venerdì 3 aprile 2020

Pedina l’amante del marito: condannata

Pedinare l’ex amante del proprio marito vale una condanna. Impossibile però parlare di stalking, più logico catalogare quella condotta come molestia (Cassazione, sentenza n. 11198/20, sez. I Penale, depositata il 2 aprile)

Pedinamenti. Riflettori puntati su una donna, Flavia – nome di fantasia – che per diversi mesi, dall’inizio dell’anno alla fine dell’estate, ha pedinato quella che ha scoperto essere l’amante – Daria, nome di fantasia – del marito. Inevitabile il processo, centrato sull’accusa di stalking, e inevitabile la condanna.
Per i giudici di merito è inequivocabile la condotta tenuta da Flavia. Tuttavia, mentre in primo grado la condanna è relativa al reato di stalking, in secondo grado l’imputazione per atti persecutori viene ridimensionata in semplice molestia, e ciò comporta una riduzione della pena, fissata in un mese di arresto.
Per i giudici d’appello non vi è alcun dubbio sul fatto che Flavia ha «ripetutamente molestato Daria, in ragione della relazione sentimentale extraconiugale da quest’ultima allacciata con suo marito» e «a tale scopo l’ha pedinata e le ha inviato messaggi ingiuriosi e minacciosi» per circa otto mesi. Tuttavia, «manca un effettivo nesso causale», aggiungono i giudici, «tra tale condotta e la pretesa alterazione delle abitudini di vita della vittima», nesso che avrebbe permesso di contestare il reato più grave, cioè lo stalking. E a questo proposito viene anche osservato che «il tentativo di suicidio posto in essere da Dario si doveva non alle molestie subite ma alla decisione dell’uomo» di rompere la relazione e riprendere la convivenza coniugale con Flavia.
Turbamento. Nonostante la parziale vittoria in appello, però, Flavia ritiene doveroso ricorrere in Cassazione per mettere in discussione anche la condanna per il reato di molestie. E in questa ottica ella mette sul tavolo, tramite il proprio legale, «le incertezze e le contraddizioni del narrato della vittima, in particolare quanto all’esatta collocazione nel tempo dei pretesi pedinamenti, mentre l’invio dei messaggi è smentito», sostiene, ai tabulati telefonici. Subito dopo Flavia aggiunge anche che comunque i pretesi pedinamenti non hanno interferito con l’altrui vita privata e «difettano del requisito della petulanza», e anche per questo ipotizza l’applicazione della «non punibilità per particolare tenuità del fatto».
La visione difensiva proposta dalla donna non convince però i giudici della Cassazione, che ne confermano la condanna per molestie e la pena, cioè un mese di arresto.
I magistrati tengono a sottolineare che “il reato di molestia o disturbo alle persone”, come previsto dal Codice Penale, «può essere integrato anche da una condotta consistente nel seguire insistentemente la persona offesa o il suo veicolo, in modo da interferire nella sfera di libertà di lei e da arrecarle fastidio o turbamento». Allo stesso tempo, però, «il turbamento non va confuso con più gravi situazioni, materiali o morali, quali lo stato di ansia o paura, il timore per l’incolumità propria o altrui e l’alterazione delle abitudini di vita» che consentono invece di parlare del «più grave reato di atti persecutori».
In questo caso, gli insistiti pedinamenti messi in atto da Flavia nei confronti di Daria, pur se limitati ad un ambito temporale ristretto, sono stati comunque significativa e «il loro carattere invadente e infastidente» è palese.
Proprio quest’ultimo dettaglio permette, infine, di escludere «l’applicazione della causa di non punibilità» prevista dall’articolo 131-bis del Codice Penale, viste «l’insistenza e la durata delle molestie» e preso atto del danno morale arrecato a Daria.

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