venerdì 21 luglio 2017

È risarcibile il danno non patrimoniale cagionato dalla perdita dell’animale d’affezione

È risarcibile il danno non patrimoniale cagionato dalla perdita dell’animale d’affezione, in quanto pregiudizio conseguente alla lesione di un diritto inviolabile della persona umana costituzionalmente tutelato (Trib. Pavia, sez. III civile, 16 settembre 2016, n. 1266).

La pronuncia in esame ripropone la vexata quaestio della risarcibilità del danno non patrimoniale da perdita o ferimento dell’animale d’affezione. Perno della fattispecie è la morte di un cane, ucciso mentre si trova all'interno di un terreno di proprietà degli attori, da un colpo di fucile proveniente da oltre la recinzione del fondo. Il giudice civile, liberamente valutando le prove raccolte nel giudizio penale (pur conclusosi con l’assoluzione dell’imputato dal delitto ex art. 544 bis c.p., per difetto di dolo) e considerando accertata la colpa del cacciatore convenuto, ritiene sussistente la responsabilità aquiliana di quest’ultimo e lo condanna a risarcire il danno cagionato. A tal proposito, mentre viene esclusa la stessa configurabilità di un pregiudizio patrimoniale, “perché un cucciolo di cane meticcio nato in casa e senza alcun valore commerciale non può aver cagionato una perdita economica ai suoi padroni”, si riconosce il pregiudizio non patrimoniale, affermando che “nel caso di specie si è in presenza di un danno non patrimoniale conseguente alla lesione di un interesse della persona umana alla conservazione di una sfera di integrità affettiva costituzionalmente protetta”.
Come è noto la ristorabilità del danno non patrimoniale da perdita dell’animale d’affezione, già ricondotto da un ampio orientamento giurisprudenziale di merito sotto le insegne del danno esistenziale (ex multis, Giud. Pace Ortona, 8 giugno 2007, in Resp. Civ. e Prev., 2008, 471 e Trib. Roma, 17 aprile 2002, in Giur. di Merito, 2002, 1254 – che tuttavia lo esclude nel caso di specie per difetto di prova), è stata denegata dalle Sezioni Unite “di San Martino”: ciò in quanto, sulla scorta della lettura conforme a Costituzione dell’art. 2059 c.c. accolta in quella sede, il danno non patrimoniale risulta risarcibile solo in presenza di un’espressa previsione di legge o della lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato, laddove nell’ipotesi di morte di un animale ad essere leso sarebbe soltanto “un rapporto, tra l’uomo e l’animale, privo, nell'attuale assetto dell’ordinamento, di copertura costituzionale” (così Cass., Sez. un., 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 26974, 26975, in Resp. Civ. e Prev., 2009, 38, che riprende, sul punto, Cass. civ., 27 giugno 2007, n. 14846, in Danno e Resp., 2008, 36).
Tale arresto tuttavia non è bastato a tacitare il dibattito, determinando piuttosto un mutamento dei termini in cui la questione viene di massima posta. I giudici di merito infatti hanno continuato e tuttora continuano a dividersi circa la risarcibilità ex 2059 c.c. del pregiudizio conseguente alla morte o lesione dell’animale, gli uni invocando in senso contrario la mancanza della lesione di un diritto inviolabile (è l’opinione che da ultimo sembra dominante: Trib. Milano, 1° luglio 2014, n. 8698, ma in obiter; Trib. S. Angelo dei Lombardi, 12 gennaio 2011, in Nuova Giur. Comm., 2011, 663; Trib. Catanzaro, 5 maggio 2011, in Danno e Resp., 2012, 187), gli altri asserendo in senso favorevole la compromissione di un diritto collocato a presidio del rapporto tra il “padrone” e l’animale d’affezione e il cui referente risiederebbe nell’art. 2 Cost., inteso – in consonanza peraltro con le richiamate Sezioni Unite – quale clausola aperta ad un processo evolutivo e perciò idonea a consentire il riconoscimento delle posizioni soggettive via via emergenti nel contesto sociale e ordinamentale (Trib. Foggia, 24 giugno 2011, in www.personaedanno.it; G. di Pace Palermo, 9 febbraio 2010, in www.animaliediritto.it; Trib. Rovereto, 18 ottobre 2009, in www.personaedanno.it).
La sentenza in commento si inserisce per l’appunto in questo secondo, filone minoritario e poggia la propria ratio decidendi sulla sussistenza della “ingiustizia costituzionalmente qualificata” del fatto dannoso: diventa allora centrale l’indagine circa l’eventuale rilevanza costituzionale del rapporto affettivo instaurato tra la persona e il proprio animale domestico. Al riguardo un consistente orientamento della dottrina (Azzarri, Il sensibile diritto. Valori e interessi nella responsabilità civile, in Resp. Civ. e Prev., 2012, 20 B; Di Marzio, Il riccio e il volpino. La morte dell’animale d’affezione sotto l’incubo della ragionevole durata, in Giur. di Merito, 2012, 561; Bona, Argo, gli aristogatti e la tutela risarcitoria: dalla perdita/menomazione dell’animale d’affezione alla questione dei pregiudizi c.d. bagatellari (crepe nelle sentenze delle SS. UU. Di San Martino), in Resp. Civ. e Prev., 2009, 1035 e 1036), in critica alle conclusioni raggiunte dalla Corte di legittimità, risolve positivamente il quesito sulla scorta soprattutto della considerazione del recente dato normativo. Il legislatore (non solo nazionale) avrebbe infatti recepito il mutare della sensibilità collettiva, sì da attribuire all’animale una posizione vieppiù differenziata da quella delle altre res e in specie da delineare per l’animale d’affezione uno statuto differenziato, improntato alla logica del rispetto dovuto ad un essere senziente e alla peculiare relazione con esso instaurata dall’uomo (cfr. L. 4 novembre 2010, n. 201 – “Ratifica ed esecuzione della Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia [...] nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno” –; art. 13 TFUE; artt. 544 bis e ter c.p., introdotti dalla L. 20 luglio 2004, n. 189; art. 1, L. 14 agosto 1991, n. 28 – “Legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo” –). Al di là degli elementi tratti dal diritto positivo, poi si sostiene che l’obiettiva importanza sociale e culturale assunta dagli animali domestici, sovente considerati alla stregua di membri del nucleo familiare, renderebbe inaccettabile il diniego dello strumento risarcitorio per il pregiudizio non patrimoniale, poiché una tale soluzione lascerebbe privo di tutela minima (identificata nella tutela risarcitoria, secondo l’insegnamento di Cass., Sez. un., 11 novembre 2008, nn. 26972-26975, cit.; Trib. Roma, 3 maggio 2016, n. 8834, in www.dejure.it) un interesse costituzionalmente rilevante, che l’ordinamento peraltro deve limitarsi a “ri-conoscere” (Sapone-Vorano, Il danno non patrimoniale da perdita di animale domestico, in Nuova Giur. Comm., 2010, II, 568 e 569; Donadoni, Una nuova frontiera per la Corte di Cassazione: il danno non patrimoniale “interspecifico”, ibidem, 583).
A proposito della possibilità di ritenere assurta al rango di diritto inviolabile la pretesa al mantenimento del rapporto uomo-animale d’affezione, va osservato come i dati di diritto positivo assunti dalla citata dottrina quali indici di siffatta più elevata rilevanza non sembrino al riguardo sufficientemente univoci. Le disposizioni penali in particolare paiono esser poste a presidio di un bene giuridico di carattere oggettivo e superindividuale, il “sentimento per gli animali”, che è cosa in essenza diversa dalla percezione eminentemente soggettiva della lesione della propria sfera personale e sentimentale (Ponzanelli, Nessun risarcimento per la perdita dell’animale di affezione: la conferma del giudice di Catanzaro, nota a Trib. Catanzaro, 5 maggio 2011, cit., 189; Basini, Dei delitti contro il sentimento per gli animali, in Trattato di diritto penale a cura di A. Cadoppi, Parte speciale, VI, I delitti contro la moralità pubblica, di prostituzione, contro il sentimento per gli animali e contro la famiglia, Torino, 2009, 85 e segg.). È agevole notare come la scarsa pregnanza dei riferimenti normativi induca molti Autori, e le stesse pronunce in argomento, a svolgere più o meno ampie considerazioni di natura sociologica o psicologica volte a scolpire la speciale importanza degli animali nella vita quotidiana, senza però tenere il discorso sul piano che gli è proprio, vale a dire quello giuridico (esemplare, in tal senso, Donadoni, cit., 582-586). La stessa assenza di un orientamento giurisprudenziale univoco sul punto non consente di ritener completato il quadro dei sintomi di un’attuale rilevanza qualificata del rapporto uomo-animale.
Queste difficoltà paiono spingere altra dottrina a spostare decisamente il terreno dell’indagine e a tentare di ricondurre la relazione in parola ad un diritto inviolabile già “acclimatato”, o che si suppone tale. Ragionando a partire dalla distinzione tra danno-evento e danno-conseguenza, si è sostenuto che la perdita dell’animale d’affezione, risolvendosi in un’alterazione talora irreversibile della personalità del soggetto costituzionalmente garantita ex art. 2 Cost., andrebbe pressoché in ogni caso ad infirmare un ambito dotato di copertura a livello di Carta fondamentale (Scarano, Il danno non patrimoniale e il principio di effettività, in Riv. Dir. Civ., 2011, II, 24 e 25). Un discorso di questo genere finisce però per sollevare problemi assai simili nella sostanza a quelli che già la teorizzazione del danno esistenziale recò con sé: individuando un diritto inviolabile ad amplissimo spettro, definito, anzi, più in termini finalistici (la realizzazione della “personalità” umana) che di contenuto, si apre la via alla proliferazione di pretese risarcitorie legate a pregiudizi disparati e soprattutto dalla dubbia rilevanza giuridica (viene spontaneo un parallelismo col tedesco “diritto generale della personalità”, la cui elaborazione si spiega però a fronte di un sistema dell’illecito civile profondamente diverso dal nostro; cfr. Francisetti Brolin, Danno non patrimoniale e inadempimento, Napoli, 2014, 133). In termini più generali va osservato che il riferimento fatto dalle Sezioni Unite di San Martino alla “coscienza sociale di un determinato momento storico” rischia di tradursi, se non suffragato da univoci riscontri a livello (quantomeno) di norme primarie, in un comodo escamotage per svuotare dall’interno il principio di tipicità chiaramente desumibile dall’art. 2059 c.c. (come già paventato, prima della svolta del 2008, da Gazzoni, Alla ricerca della felicità perduta (psicofavola fantagiuridica sullo psicodanno esistenziale, in Riv. Dir. Comm., 2000, I, 675; contra Lipari, Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale: il ruolo limitativo delle categorie concettuali, in Contratti, 2010, 705). Il che, oltre a risolversi in una violazione degli stessi canoni ermeneutici codificati che impongono il rispetto, pur nei limiti di compatibilità con il sovraordinato paradigma costituzionale (e nella acquisita consapevolezza circa l’immancabile spinta creativa insita nell’interpretazione), del “nucleo minimo di significato” desumibile dal dettato legislativo (G. Zaccaria, voce “Interpretazione della legge”, in Enc. Dir., Annali, V, 2012, 704), finisce per riconsegnare al risarcimento del danno non patrimoniale una funzione punitiva, sanzionatoria, che giurisprudenza e dottrina concordemente e da lungo tempo gli negano (Gazzoni, cit., 676).
La sentenza pavese che qui si commenta ben compendia le rilevate criticità. Essa, invero, sembra compiere un apprezzamento (peraltro, piuttosto generico) della realtà sociale e dell’acquisita speciale rilevanza, nella tavola dei valori condivisa, della relazione affettiva uomo-animale, senza che queste considerazioni, tuttavia, siano accompagnate da un’adeguata ricerca di indici normativi idonei a corroborarle a livello giuridico-positivo (come si sforza di fare, perlomeno, Trib. Rovereto, 18 ottobre 2009, cit.). D’altro canto, l’affermazione per cui la rottura del legame del danneggiato col proprio animale domestico sarebbe coincisa con la “lesione di un interesse della persona umana alla conservazione di una sfera di integrità affettiva costituzionalmente protetta” pare sintomatica di quella vera e propria inversione logica a cui abbiamo poc’anzi accennato, consistente nella individuazione di un diritto, rilevante ex art. 2 Cost., avente per oggetto la stessa “personalità” dell’uomo e, come tale, suscettibile di esser infranto ogniqualvolta una relazione affettiva o una consolidata abitudine di vita sia travolta o menomata dalla condotta di un terzo. In tal modo la pronuncia si muove al di fuori dei confini della tipicità del danno non patrimoniale come delineata dalle Sezioni Unite e, in fatto, ripropone la prospettiva ripudiata dalle sentenze di San Martino ma difesa, anche all’indomani di queste ultime, dalla dottrina “esistenzialista” (cfr. Cendon, Cass. S.U. 26972/2008. Non con l’accetta per favore, in www.personaedanno.it). Oltretutto, l’intento che ha mosso l’intervento nomofilattico del 2008 è dichiaratamente quello di fissare uno statuto generale per il danno non patrimoniale, evitando nei limiti del possibile la proliferazione di tendenze soggettivistiche che porterebbero al ristoro pressoché automatico di tutti i pregiudizi non pecuniari. Una simile logica sembra, per le ragioni che si sono esplicitate, esser stata accantonata dalla sentenza in esame, la quale all’opposto sposa un paradigma (definibile, volendo, come del “diritto inviolabile allo sviluppo della personalità”) che si presta più di ogni altro a far luogo all’affollamento di voci di danno eterogenee e mutevoli.
Le considerazioni testé svolte non possono comunque essere assolutizzate. È un dato di fatto sovente richiamato che, in date circostanze, il legame instauratosi tra animale e “padrone” assume una tale importanza nella vita di quest’ultimo da far sì che la sua recisione determini uno sconvolgimento radicale nella vita della persona, trovatasi magari priva dell’ultimo centro di affetti restatole (si pensi alla vecchia signora rimasta sola, che trova l’unica compagnia nel cane o nel gatto fidato) oppure di un ausilio indispensabile per condurre un minimum di vita di relazione (tale può essere il caso del cieco, per il quale il cane-guida costituisce il tramite con un’ampia porzione della realtà esterna). A fronte della specificità di tali ipotesi, un utile spunto per una soluzione ragionevole può provenire dalla riflessione in ordine alla distinzione, sviluppata con riguardo al diritto di proprietà, tra diritti-mezzo, privi in sé e per sé della qualifica dell’inviolabilità, e diritti-fine (quali il diritto alla vita, alla salute, la libertà personale ecc.). Si è sostenuto in particolare che determinati beni e servizi, oggetto di diritti patrimoniali e innanzitutto del diritto di proprietà – del quale si nega la natura stricto sensu inviolabile (riferimenti in Baldassarre, voce “Diritti inviolabili”, in Enc. Giur. Treccani, XI, Roma, 1989, 24) – potrebbero risultare a tal punto funzionali all’esercizio di diritti inviolabili che, intaccando i primi, si intaccherebbero per ciò stesso i secondi (Navarretta, voce “Diritti inviolabili e responsabilità civile”, in Enc. Dir., Annali, VII, 2014, Milano, 367). Un modello così articolato potrebbe essere utilmente impiegato quale paradigma per consentire la prestazione della tutela risarcitoria in quelle situazioni-limite ove la morte o la lesione dell’animale comprometterebbe il pieno godimento di diritti inviolabili effettivamente riconosciuti come esistenti. A tanto si giungerebbe valorizzando la natura di res, di cose mobili che, sia pure in termini sempre più sfumati, tuttavia l’ordinamento continua ad attribuire agli animali. In quanto beni di proprietà del “padrone” il danno ad essi arrecato non potrebbe attivare quella tutela piena che, secondo le Sezioni Unite, deve assistere i diritti inviolabili (proprio perché la proprietà, quale che ne sia l’oggetto, non sembra assurgere – almeno di regola – a tale rango). Se però nel caso concreto l’animale, sempre riguardato nel suo profilo giuridico di res, apparisse come strumento indispensabile per l’esercizio di una situazione soggettiva dalla sicura rilevanza ex art. 2 Cost., allora la compromissione del rapporto con l’animale (mezzo) potrebbe tradursi nella compromissione del diritto inviolabile (fine) il cui dispiegamento fosse garantito da quel rapporto (per un articolato sviluppo di tale prospettiva con riguardo alla diversa tematica del danno non patrimoniale da infiltrazioni si vedano Trib. Trieste, 9 dicembre 2013, n. 986, in www.dirittocivilecontemporaneo.it e Trib. Vercelli, 12 febbraio 2015, in www.personaedanno.it; in dottrina Di Genova, Risarcimento del danno non patrimoniale da lesione del diritto di proprietà: una svolta nella giurisprudenza di merito nazionale, in Riv. Crit. Dir. Priv., 2016, 293 e segg.). Ed è a queste condizioni, evidentemente restrittive, che il risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla perdita dell’animale d’affezione potrebbe trovare spazio: non come mezzo di ristoro della violazione di un ipotetico diritto costituzionale a vivere il “rapporto interspecifico” (su cui Donadoni, cit., 583 e 584), ma come compensazione per il pregiudizio arrecato dalla lesione di un diritto inviolabile già consolidato, diritto rispetto al quale, nel singolo caso, la relazione uomo-animale si pone come tramite necessario.
Al di fuori di tali ipotesi – e, ovviamente, al di fuori dei casi in cui la condotta del danneggiante costituisce reato, perché allora, in presenza di un’espressa disposizione di legge quale l’art. 185 c.p., il danno non patrimoniale sarà sempre risarcibile nelle sue diverse componenti – pare giocoforza ammettere che “nonostante il carattere aperto della clausola generale di tutela di cui all’art. 2 Cost. [...] resta il fatto che la categoria dei diritti della persona costituzionalmente garantiti e a maggior ragione quella dei valori inviolabili non è poi così infinita come a prima vista si potrebbe essere indotti a ritenere [...] se ne inferisce la conseguenza che interessi e valori della persona socialmente apprezzabili e come tali meritevoli di tutela alla stregua dell’interest rei publicae o per conforme valutazione della comunità giuridica restino non giustiziabili sul piano aquiliano” (così Scalisi, Danno alla persona e ingiustizia, in Riv. Dir. Civ., 2007, I, 152).

Fonte:www.altalex.com/danno non patrimoniale da perdita animale di affezione | Altalex

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