria e per esigenze indifferibili. Modifica alla disciplina dell'estinzione del reato per condotte riparatorie.”. La legge è in vigore da oggi.
Premessa
La causa di estinzione del reato, rubricata nel neo-introdotto art.162 ter c.p., è applicabile a tutti i reati a querela remissibile, stante la volontà del legislatore di favorire meccanismi conciliativi nei casi in cui l’offesa assume un carattere squisitamente privato. La finalità dell’istituto appare, pertanto, quella di favorire un dialogo costruttivo e riparativo tra l’autore di reato e la vittima.
Tuttavia, l’ambito di applicazione è apparso decisamente mesto, sia per la coesistenza per tali reati dell’istituto della remissione della querela, sia per la scelta di escludere dal novero dei reati “riparabili” i delitti contro il patrimonio procedibili d’ufficio, (almeno le ipotesi meno gravi). Nel contempo è emersa una criticità applicativa in relazione al reato di stalking, stante una difficile compatibilità tra la nuova causa di estinzione e il delitto ex art. 612 bis c.p.
Infatti, l’ormai nota sentenza del Tribunale di Torino – con la quale veniva dichiarato estinto il reato di atti persecutori a seguito di condotte riparatorie – ha aperto un acceso dibattito sull’applicabilità del neo-introdotto istituto al delitto di stalking portando il legislatore ad intervenire sull’art. 162 ter. Infatti, il 17 novembre 2017 è stato convertito in legge il D.L. n. 148 del 16 ottobre 2017 (recante disposizioni urgenti in materia finanziaria) ed è stato aggiunto il seguente comma alla norma in esame: “Le disposizioni del presente articolo non si applicano nei casi di cui all’articolo 612-bis”.
Le problematiche sottese alla dichiarazione di estinzione per riparazione dello stalking: tra giurisprudenza e proposte normative
La sentenza che ha creato grande scalpore, facendo focalizzare l’attenzione su quella che prima facie è apparsa una “svista” del legislatore, è del Tribunale di Torino, con la quale a fronte di un’offerta reale di € 1.500, veniva dichiarato estinto il reato di stalking a seguito di riparazione, dando così applicazione alla nuova norma.
L’art. 612 bis c.p., a querela remissibile relativamente ai commi 1 e 2 , rientra infatti nel novero dei reati estinguibili con condotta riparatorie, ma le criticità appaiono plurime ed investono la prevenzione generale e speciale, con evidenti ricadute in ordine alla riprovazione nel reato e alla repressione. Viepiù che il legislatore non prevede alcun potere di veto in capo alla vittima, sussistendo una vera e propria potestà di «scavalcamento» - da parte del giudice - della pretesa punitiva dell’offeso qualora questo sia stato adeguatamente risarcito. Invero, se l’assenza del potere di veto appare giustificato dalla natura dell’istituto (deflattivo, riparativo, rieducativo), tuttavia, mal si concilia con l’ipotesi di reato degli atti persecutori, in ragione dell’allarme sociale sotteso a tale illecito.
Nella sentenza, infatti, si dà atto del dissenso della persona offesa, la quale però non avendo alcun potere di veto, non ha potuto ostacolare l’operatività del beneficio.
Le problematiche emerse con la pronuncia in esame appaiono una diretta conseguenza di una norma mal scritta e ricca di vuoti di tutela, primo fra tutti l’assenza di espressi criteri valutativi che consentano al giudice di valutare la condotta riparatoria ai fini della declaratoria di estinzione. E’ noto che l’art. 35 del d.lgs 274/2000 (norma simile all’art. 162 ter c.p. - per un approfondimento sulla causa di estinzione per riparazione, volendo, O. Murro, Riparazione del danno ed estinzione del reato, 2016, pagg. 37 e ss.) prevede, quale presupposto alla dichiarazione di estinzione, una valutazione sull’idoneità della condotta a soddisfare le esigenze di prevenzione e riprovazione nel reato. Tale previsione consente di bilanciare la riparazione al grado di colpa, al fatto di reato e alle esigenze sia rieducative sia preventive, precludendo così una automaticità tra la riparazione e il beneficio dell’estinzione.
Nell’art. 162 ter c.p., invece, manca un parametro sulla scorta della quale commisurare l’adeguatezza della riparazione, in quanto il legislatore prevede che il reato si estingua quando la condotta riparatoria è positiva. Il rischio sotteso a tale vulnus normativo (ed evidenziato con la pronuncia in esame) è quello di una pericolosa automaticità tra l’adempimento della riparazione e la dichiarazione di estinzione, vieppiù che manca un richiamo ai parametri del 133 c.p., ovvero un’espressa preclusione qualora ricorrano i casi previsti dagli artt. 102, 103, 104, 105 e 108 c.p..
Altra criticità è data dal concreto pericolo di impunità per lo stalker, in quanto il legislatore non ha previsto alcun limite all’applicazione dell’istituto, potendo l’imputato ricorrervi infinite volte; di converso, le altre ipotesi premiali di recente introduzione prevedono degli espressi limiti di concessione (a mero titolo esemplificativo si pensi alla messa alla prova che può essere concessa una sola volta).
Tali vuoti normativi appaiono ancor più gravi se rapportati a reati che per la loro natura presuppongono una reiterazione delle condotte, stante il concreto pericolo di una “depenalizzazione di fatto” degli atti persecutori e di una oggettiva impunità del reo.
La sentenza del Tribunale di Torino ha portato il legislatore a rivalutare l’ambito di applicazione dell’art. 162 ter c.p. Infatti, si discute, in questi giorni al Senato, la proposta di legge a tutela degli orfani dei crimini domestici (A.S. 2719), nella quale viene presentato l’emendamento che sottrae il reato di stalking dal novero dei reati per i quali è possibile dichiarare l’estinzione in forza delle condotte riparatorie dell’imputato.
Proposte di ampliamento del novero dei reati perseguibili a querela
L’ambito di applicazione della nuova causa di estinzione è apparso - sin dalla lettura della proposta normativa - estremamente mesto. Sembrerebbe infatti che il legislatore non abbia considerato che per i reati a querela remissibile esiste già l’istituto di cui al 152 c.p. e, pertanto, la causa di estinzione in esame residuerebbe nelle sole ipotesi in cui alla riparazione del danno non segue la remissione di querela da parte dell’offeso.
A ben vedere, l’originaria proposta normativa prevedeva, attraverso l’introduzione dell’art. 649 bis c.p., l’estensione del beneficio in esame anche ad alcuni reati contro il patrimonio procedibili d’ufficio, quali quelli rubricati dagli artt. 624 c.p., nei casi aggravati dal primo comma dell’art. 625 c.p. ai numeri 2, 4, 6, 8 bis; nonché ai delitti di cui agli artt. 636 e 638 c.p.; tuttavia, nel corso dei lavori parlamentari l’art. 649 bis c.p.è stato soppresso.
Seppure la previsione del beneficio estintivo limitato solo ad alcuni delitti contro il patrimonio e precedibili d’ufficio lasciava perplessi (la previsione di cui all’art. 649 bis, così come strutturata, andava a determinare una disparità di trattamento tra imputati di reati che prevedono un medesimo trattamento sanzionatorio: si pensi ad esempio all’applicabilità della causa estintiva al delitto di furto, ma non alle ipotesi di usurpazione, deviazione di acque, invasione di terreni aggravate dall’art. 639 bis c.p.), non si può ignorare che tale tipologia di illeciti appariva particolarmente adeguata all’istituto in esame. Diversamente, altra proposta di articolato sulla revisione del sistema penale (non coronata da successo), della Commissione Fiorella del 23 aprile 2013, prevedeva di estendere la causa di estinzione del reato per riparazione a tutti i delitti contro il patrimonio procedibili d’ufficio, fatta eccezione per le ipotesi più gravi disciplinate dagli artt. 628, 629, 630, 644, 648 bis, 648 ter, nonché nei casi di delitti contro il patrimonio commessi con violenza sulle persone.
Sicuramente i reati contro il patrimonio (ma anche quello delle contravvenzioni) rappresenterebbero il terreno migliore sul quale far operare il beneficio in esame.
Al fine di ampliare le maglie dell’applicabilità dell’istituto era stato proposto di modificare il regime di procedibilità per i reati contro la persona puniti con la sola pena edittale pecuniaria, ovvero con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, eccezion fatta per il reato di violenza privata e per le ipotesi in cui la persona offesa sia incapace per età o infermità, ovvero quando ricorrano circostanze aggravanti ad effetto speciale, la circostanza di cui all’art. 339 c.p. e, nei reati contro il patrimonio, quando il danno arrecato all’offeso sia di rilevante gravità. Si voleva, pertanto, rendere procedibili a querela i reati ex artt. 606, 607, 609, 612, 615, 617 ter e sexies,619, 6120, 638, 640, 640 ter, 646 c.p., con conseguente remissione in termini per la persona offesa di presentare querela, fatta eccezione per il giudizio di legittimità.
Seppure tale proposta non è stata coronata da successo, in quanto l’unica modifica apportata attiene esclusivamente all’esclusione del delitto di stalking dal novero dei reati estinguibili con condotte riparatorie, si ritiene che tale intervento normativo sia opportuno e doveroso, al fine di prevedere per reati con modesto valore offensivo soluzioni alternative sia al processo sia alla pena, nell’ottica di soddisfare le esigenze deflattive e conciliative tra autore e vittima del reato.
Conclusioni
La recente modifica normativa non va, purtroppo, a sanare le numerose problematiche sottese all’art. 162 ter c.p..
A ben vedere, appare doveroso un intervento del legislatore proteso ad evitare che tale istituto possa garantire un’ampia impunità all’imputato, infatti, la norma non prevede alcun limite alla concessione del beneficio, potendo l’imputato ricorrervi infinite volte. Tale circostanza ha delle evidenti ricadute negative sulla prevenzione e sulla repressione dei reati. Inoltre, appare doveroso limitare la concessione del beneficio, escludendolo nei casi previsti dagli artt. 102, 103, 104, 105 e 108 c.p. Si segnala, infine, anche la necessità di prevedere espressamente dei criteri di valutazione della condotta riparatoria, onde evitare una eccessiva discrezionalità del giudicante, ovvero il pericolo di automaticità tra la riparazione e la dichiarazione di estinzione

Fonte: Stalking: da oggi impossibile estinguere il reato mediante condotte riparatorie | Quotidiano Giuridico

martedì 5 dicembre 2017

'Bonus mamma' anche alle straniere titolari di permesso unico di lavoro

Impossibile per le ricorrenti, cittadine extracomunitarie titolari di permesso unico di lavoro, accedere alla procedura telematica per richiedere il premio alla nascita. Il Tribunale di Bergamo, con ordinanza del 30 novembre 2017, ha dichiarato discriminatoria la condotta dell’INPS che ha negato la prestazione alle neo-mamme.
Premio alla nascita. Il premio di natalità (o Bonus mamma domani), introdotto dalla legge di Bilancio dello scorso anno, consiste nell’erogazione in un’unica soluzione di 800€ alla nascita o all’adozione di un minore. È riconosciuto, a decorrere dal 1° gennaio 2017, alle donne gestanti o alle madri in possesso dei requisiti presi in considerazione per il Bonus bebè (l’assegno di natalità di cui alla legge di Stabilità 2015): cittadine italiane, europee o extracomunitarie con permesso di soggiorno UE per i soggiornanti di lungo periodo.
Domanda via PEC. Le odierne ricorrenti, atteso che la modulistica on-line non consente di inserire il permesso di soggiorno in loro possesso, hanno presentato la domanda via PEC, ritenuta inammissibile dall’INPS.
Condotta discriminatoria. Una tale lettura, afferma il Tribunale di Bergamo, non solo introduce un requisito non espressamente richiesto dalla normativa, ma contrasta con l’art. 12, Direttiva 2011/98/UE che garantisce “la parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro di soggiorno, in materia di sicurezza sociale, a tutti i cittadini di paesi terzi ‘lavoratori’”. Pertanto, viene ordinato all’INPS di cessare la condotta discriminatoria, nonché di pagare le somme non corrisposte.

Fonte: www.ilgiuslavorista.it/'Bonus mamma' anche alle straniere titolari di permesso unico di lavoro - La Stampa

Accede alle e-mail dell’ex marito: reato anche se conosce la password

Commette reato l’ex moglie che, conoscendo la password, si introduce nella casella di posta elettronica del marito e ne modifica credenziali di accesso e domanda di recupero, impedendo così all’ex coniuge di fruire del servizio.
Accesso abusivo. Secondo la Cassazione, nel caso in esame, la circostanza che la ricorrente fosse a conoscenza della password di accesso al sistema informatico non esclude il carattere abusivo dei due accessi da lei effettuati, in considerazione anche del cambiamento delle credenziali d’accesso e dell’impostazione di una nuova domanda di recupero.
Superati i limiti. Correttamente, quindi, la Corte territoriale, evidenziando come gli accessi abusivi avessero temporaneamente escluso l’ex marito dal fruire del servizio di posta elettronica, ha ritenuto «pienamente provato il superamento da parte dell’imputata dei limiti intrinseci connessi con la conoscenza della password». Secondo l’orientamento dominante della giurisprudenza, infatti, integra la fattispecie criminosa di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico protetto la condotta di accesso o di mantenimento nel sistema posta in essere da un soggetto che, pur essendo abilitato, violi le condizioni e i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso.
Risarcimento dei danni. Poiché certamente non può ritenersi rispettosa delle regole dettate dal titolare della casella di posta elettronica la condotta di chi utilizza la password (anche se ottenuta con il consenso del titolare) per modificarla indebitamente impedendo a quest’ultimo di accedervi, la Cassazione rigetta il ricorso avverso la sentenza di condanna al risarcimento dei danni presentato dall’ex moglie.

Fonte: www.ilfamiliarista.it/Accede alle e-mail dell’ex marito: reato anche se conosce la password - La Stampa

sabato 2 dicembre 2017

Tribunale di Torino: il Tfr del marito va anche alla moglie dieci anni dopo il divorzio

Alla moglie divorziata spetta una quota del Tfr del marito anche se l’uomo ha ricevuto l’indennità dieci anni dopo lo scioglimento del matrimonio. Lo ha ribadito il tribunale di Torino con una sentenza che ha condannato un agente assicurativo a versare all’ex coniuge 94 mila euro, pari al 40% della somma totale.

La coppia divorziò nel 2004, mentre il rapporto di lavoro dell’uomo con la sua agenzia terminò nel 2014. L’uomo ha replicato che il denaro dalla compagnia al termine dell’attività professionale non era un vero e proprio Tfr, perché il suo era di fatto un lavoro autonomo. 

Quindi, in base alla giurisprudenza della Cassazione, l’ex moglie non aveva diritto alla somma. Secondo i giudici, però, non lo ha dimostrato: e l’onere della prova, su questo aspetto, spettava a lui. 

Fonte: I giudici: il Tfr del marito va anche alla moglie dieci anni dopo il divorzio - La Stampa

venerdì 1 dicembre 2017

L’insegnante fa troppe assenze. Il Tar cancella la bocciatura

L’insegnante ha fatto troppe assenze e la studentessa non può essere bocciata. Lo ha stabilito il Tar del Friuli Venezia Giulia che ha rinviato al consiglio di classe il caso di una sedicenne di Pordenone che stava ripetendo seconda in un istituto tecnico, dopo aver sorprendentemente fallito agli esami di riparazione di settembre.
La decisione di rimandare l’allieva, a giugno, era stata un fulmine a ciel sereno: il percorso scolastico dei primi due anni era sempre stato netto, senza voti rossi nella schermata del registro on line. Valutazioni anche discrete e un crollo improvviso in un paio di discipline sulla fine del secondo quadrimestre: economia aziendale e chimica. A complicare tremendamente le cose un 4 all’ultimo compito, maturato anche perché la prof ha beccato le formule che la studentessa si era scritta sulle mani.
Da quel momento le cose precipitano: l’estate sui libri viene vanificata dalla classica ansia da prestazione. Al termine della sessione di recupero, la conferma dell’insufficienza. La sedicenne deve ripetere l’anno.
I genitori non ci stanno: non sarà la classica «secchiona», ma la media sulle dodici discipline è tutt’altro che disprezzabile. Senza parlare di quella docente di chimica, sempre assente. Come un detective, il papà esamina il registro e scopre che la prof non si è presentata per più di metà delle lezioni. Non essendo periodi prolungati, ma assenze ricorrenti e a macchia di leopardo, il dirigente non la sostituisce. Ai ragazzi si propongono studio individuale, ginnastica, supplenti occasionali di altre discipline. Il cavallo di Troia è servito: l’avvocato Alessandro Da Re prepara 40 pagine di ricorso dove mette in evidenza le carenze dell’istituto e il positivo profitto complessivo della ragazzina. Le 3 giudici amministrative accolgono le motivazioni: «Il mancato raggiungimento delle competenze disciplinari minime parrebbe essere stato verosimilmente compromesso proprio dalle numerose assenze dell’insegnante», dice il Tar.
Per non parlare della necessità di analizzare la performance globale: «Bisogna tenere conto della storia personale e del curriculum di studi, al di là delle insufficienze nelle singole materie», dice il legale della ragazza. Risultato? Gli organi collegiali hanno riformulato il giudizio: stamattina la studentessa cambierà classe e dopo 3 mesi di purgatorio tornerà coi vecchi compagni. Senza pericolo di ritorsioni: chimica ed economia aziendale, nel suo indirizzo, si studiano solo al biennio.

fonte: L’insegnante fa troppe assenze. Il Tar cancella la bocciatura - La Stampa

Licenziamento per il funzionario del Fisco che rivela a terzi dati sensibili

È legittimo il licenziamento disposto dall'Agenzia delle entrate nei confronti di un suo dipendente che riferisca a persone estranee all'Amministrazione dati “sensibili” relativi a procedimenti di accertamento in corso. La sanzione è da ritenersi proporzionata alla gravità della condotta e il riferimento alla sensibilità dei dati divulgati deve intendersi attinente alla garanzia dell'efficienza e dell'imparzialità dell'azione di controllo propria dell'Agenzia delle entrate. Questo è quanto si desume dalla sentenza 28796 della Sezione lavoro della Cassazione, depositata il 30 novembre.
La vicenda - La controversia trae origine dall'impugnazione del licenziamento per giusta causa irrogato dall'Agenzia delle entrate nei confronti di un suo funzionario, accusato di aver comunicato a terzi dati relativi ad accertamenti in corso e di aver leso in tal modo l'immagine e l'interesse della stessa Amministrazione fiscale. In particolare, il dipendente era incolpato di aver acceduto abusivamente al sistema informativo dell'Anagrafe Tributaria per ragioni diverse da quelle di servizio e di aver acquisito da colleghi informazioni e notizie relative a pratiche non di sua competenza, per poi rivelare il contenuto a terzi soggetti. Diverse erano le norme violate dal funzionario: l'articolo 65 comma 3 lettere ) b, c) e l) del Ccnl Agenzie Fiscali, nonché l'articolo 11 comma 3 del Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni. Il licenziamento veniva confermato dai giudici di merito, i quali ritenevano la sanzione espulsiva «proporzionata ai fatti contestati ed accertati», nonché la condotta grave e «idonea a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario» in ragione della «natura sensibile dei dati divulgati». Il funzionario non accettava, però, la sanzione e ricorreva in Cassazione sostenendo l'illegittimità del licenziamento irrogato nei suoi confronti per difetto di “proporzionalità” rispetto alla condotta contestata e per la natura non “sensibile” dei dati in questione.
La sanzione disciplinare deve essere proporzionata - Anche i giudici di legittimità, tuttavia, confermano il licenziamento e confutano le tesi prospettate dal ricorrente. In primo luogo, quanto al tema della “proporzionalità”, il collegio sottolinea come «deve escludersi la configurabilità in astratto di qualsiasi automatismo nell'irrogazione di sanzioni disciplinari», dovendo sempre esserci una certa relazione tra la gravità dei fatti commessi e il provvedimento disciplinare adottato e potendo il giudice sempre annullare la sanzione ritenuta eccessiva. Ciò posto, prosegue la Corte, nel caso di specie, i giudici di merito hanno effettuato un'operazione valutativa, in riferimento agli aspetti concreti della vicenda, alle mansioni svolte dal funzionario e al nocumento arrecato dalla condotta, pienamente condivisibile. In sostanza, alla luce delle norme violate, la sanzione del licenziamento appare proporzionata alla gravità dei fatti commessi.
La sensibilità dei dati diffusi - Quanto al profilo della “sensibilità” dei dati divulgati, invece, la Cassazione afferma che il ricorrente ha errato nell'interpretare la natura sensibile dei dati alla stregua del Codice della Privacy (Dlgs 196/2003), secondo cui per dati sensibili si intendono quei dati relativi all'origine razziale, etnica, alle convinzioni religiose, alle opinioni politiche o relativi allo stato di salute o orientamento sessuale. È «sin troppo evidente», chiosa la Corte, «che la qualificazione come “sensibili” dei dati abusivamente acquisiti e illecitamente comunicati» a terzi sia da riferire al fatto che si tratta di «informazioni e dati destinati a rimanere riservati a garanzia delle efficienza e dell'imparzialità» dell'Agenzia delle Entrate.

fonte: Cassa Forense - Dat Avvocato

Ferrara: Violentò minore in auto. Condanna a dieci anni per il pedofilo seriale

Ieri la sentenza del Tribunale nei confronti uno straniero di 32 anni. Al termine dell’udienza la vittima, ora maggiorenne, ha pianto. É sta...