I Giudici di Legittimità, nel solco delle precedenti pronunce di merito (Tribunale di Roma del 9 giugno 1950, n. 2322 e Corte di Appello di Roma del 5 maggio 1954), hanno ritenuto che detto principio trovasse applicazione anche per gli attentati compiuti dai partigiani nella città di Roma durante lo stato di guerra dichiarato nell’ottobre 1943 contro la Germania, risultando improponibile l’azione di risarcimento danni contro gli autori dei tragici fatti occorsi in via Rasella.
D’altronde, ad avviso delle Sezioni Unite, l’eccezionalissima e dolorosa situazione in cui si trovava l'Italia non poteva consentire che l'attività militare delle forze partigiane si svolgesse sempre secondo piani organici e con una disciplina regolare. Essa era necessariamente rimessa anche all'iniziativa e al coraggio dei singoli gruppi, i quali, di volta in volta, secondo le circostanze, compivano quegli attacchi al nemico che ritenevano possibili ed opportuni. Trattavasi infatti di forze clandestine, operanti tra infinite difficoltà e con gravissimi rischi, stante l'enorme sproporzione di forze rispetto all'avversario. E la Legge ha riconosciuto, non solo la lotta partigiana condotta da formazioni regolarmente organizzate, ma anche le azioni compiute da gruppi isolati.
I fatti di causa. Gli eventi occorsi in Roma, alla tristemente nota via Rasella, sono all’origine della vicenda giudiziaria in esame. Il 23 marzo 1944 una formazione militare germanica che transitava per via Rasella fu investita dallo scoppio di un ordigno esplosivo che causò la morte di trentadue soldati, oltre che di due cittadini, nonché il ferimento di altre persone che si trovavano sul posto. D’inaudita violenza la reazione nazista. Il successivo giorno i tedeschi eseguirono, per rappresaglia, in località Cave Ardeatine, il massacro di trecentotrentacinque persone, scelte tra i detenuti, condannati e indiziati politici. Di qui l’azione di responsabilità promossa innanzi al Tribunale di Roma da alcuni familiari delle vittime per ottenere il risarcimento dei danni da parte dei mandanti ed esecutori dell’attentato.
Con sentenza n. 2322 del 9 giugno 1950 il Tribunale dichiarava improponibile la domanda sul presupposto che l’attentato di via Rasella avesse rappresentato un legittimo atto di guerra, come tale riferibile allo Stato ed insindacabile da parte dell’Autorità Giudiziaria. La Corte di Appello di Roma, investita del gravame, confermava la decisione impugnata ritenendo che l’attentato avesse il carattere obiettivo di fatto di guerra, essendosi verificato durante l’occupazione militare della città di Roma ed essendosi risolto materialmente in un prevalente, se non esclusivo, danno per le forze armate germaniche. Il secondo Giudice precisava, altresì, che siffatto carattere di atto di guerra trovava conferma anche sotto l’aspetto subiettivo essendo stato ispirato alla finalità di recare offesa al nemico occupante. Lo stesso, quindi, compiuto da soggetti assimilati ai militari, doveva riferirsi esclusivamente allo Stato e non a chi lo ordinò, diresse ed eseguì. Seguiva il giudizio di cassazione.
La legittimità dell’atto di guerra compiuto dai partigiani. In primo luogo, il Supremo Collegio osservava che la qualificazione dell’attentato di via Rasella come atto legittimo di guerra non potesse essere compiuta alla stregua delle disposizioni degli art. 25 e 27 della Legge di guerra (R.D. 8 luglio 1938, n. 1415). Ad avviso della Corte, lo Stato italiano, nel definire con tali norme i legittimi belligeranti, intendeva limitare i propri poteri nei confronti dei cittadini di altri Stati con i quali esso fosse entrato in guerra; stabilendo cioè che le autorità italiane avrebbero dovuto considerare legittimi belligeranti e trattare quindi come tali, secondo le norme internazionali di guerra, i sudditi nemici che si fossero trovati nelle indicate condizioni. Siffatte disposizioni, precisava la Corte, era state emanate in esecuzione di accordi internazionali (Convenzione dell'Aja 18 ottobre 1907), al fine di ottenere da altri Stati condizioni di reciprocità verso i cittadini italiani, da considerare e da trattare come legittimi belligeranti. Dette norme, però, non trovavano applicazione contro gli italiani. Dovendosi allora qualificare l'atto nell’ambito dell'ordinamento italiano e nei confronti di altri cittadini italiani, l'indagine, secondo le Sezioni Unite, doveva rivolgersi all'accertamento della natura obiettiva e subiettiva dell'atto, in relazione al sistema legislativo italiano.
Ciò chiarito, ad avviso della Corte non poteva dubitarsi che si trattasse di un atto di guerra, considerato che: (A) l’attentato non fu ispirato da finalità personali, ma solo da quella di compiere un atto ostile verso le forze armate della Germania che era in stato di guerra con l'Italia dal 13 ottobre 1943 e che aveva instaurato una vera e propria occupazione militare bellica di gran parte del territorio nazionale; (B) il governo legittimo italiano aveva incitato gli italiani delle zone soggette a quell'occupazione a ribellarsi all'occupante ed a compiere ogni possibile atto di sabotaggio e di ostilità, al fine di cooperare alla liberazione, per la quale combattevano, a fianco delle Nazioni Unite, le forze armate regolari.
Ciò, d’altronde, trovava conferma anche nella successiva legislazione che aveva, tra l’altro, riconosciuto la qualità di patrioti combattenti ai componenti delle formazioni volontarie partecipanti alle operazioni belliche (D. L. Lt. 5 aprile 1945, n. 158); qualificando poi come azioni di guerra tutte le operazioni compiute da patrioti per le necessità di lotta contro i tedeschi e i fascisti nel periodo dell'occupazione nemica (D. L. Lt. 12 aprile 1945, n. 194).
In conclusione, per le Sezioni Unite lo Stato aveva considerato i partigiani come legittimi belligeranti, al pari degli appartenenti alle forze armate regolari. Tale qualificazione avrebbe potuto essere negata dal nemico, per difetto dei requisiti formali atti ad identificare i combattenti stessi, ma non avrebbe potuto essere posta in dubbio nell'ambito dell'ordinamento giuridico italiano, nei rapporti tra quei partigiani ed altri italiani. La Corte di Legittimità confermava quindi la motivazione dei giudici di merito secondo cui gli atti di guerra, in quanto assolutamente discrezionali, dovevano sottrarsi ad ogni valutazione da parte dell'Autorità Giudiziaria.
Roma “città aperta” fra i due governi. Chiarito quanto sopra, i Giudici di Legittimità si soffermavano sull’ulteriore questione concernente la situazione di Roma come “città aperta” nella quale l’attentato sarebbe stato vietato dalle autorità che ne rappresentavano il governo legittimo. Sul punto, veniva chiarito che Roma era stata dichiarata “città aperta” dal governo italiano prima dell'armistizio, e precisamente il 31 luglio 1943, agli anglo-americani, senza tuttavia loro accettazione. Da ciò conseguiva che la dichiarazione suddetta non potesse far sorgere un obbligo internazionale del governo italiano verso gli anglo-americani. Un'analoga dichiarazione, invece, mai era stata fatta nei riguardi della Germania; ciò per l'ovvia considerazione che la Germania aveva respinto la dichiarazione di guerra italiana perché disconosceva al governo del Re la qualità di governo legittimo, considerando tale quello della Repubblica Sociale Italiana. E quest’ultimo, puntualizzava la Corte di Cassazione, non poteva rivolgere una richiesta di rispetto di Roma come “città aperta” se non agli anglo-americani, dato che considerava i tedeschi come propri alleati e che costoro esercitavano i poteri di occupazione su quella parte del territorio nazionale.
Veniva poi spiegato che sia il governo “legittimo” che quello “illegittimo” avevano interesse a risparmiare Roma da distruzioni e ad evitare quindi il pericolo di offese aeree da parte degli anglo-americani. Senonché, nessuno dei due governi era in condizioni di assicurare che la città fosse effettivamente “aperta”: (A) non quello legittimo, perché aveva perduto il controllo su di essa; (B) non quello illegittimo, perché esercitava solo i limitati poteri consentitigli dalle Autorità tedesche.
In tale situazione, soggiungeva la Corte, il rispetto di Roma era affidato non già al vigore di un accordo, che non esisteva, ma alla saggezza delle potenze straniere belligeranti: di quella tedesca, perché non tenesse forze armate o apprestamenti militari, in modo da escludere ogni giustificazione agli attacchi aerei nemici; di quelle anglo-americane, perché si astenessero dal compiere offese aeree, che non potevano in alcun modo essere considerate necessarie per la condotta della guerra e che comunque avrebbero cagionato un danno irreparabile al patrimonio spirituale di tutto il mondo civile.
Se, da un lato, gli anglo-americani avevano interesse a che in Roma non vi fossero forze ed obiettivi militari tedeschi, perché, altrimenti, sarebbero stati posti nella alternativa di rinunciare ad aggredirli, o di recare offesa alla città; dall’altro, gli stessi non avevano interesse a che, trovandosi forze armate tedesche nella città, gli italiani le rispettassero. Al contrario, ogni atto di ostilità contro quelle forze costituiva partecipazione alla guerra a fianco delle Nazioni Unite, in attuazione della cobelligeranza italiana. Ogni attacco contro i tedeschi, in qualsiasi parte del territorio nazionale, rispondeva quindi agli incitamenti impartiti dal governo legittimo e alle finalità politiche e militari da esso perseguite in unità d'intenti con le forze alleate e costituiva un atto di guerra riferibile allo stesso governo.
Pertanto, concludeva la Corte sul punto, se per mera ipotesi di ragionamento, la dichiarazione del 31 luglio 1943 fosse stata accettata dalle Nazioni Unite, e fosse esistito così un accordo per considerare Roma come “città aperta”, l'attentato di via Rasella non sarebbe stato comunque in contrasto con quell'accordo, perché la situazione politico-militare si era capovolta ed i tedeschi, contro i quali l'atto medesimo fu diretto, erano divenuti nemici nel contempo delle Nazioni unite e dell'Italia. Era pertanto da escludere che potesse ravvisarsi una violazione di obblighi inerenti al rispetto di Roma come “città aperta”, data l'insussistenza degli obblighi stessi.
Puntualizzava la Corte di Cassazione che l’eccezionalissima, dolorosa situazione in cui venne a trovarsi l'Italia non poteva consentire che l'attività militare delle forze partigiane si svolgesse sempre secondo piani organici e con una disciplina regolare. Essa era necessariamente rimessa anche all'iniziativa e al coraggio dei singoli gruppi, i quali, di volta in volta, secondo le circostanze, compivano quegli attacchi al nemico che ritenevano possibili ed opportuni. Trattavasi infatti di forze clandestine, operanti tra infinite difficoltà e con gravissimi rischi, stante l'enorme sproporzione di forze rispetto all'avversario. E la Legge ha riconosciuto, non solo la lotta partigiana condotta da formazioni regolarmente organizzate, ma anche le azioni compiute da gruppi isolati.
Accertato che l’attentato in esame fu un atto legittimo di guerra, e, come tale riferibile allo Stato e non ai singoli autori di esso, nessun sindacato da parte dell'Autorità giudiziaria era ammissibile sull'atto medesimo. L'assoluta discrezionalità dell'attività bellica, ispirata a superiori ed inderogabili esigenze statuali, non consentiva alcun controllo da parte del giudice, all'infuori di quello che l'atto fosse effettivamente diretto a finalità belliche.
La guerra partigiana nei ricordi di un illustre giurista: Adriano Vanzetti, compianto professore emerito di diritto industriale e noto avvocato milanese, ha raccolto i suoi pensieri nel volume dal titolo “Piccolo memoriale partigiano 1936-1945” (Canova Edizioni, Treviso, 2013) e ha ben chiarito cosa fosse stata la guerra partigiana: “Non di guerra civile si è trattato, ma di guerra di popolo contro lo straniero invasore [..] era guerra, come tale feroce, e anche fra noi c’erano i cattivi. Ma è stata una pagina gloriosa della storia d’Italia, cui la popolazione ha nella sua stragrande maggioranza partecipato dalla parte giusta”.
Le precedenti sentenze dei Giudici merito. Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 2322 del 9 giugno 1950, riconobbe che «l’attentato commesso dai partigiani il 23 marzo 1944 fu un legittimo atto di guerra» per cui «né gli esecutori, né gli organizzatori possono rispondere civilmente dell’eccidio disposto a titolo di rappresaglia dal comando germanico».
La Corte di Appello di Roma, Prima Sezione Civile, con sentenza del 5 maggio 1954, confermò il giudizio del Tribunale ritenendo che: «l’attentato compiuto il 23 marzo 1944 in via Rasella contro un reparto di militari germanici ebbe carattere obiettivo di fatto di guerra, essendosi verificato durante l’occupazione della città ed essendosi risolto in prevalente se non esclusivo danno delle forze armate germaniche. I competenti organi dello Stato non hanno ravvisato alcun carattere illecito nell’attentato di via Rasella ma anzi hanno ritenuto gli autori degni del pubblico riconoscimento, che trae seco la concessione di decorazioni al valore; lo Stato ha completamente identificato le formazioni volontarie come propri organi, ha accettato gli atti di guerra da esse compiuti, ha assunto a suo carico e nei limiti consentiti dalle leggi le loro conseguenze. Non vi sono quindi rei da una parte, ma combattenti; non semplici vittime di una azione dannosa dall’altra, ma martiri caduti per la Patria».
La sentenza delle Sezioni Unite di Cassazione qui annotata, unitamente a quelle di merito appena richiamate, è reperibile sul sito web del Senato della Repubblica (Archivio Storico). Si segnala, in particolare, che la decisione del Tribunale di Roma, 9 giugno 1950, n. 2322 è stata pubblicata in Riv. dir. comm., 1951, 66 ss., con nota di GASTONE COTTINO, dal titolo Azioni di guerra partigiana e responsabilità per fatto illecito. L’analisi dei processi connessi all’attentato di via Rasella è stata svolta da ZARA OLIVIA ALGARDI, in Processi ai fascisti, Firenze, 1958, 84 ss. la quale ricorda che “in via Rasella i tedeschi si accorsero che Roma si ribellava e l’Italia lottava per la sua indipendenza; rinunciarono quindi a tentare a Roma una difesa ad oltranza come avevano progettato, e dopo il massacro delle Fosse Ardeatine, si resero conto ancor meglio che gli Italiani, operai e contadini, soldati e ufficiali, professionisti e intellettuali, uomini e donne di tutte le correnti politiche e di tutte le posizioni sociali sapevano lottare uniti per la Resistenza”.