giovedì 31 agosto 2017

Multe oltre i 90 giorni: illegittima la prassi del Comune di Milano

Una peculiare controversia ha portato alla pronuncia in oggetto, con la quale il Tar milanese ha parzialmente accolto il ricorso proposto da una associazione di consumatori avverso una prassi posta in essere dall'amministrazione comunale.
In particolare, l'amministrazione, dopo aver installato una serie di autovelox nuovi, aveva emanato una serie di sanzioni amministrative che venivano però notificate ai trasgressori inserendo una dicitura errata in ordine al rispetto dei tempi di notifica dei verbali.
In sostanza, il termine di novanta giorni entro cui l'amministrazione deve notificare la sanzione, veniva fatto decorrere dalla data di accertamento della violazione, facendo coincidere tale data dell'accertamento con il momento in cui l'agente visionava le i fotogrammi,
L'eterogeneo – e assai particolare – oggetto della domanda, per come ricostruito nella sentenza stessa, era dunque il seguente:
“1. l'immediata cessazione della notifica di verbali di accertamento di sanzioni amministrative oltre i 90 giorni dall'infrazione, perché tale notifica costringe il cittadino a dover presentare ricorso al Prefetto o al Giudice di Pace, nonostante la Polizia locale e il Comune siano pienamente a conoscenza del superamento del termine;
2. l'annullamento in autotutela di tutti i verbali di accertamento di infrazione del Codice della strada notificati oltre i 90 giorni dall'infrazione;
3. l'immediata modifica del testo contenuto nei verbali di accertamento, con la precisa indicazione che il termine di 90 giorni decorre dalla data dell'infrazione e non da quella di visione dei fotogrammi da parte degli Agenti;
4. l'attuazione di una procedura per la restituzione delle somme incassate illegittimamente a fronte di verbali notificati tardivamente in violazione dell'art. 201, Cod. strada;
5. l'annullamento e/o immediata sospensiva, in ogni caso, di qualsivoglia procedura esecutiva e/o di riscossione coattiva basata sui verbali illegittimi notificati tardivamente, con l'impegno di non domandare, anche tramite Equitalia o altro agente per la riscossione, le somme non versate;
6. l'annullamento e/o l'immediata sospensione delle procedure di emissione dei verbali di cui all'art. 126-bis, Cod. strada, per non avere comunicato i presunti trasgressori che hanno ricevuto un verbale di accertamento per eccesso di velocità fuori dai termini, i dati del soggetto che si trovava alla guida al momento.”
A fronte di una nutrita serie di eccezioni di ordine processuale, il TAR ha però rigettato – o ritenuto inammissibili – molte delle domande proposte.
In ogni caso, il Collegio ha innanzitutto riconosciuto, in linea generale, la legittimazione della associazione ricorrente, affermando che anche gli utenti dell'attività sanzionatoria da comportamenti delle pubbliche amministrazioni che, per la loro ripetitività, incidono in modo collettivo sulle loro posizioni giuridiche nell'ambito dei relativi procedimenti, possano essere tutelati con una azione proposta ai sensi dell'art. 1, D.Lgs. n. 198 del 2009 stabilisce, secondo cui "1. Al fine di ripristinare il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio, i titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori possono agire in giudizio, con le modalità stabilite nel presente decreto, nei confronti delle amministrazioni pubbliche ...., se derivi una lesione diretta, concreta ed attuale dei propri interessi, dalla violazione di termini o dalla mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo da emanarsi obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato da una legge o da un regolamento....".
Invece, a fronte dell'eccezione di giurisdizione formulata da parte del Comune, secondo cui in ordine all'impugnazione dei verbali di accertamento di violazioni al codice della strada sussisterebbe una giurisdizione del giudice ordinaria, il TAR ha rilevato che tale accezione, oltre ad essere fondata, investe le domande proposte dal ricorrente in ordine a:
l'annullamento in autotutela di tutti i verbali di accertamento di infrazione del Codice della strada notificati oltre i 90 giorni dall'infrazione;
l'attuazione di una procedura per la restituzione delle somme incassate illegittimamente a fronte di verbali notificati tardivamente in violazione dell'art. 201, Cod. strada;
l'annullamento e/o immediata sospensiva, in ogni caso, di qualsivoglia procedura esecutiva e/o di riscossione coattiva basata sui verbali illegittimi notificati tardivamente, con l'impegno di non domandare, anche tramite Equitalia o altro agente per la riscossione, le somme non versate;
l'annullamento e/o l'immediata sospensione delle procedure di emissione dei verbali di cui all'art. 126-bis, Cod. strada, per non avere comunicato i presunti trasgressori che hanno ricevuto un verbale di accertamento per eccesso di velocità fuori dai termini, i dati del soggetto che si trovava alla guida al momento.
Il Collegio ha infatti chiarito che tali domande “hanno per oggetto il ritiro di atti che fuoriescono dalla giurisdizione del giudice amministrativo e il cui carattere plurimo o seriale non è idoneo a farli rientrare nell'alveo dell'azione esperita.”
Così sfrondato il novero delle domande proposte da parte del ricorrente, il Collegio si è quindi concentrato sulla prima doglianza proposta, avente ad oggetto l'immediata cessazione della notifica di verbali di accertamento di sanzioni amministrative oltre i 90 giorni dall'infrazione. Infatti, viene affermato nella pronuncia che la natura derogatoria della giurisdizione esclusiva del giudice ordinario in ordine all'impugnazione di ordinanze ingiuntive comporta la necessaria giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sull'azione collettiva, riconosciuta dall'art. 1 del D.Lgs. 20 dicembre 2009, n. 198.
Analogo ragionamento vale quindi, secondo il Collegio anche per la domanda inerente la modifica del format utilizzato dall'amministrazione locale, con la precisa indicazione che il termine di 90 giorni decorre dalla data dell'infrazione e non da quella di visione dei fotogrammi da parte degli Agenti.
Il merito della vicenda ha dunque riguardato solo queste due domande “superstiti”.
La prima di tali domande risultava però non più attuale, in quanto dopo il picco del 2014 le notifiche venivano effettuato intorno ai 48 giorni dalla infrazione.
La sentenza si è dunque spostata sulla domanda relativa alla rettifica dei modelli dei verbali laddove, secondo la ricorrente, contengono la dicitura che la scadenza del termine per la notifica decorre dalla lettura della foto da parte del poliziotto, la domanda è fondata.
Il Collegio, ricordato il contenuto dell'art. 201 del Codice della strada (Secondo cui "Qualora la violazione non possa essere immediatamente contestata, il verbale, con gli estremi precisi e dettagliati della violazione e con la indicazione dei motivi che hanno reso impossibile la contestazione immediata, deve, entro novanta giorni dall'accertamento essere notificato all'effettivo trasgressore o, quando questi non sia stato identificato e si tratti di violazione commessa dal conducente di un veicolo a motore, munito di targa, ad uno dei soggetti indicati nell'art. 196, quale risulta dai pubblici registri alla data dell'accertamento"); fa propria l'interpretazione di tale disposizione secondo cui “il verbale della polizia municipale debba indicare o che il termine di notifica del verbale decorre dall'accertamento, come indicato dalla legge, oppure che i termini decorrono dalla commessa violazione, salva la necessità di acquisire informazioni indispensabili da altri organismi”.
E su tale presupposto, la domanda scrutinata viene accolta.

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Magistrato offende su Facebook? Scatta l’illecito disciplinare

Ai fini dell’applicabilità dell’esimente di cui all’art. 3 bis del D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 in tema di diffamazione su facebook, la valutazione della scarsa rilevanza del fatto contestato va condotta avuto riferimento all'uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, ossia adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere poiché il bene protetto dalla previsione di cui all'art. 4, comma 1, lett. d) dello stesso provvedimento, è costituito dalla immagine del magistrato.
Con sentenza 31 luglio 2017, n. 18987 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione affrontano un caso molto interessante consistente nella configurabilità dell’illecito disciplinare, di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 4, comma 1, lett. d),  nei confronti di un magistrato che comunicando con più persone a mezzo del proprio profilo personale di Facebook, offendeva la reputazione di un Sindaco.
La rilevanza della questione riguarda non solo il fatto specifico della configurabilità dell’illecito disciplinare, ma anche, più in generale, le conseguenze che possono derivare dall’utilizzo poco accorto di un social network come Facebook da parte di un magistrato che, dimenticando di rappresentare un’importante istituzione esprime una propria opinione in merito a fatti, tra l’altro, oggetto di inchiesta giudiziaria.
La Sezione disciplinare, nel caso di specie, ha ritenuto sussistenti gli elementi costitutivi dell'illecito contestato, e cioè, da un lato, la consumazione del reato di diffamazione, essendo integrata l'offesa alla reputazione del Sindaco; dall'altro, per la risonanza dell'episodio e la diffusione del commento, il pregiudizio dell'immagine del magistrato. La stessa Sezione disciplinare, però, in considerazione del fatto che si trattava di un episodio isolato nel contesto di un profilo professionale positivo, ha ritenuto sussistenti le condizioni per l'applicazione dell'esimente di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3 bis: non configurabilità dell'illecito per essere il fatto di scarsa rilevanza.
Tale interpretazione non è stata accettata dalla Procura generale della stessa Corte che ha proposto ricorso facendo intervenire le Sezioni Unite.
Queste ultime, con la sentenza in esame, rilevano, innanzitutto che l’entrata in vigore dell'art. 131 bis c.p., introdotto dal D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28 ha determinato una modificazione normativa che sicuramente incide sul piano della interpretazione sistematica del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3 bis, e art. 4, comma 1, lett. d). Inoltre lo stesso art. 3 bis introduce nella materia disciplinare il principio di offensività, proprio del diritto penale, secondo il quale la sussistenza dell'illecito va comunque riscontrata alla luce della lesione o della messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma, con accertamento in concreto effettuato ex post. Si tratta, quindi, di disposizione che tende ad attenuare la rigidità di quella tipizzazione: in riferimento a tutte le ipotesi previste dal D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 2 e 3, la condotta, pur astrattamente rientrante in una delle fattispecie astratte all’uopo individuate, costituisce, in concreto, fatto disciplinarmente rilevante soltanto se supera la soglia della non scarsa rilevanza (Sez. Un., 31 maggio 2016, n. 11372). Nel caso di specie, quindi, non può più in alcun modo predicarsi, in linea teorica, la preclusione della operatività della disposizione che nell'ordinamento disciplinare della magistratura può consentire di non configurare come illecito disciplinare un fatto di scarsa rilevanza.
Quello che, invece, le Sezioni Unite chiariscono dando ragione alla Procura Generale è che la sentenza impugnata risulta tuttavia erronea nella parte in cui, muovendo dalla applicabilità dell'art. 3 bis, pur in presenza di un reato del quale ha accertato la commissione, ha in concreto ritenuto di scarsa rilevanza il fatto disciplinarmente rilevante avuto riguardo alla percezione della offesa che il destinatario della stessa aveva avuto.
In tal modo, difatti, la Sezione disciplinare, da un lato, non ha tenuto conto che in tema di diffamazione ciò che rileva è l'uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, ossia adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere; dall'altro, ha omesso di considerare che il bene protetto dalla previsione di cui all'art. 4, comma 1, lett. d), è costituito - come è fatto palese dalla stessa formulazione della disposizione - dalla immagine del magistrato, risultando quindi irrilevante, a tali fini, il fatto che il destinatario di parole oggettivamente diffamatorie possa non averle percepite in tal senso.
In altri termini ciò che conta è la gravità dell’offesa da un punto di vista oggettivo, poco rilevando l’atteggiamento assunto dalla persona offesa.
Aspetto questo molto importante che evidenzia ancor di più come l’uso inconsapevole da parte di un magistrato di un social network di grande diffusione come Facebook non può restare impunito in quanto sicuramente l’offensività delle espressioni utilizzate lede l’immagine della stessa magistratura intesa come istituzione.

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Il Tar boccia il numero chiuso all’Università Statale di Milano, annullati test di ingresso

Il Tar del Lazio ha accolto il ricorso contro l’introduzione del numero chiuso nella facoltà di studi umanistici dell’Università Statale di Milano a Filosofia, Lettere, Scienze dei beni culturali, Lingue, Storia e Geografia. Lo ha reso noto l’associazione studentesca Udu (Unione degli Studenti) che a fine luglio aveva presentato il ricorso.
«Ora che il Tar del Lazio ci ha dato ragione - si legge nella nota dell’Udu - possiamo dirci estremamente soddisfatti per una vittoria storica che ha riflessi nell’immediato sul futuro di tutti coloro che avrebbero dovuto sostenere il test nei prossimi giorni e sulle decisioni presenti e future prese da quegli atenei che hanno introdotto programmazioni dell’accesso illecite».
Gli studenti ricordano come avessero denunciato «sin da subito come la delibera adottata dagli organi accademici contenesse vizi formali e sostanziali mancando di fatto sia una maggioranza vera che il rispetto della normativa nazionale, prima su tutte la legge 264/99».

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Il terzo può usucapire il bene espropriato per pubblica utilità se resta inutilizzato dal Comune

Non è impedita l'usucapione del bene espropriato da soggetto diverso dall'ex proprietario se alla dichiarazione di pubblica utilità non segue il concreto utilizzo o la realizzazione delle opere necessarie da parte dell'ente espropriante. Così la Corte di cassazione, con l'ordinanza n. 20442/2017, depositata ieri, ha accolto il ricorso di un privato che rivendicava l'avvenuta proprietà per usucapione di un fondo e di un piccolo fabbricato inserito nel Parco della Caffarella a Roma.
L'arma spuntata della retrocessione - In primis, il ricorrente aveva perseguito la via del diritto alla retrocessione del bene espropriato, ma in tutti e tre i gradi di giudizio gli era stata negata la titolarità di tale diritto soggettivo a contenuto potestativo. Con l'unico e concorde argomento che si trattasse di diritto riservato solo all'ex proprietario. Sul punto la Corte di cassazione non si addentra fino a darvi una soluzione essendo stata ora chiamata a definire il diritto reale di proprietà sul bene espropriato in base al decorso dei termini per l'acquisto tramite usucapione.
La prova dell'animus possidendi - Successivamente il tribunale di Roma respingeva anche la domanda fondata sulla sussistenza dell'usucapione del terreno e della baracca ricadente nell'area sottoposta a vincolo pubblico dal 1966 e programmata zona a verde pubblico solo nel piano regolatore generale del 2000, ma su cui non era mai stata avviata alcuna opera pubblica da parte del Comune di Roma. I beni oggetto di espropriazione andavano a ricostituire l'originaria proprietà fondiaria, unitamente al terreno adiacente già acquistato direttamente dagli ex proprietari. Il tribunale romano affermava che non erano beni usucapibili in quanto si trattava di area acquisita al demanio pubblico, cioè di beni non commerciabili e non acquisibili da terzi. Anche la Corte di appello definiva i beni sottoposti a vincolo archeologico e paesaggistico perchè rientranti in area vincolata appunto. E affermava, in base al codice civile, che «l'eventuale possesso di cose di cui non si possa acquistare la proprietà è senza effetto».
Beni demaniali e indisponibilità - La dichiarazione di una zona comunale a vincolo paesaggistico o archeologico non è sufficiente a far ritenere di interesse archeologico qualsiasi bene ricadente nell'area. Inoltre, l'area che sia dichiarata zona N del Comune, cioè destinata a verde pubblico, non fa rientrare automaticamente il fondo nel patrimonio indisponibile dell'ente locale. L'indisponibilità di un bene è legata alla sua necessaria funzionalità pubblica. E se non viene utilizzato per lo svolgimento di alcun servizio pubblico il crisma dell'indisponibilità viene meno. Così la Cassazione rispedisce ai giudici l'esame di merito per accertare se vi sia stata o meno una condotta possessoria che determina l'acquisto della proprietà. Dato per acquisito che la dichiarazione di pubblica utilità e la destinazione indicata nel Prg non sono altro che attività programmatica. Così come la lottizzazione e la relativa convenzione, fino alla concreta realizzazione delle attività o delle opere pubbliche.

fonte:Cassa Forense - Dat Avvocato

mercoledì 30 agosto 2017

Assunzione giovani, via libera al bonus se l’azienda non licenzia per un anno

Il governo non sembra intenzionato a concedere a Confindustria il supersgravio assoluto e generalizzato per le assunzioni sollecitato dall’associazione degli industriali nei giorni scorsi. Secondo quanto trapela da fonti vicine al dossier e confermate dall’agenzia di stampa Ansa, il nuovo bonus assunzioni potrebbe essere pari al 50% dei contributi previdenziali teoricamente previsti entro un tetto massimo di 3.250 euro annui, e riguarderebbe le assunzioni di lavoratori fino a 29 anni di età. Ma dopo le proteste dei sindacati, per evitare che le aziende utilizzino i nuovi dipendenti a costo ridotto per sostituire personale licenziato, l’Esecutivo vuole introdurre un vincolo: l’azienda non dovrà aver effettuato dei licenziamenti nei sei mesi precedenti l’assunzione con bonus, e se vorrà conservare l’incentivo non dovrà licenziare neanche nei sei mesi successivi all’assunzione (fatti salvi dimissioni e pensionamenti).
Qualcuno ironizza: il vincolo, il paletto “antifurbi” che il governo sta considerando, una volta c’era già, e si chiamava articolo 18. In ogni caso la discussione è ancora all’inizio, anche perché la pressione politica di Confindustria per ottenere uno sgravio molto più forte e generalizzato è molto pesante, e trova l’appoggio dell’area intorno al segretario del partito democratico Matteo Renzi. Sull’altro piatto della bilancia, la necessità di evitare che si ripeta lo sconcio dei primi voucher, che divennero il grimaldello per una ulteriore precarizzazione del mondo del lavoro. Stretto tra queste opposte esigenze, e obbligato a fare i conti con una cronica insufficienza di risorse, il governo Gentiloni sta considerando le mosse da fare. Ad esempio, è possibile che lo sgravio massimo salga un po’ oltre i 3250 euro annui; oppure, che la platea dei possibili assunti arrivi fino ai 34-35 anni di età. Si studia anche se limitare il divieto al licenziamento per motivi economici di lavoratori con la stessa mansione di quello assunto con gli sgravi (ma in questo caso già ora il lavoratore licenziato ha un’altissima probabilità di vincere la causa) o se prevedere che il divieto, pena la perdita dell’incentivo, sia esteso a tutto il personale dell’azienda che ha avuto accesso al beneficio.
E’ possibile che alla fine i “paletti” per impedire abusi nel passaggio licenziamenti-assunzioni con bonus vengano resi meno stringenti, anche per evitare un “sabotaggio” della misura da parte delle imprese, scontente di fronte a vincoli troppo rigidi. Ai tempi, il governo Letta varò un bonus simile, ma lo sgravio scattava solo se con la nuova assunzione si verificava un aumento dell’occupazione nell’azienda rispetto all’anno precedente: fu un flop. Come è stato un flop - solo 21.800 neoassunti stabili e 40.000 trasformazioni da gennaio a maggio - il generoso bonus di Garanzia Giovani, che scade quest’anno.
Intanto, dice l’Istat, il clima di fiducia delle imprese e dei consumatori migliora sempre più: ad agosto l’indice del clima di fiducia delle imprese ha segnato una crescita da 105,6 a 107 punti, che lo porta al livello più alto a partire da dieci anni fa, prima della crisi, a giugno 2007 (quando era 109,6). Anche l’indice dei consumatori è in aumento da 106,9 a 110,8 punti con tutte le componenti del clima in crescita. Il clima economico e quello personale passano, rispettivamente, da 123,1 a 128,1 punti e da 101,6 a 105,6; il clima corrente sale da 106,3 a 109,3 e il clima futuro aumenta da 108,4 a 114. I giudizi e le aspettative circa la situazione economica del Paese sono in miglioramento e tornano a diminuire le aspettative sulla disoccupazione. Una ottima notizia, che ovviamente viene accolta con grande soddisfazione dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan: «I dati sulla fiducia delle imprese e dei consumatori - dice via Twitter - sono molto positivi. Incoraggiano a proseguire sulla strada intrapresa e a rendere strutturale la ripresa».

fonte:www.lastampa.it/Assunzione giovani, via libera al bonus se l’azienda non licenzia per un anno - La Stampa

martedì 29 agosto 2017

Lotta alla povertà, a gennaio arriva il reddito di inclusione per le famiglie più deboli

Il Consiglio dei ministri ha approvato in via definitiva il decreto legislativo che introduce dal 1 gennaio 2018 la misura di contrasto alla povertà. Il beneficio sarà destinato nella prima fase a 660mila famiglie, di cui 580mila con figli minori, e andrà da un minimo di 190 euro a un massimo di 485 euro. Dal primo dicembre si potranno presentare le domande per l’accesso al Rei.
Il Reddito d’Inclusione, che in fase di prima attuazione potrà contare su circa 2 miliardi di euro comprensivi dei fondi per l’inclusione sociale, sarà rivolto ai nuclei familiari con figli minori o disabili, donne in stato di gravidanza o persone ultra 55enni in condizione di disoccupazione. Verrà poi progressivamente allargato, grazie a un incremento delle risorse, fino a comprendere tutta la platea delle persone in condizione di povertà assoluta.
Che cos’è, come funziona e come richiedere il reddito di inclusione
Ecco in sintesi cosa prevede il provvedimento.
Che cos’è
Il Reddito di inclusione (Rei) è la prima misura unica nazionale di contrasto alla povertà a vocazione universale. Prevede un beneficio economico, cui sarà possibile accedere da gennaio 2018, erogato attraverso una Carta di pagamento elettronica (Carta Rei), e un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa volto al superamento della condizione di povertà
A chi si rivolge
Nella prima fase, il Rei sarà destinato a 660mila famiglie, di cui 580mila con figli minori. Si tratta delle fasce di popolazione individuate tra le più bisognose, in continuità con il Sia (Sostegno per l’inclusione attiva) e l’Asdi (Assegno di disoccupazione), che il Rei andrà a sostituire in via espansiva. I beneficiari sono inizialmente individuati tra i nuclei familiari con: figli minorenni, figli con disabilità (anche maggiorenni), donna in stato di gravidanza e disoccupati che abbiano compiuto 55 anni.
Beneficio economico
Va da un minimo di 187,5 euro a un massimo di 485,4 euro al mese. È concesso per un periodo massimo di 18 mesi e non potrà essere rinnovato prima di 6 mesi. In caso di rinnovo, la durata è fissata in 12 mesi. In ogni caso, il beneficio per ogni nucleo familiare non potrà essere superiore all’assegno sociale (valore annuo, 5.824 euro, ovvero circa 485 euro al mese). Se i componenti del nucleo familiare ricevono già altri trattamenti assistenziali, il valore mensile del Rei è ridotto del valore mensile degli stessi trattamenti.
Requisiti di accesso
Potranno accedere al beneficio i cittadini italiani, i cittadini comunitari, i familiari di cittadini italiani o comunitari, non aventi la cittadinanza in uno Stato membro, titolari del diritto di soggiorno o diritto di soggiorno permanente, i cittadini stranieri in possesso del permesso di soggiorno Ce per soggiornanti di lungo periodo, i titolari di protezione internazionale (asilo politico, protezione sussidiaria), che siano residenti in Italia da almeno due anni al momento della presentazione della domanda.
Doppia soglia di accesso
Per accedere al Rei il nucleo familiare deve avere un valore Isee non superiore a 6 mila euro e un reddito equivalente non superiore a 3 mila euro. Inoltre il valore del patrimonio immobiliare, diverso dalla casa di abitazione, non deve superare i 20 mila euro e il patrimonio mobiliare (depositi, conti correnti) non deve essere superiore a 10 mila euro (ridotto a 8 mila euro per la coppia e a 6 mila euro per la persona sola).
Le domande
Potranno essere presentate da dicembre. Il Comune raccoglierà la richiesta, verificherà i requisiti di cittadinanza e residenza e la invierà all’Inps entro 10 giorni lavorativi dalla ricezione. L’istituto, entro 5 giorni, verificherà il possesso dei requisiti e, in caso di esito positivo, riconoscerà il beneficio.

fonte:www.lastampa.it/Lotta alla povertà, a gennaio arriva il reddito di inclusione per le famiglie più deboli - La Stampa

Coniugi “separati in casa”: negata la separazione

Il Tribunale di Como nega l’omologa dell’accordo di separazione di due coniugi che, per convenienza economica, continuano a coabitare nella casa familiare.
Il caso. Marito e moglie hanno presentato al Tribunale di Como istanza di omologa del verbale di separazione consensuale da loro redatto prevedendo, tra le condizioni relative alla gestione della casa familiare, la prosecuzione della convivenza a tempo indeterminato ovvero fino al raggiungimento di condizioni economiche tali da consentire ad uno dei due coniugi il reperimento di una diversa soluzione abitativa.
Situazione non riconosciuta dalla legge. Il Tribunale di Como ritiene che, ferma restando la facoltà delle parti «di comportarsi e autodeterminarsi come meglio credono», la loro volontà non può portare a «piegare gli istituti giuridici sino a dare riconoscimento e tutela a situazioni le quali non solo non sono previste dall’ordinamento ma si pongono altresì in contrasto con i principi che ispirano la normativa in materia familiare». Secondo la Corte, infatti, non possono essere riconosciute soluzioni “ibride” che implichino da una parte il venir meno di gran parte dei doveri matrimoniali gravanti sui coniugi e dall’altra la persistenza della coabitazione, considerata anch’essa un dovere coniugale dall’art. 143 c.c., derogabile solo in funzione del superiore interesse della famiglia.
Convivenza. Considerato che l’istituto della separazione trova giustificazione in una situazione di intollerabilità della convivenza, nel caso in esame tale presupposto non risulta oggettivamente apprezzabile in quanto i coniugi stessi intendono prorogare la coabitazione a tempo indeterminato per ragioni di convenienza. Non può, quindi, trovare accoglimento la pretesa di attribuire riconoscimento formale, con i conseguenti effetti tipici della separazione coniugale, ad un accordo privatistico che regolamenta la condizione di “separati in casa”: tale circostanza, infatti, non solo non corrisponde ad alcun tipo di strumento nell’attuale ordinamento ma si presterebbe, «fin troppo facilmente», ad operazioni elusive e accordi simulatori per finalità anche illecite.
Per questi motivi, il Tribunale rigetta la domanda.

Fonte: www.ilfamiliarista.it/Coniugi “separati in casa”: negata la separazione - La Stampa

lunedì 28 agosto 2017

Con la creazione di una nuova famiglia l'ex coniuge decade il diritto all’assegno

La instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia ancorché di fatto (nella specie ammessa dalla stessa ex moglie, nel corso del procedimento di revisione delle condizioni della separazione, seppure con la precisazione che la stessa era, al momento, venuta meno), rescindendo ogni connessione con il tenore e il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell'assegno divorzile a carico dell'altro coniuge. Lo ha detto la Cassazione con l’ordinanza n. 18111 del 21 luglio 2017, chiarendo inoltre che il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso, e sono - di conseguenza - irrilevanti le successive evoluzioni del detto rapporto.
Una decisione in linea con la più recente giurisprudenza - Tra le altre, per il rilievo che la instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore e il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell'assegno divorzile a carico dell'altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso, Cassazione, ordinanze 13 dicembre 2016, n. 25528, in Diritto & Giustizia, 2016, 14 dicembre; 29 settembre 2016, n. 19345, ivi, 2016, 30 settembre, 8 febbraio 2016, n. 2466, ivi, 2016, 8 febbraio; 11 gennaio 2016, n. 225, ivi, 2016, 12 gennaio 2016, 9 settembre 2015, n. 17856, ivi, 2015, 9 febbraio.
Sul diritto alla corresponsione dell'assegno di divorzio - Sempre nello stesso senso della pronunzia in rassegna e, in particolare, per l'affermazione che la instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore e il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell'assegno divorzile a carico dell'altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso, Cassazione, sentenza 3 aprile 2015, n. 6855, in Guida al diritto, 2015, f. 18, p. 56 (con nota adesiva di Finocchiaro M.) ove il rilievo che la formazione di una famiglia di fatto - costituzionalmente tutelata ai sensi dell'articolo 2 della Costituzione come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell'individuo - è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l'assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà postmatrimoniale con l'altro coniuge, il quale non può che confidare nell'esonero definitivo da ogni obbligo.
Il parametro dell'adeguatezza dei mezzi - Sostanzialmente in questa ottica, per i giudici di merito, la mera convivenza del coniuge con altra persona non incide di per sé direttamente sull'assegno di mantenimento. Qualora, tuttavia, tale convivenza assuma i connotati di stabilità e continuità, tanto che i conviventi instaurino tra di loro una relazione di vita analoga a quella che, di regola, caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio, la mera convivenza si trasforma in una famiglia di fatto. Ciò implica il venir meno del parametro dell'adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei partner, poiché viene a costituirsi una nuova famiglia, benché solo di fatto. Ne consegue la mancanza di ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile, fondato sulla conservazione di esso, Tribunale di Milano, sez. IX, sentenza 6 febbraio 2012, n. 1431, in Guida al diritto, 2012, f. 17, p. 42.
Diversamente, per la giurisprudenza anteriore, nel senso che la convivenza more uxorio del coniuge, destinatario dell'assegno, tale da aver dato vita a una vera e propria famiglia di fatto, può rendere inoperante o comunque può produrre una sospensione dell'assegno divorzile, Cassazione, ordinanza 26 febbraio 2014, n. 4539, in Diritto & Giustizia, 2014, 27 febbraio.
Analogamente, in tema di diritto alla corresponsione dell'assegno di divorzio in caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il parametro dell'adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei coniugi viene meno di fronte alla instaurazione, da parte di questi, di una famiglia, ancorché di fatto, Cassazione, sentenza 11 agosto 2011, n. 17195, in Vita notarile, 2012, p. 247 che evidenzia come la conseguente cessazione del diritto all'assegno divorzile, a carico dell'altro coniuge, non è però definitiva, potendo la nuova convivenza - nella specie, uno stabile modello di vita in comune, con la nascita di due figli ed il trasferimento del nuovo nucleo in una abitazione messa a disposizione dal convivente - anche interrompersi, con reviviscenza del diritto all'assegno divorzile, nel frattempo rimasto in uno stato di quiescenza.
In termini opposti rispetto agli ultimi orientamenti - Sempre in termini opposti, rispetto alla giurisprudenza più recente, si era affermato, in sede di legittimità:
- deve essere cassata la sentenza del giudice del merito che esclude il diritto a un assegno di mantenimento in favore dell'ex moglie, avendo accertato una stabile convivenza di questa con un terzo da oltre un decennio, caratterizzata anche dalla nascita di un figlio, prescindendo dalla verifica della adeguatezza dei mezzi dell'avente diritto all'assegno rispetto al tenore di vita tenuto durante il matrimonio e affermando che la convivenza, ancorché duratura, determina una disponibilità economica, senza che tuttavia risulti in qualche modo la esistenza di un modello di vita avente i caratteri della famiglia di fatto, anche con riferimento alla consistenza e alla continuità degli apporti di natura economica del convivente, che, lungi dall'essere bene individuati, siano stati meramente presunti, Cassazione, sentenza 12 marzo 2012, n. 3923, in Giustizia civile, 2013, I, p. 2197;
- la circostanza che la ex moglie divorziata, beneficiaria di un assegno di divorzio, abbia partorito un figlio non costituisce elemento di prova di per sé sufficiente e idoneo a dimostrare l'esistenza di una situazione di convivenza more uxorio con l'altro genitore, avente nel tempo caratteri di stabilità e continuità tali da fare presumere che la stessa tragga da tale convivenza vantaggi economici che giustifichino la revisione dell'assegno medesimo, Cassazione, sentenza 4 febbraio 2009, n. 2709, ivi, 2009, I, p. 1574.

venerdì 25 agosto 2017

Rottamazione delle liti fiscali: ecco come funziona

L’ Agenzia delle Entrate con la circolare n. 22/E del 28 luglio 2017 aiuta i contribuenti che vogliono definire le controversie tributarie pendenti entro il 2 ottobre 2017. E’ bene ricordare che tale opportunità è stata consentita dall’articolo 11 del decreto – legge 24 aprile 2017 n. 50 convertito con modificazioni dalla legge 21 giugno 2017 n. 96.
Pertanto, le controversie attribuite alla giurisdizione tributaria in cui è parte l’agenzia delle entrate pendenti in ogni stato e grado del giudizio, compreso quello in cassazione e anche a seguito di rinvio possono essere chiuse versando gli importi riportati nell’atto impugnato contestati nel ricorso di primo grado e, gli interessi per ritardata iscrizione a ruolo al netto delle sanzioni collegate ai tributi e degli interessi di mora. Qualora la lite riguardi esclusivamente interessi di mora o sanzioni non collegate ai tributi, la definizione può essere effettuata versando il 40 % degli importi contestati.
Ebbene, tra i chiarimenti principali quello che permette di capire cosa si intende per liti “in cui è parte l’agenzia delle entrate”. Ciò vuol dire che bisogna fare riferimento alla nozione di parte in senso formale e, quindi, alle sole ipotesi in cui l’Agenzia delle entrate sia stata evocata in giudizio o, comunque, sia intervenuta. Verranno escluse, ad esempio, le controversie nelle quali è parte unicamente l’agente della riscossione, ancorché inerenti ai tributi amministrati dall’Agenzia delle entrate. Viceversa vi rientreranno le liti relative ad atti emessi dall’Agenzia delle entrate che vedono come parte in giudizio, assieme alla stessa Agenzia, anche l’agente della riscossione.
Attenzione, poi, alle controversie escluse dalla definizione ovvero, ad esempio, le controversie inerenti a istanze di restituzione di somme o, in ogni caso, quelle nelle quali non è possibile determinare il quantum dovuto dal contribuente così come le controversie instaurate avverso dinieghi di condono o di precedenti definizioni agevolate di liti pendenti.
Altresì, l’adesione è ammessa per i processi tributari, fatta eccezione di quelli esclusi così come riportato nella circolare dell’Agenzia delle Entrate, che risultino “pendenti” alla data del 24 aprile 2017 e che non siano conclusi alla data di presentazione della domanda.
Ebbene, come detto in apertura, il termine per il pagamento e per la successiva presentazione della domanda di definizione scade il 2 ottobre 2017.
Il pagamento potrà essere effettuato in un massimo di 3 rate per importo di importo netto superiore ai 2.000 euro.
In questo caso le rate della rottamazione delle liti fiscali saranno articolate secondo le seguenti scadenze:
- pagamento in 3 rate:
1° rata con scadenza il 2 ottobre 2017 - 40% dell’importo complessivo;
2° rata con scadenza il 30 novembre 2017 - 40% dell’importo complessivo;
3° rata con scadenza il 2 luglio 2017 - 20% dell’importo complessivo;
- pagamento in 2 rate:
1° rata con scadenza il 2 ottobre 2017 - 40% dell’importo complessivo;
2° rata con scadenza il 30 novembre 2017 - 60% dell’importo restante.
Infine, la circolare chiarisce che per quel che concerne il rapporto con la definizione agevolata dei carichi affidati all’agente della riscossione, il contribuente che non ha manifestato la volontà di avvalersi della definizione dei carichi affidati all’agente della riscossione è libero di accedere alla definizione delle liti pendenti; allo stesso modo, il contribuente che ha manifestato la volontà di avvalersi della definizione dei carichi può scegliere di non avvalersi della definizione delle liti pendenti.
Peraltro, i contribuenti che hanno tempestivamente presentato l’istanza di definizione dei carichi, pur avendo la facoltà di avvalersi della definizione agevolata delle controversie tributarie, sono tenuti, in ogni caso, a rispettare la condizione tassativa di non rinunciare alla definizione dei carichi. Va specificato, però, che le due definizioni agevolate sono autonome: il debitore, per fruire dei benefici della definizione dei carichi, deve versare integralmente, in un’unica soluzione o a rate, gli importi dovuti a tal fine; mentre, per fruire della definizione delle liti, è sufficiente che entro il 2 ottobre 2017 presenti la relativa domanda e versi quanto dovuto per la definizione della lite (importo netto dovuto) ovvero la prima rata oppure si limiti alla presentazione della domanda, qualora non risultino importi da versare.

fonte:www.altalex.com/Rottamazione delle liti fiscali: ecco come funziona | Altalex

Il 6 ottobre in sciopero i dipendenti di province e città metropolitane

I sindacati confermano per il prossimo 6 ottobre lo sciopero generale dei dipendenti pubblici di province e citta' metropolitane. Saranno garantiti solo i servizi minimi essenziali.
A promuovere lo sciopero sono Fp Cgil, Cisl Fp e Uil Fpl per denunciare "la crisi drammatica in cui versano gli enti interessati, dimostrazione palese di quanto abbiano inciso negativamente le scellerate scelte politiche adottate in questi anni e che hanno condotta al collasso questi enti".
Nella settimana dall'11 al 15 settembre si terranno assemblee in tutti i luoghi di lavoro. I sindacati rivendicano, per questa via, "soluzioni immediate per consentire l'erogazione dei servizi fondamentali e per tutelare, allo stesso tempo, i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, a partire dal pagamento degli stipendi, oggi messi in discussione in diversi enti".

Fonte:www.italiaoggi.it/Il 6 ottobre in sciopero i dipendenti di province e città metropolitane - News - Italiaoggi

Buoni pasto: le nuove regole

E’ stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 10 agosto, il decreto 7 giugno 2017 n. 122, che entrerà in vigore il 9 settembre 2017.
Il Decreto individua gli esercizi commerciali presso i quali può essere erogato il servizio sostitutivo di mensa a mezzo dei buoni pasto, le caratteristiche dei buoni pasto e il contenuto degli accordi stipulati tra le società di emissione dei buoni pasto e i titolari degli esercizi convenzionati.
Novità. In particolare, i buoni possono essere utilizzati esclusivamente dai prestatori di lavoro subordinato, a tempo pieno o parziale, anche qualora l’orario di lavoro non preveda una pausa per il pasto, inoltre, gli stessi buoni possono essere utilizzati dai soggetti che hanno instaurato con il cliente un rapporto di collaborazione anche non subordinato.
Tra le novità previste c’è la possibilità di utilizzo cumulativo dei buoni pasto per un massimo di 8, i buoni non daranno diritto a resto in denaro e non potranno essere convertiti in denaro; tale disposizione vale sia per i buoni cartacei che per quelli in forma elettronica.
Viene inserita sui buoni la dicitura «Il buono pasto non è cedibile, né cumulabile oltre il limite di otto buoni, nè commercializzabile o convertibile in denaro; può essere utilizzato solo se datato e sottoscritto dal titolare».
La norma inoltre indica anche una serie di esercizi convenzionati presso i quali sarà possibile spendere i ticket: bar, ristoranti, trattorie, esercizi ambulanti, supermercati, con l’inserimento anche di esercizi al dettaglio che vendono prodotti alimentari, agriturismi ed itticiturismi.

Fonte: www.lavoropiu.info/Buoni pasto: le nuove regole - La Stampa

Un controllo fiscale ogni 50 anni

Un controllo fiscale ogni 50 anni. E’ questa la probabilità media per imprese minori, professionisti e artisti di incappare in una verifica sostanziale in base ai dati dell’anno 2016. Il tasso di copertura della platea dei contribuenti, composta da quasi 3,5 milioni di soggetti, è risultato pari all’1,9%, in calo rispetto al 2,4% del 2015 e al 2,6% registrato negli anni 2013 e 2014. Un trend che rende «la deterrenza esercitata dall’azione di accertamento nei confronti dell’evasione di massa del tutto insufficiente, tenuto anche conto della sostanziale tenuità delle sanzioni concretamente applicabili, almeno in caso di definizione bonaria delle violazioni». A parlare è la Corte dei conti, nella Relazione sul rendiconto generale dello stato per il 201

fonte:www.italiaoggi/Un controllo fiscale ogni 50 anni - News - Italiaoggi

mercoledì 23 agosto 2017

Più anziani non autosufficienti, meno posti letto: così i figli si indebitano per l’assistenza

Il paradosso è servito. Il Paese più vecchio d’Europa rischia di dimenticarsi dei propri anziani. In Italia il 21,4 per cento della popolazione ha più di 65 anni. La media europea è del 18,5. L’invecchiamento, del resto, non si ferma: nel 2050, secondo le stime Istat, gli over 65enni arriveranno a quasi 22 milioni, praticamente una persona ogni tre. Eppure, denuncia l’ultimo rapporto dell’Irccs Inrca (l’Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico per anziani), tra i grandi Paesi europei il nostro è l’unico a non aver riorganizzato in maniera organica il suo sistema di continuità assistenziale. Con il risultato che il «peso» delle cure ricade in gran parte sulle famiglie. Oggi in Italia sono almeno un milione le persone che dedicano parte dei loro giorni (e, spesso, ore di notti insonni) ad assistere parenti non più autosufficienti. Circa 561 mila famiglie, registra il Censis, hanno dovuto erodere i propri risparmi, vendere l’abitazione di proprietà o contrarre debiti per farlo. Dietro percentuali e statistiche, ci sono nomi e cognomi: storie di rassegnazione, amarezza e profonda solitudine. Un centinaio ne sono arrivate a La Stampa da tutta Italia grazie a «L’occhio dei lettori».
Le due strade
Senza scomodare la Costituzione, una legge per il diritto alla salute c’è già. È la numero 833 del 1978. «Dovrebbe garantire le cure, qualsiasi sia la malattia e senza limiti di durata. Il problema è che spesso, specie quando si parla di anziani, non è così», spiega Maria Grazia Breda, presidente della Fondazione promozione sociale, nata nel 2003 per tutelare i diritti delle persone non autosufficienti. Nel «modello» italiano ci sono due strade: la prima, più battuta, è la «domiciliarità» che secondo le stime dell’Auser, (l’Associazione per invecchiamento attivo) riguarda 2,5 milioni di anziani. La seconda è quella della «residenzialità», ossia l’insieme di strutture (pubbliche o private) in cui, secondo gli ultimi dati del 2013, sono ospitati 278 mila anziani autosufficienti e non.
Tra debiti e rassegnazione
In entrambi i casi, chiunque si trovi nella condizione di assistere un anziano non autosufficiente, sperimenta sulla propria pelle la carenza cronica di risorse pubbliche. Nel 2017 il Fondo per le politiche sociali ha perso 211 sui 311,58 milioni stanziati nell’ottobre 2016 mentre quello per le non autosufficienze è stato ridimensionato a 450 milioni (contro i 500 previsti). Fondi che ora il governo ha annunciato di voler ripristinare con gli introiti della “Wb tax”. Inoltre, la fotografia scattata sulle dichiarazioni dei redditi 2016 evidenzia che oltre il 70% degli anziani ha un reddito complessivo inferiore a 14.600 euro netti. Una badante in regola ha un costo medio di circa 15 mila euro l’anno. Per molti, è un lusso.
Le lista d’attesa infinite
Ma la situazione è ancora più grigia per chi sceglie la residenzialità. Le strutture private chiedono circa 3-4000 euro al mese. E per quelle pubbliche (in cui la quota a carico dell’assistito è di circa la metà) prima ancora del pagamento delle retta il problema è l’accesso stesso alla prestazione. I posti letto disponibili in 5 anni hanno subito una sforbiciata del 23,6%. E le liste d’attesa si ingrossano. «I tempi per accedere a una struttura - spiega ancora Maria Grazia Breda - spesso si protraggono per anni e chi è dentro rischia di restarci poco. Il quadro è desolante. Ogni giorno siamo sommersi dalle telefonate di persone che chiedono aiuto per opporsi alle dimissioni forzate dei propri cari».

fonte:www.lastampa.it/Più anziani non autosufficienti, meno posti letto: così i figli si indebitano per l’assistenza - La Stampa

Donazione mediante operazione bancaria? Occorre l'atto pubblico

Il trasferimento per spirito di liberalità di strumenti finanziari dal conto deposito titoli del beneficiante a quello del beneficiario, a mezzo banca, non rientra tra le donazioni indirette, ma configura una donazione tipica ad esecuzione indiretta, per cui occorre la forma solenne dell’atto pubblico.
E’ quanto stabilito dalle Sezioni Unite civili nella sentenza 18725/17, depositata il 27 luglio scorso.
Il caso in esame riguardava il trasferimento di valori mobiliari in favore di un beneficiario, in virtù di un ordine impartito alla banca dal titolare del conto, deceduto pochi giorni dopo l'operazione.
La figlia del de cuius, ha citato in giudizio davanti al Tribunale di Trieste la beneficiaria di tale trasferimento, chiedendo, per la quota di un terzo spettante all'attrice sul patrimonio ereditario, la restituzione del valore degli strumenti finanziari, appartenenti al di lei padre. L’attrice ha inoltre invocato la nullità del negozio attributivo, in quanto privo della forma solenne richiesta per la validità della donazione.
La convenuta si è costituita in giudizio, evidenziando che il trasferimento era stato chiesto direttamente dal correntista e l'attribuzione doveva essere considerata, sia adempimento di obbligazione naturale, dettata dal legame affettivo che la legava al de cuius, sia donazione indiretta.
Il Tribunale adìto ha accolto la domanda, dichiarando nullo l’atto di liberalità. Diversamente, la Corte territoriale ha accolto il gravame proposto in via principale dalla beneficiaria, riconducendo la fattispecie esaminata nell'ambito della donazione indiretta, per la cui validità non è richiesta la forma dell'atto pubblico, bensì quella prescritta per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità.
Avverso tale pronuncia, la figlia del de cuius ha proposto ricorso in Cassazione.
La questione esaminata dalle Sezioni Unite riguarda il rapporto tra il contratto tipico di donazione e le cosiddette donazioni indirette o liberalità atipiche; il primo regolato dall'art. 769 c.c., come l'atto con il quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l'altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa una obbligazione; le altre, previste dall'art. 809 c.c.
L’obbligo della forma solenne concerne solo la donazione tipica, ad eccezione per le donazione di modico valore, rispondendo alla necessità di tutelare il donante da scelte affrettate; per la validità delle donazioni indirette, non è richiesta la forma dell'atto pubblico, essendo sufficiente l'osservanza delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità.
Nell’esaminare il caso in oggetto, le Sezioni Unite hanno considerato gli elementi di distinzione delle liberalità non donative rispetto al contratto di donazione. Sotto tale aspetto, la dottrina ha precisato che la donazione indiretta non si identifica completamente con la donazione, ovvero con il contratto diretto a realizzare la specifica funzione dell'arricchimento diretto di un soggetto a carico di un altro, il donante, che agisce per spirito di liberalità. Si tratta di liberalità che si possono ottenere con differenti modalità: ad esempio con atti diversi dal contratto; con contratti rispetto ai quali il beneficiario è terzo; con contratti caratterizzati dalla presenza di un nesso di corrispettività tra attribuzioni patrimoniali; con la combinazione di più negozi. Secondo la dottrina, inoltre, la configurazione della donazione come un contratto tipico a forma vincolata e sottoposto a regole inderogabili, obbliga le parti a ricorrere a questo tipo di contratto per il passaggio, per spirito di liberalità, di ingenti valori patrimoniali da un soggetto ad un altro, imponendo, però, l'onere della forma solenne soltanto quando le parti abbiano optato per il contratto di donazione.
La Suprema Corte ha rilevato che non è corretto inquadrare  nella donazione indiretta, il trasferimento per spirito di liberalità, a mezzo banca, di strumenti finanziari dal conto di deposito titoli del beneficiante a quello del beneficiario, in quanto l'operazione bancaria in adempimento dello iussum, costituisce la funzione esecutiva di un atto negoziale ad esso esterno, intercorrente tra il beneficiante e il beneficiario, il quale soltanto è in grado di giustificare gli effetti del trasferimento di valori da un patrimonio all'altro.
Dunque non si tratta di una donazione indiretta, ma di una donazione tipica ad esecuzione indiretta. In effetti, come rilevato in dottrina, da una parte gli strumenti finanziari che vengono trasferiti al beneficiario attraverso il virement provengono dalla sfera patrimoniale del beneficiante, mentre  dall'altra, il trasferimento si realizza mediante un'attività di intermediazione gestoria della banca, essendo  il bancogiro una semplice modalità di trasferimento di valori del patrimonio di un soggetto in favore di un  altro.
Inoltre, nel bancogiro, la banca non può rifiutarsi di eseguire l'ordine richiesto, sussistendo un rapporto contrattuale che la vincola al delegante, ammesso che vi sia la disponibilità di conto, a differenza di quanto avviene nella delegazione, in cui il delegato, ancorchè debitore del delegante, può non accettare l'incarico.
Per tali ragioni, le Sezioni Unite hanno enunciato il seguente principio di diritto: "Il trasferimento per spirito di liberalità di strumenti finanziari dal conto di deposito titoli del beneficiante a quello del beneficiario realizzato a mezzo banca, attraverso l'esecuzione di un ordine di bancogiro impartito dal disponente, non rientra tra le donazioni indirette, ma configura una donazione tipica ad esecuzione indiretta; ne deriva che la stabilità dell'attribuzione patrimoniale presuppone la stipulazione dell'atto pubblico di donazione tra beneficiante e beneficiario, salvo che ricorra l'ipotesi della donazione di modico valore".
In conclusione, la Cassazione ha accolto il ricorso, cassando  con rinvio la sentenza impugnata.

fonte:www.altalex.com/Donazione mediante operazione bancaria? Occorre l'atto pubblico | Altalex

In Italia troppo stress: il Tar concede il permesso di soggiorno allo studente straniero

Un ambiente culturale profondamente diverso in cui è complesso adattarsi, una situazione economica diventata difficile che l’ha costretto a cercarsi un lavoro, l’ansia dovuta alle alte aspettative dei genitori sul suo rendimento, sono tutti fattori da tenere in considerazione per decidere se rinnovare o meno un permesso di soggiorno per studio. E questo, anche se lo studente in questione non ha soddisfatto tutti gli obiettivi che la legge richiedeva lui per concederglielo.
Lo ha deciso il Tar del Piemonte, che ha accolto la richiesta di uno studente pakistano del Politecnico che si era visto negare il permesso di soggiorno dalla Questura perché aveva sostenuto solo sei dei sette esami che avrebbe dovuto aver conseguito per rimanere in Italia. Questa è la storia di M.I., aspirante ingegnere pakistano che, per il momento, potrà rimanere nel nostro Paese a studiare perché il tribunale ha sospeso la decisione della Questura e ha invitato l’ufficio immigrazione a tenere conto di vari fattori (e non solo quelli prettamente burocratici) prima di decidere nuovamente in merito al suo destino accademico.
LA VICENDA
La famiglia di M.I. non è particolarmente facoltosa. Ha dato dei soldi al figlio per andare a studiare in Italia e su di lui ha investito numerose aspettative. A metà del suo percorso di studi, però, i soldi su cui il giovane studente poteva fare affidamento diminuiscono. Problemi a casa rendono difficile mandarne altri e il ragazzo è costretto a cercarsi un lavoro part time per potersi mantenere in Italia. E’ in questo periodo che il percorso accademico subisce una frenata. Nonostante tutto, però, lo studente torna sui libri e ricomincia i corsi, recuperando parte del tempo perduto. L’impegno, a livello burocratico, non è però sufficiente e quando M.I. va in Questura per chiedere il rinnovo del permesso ma se lo vede negato. Ricorre contro la decisione e il Tar, dandogli ragione, invita le autorità a tenere in considerazione anche le problematiche psicologiche connesse al suo status di straniero che deve mantenersi.
I DOCUMENTI
Documenti in regola, assicurazione, certificati che attestino i corsi che si andranno a seguire nell’ateneo ospitante. Sono tante le carte che gli studenti non comunitari devono consegnare per riuscire a ottenere un permesso di soggiorno per motivi di studio nel nostro Paese. Tanti, poi, sono anche i paletti che le matricole devono rispettare per vedersi rinnovato, di anno in anno, il permesso. Prima fra tutte il fatto che il permesso di soggiorno per studio autorizza lo svolgimento di attività lavorativa part-time per un massimo di 20 ore settimanali e un limite annuale di 1040 ore. Il permesso di soggiorno per studio, poi, non può essere in ogni caso rinnovato per più di tre anni oltre la durata del corso di studi pluriennale. E a questo punto si allaccia anche la necessità di completare il percorso in tempi contenuti: la normativa prevede il superamento di un numero minimo di esami, cioè uno nel corso del primo anno e due durante quelli successivi.

Fonte:www.lastampa.it/In Italia troppo stress: il Tar concede il permesso di soggiorno allo studente straniero - La Stampa

Nuovo Libretto di famiglia, ecco come funziona

La manovra correttiva approvata definitivamente dal Parlamento lo scorso 15 giugno ha colmato il vuoto lasciato dall’abrogazione dei voucher inserendo una nuova disciplina che regolamenta le prestazioni di lavoro occasionali. Tale disciplina varia a seconda che l’utilizzatore (datore di lavoro) sia una persona fisica o un’impresa.
Il libretto di famiglia. Nel caso, infatti, delle persone fisiche il ricorso alle prestazioni occasionali deve avvenire per il tramite del “Libretto di famiglia”, un libretto nominativo prefinanziato contenente titoli di pagamento, il cui valore nominale è fissato in 10 euro, utilizzabili per compensare prestazioni di durata non superiore a un’ora, che gli utilizzatori potranno utilizzare per il pagamento delle prestazioni occasionali rese a loro favore nell’ambito di:
– piccoli lavori domestici, compresi lavori di giardinaggio, di pulizia o di manutenzione;
– assistenza domiciliare ai bambini e alle persone anziane, ammalate o con disabilità;
– insegnamento privato supplementare.
Il libretto si acquisisce attraverso la piattaforma informatica INPS operativa a decorrere dallo scorso 10 luglio.
Limiti. Il ricorso alle prestazioni professionali non è libero ma deve avvenire entro i seguenti limiti annuali (anno civile):
– ciascun prestatore, con riferimento alla totalità degli utilizzatori, può percepire compensi di importo complessivamente non superiore a 5.000 euro;
– ciascun utilizzatore, con riferimento alla totalità dei prestatori, può erogare compensi di importo complessivamente non superiore a 5.000 euro;
– le prestazioni complessivamente rese da ogni prestatore in favore del medesimo utilizzatore, possono dar luogo a compensi di importo non superiore a 2.500 euro.
Tali importi sono riferiti ai compensi percepiti dal prestatore, ossia al netto di contributi, premi assicurativi e costi di gestione. La misura del compenso è calcolata sulla base del 75% del suo effettivo importo, esclusivamente nel rapporto tra ciascun utilizzatore con riferimento alla totalità dei prestatori, per le seguenti categorie di prestatori:
– titolari di pensione di vecchiaia o di invalidità;
– giovani con meno di venticinque 25 anni di età, se regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso un istituto scolastico di qualsiasi ordine e grado ovvero a un ciclo di studi presso l’università;
– persone disoccupate;
– percettori di prestazioni integrative del salario, di reddito di inclusione (REI o SIA, che costituisce la prestazione di sostegno all’inclusione attualmente vigente e destinata ad essere sostituita dal REI), ovvero di altre prestazioni di sostegno del reddito.
Aspetti previdenziali. Ai sensi della nuova disciplina, per ciascun titolo di pagamento erogato sono interamente a carico dell’utilizzatore la contribuzione alla Gestione separata, stabilita nella misura di 1,65 euro, e il premio dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, stabilito nella misura di 0,25 euro; un importo di 0,10 euro è destinato al finanziamento degli oneri gestionali.

Fonte: www.fiscopiu.it/Nuovo Libretto di famiglia, ecco come funziona - La Stampa

Tira una testata al collega: licenziato per giusta causa

Qualora il licenziamento sia intimato per giusta causa consistente in una pluralità di fatti, ciascuno di essi autonomamente costituisce una base sufficiente per giustificare il provvedimento del datore di lavoro, salvo che il lavoratore dimostri che solo prendendo in considerazione tutti gli episodi congiuntamente, per la loro gravità complessiva, risulti impossibile la prosecuzione – anche provvisoria – del rapporto di lavoro.
Così ha deciso la Cassazione con la sentenza n. 18836/17, depositata il 28 luglio.
Il caso. La Corte d’Appello, in continuità con quanto disposto dal Tribunale, respingeva l’impugnazione del licenziamento disciplinare sollevata dal lavoratore.
La Corte riteneva sussistente l’addebito al lavoratore consistente nell’aver aggredito un collega dapprima verbalmente e successivamente con un colpo di testa inferto al volto.
Tale comportamento integrava la giusta causa di licenziamento per lesione immediata del vincolo fiduciario con il datore di lavoro. Avverso tale pronuncia il lavoratore ricorre in Cassazione.
Licenziamento per giusta causa. Secondo la Cassazione è da applicarsi il principio secondo il quale «qualora il licenziamento sia intimato per giusta causa, consistente in una pluralità di fatti, ciascuno di essi autonomamente costituisce una base idonea per giustificare la sanzione, a meno che colui che ne abbia interesse non provi che solo presi in considerazione congiuntamente, per la loro gravità complessiva, essi sono tali da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro».
Il datore di lavoro non è inoltre tenuto a dimostrare che aveva licenziato il dipendente per i soli episodi addebitati, ma era al contrario onere del lavoratore dimostrare che le condotte integrassero un giusto licenziamento solo se complessivamente esaminate.
Per questi motivi la Cassazione rigetta il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/Tira una testata al collega. Licenziato per giusta causa - La Stampa

Equitalia, se perde paga le spese

Spese processuali interamente a carico di Equitalia, e ora della nuova Agenzia Entrate-Riscossione, nel caso di annullamento della cartella esattoriale. È infatti illegittima la compensazione dei costi di lite anche se il cittadino ha perso il primo grado di giudizio e vinto il secondo. Con una decisione che renderà felici quanti si sentono ingiustamente e spesso condannati a contribuire alle spese del processo tributario nonostante la nullità dell’atto impositivo, la Corte di cassazione, ordinanza n. 20261 del 22 agosto 2017, ha accolto il ricorso di un cittadino che, nonostante l’invalidità della pretesa fiscale, era stato condannato a versare parte dei costi del processo.

fonte:www.italiaoggi.it/Equitalia, se perde paga le spese - News - Italiaoggi

martedì 22 agosto 2017

La riparazione per l'ingiusta detenzione: istanza ed elementi di valutazione

L'art. 315 c.p.p. nel disciplinare il procedimento per la riparazione dell'ingiusta detenzione, richiama le norme sulla riparazione dell'errore giudiziario e, pertanto, l'art. 645 c.p.p. che stabilisce che l'istanza deve essere presentata dalla parte interessata o dal suo procuratore speciale. La sua proposizione, in quanto espressione della volontà della parte di far valere il diritto alla riparazione in giudizio, può avvenire, oltre che personalmente dall'interessato, anche per mezzo di un procuratore speciale nominato nelle forme previste dall'art. 122 c.p.p., con esclusione del difensore con procura, avendo la legge voluto garantire sia l'autenticità dell'iniziativa, sia la sua diretta e inequivocabile derivazione dalla volontà dell'interessato. Infatti, dall'usuale contenuto del mandato ad litem, privo di ogni specifico riferimento all'azione da esercitare e contenente richiami a istituti del tutto estranei alla procedura in oggetto, si ricava la totale assenza di specificità del mandato medesimo e della esplicitazione della volontà della parte di trasferire al difensore il potere di esercitare l'azione riparatoria (Cass., sez IV pen, sent. 5 aprile 2017 n. 17199).
Il giudizio per la riparazione dell'ingiusta detenzione è del tutto autonomo rispetto al giudizio penale di cognizione, impegnando piani di indagine diversi. Il giudice della riparazione per decidere se l'imputato vi abbia dato causa per dolo o colpa grave, deve valutare il comportamento dell'interessato alla luce del quadro indiziario su cui si è fondato il titolo cautelare, e sempre che gli elementi indiziari non siano stati dichiarati assolutamente inutilizzabili ovvero siano stati esclusi o neutralizzati nella loro valenza nel giudizio di assoluzione.
La colpa grave ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione può essere integrata anche da comportamenti deontologicamente scorretti, quando questi, uniti ad altri elementi, configurino una situazione obiettiva idonea ad evocare, secondo un canone di normalità, una fattispecie di reato. (Fattispecie nella quale la Corte ha ritenuto integrativa della colpa grave la condotta dell'imputato, Ispettore della Polizia di Stato, in servizio presso un Centro di Identificazione ed Espulsione, il quale - violando le le disposizioni regolatrici dell'attività della Polizia di Stato - aveva intrattenuto rapporti sessuali con persone che, essendo trattenute nella predetta struttura, si trovavano in una posizione di soggezione nei suoi confronti. - Cass. Sez. IV pen. sent. 14 dicembre 2016 n. 52871)

lunedì 21 agosto 2017

Città che vai imposta di soggiorno che paghi

L’imposta di soggiorno, ovvero un preciso esempio della burocrazia italiana e della sua complessità. Regole che cambiano da regione a regione, importi ed esenzioni che variano a seconda del territorio, differenti modalità di applicazione, province che la prevedono e altre che non lo fanno. Per avere una visione di insieme del contributo di soggiorno in Italia è necessario studiare diverse normative comunali e regionali, in quanto le disposizioni di base sono uguali per tutto il territorio italiano, ma le modalità di applicazione no.

L’imposta di soggiorno è un’imposta che grava sulle spalle di coloro che alloggiano nelle strutture ricettive, ovvero non viene pagata dal proprietario dell’albergo o dell’appartamento ma direttamente da chi soggiorna nello stesso. Il contributo, secondo la legge, può essere applicato fino a un massimo di cinque euro a notte (tranne che a Roma, dove può arrivare ai dieci euro a notte). Il gettito ricavato è destinato a finanziare interventi in materia di turismo, tra cui il recupero dei beni culturali e ambientali locali. Fin qui le regole sono uguali in tutta Italia. Ma, come detto, sono diverse le sfaccettature che contraddistinguono il contributo da regione a regione, tra cui prezzi, esenzioni, termini temporali. Inoltre, esistono città dove l’imposta non è prevista, come Bari o Cagliari

fonte:www.italiaoggi.it/Città che vai imposta di soggiorno che paghi - News - Italiaoggi

domenica 20 agosto 2017

Assenza di pochi minuti: licenziato

Licenziamento disciplinare anche solo per assenze di pochi minuti. Il giudice del lavoro di Imperia, nel confermare con ordinanza 10 agosto 2017 uno dei 32 licenziamenti disposti dal comune di San Remo nei confronti dei dipendenti che avevano imbrogliato sulle presenze in servizio, conferma l’estensione molto ampia della fattispecie della falsa attestazione della presenza. Ed evidenzia La responsabilità disciplinare prevista dalla legge solo erroneamente può essere intesa come connessa esclusivamente alla timbratura nell’orario di ingresso, ma riguarda qualsiasi allontanamento dal posto di lavoro non adeguatamente timbrato o comunque segnalato.

Fonte:www.italiaoggi.it/Assenza di pochi minuti: licenziato - News - Italiaoggi

venerdì 18 agosto 2017

Vaccini, bimbi esonerati solo con il certificato

È stato pubblicato il vademecum per le famiglie, le Asl e le scuole della nuova legge sui vaccini obbligatori. Le regole sono quelle del decreto legge approvato a fine luglio ma con alcune precisazioni necessarie per chiarire i dubbi sorti in queste settimane. Il decreto introduce come obbligatorie l’anti poliomielite, anti difterite, anti tetanica, anti epatite B, anti pertosse, e anti emofilo B (esavalente) che si fanno al terzo mese di vita. Seguono anti morbillo, parotite, rosolia e varicella.
Non tutti i bambini nati dal 2001 al 2017 dovranno farle tutte: per ogni classe di età verranno considerate solo le vaccinazioni previste a suo tempo dal piano vaccinale. L’obbligo vale anche per i richiami.
Chi ha preso una malattia è immunizzato in modo naturale e adempie all’obbligo vaccinale di solito attraverso la somministrazione di vaccini in formulazione monocomponente. Se però questo tipo di prodotti non sono disponibili in commercio, la profilassi sarà completata con vaccini combinati, «che non sono controindicati nei soggetti che hanno già contratto la malattia».
I vaccini possono essere omessi o differiti se c’è un pericolo per la salute dell’individuo, colpito da una malattia cronica o momentanea che rende pericoloso l’utilizzo di quei farmaci. Il pericolo va certificato.
È la Asl ad accertare chi non rispetta l’obbligo di fare la vaccinazione, controllando l’anagrafe sanitaria dove devono confluire anche i dati delle iniezioni fatte da pediatri e medici di famiglia. A quel punto avvia la procedura per fare il recupero della vaccinazione. Il Ministero invita le Regioni a predisporre prima possibile quella procedura dai medici e dai pediatri convenzionati.
Se una Asl accerta che un bambino non è in regola, convoca la famiglia e li invita a vaccinare, consegnando anche materiale informativo. Se i genitori non rispondono, vengono riconvocati con una raccomandata in cui li si invita a un colloquio. Se i genitori non si presentano o comunque dopo aver fatto il colloquio non vaccinano, viene contestato l’inadempimento dell’obbligo vaccinale. A quel punto sarà comminata la sanzione da 100 a 500 euro. La sanzione riguarda tutti gli eventuali vaccini mancanti e non sarà comminata ogni volta all’inizio di ciascun anno scolastico se la violazione resta la stessa. Il Ministero della Salute precisa che se l’inadempienza riguarda un bambino che va al nido o alla materna, scatta il divieto di frequentare.
I genitori che invece hanno già vaccinato i propri figli almeno per quest’anno dovranno portare il certificato di vaccinazione a scuola. Quando la riforma sarà a regime dovrebbe essere compito di Asl e istituzioni inviarsi i dati evitando ai genitori di dover fornire informazioni che le istituzioni dovrebbero già avere in modo autonomo.
Entro il 10 settembre di quest’anno la documentazione va portata a nidi e materne, mentre il 31 ottobre è il termine per le altre scuole. Per chi opterà per l’autocertificazione c’è tempo poi fino al 10 marzo per portare i documenti ufficiali. Chi invece deve recuperare delle immunizzazioni dovrà portare almeno la prenotazione alla Asl.
Va presentata la copia del libretto vaccinale vidimato dalla Asl o il certificato vaccinale oppure l’attestazione della Asl che dice che il bambino è in regola o comunica l’esonero, l’omissione o il differimento delle vaccinazioni obbligatorie per motivi di salute. È anche possibile presentare la prenotazione delle dimostrazioni mancanti presso i servizi dell’azienda sanitaria.

Fonte:www.lastampa.it/Vaccini, bimbi esonerati solo con il certificato - La Stampa

Postare video può essere reato

Attenzione a postare sui social audio e video all’insaputa dell’interessato: da novembre prossimo potrà scattare un apposito reato, punito fino a 4 anni. La legge 103/2017 ha delegato il governo a introdurre, entro tre mesi, il resto di fraudolenta diffusione di riprese audio o video di una persona inconsapevole. Certo dovranno ricorrere determinate condizioni, ma non si potrà agire a cuor leggero. Stiamo parlando della legge delega per la riforma delle intercettazioni.

Fonte:www.italiaoggi.it/Postare video può essere reato - News - Italiaoggi

giovedì 17 agosto 2017

Stalking: punibile chi entra costantemente nel profilo Facebook della ex

E’ perseguibile per stalking colui che si intromette nella vita privata di una persona, allo scopo di destabilizzarla con condotte ossessive e assillanti costanti, attraverso accessi indebiti e costanti nell’account email o nel profilo Facebook della stessa.
Lo ha stabilito la V Sezione Penale di Piazza Cavour con la sentenza n. 25940/2017 che ha confermato la sentenza della Corte di Appello con cui si era ribaltata quella di assoluzione di primo grado nei confronti di un uomo accusato di stalking.
Dal processo di primo grado era emerso che l’imputato aveva reso impossibile la vita della ex compagna con atti ripetuti nel tempo consistiti in minacce, ingiurie e offese pesanti sul profilo Facebook, via email e per telefono tanto da costringerla a cambiare completamente stile di vita, addirittura trasferendosi a casa della madre.
Il Tribunale, nonostante tali risultanze probatorie, con una sentenza alquanto lacunosa, illogica e contradittoria scagionava l’uomo poiché, a suo dire, dal dibattimento non era emerso il nesso causale tra le condotte persecutorie e lo stato di ansie e paure generato nella donna.
Nella fattispecie di reato ex art. 612 bis cp, delitto abituale di atti persecutori, l’evento è l’epilogo ottenuto da condotte consistenti in molestie e minacce reiterate nel tempo tali da procurare un’autonoma e unitaria offensività.
La reiterazione, elemento costitutivo, consiste nella ripetizione insistente, per più di una volta da parte dell’autore, con lo scopo di cagionare nella vittima un progressivo accumulo di ansie e frustrazioni tali da alterare lo stato psichico della stessa in forti ansie e paure.
La prova dell’evento, inteso come turbamento e mutamento piscologico, può ricavarsi dalle dichiarazioni della persona offesa, dai comportamenti della stessa generati dalle condotte dell’agente e dalle azioni di quest’ultimo il tutto in un quadro complessivo che tenga altresì conto delle condizioni di luogo e di tempo in cui si consumano le azioni dei protagonisti.
Nel caso in esame la vittima era stata costretta, al susseguirsi degli accessi abusivi, a cambiare profilo Facebook, indirizzo email, utenze telefoniche e addirittura la propria abitazione, simili azioni erano chiaramente il frutto di pressioni psicologiche subite dalle condotte dell’ex compagno che avevano inciso in modo significativo sulle abitudini di vita e naturalmente sulla sua libertà di autodeterminarsi della donna.
La Suprema Corte non sottovalutando gli elementi probatori emersi ha sostenuto, così come la Corte di Appello, l’esistenza del nesso causale, emerso dalla disamina del caso, secondo cui l’origine dei disturbi psichici e del peggioramento delle condizioni di salute della vittima era il frutto esclusivo delle rilevanti molestie assillanti dell’uomo.

Cassette di sicurezza violate, la banca deve risarcire quanto denunciato dal cliente

Nel contenzioso per il risarcimento da furto nella cassetta di sicurezza il giudice può basarsi anche solo sul giuramento estimatorio del cliente danneggiato. La banca, dal canto suo, non può opporre clausole di limitazione del valore e neppure contestare al cliente di non aver dichiarato – prima del furto ovviamente – oggetti e valori depositati nella cassetta.
La Cassazione – Prima civile, sentenza 18637 depositata il 27 luglio scorso – torna ancora una volta su un tema comprensibilmente molto sentito da chi si affida alla custodia bancaria. Il caso, riattualizzato dal ricorso di legittimità, risale a un episodio avvenuto ben 23 anni fa in un istituto di Torre Annunziata. Ignoti, approfittando di una serie di “sviste” da manuale (dalla abituale disattivazione del sistema di allarme alla porta del caveau “sistematicamente lasciata aperta”) avevano trafugato oro, gioielli e valuta dalla cassetta – tra le altre – di una signora. La quale, vistasi negare il risarcimento dal tribunale locale, che aveva generosamente riconosciuto l'esistenza del “caso fortuito”, aveva ottenuto soddisfazione dalla Corte d'appello che aveva ingiunto alla banca di pagare l'intero importo richiesto – l'equivalente di 1 miliardo di lire. L'istituto nel lungo ricorso in ultimo grado contestava invece, tra l'altro, la mancata considerazione del patto limitativo della responsabilità (più correttamente, l'aver ignorato la soglia pattizia di valore del risarcimento), la mancata “informativa” circa le sostanze affidate in custodia e, soprattutto, la qualificazione del giuramento (estimatorio) della parte lesa sul punto delle cose “volatilizzatesi” per mano ignota.
Secondo la banca si trattava di un giuramento suppletorio, anche perché la cliente non aveva mai informato circa l'elevato valore dei beni lasciati in custodia. La Prima civile però, nel solco di precedenti ormai consolidati, ha ribadito che la prova, in questi casi, non può che essere indiziaria: il contratto di custodia infatti si limita a individuare il comportamento – che deve essere molto diligente – del custode, ma nulla prevede sulla segretezza di cui il cliente beneficia, che è notoriamente intangibile e che resta fuori dalle obbligazioni contrattuali. E pertanto l'elencazione dettagliata e tempestiva dei beni presentata dalla cliente – e del loro valore –può essere liberamente apprezzata dal giudice anche come unico elemento “decisivo” nella questione del risarcimento. Ogni patto limitativo della responsabilità, aggiunge la Corte, vìola la regola generale del codice civile (articolo 1229, “È nullo qualsiasi patto che esclude o limita preventivamente la responsabilità del debitore per dolo o per colpa grave”).
Ulteriore ma non ultima postilla: per la Cassazione l'adeguatezza delle misure “anti-intrusione” adottate dalla banca non si valuta in astratto (ex ante) ma…a frittata fatta, prendendo in considerazione tutto quello che era solito avvenire nelle “segrete” stanze.

Fonte:Cassa Forense - Dat Avvocato

Vaccini, il Miur invia la circolare alle scuole: ecco le procedure da seguire e le scadenze

Il ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ha inviato oggi alle scuole la circolare che contiene le prime indicazioni operative per l’attuazione del decreto-legge n.73 del 7 giugno 2017, convertito con modificazioni dalla legge n. 119 del 31 luglio 2017, in materia di prevenzione vaccinale. La circolare si apre con una premessa sulla legge e sulle sue finalità e prosegue con le indicazioni per le istituzioni scolastiche, a partire da quelle per la gestione della fase transitoria prevista per gli anni scolastici 2017/2018 e 2018/2019.
La legge - ricorda la circolare - intervenendo sull’obbligatorietà delle vaccinazioni, assicura a tutta la popolazione, in maniera omogenea sul territorio nazionale, le azioni dirette alla prevenzione, al contenimento e alla riduzione dei rischi per la salute pubblica. L’estensione della vaccinazione rappresenta, pertanto, un progresso nella tutela della salute della collettività e di ciascuna persona. Il Parlamento e il Governo hanno lavorato insieme, in sede di conversione del decreto-legge, per far sì che le scuole possano collaborare alla tutela della salute collettiva, nell’ambito delle proprie competenze e nel pieno rispetto del diritto all’istruzione.
L’articolo 3-bis del decreto-legge, aggiunto in sede di conversione, stabilisce che, a decorrere dall’anno scolastico 2019/2020, dopo una prima fase transitoria, siano le Aziende Sanitarie Locali (ASL), una volta ricevuto dalle scuole l’elenco delle iscritte e degli iscritti sino ai 16 anni di età, a restituirlo con l’indicazione di coloro che eventualmente non risultino in regola con gli adempimenti vaccinali. Per la scuola dell’infanzia la mancata presentazione della documentazione attestante l’adempimento degli obblighi vaccinali comporterà la decadenza dell’iscrizione. Per i gradi di istruzione successivi non sono previste invece ricadute sull’accesso al servizio scolastico.
Il decreto-legge, come convertito, non cambia la normativa vigente dal punto di vista dell’accesso a scuola: l’articolo 100 del Testo Unico in materia di Istruzione del 1994 già subordinava l’ammissione alla scuola dell’infanzia alla presentazione della certificazione di talune vaccinazioni. Con la legge, anzi, gli adempimenti previsti per le istituzioni scolastiche saranno semplificati: le scuole non dovranno più acquisire per tutte le iscritte e tutti gli iscritti dei vari gradi di istruzione le certificazioni delle vaccinazioni effettuate, ma semplicemente trasmettere l’elenco delle alunne e degli alunni alle ASL, tramite il sistema informativo del Ministero.
Per l’anno scolastico 2017/2018 e per il 2018/2019 valgono invece le modalità transitorie stabilite dalla legge e illustrate nella circolare, che potranno essere eventualmente semplificate in base ad accordi tra gli Uffici Scolastici Regionali e le Regioni, tramite le ASL, ciò al fine di agevolare le famiglie e le scuole. Alcune Regioni stanno infatti predisponendo azioni specifiche per semplificare la documentazione che le famiglie dovranno consegnare alle scuole sino all’anno 2018/2019 (dal 2019/2020 si passa alla semplificazione definita dalla legge).
La legge, come è noto, estende a 10 le vaccinazioni obbligatorie e gratuite per tutte le alunne e gli alunni di età compresa tra zero e 16 anni. E dispone l’obbligo per le Regioni di assicurare l’offerta attiva e gratuita, per i minori di età compresa tra zero e 16 anni, anche di altre 4 vaccinazioni non obbligatorie. All’obbligo si adempie secondo le indicazioni contenute nel calendario vaccinale nazionale relativo a ciascuna coorte di nascita. Il calendario vaccinale è reperibile al link fornito dal Ministero della Salute: www.salute.gov.it/vaccini.
Le scuole hanno il compito di acquisire la documentazione relativa all’obbligo vaccinale e devono segnalare alla ASL territoriale di competenza l’eventuale mancata presentazione di questa documentazione. Per comprovare l’effettuazione delle vaccinazioni potrà essere presentata una dichiarazione sostituiva. In caso di esonero, omissione o differimento delle vaccinazioni, potranno essere presentati uno o più documenti, rilasciati dalle autorità sanitarie competenti.
Per l’anno scolastico 2017/2018, la documentazione dovrà essere presentata alle scuole entro il 10 settembre 2017 per le bambine e i bambini della scuola dell’infanzia e delle sezioni primavera (comprese le scuole private non paritarie), ed entro il 31 ottobre 2017 per tutti gli altri gradi di istruzione.
Entro 10 giorni da queste scadenze il dirigente scolastico sarà tenuto a segnalare alla ASL territorialmente competente l’eventuale mancata consegna della documentazione da parte dei genitori. La documentazione dovrà essere acquisita anche per le alunne e gli alunni che già sono iscritte e iscritti e frequentano l’istituzione scolastica.
Chi ha presentato una dichiarazione sostitutiva, entro il 10 marzo 2018 dovrà presentare la documentazione comprovante l’avvenuta vaccinazione. Per le scuole dell’infanzia e le sezioni primavera la consegna della documentazione vaccinale entro il 10 settembre 2017 è requisito di accesso.
Vista l’imminenza dell’avvio del nuovo anno scolastico, la circolare del Miur invita i dirigenti scolastici ad informare da subito i genitori sui nuovi obblighi vaccinali e sulle disposizioni applicative per il 2017/2018.
Il Ministero della Salute e il Miur daranno poi avvio, per l’anno scolastico 2017/2018, a iniziative di formazione del personale docente ed educativo, nonché di educazione delle alunne e degli alunni, delle studentesse e degli studenti, sui temi della prevenzione sanitaria e in particolare delle vaccinazioni. Anche con il coinvolgimento delle associazioni dei genitori e delle associazioni di categoria delle professioni sanitarie.

Fonte:www.lastampa.it/Vaccini, il Miur invia la circolare alle scuole: ecco le procedure da seguire e le scadenze - La Stampa

mercoledì 16 agosto 2017

La sanzione accessoria della revoca della patente di guida non ha natura penale

La sanzione inflitta in via accessoria della revoca della patente di guida non ha natura penale. Lo ribadisce con fermezza la Corte di cassazione dichiarando inammissibile il ricorso presentato dalla difesa di un automobilista che, dopo il patteggiamento per guida in stato di ebbrezza, si era visto revocare la patente. Per la difesa, la revoca della patente sarebbe una misura sostanzialmente penale la cui applicazione automatica sarebbe in contrasto con i principi di colpevolezza, ragionevolezza e proporzionalità della pena e perciò contraria all’elaborazione della nozione di penale elaborata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo. Per i giudici di legittimità, tuttavia, dalla nota sentenza Grande Stevens non si può dedurre una tendenziale equiparazione della sanzione amministrativa a quella penale, ma bisogna procedere a un’analisi del caso concreto. E, nella specie, afferma la Corte, «la previsione di una sanzione amministrativa irrogata all’esito di un giudizio penale, ancorché definito ai sensi dell’articolo 444 del Codice di procedura penale, con riguardo alla pena principale, vanifica la stessa preoccupazione, rinvenibile in alcune enunciazioni teoriche della giurisprudenza Cedu, di una configurazione amministrativa dell’illecito al fine precipuo, se non esclusivo, di eludere le garanzie proprie del processo penale».

Fonte:Cassa Forense - Dat Avvocato

Versamenti, slittamento al 21 agosto

Lo slittamento dei versamenti al 21 agosto è certo. E la sua ufficializzazione, superati i necessari passaggi burocratici, avverrà a breve. Con una nota diffusa ieri, il ministero dell’economia ha rassicurato i contribuenti e i professionisti: il  presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro dell’economia, ha disposto il differimento dei termini per il versamento delle imposte dichiarate nell’anno 2017 da imprese e lavoratori autonomi.

Fonte:www.italiaoggi.it/Versamenti, slittamento al 21 agosto - News - Italiaoggi

martedì 15 agosto 2017

Picchiava i figli perché studiassero il Corano: due bambini tolti alla madre

Picchiavano e obbligavano i figli a studiare il Corano di notte, costringendoli con la violenza a studiare a memoria i precetti islamici. Così una coppia musulmana di Missaglia, comune di 8 mila anime nel Lecchese, è stata denunciata per maltrattamenti in famiglia. I bambini, una femmina di 9 anni e un maschio di 13, si trovano da alcuni giorni in una comunità protetta fuori dalla provincia. Entrambi sono stati tolti alla madre.
Sul caso sono intervenuti la settimana scorsa gli agenti della Mobile di Lecco che hanno messo la parola fine ai soprusi commessi dai genitori, un’italiana convertitasi di recente all’Islam e il compagno, un operaio tunisino. Ad accorgersi che c’era qualcosa che non andava erano stati dapprima i nonni materni, preoccupati per lo strano comportamento della figlia nei confronti dei nipoti. In realtà, sebbene l’intera famiglia vivesse in una condizione di disagio e isolamento rispetto al resto della comunità, quel che accadeva nel segreto delle mura domestiche non era passato inosservato in paese. La donna, che aveva avuto entrambi i bambini da una precedente relazione con un italiano, soltanto di recente aveva conosciuto il tunisino con il quale era poi andata a convivere dopo la separazione dal marito.
I figli vivevano in una sorta di regime dittatoriale, dovuto all’integralismo della coppia. Non potevano guardare la televisione né usare il cellulare poiché, secondo il compagno della madre, si tratterebbe di un peccato molto grave. Inoltre era stato loro severamente impedito anche di vedere amici e parenti e di conseguenza a partire dallo scorso giugno, quando sono terminate le scuole, i due fratellini conducevano una vita solitaria, da reclusi. Alla bambina, che frequenta le elementari in paese, era stato persino imposto di indossare lo hijab, il velo che copre capelli e collo, lasciando scoperto soltanto il viso. Nonostante la giovanissima età, la piccola è risultata addirittura la più indottrinata e radicalizzata dei due. «Porto il velo perché lo decido io, nessuno mi ha mai obbligata», avrebbe raccontato agli agenti quando sono intervenuti la settimana scorsa per liberarla.
Durante le audizioni protette, i due fratellini hanno rivelato agli psicologi e ai neuropsichiatri infantili le minacce e le vessazioni continue, anche nel cuore della notte. Se non si svegliavano in tempo per pregare venivano infatti castigati da entrambi i genitori con punizioni corporali oppure tenuti a lungo prigionieri in camera e infine picchiati. Stando al comandante della Mobile di Lecco, Marco Cadeddu, i maltrattamenti andavano avanti, per fortuna, da non troppo tempo. Le le indagini sono ancora in corso. Non è escluso, infatti, che presto venga chiesta la custodia cautelare per la madre e il patrigno tunisino, nell’attesa che i giudici del Tribunale dei minori di Milano decidano, insieme agli assistenti sociali, a chi affidare i due figli.

Fonte:www.lastampa.it/La Stampa

Circolano monete da 2 euro false: ecco come riconoscerle

L’estate è un periodo d’oro per i falsari e le monete in euro sono la nuova frontiera di questo tipo di truffe.
Lo segnala il Comando Antifalsificazione Monetaria dei Carabinieri, che nell’ambito dei servizi di controllo «Estate 2017» ha già effettuato diverse azioni di contrasto al falso nummario, che hanno portato al rinvenimento e sequestro di monete da 2 euro e banconote false da 10, 20 e 50 euro.
«D’estate l’attività si intensifica soprattutto per la presenza di numerosi turisti stranieri - spiega il colonnello Florimondo Forleo -. La nuova frontiera per i falsari sono proprio le monete, che sono facili da commerciare e suscitano meno l’attenzione. In questi giorni sequestrate ad esempio 900 monete destinate alla cassa di una gelateria di Napoli. Per distinguere le monete false basta vedere se sono attirate da una calamita, se si attaccano sono vere - spiega Forleo -. I falsari non riescono infatti a riprodurre il magnetismo, che la Zecca ottiene con un procedimento particolare e che serve a far riconoscere le monete dalle macchinette»’

Fonte:www.lastampa.it/Circolano monete da 2 euro false: ecco come riconoscerle - La Stampa

Accertamenti, gli atti richiamati devono essere allegati

In tema di rettifica dei valori immobiliari, pena la nullità, gli atti richiamati devono essere allegati all’accertamento ovvero riprodotti per contenuto essenziale; tale nullità non può essere sanata per il raggiungimento dello scopo in giudizio. Lo ha ribadito la sezione quinta della Corte di cassazione nella sentenza n. 17510/2017. La vertenza riguarda una decisione della Commissione tributaria regionale del Lazio che, accogliendo l’appello dei contribuenti, aveva annullato un avviso di liquidazione. Per il giudice regionale, la nullità dell’avviso per omessa allegazione della perizia Ute era stata sanata dalla successiva produzione in giudizio della stessa perizia, mentre, il giudice romano dichiarava inefficace la rettifica perché effettuata tramite stima su immobili già censiti con rendita.
L’Agenzia erariale ricorreva con tre motivi, mentre i contribuenti resistono proponendo ricorso incidentale denunciando l’omessa allegazione della stima Ute; vizio che secondo la Commissione regionale era stato sanato dal successivo deposito in giudizio. Il ricorso incidentale, per il suo carattere preliminare, è stato anteposto nell’esame ed è stato ritenuto fondato. I giudici di Piazza Cavour hanno rilevato che l’avviso di liquidazione, pur indicando quale unica fonte della rettifica la stima tecnica dell’Agenzia del territorio, non reca in allegato, né riproduce quantomeno nelle parti essenziali la stima Ute, limitandosi a informare che di essa «è possibile prendere visione presso questo ufficio».
In tema di rettifica dei valori immobiliari, l’art. 52, comma 2-bis, del dpr n. 131/1986, aggiunto dall’art. 4 dlgs 32/2001, commina la nullità dell’accertamento motivato per relationem quando l’atto richiamato dall’avviso non sia a esso allegato, né in esso riprodotto per contenuto essenziale; ancor prima, l’art. 7, legge 212/2000 ha prescritto che gli atti tributari motivati per relationem devono recare in allegato gli atti richiamati. La Cassazione aggiunge che tale nullità non può essere sanata per raggiungimento dello scopo in giudizio, poiché la motivazione dell’atto impositivo ha la funzione di garantire una difesa certa anche riguardo alla delimitazione del thema decidendum. Il ricorso incidentale è stato accolto e, decidendo nel merito, la Corte di cassazione ha dichiarato nullo l’avviso di rettifica condannando l’Agenzia erariale a rifondere le spese del giudizio di legittimità liquidate in euro 2.200,00, oltre le spese generali al 15% e accessori di legge.

Fonte:www.italiaoggi.it/Accertamenti, gli atti richiamati devono essere allegati - News - Italiaoggi

lunedì 14 agosto 2017

Cassazione: chi evade deve pagare i danni morali allo Stato

Tempi durissimi per gli evasori fiscali condannati penalmente per aver cercato con particolare ingegno di farla franca, ad esempio per aver evaso l’Iva e per aver cercato di mettere al sicuro i beni in un fondo patrimoniale costituito solo per proteggere le proprietà immobiliari dalle ganasce dell’Agenzia delle Entrate. Rischiano, tra sequestro e condanna al risarcimento - oltre al carcere - di pagare il doppio di quello che hanno evaso, e nel verdetto può essere messo in conto anche il risarcimento dei danni morali patiti dallo Stato che ha subito il `raggiro´. Lo sottolinea la Cassazione replicando a un evasore trentino, M.Z. imprenditore immobiliare, che contestava anche la condanna al risarcimento dei danni morali per 167mila euro sostenendo che un ente pubblico come l’Amministrazione finanziaria non ne ha diritto. Invece - ecco il principio fissato dagli `ermellini´ - «è legittima la condanna in sede penale al risarcimento del danno morale patito dall’ Amministrazione finanziaria in conseguenza di un reato tributario, danno consistente nella lesione di interessi non economici aventi comunque rilevanza sociale, ai quali è finalizzata l’azione dell’Agenzia delle Entrate preposta all’accertamento e alla riscossione delle entrate tributarie della Nazione».
M.Z. aveva evaso l’Iva per 757mila euro per l’anno di imposta 2009 e poi nel 2010 aveva costituito un fondo patrimoniale sulla sua casa intestandola alla moglie. Ma è stato scoperto e per lui le cose non si sono concluse bene, tutt’altro, pagherà più del doppio di quanto evaso per aver «lucidamente perseguito di sottrarre il bene alle legittime ragioni dell’erario», come osservato dai giudici di merito.
La Suprema Corte - sentenza 38932 - ha infatti confermato la decisione con la quale la Corte di Appello di Trento, nel 2016, aveva convalidato il sequestro finalizzato alla confisca della casa con due garage del valore di circa 750 mila euro, oltre alla condanna a risarcire il fisco con oltre 810mila euro, e a un anno di carcere, pena sospesa. Per quanto riguarda l’ulteriore condanna a pagare 167mila euro di soli danni morali, la Cassazione ha stabilito che questo tipo di condanna è assolutamente lecito ma che, tuttavia, sull’entità della cifra il giudice deve fornire spiegazioni che non possono essere un semplice riferimento all’ammontare dell’evasione. Solo su questo punto il ricorso di M.Z. è stato accolto e adesso il tribunale civile di Trento dovrà provvedere a fornire adeguate motivazioni sull’indicazione dei 167mila euro di danni morali o sulla cifra che comunque vorrà liquidare all’Agenzia delle Entrate.

Fonte:www.lastampa.it/Cassazione: chi evade deve pagare i danni morali allo Stato - La Stampa

Versamenti sul conto corrente da giustificare

Le somme versate sul conto corrente del professionista o del privato possono essere accertate dall’Agenzia delle entrate come redditi in «nero», salvo che non si riesca a provare la provenienza dei fondi. Al contrario, i prelievi fatti dal proprio conto bancario non possono mai fornire una presunzione di evasione sufficiente a giustificare un accertamento. È questo al momento lo stato dell’arte nell’intricata vicenda relativa all’applicazione dell’articolo 32, primo comma, n. 2 del dpr 600.
Con una sentenza depositata a gennaio 2017 la Cassazione ha stabilito che i versamenti in conto corrente hanno efficacia presuntiva di maggiore disponibilità reddituale anche nei confronti dei privati. In pratica le indagini finanziarie possono essere eseguite nei confronti di tutte le persone fisiche, comprese quelle non titolari di reddito d’impresa o di lavoro autonomo, limitatamente ai soli versamenti. Infatti, il riferimento della norma ai «ricavi» e alle «scritture contabili», secondo la Suprema corte, non può impedire all’Agenzia delle entrate di presumere che i versamenti bancari costituiscano maggior reddito, in base a un semplice principio di ragionevolezza.
Con la sentenza depositata l’8 agosto 2017, invece, la Cassazione smentisce i propri orientamenti precedenti dettando una nuova linea interpretativa in materia di accertamento presuntivo nei confronti dei lavoratori autonomi. Il problema nasce a causa della legge finanziaria del 2005 che aveva modificato la norma sull’accertamento rendendola applicabile anche ai redditi di lavoro autonomo. La Corte costituzionale, con una sentenza del 2014 ha dichiarato però l’illegittimità di questa estensione, cancellando quindi l’equiparazione tra i movimenti bancari delle imprese e quelli dei professionisti. Quindi mentre i primi possono costituire una presunzione di evasione (sia i prelievi, sia i versamenti), i secondi non più. Da notare che, dopo questa sentenza della Consulta, l’Agenzia delle entrate non ha smesso di imputare a reddito i prelievi e i versamenti dei professionisti, ma le cause arrivate in Cassazione hanno quasi sempre visto annullate le pretese del fisco. Di fatto si è imposta l’interpretazione che né i prelievi né i versamenti dei professionisti possano costituire una presunzione di maggior reddito accertabile. Fino a pochi giorni fa.
Con la sentenza depositata l’8 agosto, invece, i giudici del Palazzaccio compiono un’analisi più severa della pronuncia della Corte costituzionale del 2014 per arrivare alla conclusione che, se è vero che una semplice lettura del dispositivo della sentenza di illegittimità della norma del 2005 sembra eliminare del tutto la presunzione di evasione relativa ai versamenti e ai prelievi non giustificati dei professionisti, tuttavia una lettura attenta delle motivazioni della stessa sentenza va in direzione contraria. Scrivono infatti i giudici della Consulta che è «arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati a investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di reddito». Nelle motivazioni non si accenna mai ai versamenti.
I giudici della Suprema corte, con una bella acrobazia interpretativa hanno perciò interpretato la sentenza della Consulta nel senso che, pur avendo dichiarato illegittima l’estensione ai compensi dei professionisti delle presunzioni di evasione, tuttavia tale presunzione continua a sussistere per i versamenti in conto corrente. Una conclusione che potrebbe anche avere una sua logica fattuale, ma che fa dire alla Corte costituzionale quello che questa non ha detto. Anche perché, non solo la Consulta aveva eliminato la norma che estendeva questo tipo di presunzioni ai compensi dei professionisti, ma la stessa operazione era poi stata fatta dal legislatore con l’articolo 7 quater del decreto legge fiscale di fine 2016 (n.193). Ora questa equiparazione viene reintrodotta, anche se solo per i versamenti, per via giurisprudenziale, a testimonianza che le vie del diritto, come quelle del Signore, sono infinite.

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