venerdì 6 dicembre 2019

Ospedale, legittimo divieto di ingresso con il burqa

È legittima l'adozione, ad opera delle strutture sanitarie, di cartelli che, per motivi di sicurezza, impongono il divieto di ingresso con il volto coperto da casco, passamontagna o burqa.
Lo ha stabilito la Corte d’Appello di Milano con la sentenza 28 ottobre 2019 

La vicenda in primo grado
Alcune Associazioni proponevano azione contro la discriminazione nei confronti della Regione Lombardia. Nel 2015 la Giunta Regionale aveva infatti approvato una deliberazione avente ad oggetto il “rafforzamento delle misure di accesso e permanenza nelle sedi della giunta regionale e degli enti società facenti parte del sistema regionale” vietando “l’uso di caschi protettivi o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona” presso gli enti individuati dall’art. 1 della l.r. 30/2006, tra i quali anche le strutture sanitarie. Conseguiva che, all’ingresso di numerosi uffici pubblici ed ospedali della regione Lombardia erano stati affissi dei cartelli riportanti la scritta “per ragioni di sicurezza è vietato l’ingresso con volto coperto”, accompagnati da tre immagini con persone con casco, passamontagna e burqa, ognuno all’interno di un cerchio rosso sbarrato, messaggio tradotto anche in inglese, francese e arabo. Il Tribunale di Milano rigettava il ricorso e condannava le Associazioni al pagamento delle spese di lite in favore della Regione Lombardia.
Le ragioni dell’appello
Le soccombenti hanno proposto appello chiedendo di accertare e dichiarare il carattere discriminatorio del comportamento tenuto dalla Regione Lombardia consistente nell’aver adottato la deliberazione di Giunta del 10.12.2015:
a) nella parte ove esclude che i costumi religiosi possano rappresentare giustificato motivo di eccezione ai sensi dell’art. 5 L. 152/75 rispetto alle esigenze di sicurezza all’interno delle strutture regionali;
b) nella parte ove impone alle competenti strutture regionali o autorizza le stesse a disporre un divieto generalizzato di ingresso negli edifici del Servizio Sanitario Regionale alle persone con velo integrale (burqa o niqab) indipendentemente dalla disponibilità di dette persone a consentire la propria identificazione mediante rimozione temporanea della velazione.
Per l’effetto, chiedevano di ordinare alla Regione Lombardia, oltre a modificare la deliberazione impugnata, anche di impartire disposizioni agli enti che hanno affisso i cartelli in questione, affinché ne disponessero la rimozione, nonché di adottare un piano di rimozione della discriminazione ex art. 28 D.Lgs. 150/2011, comma V, che comprendesse ogni provvedimento ritenuto utile a evitare il reiterarsi della discriminazione.
Il rigetto dell’appello
La Corte d’appello ha confermato l’ordinanza impugnata, condividendo l’impostazione del Tribunale che ha valutato come proporzionato e ragionevole lo “svantaggio” imposto dal cartello alle donne che indossano il velo integrale per motivi religiosi, poiché limitato nel tempo e circoscritto nel luogo (strutture sanitarie regionali) e giustificato da ragioni di pubblica sicurezza.
La carenza del carattere discriminatorio
Per il giudice territoriale non può essere attribuito alla delibera impugnata un carattere discriminatorio, sia per la sua genericità che per avere correttamente messo in relazione la impossibilità di identificare una persona, in quanto con volto coperto, in determinati luoghi pubblici con problemi di ordine pubblico e sicurezza, senza che vi sia stata alcuna violazione di riserva di legge, avendo la delibera richiamato espressamente la Legge 152/75 (c.d. legge Reale).
L’esigenza di ordine pubblico
I giudici hanno osservato che, ai fini della identificazione di chi entra nelle strutture sanitarie, nei grandi ospedali vi sono postazioni delle Forze dell’Ordine, ma non in tutte le strutture sanitarie. Altresì il direttore sanitario è sì responsabile anche della organizzazione della struttura, tuttavia non anche dell’ordine pubblico nella struttura. La Corte ha rilevato inoltre che, anche con riferimento ai cartelli, può valere quanto evidenziato nell’allegato A al decreto n. 11921 del 29.12.2015, relativo ai criteri di accesso a Palazzo Lombardia, ove nella premessa si afferma che “un buon livello di sicurezza non può tuttavia prescindere dal “fattore umano” garantita dalla partecipazione attiva di tutti, chiamati a mettere in atto comportamenti efficaci per la tutela personale e collettiva”. Anche il Tribunale aveva evidenziato l’impossibilità di identificare le persone che fanno ingresso nei luoghi pubblici individuati e la difficoltà di procedure di identificazione che richiedono la collaborazione anche delle persone che entrano a volto scoperto.
La difficoltà di prevedere forme di identificazioni
Le associazioni appellanti si sono dolute della circostanza che il Tribunale abbia “erroneamente considerato in modo congiunto e sovrapposto l’esigenza di identificazione e l’esigenza di mantenere il volto scoperto, come pure l’ammissibilità di un divieto “istantaneo” finalizzato alla identificazione e la ammissibilità di un divieto permanente (se pure circoscritto a un luogo)…”. In altre parole, secondo le associazioni appellanti, i cartelli contestati pongono proprio un divieto di ingresso assoluto e non un obbligo regolamentato di identificazione, con la conseguenza che l’onere posto al portatore della “identità religiosa” non è circoscritto all’obbligo di identificazione (come invece accade nel decreto 11921) ma si estende al divieto assoluto di fruire di un servizio fondamentale conservando il segno distintivo di detta identità. I giudici territoriali osservano che per le caratteristiche dei luoghi e la grande frequentazione di utenti risulta difficile prevedere forme di identificazione quali quelle negli aeroporti e negli uffici pubblici e, in ogni caso, non vi sono atti amministrativi che li prevedano. Inoltre, la domanda avanzata dalle parti appellanti relativa all’immediata rimozione dei cartelli non appare, secondo i giudici, una soluzione proporzionata, poiché lascia irrisolto il problema della sicurezza pubblica che ha ispirato la delibera impugnata.

fonte: www.altalex.com

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