lunedì 23 dicembre 2019

Niente diffamazione quando il destinatario non è identificabile

Con la sentenza n. 49435 del 5 dicembre 2019, la Corte di Cassazione ha precisato che relativamente al reato di diffamazione, a norma dell’art. 595 c.p., e, nel caso di specie, trattandosi di aver offeso la reputazione di un vicino, attraverso l’affissione di scritti, posti di fronte alla finestra della persona offesa, contenenti espressioni offensive rivolte alla medesima, affinché la condotta divulgativa integri il reato di diffamazione è necessario che quanto divulgato abbia carattere diffamatorio e possa essere come tale percepito, e possa altresì essere attribuito a un soggetto determinato, da parte di chiunque entri in contatto con esso, e non solo dal destinatario. L’individuazione del soggetto passivo del reato di diffamazione, in mancanza di indicazione specifica e nominativa o di riferimenti inequivoci a fatti attribuibili ad un determinato soggetto, deve essere deducibile dalla stessa prospettazione oggettiva dell'offesa, quale si desume anche dal contesto in cui è inserita, con la conseguenza che ove non sia possibile tale deduzione il reato di diffamazione non può ritenersi integrato.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 16 luglio 2018 La Corte di Appello di Messina ha confermato la pronuncia emessa dal Tribunale della medesima città nei confronti di L. E. e C. S., assolti dal reato di cui all'art. 595 c.p. per la particolare tenuità del fatto (loro ascritto per avere offeso la reputazione di C. S. affiggendo diversi scritti, alla finestra della propria abitazione situata di fronte a quella della persona offesa, contenenti espressioni ingiuriose rivolte alla medesima).
2. Avverso l'anzidetta sentenza propongono ricorso per Cassazione, tramite il difensore di fiducia, entrambi gli imputati, articolandolo in cinque motivi.
2.1. Col primo e secondo motivo - trattati unitariamente in ricorso - deducono, rispettivamente la contraddittorietà ed illogicità della motivazione e l'inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in particolare degli artt. 110, 595 c.p. e 125 comma 3, 192, 546 lett. e) codice di rito e 11 Cost, 530 commi 1 e 2 c.p.p..
In buona sostanza lamentano che la Corte di Appello, al pari del primo giudice, ha reso una motivazione del tutto carente ed insufficiente a giustificare l'affermazione di responsabilità degli imputati in ordine al reato di diffamazione, non avendo essa nemmeno indicato le fonti di prova, limitandosi ad affermare apoditticamente che risultasse provato il fatto, ovvero che gli imputati avessero affisso degli scritti diffamatori in cui vi erano riferimenti espliciti alla persona offesa o al suo nucleo familiare, e, ciò, nonostante si fossero sollevate già in appello diverse questioni in ordine all'individuazione dell'effettivo destinatario delle offese - da individuarsi nel padre della attuale persona offesa, C. G., essendo stato egli a mandare la missiva con la quale tramite il legale si richiedeva a C. S. il rilascio dell'immobile - e alla risalenza dei fatti al 2008, come ammesso dallo stesso C. S. in dibattimento. In ogni caso non sono da ritenersi offensive le frasi presenti negli scritti tant'è che i testi escussi ricordavano solo una di quelle espressioni ovvero quella definita come la più pesante "chi nasce colono non muore padrone", con la precisazione che essa dovesse comunque intendersi rivolta non a C. S., ma a C. G. che era anche rimasto male a causa della stessa; di talchè la Corte avrebbe dovuto spiegare su quale presupposto C. S. era stato ritenuto legittimato a proporre la querela.
2.2. Col terzo motivo deducono violazione dell'art. 124 c.p., inosservanza dell'art. 129 c.p.p. nonché dell'art. 529 c.p.p. e degli artt. 157, 158 e 160 c.p..
Risultando diverso il destinatario della diffamazione, in mancanza di querela da parte di quest'ultimo, si sarebbe dovuto dichiarare l'improcedibilità dell'azione penale laddove la Corte ha del tutto omesso di valutare tale circostanza; in ogni caso la querela è tardiva risultando i fatti commessi nel 2008; i reati erano peraltro anche già prescritti al momento della pronuncia della sentenza di primo grado ( risalente al 26.10.2015 ), in ogni caso a quello della sentenza di appello - ove si tenga conto della diversa data delle querele.
2.3. Col quarto motivo deducono erronea applicazione dell'art. 594 c.p. lamentando che la Corte di Appello avrebbe dovuto dichiarare non doversi procedere per il reato di ingiuria di cui al capo a) per intervenuta depenalizzazione (e non l'assorbimento).
2.4. Col quinto motivo lamentano violazione di legge, in particolare delle norme del D.Igs.
28/2015 che ha introdotto l'art. 131 bis c.p. nonché erronea applicazione dell' art. 541 codice di rito con riferimento all'art. 538 codice di rito, e mancanza di motivazione. Lamentano che la Corte di Appello ha condannato al pagamento delle spese in favore della parte civile nonostante la mancanza di richiesta della stessa, che peraltro non aveva neppure titolo ad intervenire, in assenza di una sentenza di condanna, sia in primo grado che in secondo grado.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è fondato.
Innanzitutto a fronte dell'intervenuta abrogazione del reato di ingiuria non si sarebbe dovuto ravvisare l'assorbimento del fatto ingiurioso nel reato di diffamazione ma piuttosto dichiarare non doversi procedere perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, con la conseguenza che compete ora a questa Corte giungere a tale declaratoria, annullando la sentenza impugnata in ordine al capo A) per tale motivo.
Quanto al capo B), occorre premettere che in materia di diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare l'offensività della frase che si assume lesiva della altrui reputazione perché è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, dovendo, in caso di esclusione di questa, pronunciare sentenza di assoluzione dell'imputato. (sez. 5, n. 48698 del 19/09/2014 - dep. 24/11/2014, P.G., P.C. in proc. Demofonti, Rv. 26128401).
Ciò posto, si osserva che per quanto emerge dalla stessa ricostruzione contenuta nella sentenza impugnata - che richiama quella di primo grado, che a sua volta evidenzia la particolare tenuità del fatto e quindi dell'offesa - come integrata in ricorso alla luce delle emergenze processuali indicate anche proprio al fine di evidenziarsi le carenze motivazionali - l'unica vera affermazione indicata come offensiva, perché è da essa che il C. si sarebbe sentito particolarmente offeso, deve ritersi la seguente : «chi nasce colono non muore padrone».
Ebbene, ritiene questo Collegio che di là delle implicazioni soggettive di colui che ebbe a recepire come offensiva tale affermazione, essa non abbia un'effettiva portata lesiva dell'altrui reputazione, non potendosi attribuire valenza negativa, dispregiativa, in sé, al termine colono, che si limita ad esprime piuttosto il concetto del lavoro che rappresenta, né di contro valenza positiva al termine 'padrone' che anzi sotto certi aspetti rimanda a fenomenologie non del tutto ortodosse, evocando piuttosto pratiche non sempre legittime derivanti dall'essere e sentirsi 'padrone' ( inteso in senso neppure troppo lato come colui che detiene una sorta di potere assoluto sul bene e non solo ). Né il concetto che la frase esprime, peraltro, non di immediata ed univoca significanza, reca necessariamente una intrinseca valenza negativa, di offesa. Così posta la questione in termini oggettivi, pure a volersi rapportare il concetto al caso concreto in cui esso si inserisce ( di là della genericità della contestazione che fa riferimento a scritti offensivi, il collegamento con la famiglia di C. S. si evincerebbe in particolare da una lettera con cui C. G. e il suo legale chiedevano a C. S. - figlia del primo - il rilascio dell'immobile, lettera parimenti affissa alla finestra dell'abitazione dell'imputata ) va subito detto che pure inserito nella fattispecie concreta è difficile coglierne il senso compiuto da parte di chi legge, sottintendendo, piuttosto, la frase una determinata vicenda privata specifica, evidentemente non nota ai più, implicante questioni di proprietà e di eredità di non facile districazione per gli stessi interessati ( tant'è che intercorreva vertenza civile tra essi); con la conseguenza che sebbene tale frase abbia potuto suscitare una qualche reazione emotiva in chi l'ha reputata indirizzata alla propria persona o alla propria famiglia, essa rispetto ai terzi è rimasta verosimilmente priva di valenza specifica e di un chiaro collegamento con la persona a cui era indirizzata.
Ed invero, affinchè la condotta divulgativa - nel caso di specie sussistente trattandosi di scritto affisso sulla parete di uno stabile - integri il reato di diffamazione rimane pur sempre necessario che quanto divulgato abbia carattere diffamatorio e possa essere come tale percepito, e possa altresì essere attribuito a un soggetto determinato, da parte di chiunque entri in contatto con esso, e non solo dal destinatario.
Deve trattarsi innanzitutto di divulgazione di comportamenti che, quanto meno alla luce dei canoni etici condivisi dalla generalità dei consociati, siano suscettibili di incontrare la riprovazione della "communis opinio", riprovazione che non può esaurirsi nell'essersi reso noto un fatto privato di per sé non di univoca valenza negativa neppure sotto il profilo morale ( non potendosi attribuire una siffatta valenza nemmeno alla mera circostanza che un soggetto abbia richiesto il rilascio di un immobile ad un congiunto tramite un legale, che potrebbe sotto certi aspetti essere riguardata anche in senso opposto a quello che si è inteso prospettare; né tanto meno come detto alle espressioni 'colono' e 'padrone' ); (sez. 5, n. 18982 del 31/01/2014 - dep. 08/05/2014, Mauro e altro, Rv. 26316701, sez. 5, n. 8348 del 25/10/2012, dep. 2013, sez. 5, n. 40539 del 23/09/2008, Cibelli, Rv. 241739).
Deve trattarsi, in ogni caso, pur sempre di offesa a soggetto quanto meno individuabile da parte del lettore-terzo, laddove nel caso di specie è insorta o poteva comunque insorgere confusione in ordine all'effettivo destinatario, avendo la stessa persona offesa, C. S., affermato che in realtà gli scritti non indicavano direttamente il suo nome - la stessa lettera pure affissa alla finestra dell'imputata C. S. con cui si chiedeva alla stessa il rilascio dell'immobile era a firma di C. G. e del suo legale - e che era più dal loro contenuto che trapelava il riferimento alla sua persona (tant'è che un altro testimone avrebbe riferito l'espressione del 'colono e del padrone' a diverso soggetto, ovvero al suocero C. G. che sarebbe "rimasto male" per essa).
Il fatto che una persona, o anche più di una, possa sentirsi offesa e destinataria di un'offesa non esclude che sotto il profilo della integrazione oggettiva del reato necessiti pur sempre che sia identificabile anche per i terzi - oltre che la pregnanza offensiva - il destinatario dello scritto perché altrimenti difetterebbe la attitudine dello stesso alla diffusione dell'offesa, propria del reato di diffamazione. In una siffatta valutazione non si può prescindere, a parere di questo collegio, dalla univocità, non ambiguità dell'espressione sia rispetto alla sua portata e al suo significato lesivo, sia rispetto alla sua destinazione a un soggetto o a più soggetti determinati o quanto meno oggettivamente determinabili.
L'interpretazione giurisprudenziale sul punto è rigorosa, richiedendo che l'individuazione del soggetto passivo del reato di diffamazione, in mancanza di indicazione specifica e nominativa ovvero di riferimenti inequivoci a fatti e circostanze di notoria conoscenza, attribuibili ad un determinato soggetto, deve essere deducibile, in termini di affidabile certezza, dalla stessa prospettazione oggettiva dell'offesa, quale si desume anche dal contesto in cui è inserita (sez. 5, sentenza n. 2135 del 07/12/1999 Rv. 215476 ); con la conseguenza che ove non sia possibile tale deduzione il reato di diffamazione non può ritenersi integrato.
Ed invero, ai fini dell'integrazione del reato di diffamazione, che è un reato formale ed istantaneo che si consuma con l'adozione di mezzi che rendano accessibili a più persone le affermazioni lesive dell'altrui reputazione, non è sufficiente l'esplicita volontà del soggetto attivo di destinare alla divulgazione il contenuto della comunicazione, essendo anche necessario che le affermazioni abbiano una effettiva e chiara portata lesiva e siano riferibili a una persona almeno individuabile da parte dei soggetti terzi che possono entrare in contatto con esse.
Il reato di diffamazione è costituito dalla comunicazione dell'offesa alla reputazione di una persona determinata, non circoscritta al destinatario, essendo l'evento costituito dalla comunicazione e dalla correlata percezione o percepibilità, da parte di almeno due consociati, di un segno ( parola, disegno ) lesivo, che sia diretto, non in astratto, ma concretamente, a incidere sulla reputazione di uno specifico cittadino ( sez. 5 n. 5654 del 19/10/2012; sez. 5 n. 34178 del 10/02/2015, Rv. 264982); esso implica quindi l'evento non fisico, ma psicologico, consistente nella percezione sensoriale e intellettiva da parte dei terzi della espressione offensiva ( sez. 5 n. 47175 del 04/07/2013, Rv. 257704).
Alla stregua di tutto quanto sopra esposto residua quanto meno il dubbio sulla effettiva percezione della portata lesiva dello scritto da parte dei terzi e sull'esatta individuazione dello stesso destinatario dell'espressione indicata (con conseguenti ripercussioni sulla condizione di procedibilità oltre che sull'integrazione del reato) dubbio che non può che comportare l'annullamento della sentenza impugnata anche in relazione al reato di diffamazione di cui al capo B perché il fatto non sussiste, senza necessità di ulteriori accertamenti, trattandosi di circostanze evincibili, ed evinte, dallo stesso tenore del provvedimento impugnato e di considerazioni di ordine logico-ricostruttivo legate alla valutazione in diritto della fattispecie - sollecitate dai corretti rilievi contenuti in ricorso. All'annullamento consegue la revoca delle statuizioni civili.

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