venerdì 24 aprile 2020

Partigiani: legittimi belligeranti contro l’invasore tedesco

La Suprema Corte di Cassazione, Sezioni Unite, con la sentenza n. 3053 del 19 luglio 1957 ha riconosciuto che le azioni compiute dai partigiani nella lotta contro il nemico erano legittimi atti di guerra, riconducibili all’attività dello Stato ed insindacabili dall’Autorità Giudiziaria. 

I Giudici di Legittimità, nel solco delle precedenti pronunce di merito (Tribunale di Roma del 9 giugno 1950, n. 2322  e Corte di Appello di Roma del 5 maggio 1954), hanno ritenuto che detto principio trovasse applicazione anche per gli attentati compiuti dai partigiani nella città di Roma durante lo stato di guerra dichiarato nell’ottobre 1943 contro la Germania, risultando improponibile l’azione di risarcimento danni contro gli autori dei tragici fatti occorsi in via Rasella.
D’altronde, ad avviso delle Sezioni Unite, l’eccezionalissima e dolorosa situazione in cui si trovava l'Italia non poteva consentire che l'attività militare delle forze partigiane si svolgesse sempre secondo piani organici e con una disciplina regolare. Essa era necessariamente rimessa anche all'iniziativa e al coraggio dei singoli gruppi, i quali, di volta in volta, secondo le circostanze, compivano quegli attacchi al nemico che ritenevano possibili ed opportuni. Trattavasi infatti di forze clandestine, operanti tra infinite difficoltà e con gravissimi rischi, stante l'enorme sproporzione di forze rispetto all'avversario. E la Legge ha riconosciuto, non solo la lotta partigiana condotta da formazioni regolarmente organizzate, ma anche le azioni compiute da gruppi isolati.
I fatti di causa. Gli eventi occorsi in Roma, alla tristemente nota via Rasella, sono all’origine della vicenda giudiziaria in esame. Il 23 marzo 1944 una formazione militare germanica che transitava per via Rasella fu investita dallo scoppio di un ordigno esplosivo che causò la morte di trentadue soldati, oltre che di due cittadini, nonché il ferimento di altre persone che si trovavano sul posto. D’inaudita violenza la reazione nazista. Il successivo giorno i tedeschi eseguirono, per rappresaglia, in località Cave Ardeatine, il massacro di trecentotrentacinque persone, scelte tra i detenuti, condannati e indiziati politici. Di qui l’azione di responsabilità promossa innanzi al Tribunale di Roma da alcuni familiari delle vittime per ottenere il risarcimento dei danni da parte dei mandanti ed esecutori dell’attentato.
Con sentenza n. 2322 del 9 giugno 1950 il Tribunale dichiarava improponibile la domanda sul presupposto che l’attentato di via Rasella avesse rappresentato un legittimo atto di guerra, come tale riferibile allo Stato ed insindacabile da parte dell’Autorità Giudiziaria. La Corte di Appello di Roma, investita del gravame, confermava la decisione impugnata ritenendo che l’attentato avesse il carattere obiettivo di fatto di guerra, essendosi verificato durante l’occupazione militare della città di Roma ed essendosi risolto materialmente in un prevalente, se non esclusivo, danno per le forze armate germaniche. Il secondo Giudice precisava, altresì, che siffatto carattere di atto di guerra trovava conferma anche sotto l’aspetto subiettivo essendo stato ispirato alla finalità di recare offesa al nemico occupante. Lo stesso, quindi, compiuto da soggetti assimilati ai militari, doveva riferirsi esclusivamente allo Stato e non a chi lo ordinò, diresse ed eseguì. Seguiva il giudizio di cassazione.
La legittimità dell’atto di guerra compiuto dai partigiani. In primo luogo, il Supremo Collegio osservava che la qualificazione dell’attentato di via Rasella come atto legittimo di guerra non potesse essere compiuta alla stregua delle disposizioni degli art. 25 e 27 della Legge di guerra (R.D. 8 luglio 1938, n. 1415). Ad avviso della Corte, lo Stato italiano, nel definire con tali norme i legittimi belligeranti, intendeva limitare i propri poteri nei confronti dei cittadini di altri Stati con i quali esso fosse entrato in guerra; stabilendo cioè che le autorità italiane avrebbero dovuto considerare legittimi belligeranti e trattare quindi come tali, secondo le norme internazionali di guerra, i sudditi nemici che si fossero trovati nelle indicate condizioni. Siffatte disposizioni, precisava la Corte, era state emanate in esecuzione di accordi internazionali (Convenzione dell'Aja 18 ottobre 1907), al fine di ottenere da altri Stati condizioni di reciprocità verso i cittadini italiani, da considerare e da trattare come legittimi belligeranti. Dette norme, però, non trovavano applicazione contro gli italiani. Dovendosi allora qualificare l'atto nell’ambito dell'ordinamento italiano e nei confronti di altri cittadini italiani, l'indagine, secondo le Sezioni Unite, doveva rivolgersi all'accertamento della natura obiettiva e subiettiva dell'atto, in relazione al sistema legislativo italiano.
Ciò chiarito, ad avviso della Corte non poteva dubitarsi che si trattasse di un atto di guerra, considerato che: (A) l’attentato non fu ispirato da finalità personali, ma solo da quella di compiere un atto ostile verso le forze armate della Germania che era in stato di guerra con l'Italia dal 13 ottobre 1943 e che aveva instaurato una vera e propria occupazione militare bellica di gran parte del territorio nazionale; (B) il governo legittimo italiano aveva incitato gli italiani delle zone soggette a quell'occupazione a ribellarsi all'occupante ed a compiere ogni possibile atto di sabotaggio e di ostilità, al fine di cooperare alla liberazione, per la quale combattevano, a fianco delle Nazioni Unite, le forze armate regolari.
Ciò, d’altronde, trovava conferma anche nella successiva legislazione che aveva, tra l’altro, riconosciuto la qualità di patrioti combattenti ai componenti delle formazioni volontarie partecipanti alle operazioni belliche (D. L. Lt. 5 aprile 1945, n. 158); qualificando poi come azioni di guerra tutte le operazioni compiute da patrioti per le necessità di lotta contro i tedeschi e i fascisti nel periodo dell'occupazione nemica (D. L. Lt. 12 aprile 1945, n. 194).
In conclusione, per le Sezioni Unite lo Stato aveva considerato i partigiani come legittimi belligeranti, al pari degli appartenenti alle forze armate regolari. Tale qualificazione avrebbe potuto essere negata dal nemico, per difetto dei requisiti formali atti ad identificare i combattenti stessi, ma non avrebbe potuto essere posta in dubbio nell'ambito dell'ordinamento giuridico italiano, nei rapporti tra quei partigiani ed altri italiani. La Corte di Legittimità confermava quindi la motivazione dei giudici di merito secondo cui gli atti di guerra, in quanto assolutamente discrezionali, dovevano sottrarsi ad ogni valutazione da parte dell'Autorità Giudiziaria.
Roma “città aperta” fra i due governi. Chiarito quanto sopra, i Giudici di Legittimità si soffermavano sull’ulteriore questione concernente la situazione di Roma come “città aperta” nella quale l’attentato sarebbe stato vietato dalle autorità che ne rappresentavano il governo legittimo. Sul punto, veniva chiarito che Roma era stata dichiarata “città aperta” dal governo italiano prima dell'armistizio, e precisamente il 31 luglio 1943, agli anglo-americani, senza tuttavia loro accettazione. Da ciò conseguiva che la dichiarazione suddetta non potesse far sorgere un obbligo internazionale del governo italiano verso gli anglo-americani. Un'analoga dichiarazione, invece, mai era stata fatta nei riguardi della Germania; ciò per l'ovvia considerazione che la Germania aveva respinto la dichiarazione di guerra italiana perché disconosceva al governo del Re la qualità di governo legittimo, considerando tale quello della Repubblica Sociale Italiana. E quest’ultimo, puntualizzava la Corte di Cassazione, non poteva rivolgere una richiesta di rispetto di Roma come “città aperta” se non agli anglo-americani, dato che considerava i tedeschi come propri alleati e che costoro esercitavano i poteri di occupazione su quella parte del territorio nazionale.
Veniva poi spiegato che sia il governo “legittimo” che quello “illegittimo” avevano interesse a risparmiare Roma da distruzioni e ad evitare quindi il pericolo di offese aeree da parte degli anglo-americani. Senonché, nessuno dei due governi era in condizioni di assicurare che la città fosse effettivamente “aperta”: (A) non quello legittimo, perché aveva perduto il controllo su di essa; (B) non quello illegittimo, perché esercitava solo i limitati poteri consentitigli dalle Autorità tedesche.
In tale situazione, soggiungeva la Corte, il rispetto di Roma era affidato non già al vigore di un accordo, che non esisteva, ma alla saggezza delle potenze straniere belligeranti: di quella tedesca, perché non tenesse forze armate o apprestamenti militari, in modo da escludere ogni giustificazione agli attacchi aerei nemici; di quelle anglo-americane, perché si astenessero dal compiere offese aeree, che non potevano in alcun modo essere considerate necessarie per la condotta della guerra e che comunque avrebbero cagionato un danno irreparabile al patrimonio spirituale di tutto il mondo civile.
Se, da un lato, gli anglo-americani avevano interesse a che in Roma non vi fossero forze ed obiettivi militari tedeschi, perché, altrimenti, sarebbero stati posti nella alternativa di rinunciare ad aggredirli, o di recare offesa alla città; dall’altro, gli stessi non avevano interesse a che, trovandosi forze armate tedesche nella città, gli italiani le rispettassero. Al contrario, ogni atto di ostilità contro quelle forze costituiva partecipazione alla guerra a fianco delle Nazioni Unite, in attuazione della cobelligeranza italiana. Ogni attacco contro i tedeschi, in qualsiasi parte del territorio nazionale, rispondeva quindi agli incitamenti impartiti dal governo legittimo e alle finalità politiche e militari da esso perseguite in unità d'intenti con le forze alleate e costituiva un atto di guerra riferibile allo stesso governo.
Pertanto, concludeva la Corte sul punto, se per mera ipotesi di ragionamento, la dichiarazione del 31 luglio 1943 fosse stata accettata dalle Nazioni Unite, e fosse esistito così un accordo per considerare Roma come “città aperta”, l'attentato di via Rasella non sarebbe stato comunque in contrasto con quell'accordo, perché la situazione politico-militare si era capovolta ed i tedeschi, contro i quali l'atto medesimo fu diretto, erano divenuti nemici nel contempo delle Nazioni unite e dell'Italia. Era pertanto da escludere che potesse ravvisarsi una violazione di obblighi inerenti al rispetto di Roma come “città aperta”, data l'insussistenza degli obblighi stessi.
Puntualizzava la Corte di Cassazione che l’eccezionalissima, dolorosa situazione in cui venne a trovarsi l'Italia non poteva consentire che l'attività militare delle forze partigiane si svolgesse sempre secondo piani organici e con una disciplina regolare. Essa era necessariamente rimessa anche all'iniziativa e al coraggio dei singoli gruppi, i quali, di volta in volta, secondo le circostanze, compivano quegli attacchi al nemico che ritenevano possibili ed opportuni. Trattavasi infatti di forze clandestine, operanti tra infinite difficoltà e con gravissimi rischi, stante l'enorme sproporzione di forze rispetto all'avversario. E la Legge ha riconosciuto, non solo la lotta partigiana condotta da formazioni regolarmente organizzate, ma anche le azioni compiute da gruppi isolati.
Accertato che l’attentato in esame fu un atto legittimo di guerra, e, come tale riferibile allo Stato e non ai singoli autori di esso, nessun sindacato da parte dell'Autorità giudiziaria era ammissibile sull'atto medesimo. L'assoluta discrezionalità dell'attività bellica, ispirata a superiori ed inderogabili esigenze statuali, non consentiva alcun controllo da parte del giudice, all'infuori di quello che l'atto fosse effettivamente diretto a finalità belliche.
La guerra partigiana nei ricordi di un illustre giurista: Adriano Vanzetti, compianto professore emerito di diritto industriale e noto avvocato milanese, ha raccolto i suoi pensieri nel volume dal titolo “Piccolo memoriale partigiano 1936-1945” (Canova Edizioni, Treviso, 2013) e ha ben chiarito cosa fosse stata la guerra partigiana: “Non di guerra civile si è trattato, ma di guerra di popolo contro lo straniero invasore [..] era guerra, come tale feroce, e anche fra noi c’erano i cattivi. Ma è stata una pagina gloriosa della storia d’Italia, cui la popolazione ha nella sua stragrande maggioranza partecipato dalla parte giusta”.
Le precedenti sentenze dei Giudici merito. Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 2322 del 9 giugno 1950, riconobbe che «l’attentato commesso dai partigiani il 23 marzo 1944 fu un legittimo atto di guerra» per cui «né gli esecutori, né gli organizzatori possono rispondere civilmente dell’eccidio disposto a titolo di rappresaglia dal comando germanico».
La Corte di Appello di Roma, Prima Sezione Civile, con sentenza del 5 maggio 1954, confermò il giudizio del Tribunale ritenendo che: «l’attentato compiuto il 23 marzo 1944 in via Rasella contro un reparto di militari germanici ebbe carattere obiettivo di fatto di guerra, essendosi verificato durante l’occupazione della città ed essendosi risolto in prevalente se non esclusivo danno delle forze armate germaniche. I competenti organi dello Stato non hanno ravvisato alcun carattere illecito nell’attentato di via Rasella ma anzi hanno ritenuto gli autori degni del pubblico riconoscimento, che trae seco la concessione di decorazioni al valore; lo Stato ha completamente identificato le formazioni volontarie come propri organi, ha accettato gli atti di guerra da esse compiuti, ha assunto a suo carico e nei limiti consentiti dalle leggi le loro conseguenze. Non vi sono quindi rei da una parte, ma combattenti; non semplici vittime di una azione dannosa dall’altra, ma martiri caduti per la Patria».
La sentenza delle Sezioni Unite di Cassazione qui annotata, unitamente a quelle di merito appena richiamate, è reperibile sul sito web del Senato della Repubblica (Archivio Storico). Si segnala, in particolare, che la decisione del Tribunale di Roma, 9 giugno 1950, n. 2322 è stata pubblicata in Riv. dir. comm., 1951, 66 ss., con nota di GASTONE COTTINO, dal titolo Azioni di guerra partigiana e responsabilità per fatto illecito. L’analisi dei processi connessi all’attentato di via Rasella è stata svolta da ZARA OLIVIA ALGARDI, in Processi ai fascisti, Firenze, 1958, 84 ss. la quale ricorda che “in via Rasella i tedeschi si accorsero che Roma si ribellava e l’Italia lottava per la sua indipendenza; rinunciarono quindi a tentare a Roma una difesa ad oltranza come avevano progettato, e dopo il massacro delle Fosse Ardeatine, si resero conto ancor meglio che gli Italiani, operai e contadini, soldati e ufficiali, professionisti e intellettuali, uomini e donne di tutte le correnti politiche e di tutte le posizioni sociali sapevano lottare uniti per la Resistenza”.

giovedì 23 aprile 2020

Furto: sì alla condanna anche per piccole somme di denaro

Va condannato per furto ex art. 624 c.p. anche chi ruba beni alimentari per un valore di 32,77 euro.
Questo è quanto emerge dalla sentenza della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione del 3 aprile 2020, n. 11289.

Il caso vedeva un uomo essere condannato per tentato furto aggravato per avere compiuto atti idonei e diretti in modo non equivoco a impossessarsi di generi alimentari per un valore complessivo di euro 32,77, avendo asportato detti beni dai banchi di vendita di un esercizio commerciale e avendoli poi nascosti sotto la giacca, senza riuscire nel proprio intento per cause indipendenti dalla propria volontà.
Con ricorso per Cassazione l'imputato sosteneva di avere tentato il furto per fame, sebbene la corte territoriale avesse escluso l'esimente dello stato di necessità, ritenendo il valore della merce non rilevante ma considerevole.
Secondo gli ermellini i giudici del merito hanno evidenziato la mancanza di prova circa la finalità legata alla commissione del reato, ovvero quella di sopperire a gravi ed urgenti esigenze alimentari. In tale contesto, secondo i giudici, va inteso il riferimento al valore non rilevante ma considerevole delle merci sottratte. Pur trattandosi di una cifra modesta, la causa di giustificazione dello stato di necessità deve essere ricollegabile ad un bisogno impellente e quindi una sottrazione esigua, destinata ad una immediata soddisfazione delle esigenze alimentari.
Parimenti i giudici escludono l'applicabilità della non punibilità per particolare tenuità del fatto, ex art. 131-bis c.p., adducendo l'abitualità del comportamento e desumendo tale circostanza da alcune precedenti condanne del ricorrente sempre per furto. Si tratta di un ragionamento compatibile con le norme di legge e che costituisce esercizio di una valutazione discrezionale rimessa al giudice di merito.
Considerata la dedizione del ricorrente al furto deve, infine, ritenersi corretta la decisione del giudice territoriale di non applicare la misura della sostituzione della pena, in considerazione, per l'appunto, con l'esistenza delle precedenti condanne e della non occasionalità della condotta.
(fonte: www.altalex.com)

Videosorveglianza: i privati possono installare telecamere rivolte solo verso aree private

Possono inquadrare aree di pubblico transito solo previo accordo formale col Comune, unico autorizzato ad installarle per fini di polizia e pubblica sicurezza ex l. n. 38/09. È quanto stabilito dal TAR Lazio sez. II bis, con la sentenza n. 3316 depositata il 17 marzo. (TAR Lazio, sez. II bis, sentenza n. 3316/20; depositata il 17 marzo)

Il caso. Un Centro residenziale, interamente recintato, custodito da vigilantes interni e con soli due accessi sulla Via Flaminia aveva installato un impianto di videosorveglianza ed apposita cartellonistica in entrata ed uscita da questi due ingressi, siti in due distinti Comuni. Il Comune di Rignano Flaminio eccependo e dimostrando che le vie che lo attraversavano erano zone di pubblico passaggio, gli ingiunse la rimozione. Il Centro la impugnò per una pluralità di motivi, ma il TAR ne ha confermato la liceità.
Quando un privato può installare un sistema di videosorveglianza? Come evidenziato anche dal Garante della Privacy «l’installazione di impianti di videosorveglianza da parte di privati è consentita solo in rapporto all’area di stretta pertinenza della proprietà privata e con esclusione di aree pubbliche o soggette al pubblico transito, per le quali, invece, l’installazione di impianti del genere compete al Comune per le finalità di prevenzione e tutela della pubblica incolumità ai sensi dell’art. 6, comma 7, del DL 11/2009, conv. in l. 23 aprile 2009, n. 38» (Provvedimento del Garante della Privacy dell’8/4/10 e Cass. civ.1479/12).
Onere della prova. Orbene nella fattispecie questa prova non è stata fornita dal ricorrente, mentre il Comune convenuto ha dimostrato la natura delle aree interessate come zone a pubblico transito tanto che erano inserite nell’elenco delle pubbliche vie, stante le diverse delibere ed ordinanze che avevano previsto una serie di lavori di manutenzione, apposta la segnaletica, eseguito opere di urbanizzazione secondaria etc. che ne denotavano in maniera inequivocabile tale destinazione. In base alla prassi costante tale iscrizione comporta una presunzione di pubblicità di dette strade, salvo «la prova contraria della natura della strada e dell'inesistenza di un diritto di godimento da parte della collettività mediante un'azione negatoria di servitù» (Cons St. 5820/18). Nella fattispecie la funzione di raccordo di dette strade, la segnaletica, le opere di urbanizzazione, il servizio urbano di scuolabus etc. sono tutti elementi univoci «per il riconoscimento della qualità di strada comunale all'interno degli abitati ai sensi dell' art. 7, lett. c), l. n. 126 del 1958» e quindi dell’impossibilità di installare detta videosorveglianza. L’onere di provare il carattere privato spettava al ricorrente che non è stato, al contrario del Comune, in grado di assolverlo.
Dicatio ad patriam. Ad ulteriore conferma è stato invocato anche questo peculiare istituto giuridico. Esso è «notoriamente connotato da elementi di fatto che denotino un comportamento del proprietario di un bene che lo mette in modo univoco a disposizione di una collettività indeterminata di cittadini, producendo l'effetto istantaneo della costituzione della servitù di uso pubblico ovvero attraverso l'uso del bene da parte della collettività indifferenziata dei cittadini, protratto per il tempo necessario all'usucapione». Il TAR, invero, nota come anche l’esistenza di sbarre, di una guardiola con un vigilante che consenta l’accesso solo ai residenti ed agli autorizzati non infici la validità di tale conclusione poiché anch’essa rappresenta «una comunità indifferenziata» (Cass. civ.4416/17 e Cons.St.97/17). Ergo l’impugnata ingiunzione era lecita e fondata.
Quale disciplina per la tutela dei dati personali? Stante la finalità di tutela della pubblica sicurezza, la gestione e la tutela dei dati personali raccolti dalle telecamere sarà disciplinata, come sopra detto, dalla Direttiva 2016/680/UE, anziché dal GDPR. Il Comune dovrà predisporre misure di sicurezza per prevenire l’accesso di persone non autorizzate (criptando i dati  etc.), la perdita e la distruzione degli stessi, ma anche che le riprese non autorizzate o che sono relative a dati “scaduti” o non più necessari siano cancellate (misure organizzative). Il Garante della Privacy è stato molto chiaro sul punto «l’illiceità delle riprese comporta non solo l’inutilizzabilità delle registrazioni, ma anche il provvedimento di blocco e divieto di trattamento dei dati», dunque era lecito l’ordine di rimozione ingiunto al ricorrente dal Comune convenuto.

martedì 21 aprile 2020

Nipote va risarcito per la perdita del nonno non convivente

Rileva il vincolo affettivo particolarmente intenso, giammai la convivenza, la quale è misura, ma non requisito indispensabile, per la valutazione della lesione del danno parentale. Questo quanto chiarito dalla Corte di Cassazione, sez. III Civile, con l'ordinanza 8 aprile 2020, n. 7743.

La Corte da continuità ad un recente insegnamento, secondo il quale, nella valutazione del danno non patrimoniale subito dai congiunti per la perdita del parente, rileva  il  vincolo affettivo particolarmente intenso, giammai la convivenza. Se dunque la convivenza non può assurgere a connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l'intimità dei rapporti parentali ovvero a presupposto dell'esistenza del diritto in parola, la stessa, magari, costituisce elemento probatorio utile, unitamente ad altri elementi, a dimostrare l'ampiezza e la profondità del vincolo affettivo che lega tra loro i parenti e la conseguente lesione, determinata dalla morte ingiusta, per determinare, anche, il quantum debeatur.
Con precedente arresto n.21230 del 20/10/2016, la terza Sezione della Cassazione Civile aveva stabilito che "in caso di domanda di risarcimento del  danno non patrimoniale da uccisione, proposta iure proprio dai congiuntidell'ucciso, questi ultimi devono provare la effettività e la consistenza della relazione parentale, rispetto alla quale il rapporto di convivenza non assurge a connotato minimo di esistenza, ma può costituire elemento probatorio utile a dimostrarne l'ampiezza e la profondità, e ciò anche ove l'azione sia proposta dal nipote per la perdita del nonno”. Aveva osservato, infatti, che non è condivisibile limitare la "società naturale", cui fa riferimento l'articolo 29 Costituzione, all'ambito ristretto della sola cd. "famiglia nucleare".
Pertanto, anche il rapporto nonni-nipoti non può essere ancorato alla convivenza, per essere ritenuto giuridicamente qualificato e rilevante, e sarebbe ingiusto escludere automaticamente, nel caso di non convivenza, la  possibilità per tali congiunti di provare in concreto l'esistenza di rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto" (cfr altresì Cass. Sez. 3, n. 29332 del 07/12/2017).
Non sarebbe neppure da scartare la conseguenza opposta secondo la quale, ancorare il risarcimento del danno non patrimoniale da lesione del rapporto parentale alla convivenza tra il congiunto non ricompreso nella cd. famiglia nucleare e la vittima,  potrebbe essere fodero di un automatismo risarcitorio sicuramente da bandire.
(fonte: www.altalex.com)

Dare della “sgallettata” vale una condanna

Dare della “sgallettata” a una donna vale una condanna per diffamazione. Definitiva perciò la condanna di una donna che ha così apostrofato sul proprio blog una giornalista (Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza n. 12460/20; depositata il 20 aprile).

Scenario della vicenda è la Sicilia. Protagoniste dello scontro due donne. La prima scrive un articolo su un sito giornalistico riguardante anche la morte del marito della seconda, e quest’ultima reagisce con uno scritto caustico sul proprio blog, parlando di «giornalista sgallettata con la fissa dello scoop».
Inevitabile lo strascico giudiziario, con la vedova sotto processo per diffamazione
Per i giudici di merito è logica la condanna della donna, viste le espressioni da lei utilizzate on line per additare la giornalista.
La donna però considera l’ottica adottata in Tribunale e in Appello assolutamente erronea, e prova col ricorso in Cassazione a ridimensionare la condotta in discussione, ponendo in discussione «la qualificazione di ‘sgallettata’ utilizzata per descrivere la giornalista» e spiegando di avere solo esercitato il proprio «diritto di critica», avendo la giornalista «scritto un articolo in cui erano riportate notizie non corrette circa il decesso del suo coniuge».
La visione proposta dalla vedova non è condivisa però dai giudici della Cassazione, i quali ribattono che in Appello si è rilevato che «a fronte di un asettico articolo di cronaca, apparso su un quotidiano on line, che non riportava notizie false ma, piuttosto, datate», la vedova ha reagito con uno scritto caustico, con cui la giornalista è stata additata come «sgallettata con la fissa dello scoop».
Evidente l’obiettivo, annotano i giudici: «sminuire e ridicolizzare le qualità professionali e la dignità di giornalista donna in particolare».
Significativa è «la ripetizione, tanto nel titolo che nel corpo dell’articolo, del termine ‘sgallettata’, alludente a “donna che ostenta la propria sensualità in modo sguaiato; che si dimostra eccessivamente disinvolta” (così in ‘Dizionario della lingua italiana De Mauro’)». E la sottolineatura della «fissa dello scoop» lascia emergere «la gratuita attribuzione alla persona offesa di qualità dispregiative atte a metterne in cattiva luce sia il profilo professionale che umano: quello, cioè, di giornalista incline ad un uso spregiudicato delle notizie, riportate in assenza di qualsivoglia doverosa verifica, al solo scopo di captare l’interesse dei lettori».
Legittimo, quindi, parlare di vera e propria diffamazione ai danni della giornalista.

domenica 12 aprile 2020

Dalle Entrate il vademecum sul decreto liquidità

L'Agenzia delle Entrate ha pubblicato sul proprio sito istituzionale il vademecum delle misure fiscali recate dal Decreto Liquidità entrato in vigore il 9 aprile (Qui il vademecum dell’Agenzia delle Entrate del 9 aprile 2020
Si tratta di 12 slide che passano in rassegna - precisandone l'oggetto, i destinatari, il periodo di validità e fornendo alcune note - le seguenti misure:
- sospensione versamenti per imprese e lavoratori autonomi con sede o domicilio nel territorio dello Stato (art. 18);
- non effettuazione delle ritenute d'acconto su redditi di lavoro autonomo, altri redditi e provvigioni (art. 19);
- riduzione degli acconti IRPEF, IRES e IRAP dovuti per l'anno 2020 (art. 20);
- rimessione in termini per i versamenti in scadenza il 16 marzo 2020 (art. 21);
- proroga dei termini di consegna e trasmissione telematica della Certificazione Unica 2020 (art. 22);
- proroga della validità dei certificati di cui all'art. 17-bis c. 5 D.Lgs. 241/97 – DURF (art. 23);
- sospensione dei termini per ottenere i requisiti richiesti per le agevolazioni “prima casa” (art. 24);
- assistenza fiscale a distanza per il modello 730 (art. 25);
- semplificazione del versamento dell'imposta di bollo sulle fatture elettroniche (art. 26);
- cessione gratuita di farmaci ad uso compassionevole (art. 27);
- credito d'imposta per spese di sanificazione e acquisto dei dispositivi di protezione e sicurezza (art. 30).

giovedì 9 aprile 2020

Alcol e droga assunti spontaneamente da vittima: no a violenza sessuale aggravata

No all'aggravante per la violenza sessuale se la vittima degli abusi abbia assunto spontaneamente alcol e droga. Questo è quanto emerge dalla sentenza della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione del 24 marzo 2020, n. 10596.

La fattispecie
Per principio generale accolto dalla dominante giurisprudenza di legittimità, la situazione di approfittamento dell'assunzione di sostanze stupefacenti o alcoliche da parte della vittima, avvenuta per iniziativa della stessa, o comunque per causa non imputabile all'agente, è ritenuta idonea ad integrare il delitto di violenza sessuale. Tra le condizioni di inferiorità psichica o fisica, previste dall'art. 609-bis, comma 2, n. 1, c.p., rientrano anche quelle determinate dalla volontaria assunzione di alcolici o stupefacenti, in quanto anche in tali casi la situazione di menomazione della vittima, a prescindere da chi l'abbia provocata, può essere strumentalizzata per il soddisfacimento degli impulsi sessuali dell'agente (Cass. pen., Sez. III, 13 febbraio 2018, n. 16046).
Tale considerazione, però, non implica la configurabilità dell'aggravante di cui all'art. 609-ter, comma 1, n. 2, c.p. Si ritiene, infatti, che l'uso di sostanze alcoliche o droganti debba essere necessariamente strumentale alla violenza sessuale, ovvero debba essere il soggetto attivo del reato che usa l'alcol o la droga per la violenza, somministrandoli alla vittima. L'uso volontario incide sulla configurabilità della violenza sessuale ma non nella sua forma aggravata (Cass. pen., Sez. III, 19 gennaio 2018, n. 32462).
La decisione
Principio accolto anche dagli ermellini nella sentenza in oggetto, i quali specificano che l'art. 609-ter, ,comma 1, n. 2, c.p., ha riguardo ai fatti di cui all'art. 609-bis commessi con l'uso di armi o sostanze alcoliche o narcotiche o stupefacenti o di altri strumenti o sostanze gravemente lesivi della salute della persona offesa.
Il riferimento ai “fatti commessi con l'uso” e l'accostamento, in via alternativa, delle sostanze alcoliche, stupefacenti alle armi, costituiscono elementi dai quali è ragionevolmente inferibile come, per il legislatore, ai fini dell'aggravante in oggetto, il ricorso a tali sostanze rilevi quale strumento per costringere o indurre la vittima a compiere o subire atti sessuali e, quindi, dia luogo ad una situazione diversa e più grave rispetto a quella in cui l'agente si limiti ad approfittare di una situazione di inferiorità della persona offesa.
Nella fattispecie la persona offesa aveva assunto spontaneamente sostanza stupefacente, fumando uno spinello, cedutogli da altra persona al di fuori di ogni accordo con l'imputato. La persona offesa, al momento degli abusi, era già sotto l'effetto della sostanza stupefacente. Conseguentemente, se la droga era stata assunta dalla vittima senza alcuna istigazione o agevolazione da parte dell'imputato deve escludersi che questi abbia costretto o indotto la prima a compiere o subire atti sessuali con l'uso di sostanze alcoliche o stupefacenti; il reo ha solo approfittato anche dello stordimento della vittima per compiere atti sessuali.

fonte:www.altalex.com

mercoledì 8 aprile 2020

Collare elettrico per l’addestramento del cane: condannato il padrone

Da censurare moralmente e da punire penalmente l’utilizzo del collare elettrico per l’addestramento dei cani. Esemplare la condanna per un uomo, colpevole di avere maltrattato il proprio quadrupede e perciò punito a pagare 5mila euro di ammenda (Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza n. 11561/20; depositata il 7 aprile)

Controllo. A dare il ‘la’ al fronte giudiziario è un servizio di controllo venatorio effettuato dai carabinieri: in quell’occasione viene rilevata la presenza di «un collare su cui erano applicati due elettrodi, privi dei prescritti tappi di copertura e posti a contatto diretto con la pelle del cane», mentre il padrone dell’animale ha in mano un telecomando.
Il quadro è chiaro, e così l’uomo finisce sotto processo perché «l’utilizzo del collare era produttivo di gravi sofferenze per l’animale». E di conseguenza il Tribunale lo ritiene colpevole per «avere detenuto il quadrupede in condizioni non compatibili con la sua natura e produttive di gravi sofferenze», condizioni frutto dell’utilizzo di un collare capace di infliggere al cane «scosse elettriche trasmesse tramite comando a distanza».
Irrilevante, chiariscono i giudici, il richiamo fatto dall’uomo alla finalità dell’uso del collare, cioè l’addestramento del cane.
Collare. Secondo l’uomo, però, la visione tracciata in Tribunale non è corretta. E in questa ottica egli osserva che «ad essere incriminato sarebbe l’utilizzo di un collare elettrico per l’addestramento del proprio cane», a fronte, però, della «assenza di una normativa precisa che consenta di conoscere quali siano le condotte illecite e quelle lecite».
A sostegno di questa tesi, poi, l’uomo richiama anche alcune ordinanze del Tar Lazio che, a suo parere, avrebbero fatto «venire meno il divieto dell’uso del collare elettrico», e aggiunge che non può essere trascurato il fatto che «l’immissione del collare elettrico sul mercato è ad oggi pacificamente consentita».
Per chiudere la propria linea difensiva, infine, l’uomo evidenzia che in questo caso «l’utilizzo del collare aveva una finalità educativa che non può essere confusa con la condotta punita, che deve essere generatrice di gravi sofferenze per l’animale».
Per i giudici della Cassazione, però, la condotta tenuta dall’uomo nei confronti del proprio cane non ha alcuna giustificazione e va punita severamente, poiché ha arrecato sofferenze evidenti all’animale.
In sostanza, «l’utilizzo del collare che produce scosse e impulsi elettrici» comporta inevitabilmente «la detenzione del cane in condizioni incompatibili con la sua natura e produttive di gravi sofferenze», così come previsto dal Codice Penale.
Irrilevante, chiariscono i magistrati, è che «lo strumento venga usato per l’addestramento» dell’animale. Ciò che conta, invece, è che esso «produca gravi sofferenze» per il quadrupede.
Tirando le somme, va punita «una forma di addestramento fondata esclusivamente su uno stimolo doloroso tale da incidere sensibilmente sull’integrità psico-fisica dell’animale». E in questo caso si è potuto appurare che «sul collare vi erano applicati due elettrodi posti a diretto contatto con la pelle dell’animale, privi di tappi di copertura», con conseguente sicuro patimento fisico per il quadrupede, poiché «l’inflizione di scariche elettriche è produttiva di sofferenze e di conseguenze anche sul sistema nervoso dell’animale, in quanto volto ad addestrarlo attraverso lo spavento e il dolore».
A inchiodare l’uomo alle proprie responsabilità, poi, è anche il paletto fissato dalla ‘Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia’, secondo cui «nessun animale da compagnia deve essere addestrato con metodi che possono danneggiare la sua salute ed il suo benessere, in particolare costringendo l’animale ad oltrepassare le sue capacità o forza naturale, o utilizzando mezzi artificiali che causano ferite o dolori, sofferenze ed angosce inutili».

sabato 4 aprile 2020

Piccolo artigiano in crisi: i debiti non giustificano il mancato mantenimento dei figli

Precarietà lavorativa e difficoltà economiche non rendono meno grave la condotta del padre che non contribuisce al mantenimento dei figli. Irrilevante anche il fatto che essi abbiano potuto fare affidamento sul sostegno offerto dai nonni più solidi economicamente.(Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza n. 10422/20; depositata il 20 marzo)
Assistenza. Ricostruita la vicenda, l’uomo – un piccolo artigiano – sotto processo viene ritenuto colpevole, sia primo che in secondo grado, di violazione degli obblighi di assistenza familiare, e viene sanzionato con due mesi di reclusione e 220 euro di multa.
Per i giudici di merito è di facile lettura la condotta tenuta dall’uomo, essendosi sottratto «agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà genitoriale, facendo mancare i mezzi di sussistenza ai figli minori, omettendo di concorrere al loro mantenimento». Più precisamente, all’uomo è stata imposta «la corresponsione di 250 euro al mese in favore dei figli, oltre il pagamento delle spese scolastiche e mediche al 50%», ma egli si è limitato ad effettuare «due soli versamenti per l’importo di 350 euro ciascuno», come dichiarato anche dalla sua ex compagna e madre dei minori, la quale ha spiegato ai giudici che «l’uomo non ha mai versato alcunché per il mantenimento dei figli, al di là di qualche giocattolo nel corso degli incontri protetti».
Fragile, invece, la linea difensiva proposta dall’uomo, il quale ha riferito «di essere rimasto disoccupato nell’anno 2007 e di avere riscosso per gli anni tra il 2008 ed il 2010 uno stipendio mensile di circa 1.000 euro», dovendo però «fare fronte al pagamento dell’affitto e delle spese correnti, nonché a debiti di natura esattoriale e debiti contratti con la banca e con il fratello».
In sostanza, lo stato di bisogno dei minori è nella logica delle cose poiché si tratta di «soggetti che non sono in grado di procacciarsi un reddito proprio», e questo dato non può essere messo in discussione dall’intervento esterno di terze persone – i nonni, in questo caso – che hanno fornito un aiuto economico ai minori.
E per quanto concerne la posizione dell’uomo, «nonostante la precarietà della situazione lavorativa, negli anni compresi tra il 2007 ed il 2010, egli non si è mai trovato in condizioni di indigenza tale da impedirgli in assoluto l’adempimento dei suoi doveri di genitore», osservano i giudici d’Appello.


Debiti. Nel contesto della Cassazione, però, l’uomo continua a puntare sul suo – presunto – “stato di indigenza”, e fa riferimento, per la precisione, alla “documentazione riguardante allegazioni debitorie di natura bancaria, societaria ed espositoria in generale” come dimostrazione delle “ristrettezze” da lui sopportate. E a questo proposito sottolinea che «i debiti riguardavano spese inerenti l’attività di piccolo artigiano all’epoca svolta e non spese personali o addebitabili a un suo comportamento colpevole», e aggiunge che egli, per «fare fronte ai propri improrogabili debiti e sapendo che i figli non erano in stato di bisogno poiché assistiti dai nonni abbienti», ha dovuto «destinare le sue scarne retribuzioni mensili al pagamento rateale dei debiti contratti nel periodo in cui conviveva con la madre dei propri figli».
Per i Giudici del ‘Palazzaccio’, però, le giustificazioni addotte dall’uomo non possono reggere, a fronte dell’accertato «protratto mancato adempimento degli obblighi nei confronti dei figli minori» e tenendo bene a mente che «in materia di violazione degli obblighi di assistenza familiare, la minore età dei discendenti, destinatari dei mezzi di sussistenza, rappresenta in re ipsa una condizione soggettiva dello stato di bisogno, che obbliga i genitori a contribuire al loro mantenimento, assicurando i predetti mezzi di sussistenza». Ciò comporta che il colpevole e punibile inadempimento sussiste «anche quando uno dei genitori ometta la prestazione dei mezzi di sussistenza in favore dei figli (minori o inabili) ed al mantenimento della prole provveda in via sussidiaria l’altro genitore» o, come in questo caso, altri familiari.
Irrilevanti poi le difficoltà economiche lamentate dall’uomo, poiché esse non sono sufficienti per parlare di un vero e proprio stato di indigenza economica e di «una situazione incolpevole di assoluta indisponibilità di introiti sufficienti a soddisfare le esigenze minime di vita» dei figli minori.

venerdì 3 aprile 2020

Pedina l’amante del marito: condannata

Pedinare l’ex amante del proprio marito vale una condanna. Impossibile però parlare di stalking, più logico catalogare quella condotta come molestia (Cassazione, sentenza n. 11198/20, sez. I Penale, depositata il 2 aprile)

Pedinamenti. Riflettori puntati su una donna, Flavia – nome di fantasia – che per diversi mesi, dall’inizio dell’anno alla fine dell’estate, ha pedinato quella che ha scoperto essere l’amante – Daria, nome di fantasia – del marito. Inevitabile il processo, centrato sull’accusa di stalking, e inevitabile la condanna.
Per i giudici di merito è inequivocabile la condotta tenuta da Flavia. Tuttavia, mentre in primo grado la condanna è relativa al reato di stalking, in secondo grado l’imputazione per atti persecutori viene ridimensionata in semplice molestia, e ciò comporta una riduzione della pena, fissata in un mese di arresto.
Per i giudici d’appello non vi è alcun dubbio sul fatto che Flavia ha «ripetutamente molestato Daria, in ragione della relazione sentimentale extraconiugale da quest’ultima allacciata con suo marito» e «a tale scopo l’ha pedinata e le ha inviato messaggi ingiuriosi e minacciosi» per circa otto mesi. Tuttavia, «manca un effettivo nesso causale», aggiungono i giudici, «tra tale condotta e la pretesa alterazione delle abitudini di vita della vittima», nesso che avrebbe permesso di contestare il reato più grave, cioè lo stalking. E a questo proposito viene anche osservato che «il tentativo di suicidio posto in essere da Dario si doveva non alle molestie subite ma alla decisione dell’uomo» di rompere la relazione e riprendere la convivenza coniugale con Flavia.
Turbamento. Nonostante la parziale vittoria in appello, però, Flavia ritiene doveroso ricorrere in Cassazione per mettere in discussione anche la condanna per il reato di molestie. E in questa ottica ella mette sul tavolo, tramite il proprio legale, «le incertezze e le contraddizioni del narrato della vittima, in particolare quanto all’esatta collocazione nel tempo dei pretesi pedinamenti, mentre l’invio dei messaggi è smentito», sostiene, ai tabulati telefonici. Subito dopo Flavia aggiunge anche che comunque i pretesi pedinamenti non hanno interferito con l’altrui vita privata e «difettano del requisito della petulanza», e anche per questo ipotizza l’applicazione della «non punibilità per particolare tenuità del fatto».
La visione difensiva proposta dalla donna non convince però i giudici della Cassazione, che ne confermano la condanna per molestie e la pena, cioè un mese di arresto.
I magistrati tengono a sottolineare che “il reato di molestia o disturbo alle persone”, come previsto dal Codice Penale, «può essere integrato anche da una condotta consistente nel seguire insistentemente la persona offesa o il suo veicolo, in modo da interferire nella sfera di libertà di lei e da arrecarle fastidio o turbamento». Allo stesso tempo, però, «il turbamento non va confuso con più gravi situazioni, materiali o morali, quali lo stato di ansia o paura, il timore per l’incolumità propria o altrui e l’alterazione delle abitudini di vita» che consentono invece di parlare del «più grave reato di atti persecutori».
In questo caso, gli insistiti pedinamenti messi in atto da Flavia nei confronti di Daria, pur se limitati ad un ambito temporale ristretto, sono stati comunque significativa e «il loro carattere invadente e infastidente» è palese.
Proprio quest’ultimo dettaglio permette, infine, di escludere «l’applicazione della causa di non punibilità» prevista dall’articolo 131-bis del Codice Penale, viste «l’insistenza e la durata delle molestie» e preso atto del danno morale arrecato a Daria.

giovedì 2 aprile 2020

Emergenza Coronavirus: legittimo sospendere gli incontri tra padre e figlio minore

Il Tribunale di Bari ha ritenuto legittimo sospendere gli incontri tra padre e figlio minore residenti in due Comuni diversi, al fine di rispettare le disposizioni volte a contenere il contagio da COVID-19.
Istanza di sospensione degli incontri. La madre, convivente con il figlio minore, domanda al giudice la sospensione degli incontri tra quest’ultimo con il padre, residente in un comune diverso.
Utilizzo di strumento tecnologici. Il Tribunale di Bari rileva che gli incontri tra figli minori e genitori che dimorano in due comuni diversi non sono in linea con le condizioni di sicurezza previste dai d.p.c.m del 9 marzo 20202, dell’11 marzo 20202, del 21 marzo 2020 e di quello del 22 marzo 2020.
Infatti, posto che lo scopo della normativa è la limitazione dei movimenti sul territorio (compresi gli spostamenti da un comune ad un altro) al fine di contenere il contagio, a questa devono attenersi tutti i cittadini, tra cui i minori.
Inoltre, il Tribunale osserva che non è verificabile se, durante gli incontri con il padre, il minore sia stato esposto a rischio sanitario.
Poiché, nell’emergenza in corso, il diritto-dovere dei genitori e dei figli minori di incontrarsi è recessivo rispetto alle limitazioni alla circolazione delle persone e rispetto al diritto alla salute (art. 32 Cost.), il Tribunale accoglie l’istanza ritenendo opportuno interrompere fino al 3 aprile 2020 le visite paterne, stabilendo l’opportunità di esercitare il diritto di visita attraverso lo strumento della videochiamata o Skype.

La prassi adottata dall’INPS per non pagare gli arretrati

La notizia potrebbe suonare come un vero e proprio scoop, eppure il modus operandi scelto dall’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale per liquidare le somme arretrate rappresenta ormai una routine che va avanti da anni e, ancora una volta, a pagarne le conseguenze è la categoria dei pensionati.
Stiamo parlando della ricostituzione della pensione, uno strumento che consente la verifica e l’eventuale modifica dell’assegno mensile sulla base di circostanze in grado di aumentarne l’importo, oppure di ridurlo. La ricostituzione può avvenire sia d’ufficio, che su istanza dell’interessato e da essa possono derivare somme a credito o a debito. Quanto liquidato a titolo di arretrati dev’essere corrisposto tenendo conto del termine di prescrizione quinquennale ex art. 38 d.l. n. 98/2011, convertito con modificazioni nella Legge n. 111/2011 (norma che ha innovato il previgente termine decennale). Esistono diverse forme di ricostituzione, o più genericamente, di domande che portano al riconoscimento di benefici economici in favore dei pensionati. Mentre per la ricostituzione contributiva tutto ruota attorno all’identificazione, o alla diversa valutazione della contribuzione (obbligatoria o figurativa) versata o maturata in data anteriore a quella di decorrenza della pensione, le richieste presentate per fatti sopravvenuti possono riguardare una variazione del reddito (personale o coniugale) tale da giustificare la concessione di misure come l’incremento al minimo, la maggiorazione sociale, gli assegni per il nucleo familiare, la quattordicesima, l’assegno sociale, ecc..
Domanda di «ricostituzione reddituale per quattordicesima». Qualsiasi prestazione legata al reddito e non liquidata direttamente dall’INPS può essere richiesta, o meglio, deve essere richiesta dal pensionato per essere ottenuta. Per fare un esempio concreto, l’avente diritto alla quattordicesima mensilità che non ne abbia riscontrato il pagamento, non deve attenderla fiduciosamente, con l’idea che l’INPS pagherà prima o poi, ma deve rivolgersi ad un patronato per presentare idonea domanda di «ricostituzione reddituale per quattordicesima». Ma cosa accade se lo stesso pensionato, sempre nel rispetto delle soglie reddituali stabilite dalla legge, oltre a non aver ricevuto il pagamento della quattordicesima per l’anno in corso non lo abbia ottenuto neanche gli anni passati? L’INPS liquida esclusivamente l’ultima spettanza o, in caso di benefici mensili, vi provvede riconoscendo gli arretrati a far data dalla domanda, omettendo di saldare il dovuto nel rispetto della prescrizione quinquennale. In soldoni ciò significa che, nonostante il pensionato abbia diritto a recuperare quanto gli appartiene entro 5 anni dall’istanza, l’INPS non vi provvede automaticamente neppure quando sia il medesimo interessato a sollecitarne la corresponsione. Ma c’è di più, sulla lettera recante la comunicazione di accoglimento della pratica, che l’istituto previdenziale trasmette al beneficiario, non si legge alcuna motivazione o riferimento in merito all’esistenza e alla possibilità di procedere al recupero delle restanti somme. Tutto questo, nel pieno possesso della buona fede nei confronti dell’amministrazione pubblica, non può che portare il pensionato ad accettare la decisione dell’Ente, nella convinzione che quanto liquidato corrisponda a quanto dovuto. Con questa fantomatica certezza, o con la superficialità e la distrazione riconducibili al fatto che molto spesso, trattandosi di cittadini anziani, non si è neppure a conoscenza della reiterata e pregressa mancata percezione di emolumenti invece spettanti, la vicenda tende a chiudersi con un solo riconoscimento. Così, proseguendo con l’esempio fatto per la quattordicesima, facendo due calcoli, il pensionato rischierebbe di non percepire ben 2.520,00 euro di arretrati. A questo punto, solo se l’avente diritto dovesse pensar bene di mettere in dubbio la liquidazione parziale dell’INPS potrà finalmente definire la faccenda rivolgendosi a chi di competenza per accertare l’esatta misura del credito maturato, dunque nuovamente al patronato, oppure ad un legale, in entrambi i casi con il protrarsi delle attese per l’assistito e l’inesorabile prescrizione di diverse mensilità, dal momento che si tratterà di trasmettere un’istanza ex novo e non un’integrazione della prima domanda. Il cittadino, in particolar modo quello della terza età, dovrebbe godere della massima tutela rispetto all’operato della pubblica amministrazione, della previdenza e dell’assistenza, ma evidentemente così non è. Un pensionato solo, non in grado di badare autonomamente ai propri interessi economici, così come un pensionato che si rivolga ad un consulente o ufficio di patronato non all’altezza va incontro inevitabilmente a delle perdite monetarie che talvolta rischiano di essere assai rilevanti. Abbiamo fatto l’esempio della quattordicesima, ma in altri casi è possibile ragionare addirittura nell’ottica di centinaia di euro per ogni rateo mensile (si pensi ad una integrazione totale, o ad un assegno sociale non erogato per la presunta sussistenza di altri redditi nel frattempo venuti meno).
Ma qual è il pretesto tacito che utilizza l’Ente di previdenza per non pagare direttamente tutto quanto dovuto al pensionato? L’INPS, contrariamente a quanto si possa immaginare, non elabora le competenze non rese negli ultimi anni poiché non tende a ricostruire anno per anno la situazione reddituale dell’avente diritto, ovvero è come se non avesse contezza dei redditi dei pensionati. Un paradosso da far cadere le braccia. Quello che appare scontato a tutti, per l’INPS non lo è. Eppure è lo stesso ente che paga la rendita, lo stesso che emette il CUD relativo alla pensione, lo stesso che riceve le dichiarazioni RED e lo stesso che, come si legge nella nota circolare n. 62/2009 della Direzione centrale del medesimo Istituto Previdenziale (nonché per espresso richiamo alla Legge n. 412/1991) «procede annualmente alla verifica delle situazioni reddituali dei pensionati incidenti sulla misura o sul diritto alle prestazioni pensionistiche». Chi altri meglio dell’INPS può essere a conoscenza in maniera capillare ed analitica della situazione reddituale dei pensionati? Nonostante tutto, per vedersi riconoscere il diritto alla corresponsione integrale delle somme arretrate non è sufficiente inoltrare una domanda specifica di ricalcolo, ma è necessario procedere all’inserimento telematico dei propri redditi (personali e coniugali), confermando esplicitamente l’assenza di altri redditi per tutto il quinquennio precedente la data dell’invio. Seppure questo possa sembrare un passaggio fattibile e non particolarmente gravoso, tanto per il patronato che riporta i dati, quanto per il pensionato che si impegna a darne prova, a causa delle diverse ragioni anzidette, si rischia molto spesso di trascurare questo step semplice, ma fondamentale. Infatti, è proprio questa mancata precisazione che l’impiegato dell’INPS preposto all’istruttoria della pratica utilizza come pretesto, provvedendo ad un accoglimento sommario, ma omettendo di considerare la condizione reddituale degli ultimi cinque anni, benché agevolmente accessibile. Inoltre, peggio ancora, non si dà mai notizia della possibilità di riacquisire le altre somme tramite la manifesta puntualizzazione dei redditi. Ebbene sì, perché per percepire gli arretrati non bisogna predisporre una domanda diversa rispetto a quella ordinaria, poiché l’INPS riconosce questo diritto del pensionato esclusivamente dietro chiara menzione, ad esempio, dell’assenza di altri redditi (oltre a quelli derivanti da pensione) per ogni anno trascorso. È così che sulla base di una richiesta univoca non è contestualmente riconosciuto, insieme alla prestazione corrente, anche l’intero ammontare cui il pensionato ha diritto, senza neppure fornire le giuste informazioni al creditore. Non va dimenticato che la figura del creditore, in tutti questi casi, coincide con un pensionato che per errore o negligenza di un sistema previdenziale perverso, non si è visto corrispondere somme di denaro qualificabili alla stregua di sussidi assistenziali o para-assistenziali in favore di nuclei familiari certamente non abbienti. Anziché ricevere protezione e maggior garanzia, ci si ritrova al cospetto dell’adozione di una prassi che lascia basiti! Una procedura dai potenziali (e reali) effetti fin troppo sottovalutati, ma non dalle casse dell’INPS! Nell’attesa di una presa di coscienza, del mutamento di questa rotta nascosta, silenziosa, non manifestamente irriverente, ma a buon mercato e capace di illudere attraverso approvazioni parziali e pagamenti incompleti con l’intento di voler favorire uno Stato che si fa irrispettosamente furbo proprio con i cittadini più deboli, bisogna stare in guardia e non commettere l’errore di chi ha ormai detto addio alla possibilità di recuperare tutti gli arretrati a causa del decorso lento, ma inesorabile, del tempo.

Legittimo il licenziamento fondato su comportamenti illeciti documentati da un investigatore privato

Tanto ha affermato il Tribunale di Padova in un’ordinanza ex lege Fornero con cui ha rigettato l’impugnativa di licenziamento disciplinare.
(Tribunale di Padova, sez. Lavoro, ordinanza depositata il 4 ottobre 2019)
Il caso. Un dipendente assunto come tecnico sviluppatore nell’ambito di apertura di nuovi punti vendita facenti capo alla società datrice di lavoro e collocato – da solo - all’interno di un ufficio distaccato dotato di autonomo accesso, non sottoposto perciò al controllo diretto di alcun superiore gerarchico e tenuto al rispetto di un orario che doveva documentare mediante marcamento del badge o, in caso di dimenticanza dello stesso, mediante attestazione via internet al gestionale aziendale, previa contestazione disciplinare, è stato licenziato per aver posto in essere condotte gravemente rilevanti sotto il profilo disciplinare.
La genesi. Durante un controllo di routine, un addetto all’ufficio sicurezza aziendale si era recato presso la sede lavorativa del ricorrente, in orario di lavoro, non rinvenendo nessuno e provvedendo a comunicare la circostanza alla direzione. La società, verificato dal planning settimanale e dall’esame delle timbrature che il lavoratore avrebbe dovuto essere in servizio, ha incaricato un’agenzia investigativa, che, nel corso di osservazione durata quattordici giornate lavorative, ha accertato come il dipendente si sia allontanato dal posto di lavoro per ragioni squisitamente personali (colazioni al bar, incontri con soggetti estranei alla sfera lavorativa, soste in punti vendita per acquisti personali, visite presso la propria abitazione dove si stava eseguendo una ristrutturazione), con cadenza giornaliera, documentando tali fatti con fotografie.
La questione dirimente. Nella non contestazione delle condotte contestate da parte del ricorrente, l’oggetto della controversia è se l’impiego di personale dell’agenzia investigativa costituisca ipotesi di utilizzo di strumenti di controllo a distanza dei lavoratori ex art. 4 St. Lav. o meno, con le conseguenti ricadute giuridiche circa l’utilizzabilità dei risultati.
Le premesse giuridiche. Per dare risposta al quesito, il Tribunale ha ricostruito il quadro normativo alla luce della giurisprudenza nazionale e della Corte EDU, chiarendo che:
- l’art. 4 St. Lav. riguarda i controlli cd. difensivi che il datore di lavoro ponga in essere tramite impianti tecnologici stabilmente installati, che effettuano un monitoraggio costante ed indiscriminato dell’attività lavorativa e che postulano – ai fini dell’utilizzo delle risultanze - il preventivo accordo sindacale;
- l’art. 3 St. Lav. regolamenta l’ipotesi di utilizzo di personale addetto alla vigilanza dell’attività lavorativa e richiede che il datore di lavoro comunichi i relativi nominativi ai lavoratori interessati.
Il diritto vivente. La giurisprudenza ha fornito una lettura estensiva dell’art. 3 St. Lav., stabilendo che il divieto di controllo occulto dell’attività svolta al di fuori dei locali aziendali non opera laddove il ricorso ad investigatori privati sia finalizzato alla verifica di comportamenti che possano integrare condotte illecite di natura civile, amministrativa o penale e non solo violazione degli obblighi contrattualmente assunti.
Posto che, nel caso di specie, le condotte del ricorrente sono sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 640 del codice penale, deve concludersi per la legittimità dell’operato aziendale, che, proprio al fine di verificare se il dipendente stesse ponendo in essere comportamenti truffaldini ai suo danni, ha incaricato agenti investigativi privati.
Le conclusioni. Ad avviso del Tribunale, quindi, l’ipotesi di controllo effettuato non rientra nella previsione dell’art. 4 St. Lav. (difettando tanto il requisito della stabile installazione dei dispositivi quanto quello dell’indistinta platea dei lavoratori controllati), bensì in quella dell’art. 3, con la precisazione che, secondo quanto precisato dalla Corte EDU, il diritto alla privacy del dipendente è recessivo di fronte alla necessità di accertare la commissione di illeciti penali ai suoi danni, purché lo strumento utilizzato sia proporzionato.
Il licenziamento è fondato. Ritenuto, quindi, che il ricorso all’agenzia di investigazione privata sia proporzionato rispetto alla condotta illecita da accertare, considerato altresì che l’anomala assenza del dipendente dal luogo di lavoro di lavoro durante l’accesso dell’addetto all’Ufficio sicurezza aziendale e il successivo controllo incrociato tra planning settimanale e marcature del badge hanno offerto una base giustificativa oggettiva a fondamento delle successive verifiche, la conseguenza è che le fotografie scattate dagli investigatori sono utilizzabili in giudizio, così fornendo la sufficiente prova della fondatezza degli illeciti disciplinari contestati.
Reputando, altresì, la proporzione tra sanzione e fatti accertati – particolarmente gravi, il ricorso è stato respinto.

Espulsione per lo straniero condannato: irrilevante il legame con due figli minorenni

L’avere due figli minorenni, presenti anch’essi in Italia con la madre, non è elemento sufficiente per mettere in discussione l’espulsione dello straniero irregolare destinato al carcere per via di una condanna definitiva. Pur a fronte dell’importante richiamo difensivo alla tutela della unità familiare , i giudici ritengono decisivo il fatto che i figli non siano cittadini italiani (Cassazione, sentenza n. 10846, sez. I Penale, depositata il 30 marzo 2020).

Espulsione. Pomo della discordia è il provvedimento con cui il magistrato di sorveglianza ha ufficializzato l’espulsione di uno straniero irregolare a titolo di sanzione sostitutiva della detenzione prevista a causa di una condanna definitiva. A confermare quel provvedimento è anche il Tribunale di sorveglianza, osservando che la condizione di paternità di due figli minorenni non è ostativa all’espulsione dello straniero, poiché i due minori difettano del requisito della cittadinanza italiana .
Per chiudere il cerchio, comunque, viene anche osservato che in presenza di eventuali gravi motivi connessi con lo sviluppo psico-fisico dei minori soggiornanti nel territorio nazionale, tenuto conto dell’età e delle condizioni di salute degli stessi, il familiare avrebbe potuto chiedere e ottenere dal Tribunale per i minorenni, seppure per un periodo determinato, l’autorizzazione all’ingresso o alla permanenza sul territorio .
Cittadinanza. L’ultima carta a disposizione del cittadino straniero è il ricorso in Cassazione, ricorso centrato sul diritto di mantenere saldi ed effettivi legami familiari con i propri figli .
In particolare, il legale osserva che il suo cliente ha dimostrato il rapporto di effettiva convivenza intrattenuto con una signora, regolarmente soggiornante in Italia, e con i figli avuti da costei , e ciò comporta in caso di esecuzione del provvedimento di espulsione, una grave lesione del diritto all’unità familiare, tutelato a livello costituzionale e sovranazionale , diritto che riguarda non solo lo straniero ma anche i suoi figli.
Per i giudici del ‘Palazzaccio’, però, va ricordato che si può mettere in discussione l’espulsione a fronte di stranieri conviventi con parenti entro il secondo grado o con il coniuge, di nazionalità italiana. Rilevano, quindi, i legami familiari, con chiaro riferimento al concetto di ‘nazionalità’ che deve intendersi coincidente con quello di ‘cittadinanza’.
Ampliando poi l’orizzonte, viene anche ricordato che «non può effettuarsi alcun giudizio di comparazione tra la situazione dello straniero coniugato con altro straniero e dello straniero coniugato con un cittadino italiano».
Logico, quindi, affermare che il diritto all’unità familiare riguarda gli stranieri legati con prossimi congiunti non solo effettivamente conviventi, ma, soprattutto, aventi cittadinanza italiana, e questa precisazione riguarda anche il vincolo parentale con figli minorenni ma, come in questo caso, non cittadini italiani.

Detenzione sospetta di frutta: colore e freschezza rendono legittimo l’arresto

Beccati a trasportare frutta – uva, per la precisione – rubata. Per i due ladri scatta l’arresto, legittimo poiché avvenuto in quasi flagranza del reato, certificata anche dalla freschezza del prodotto (Cassazione, sentenza n. 11000/20, sez. V Penale, depositata il 1° aprile).

Trasporto. Scenario della vicenda è la campagna siciliana. Lì due uomini vengono fermati mentre trasportano frutta rubata, e vengono prontamente arrestati. Per gli uomini della polizia giudiziaria è difatti evidente la quasi flagranza del reato, come ammesso anche da uno dei due ladri.
A sorpresa, però, l’arresto non viene convalidato in Tribunale, mancando, secondo il giudice, i requisiti della ‘quasi flagranza’.
A impugnare questa decisione è il Procuratore, che presenta ricorso in Cassazione e sostiene sia errata la lettura data in Tribunale. A questo proposito, egli ritiene vi siano tutti i presupposti per parlare di “quasi flagranza”, soprattutto tenendo presenti “la gravità della condotta e la pericolosità dei soggetti fermati (con numerosi precedenti penali)”, la circostanza che l’arresto intervenne subito dopo il fatto – come da ammissione di uno dei due indagati –, il titolo di reato e «l’aggravante dell’esposizione alla pubblica fede nel caso di frutti pendenti».
Controllo. A smentire il Tribunale provvede la Cassazione, accogliendo il ricorso proposto dal Procuratore e sancendo che «l’arresto fu legittimamente eseguito», trovandosi di fronte a una situazione di quasi flagranza del reato. Per i giudici, difatti, non si può ignorare che l’arresto ha riguardato «due persone che si erano rese esecutrici del furto di uva» che si presentava ancora verde e fresca. Questo dettaglio – unitamente alla presenza di strumenti adoperabili per l’operazione – rende palese «l’immediatezza del controllo della polizia giudiziaria rispetto alla condotta» dei due presunti ladri.
Irrilevante, invece, è ritenuta la circostanza che «si sia operato anche sulla base delle dichiarazioni di uno dei due fermati», poiché, osservano i giudici, «esse intervennero senza ingenerare alcuna soluzione di continuità, contribuendo nell’immediatezza a definire la natura della merce che già le modalità di trasporto ne avevano reso più che sospetta la detenzione». In sostanza, «la dichiarazione è stata resa dallo stesso autore del reato, trovato in possesso della cosa per sua stessa ammissione appena rubata».
Illogico, quindi, «non riconoscere lo stato di quasi flagranza delle persone tratte in arresto, essendo state queste trovate subito dopo la commissione del reato — da uno dei due pacificamente ammessa a fronte dell’evidenza della refurtiva trasportata — in possesso di ingente quantitativo di uva» e senza alcuna «giustificazione neppure in ordine alle ragioni del trasporto, così da far ritenere altamente probabile che immediatamente prima i due soggetti si fossero resi artefici del reato denunciato».
Senza dimenticare, poi, «la circostanza della esposizione alla pubblica fede», poiché tale «aggravante è configurabile nel caso di cose esposte alla pubblica fede per fatto umano o per condizione naturale, non essendo necessariamente richiesta la volontà del proprietario o possessore di esporre il bene alla pubblica fede, che può derivare anche da una condizione originaria della cosa e non dipendere dall’opera dell’uomo», come nel caso della frutta.

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