sabato 27 luglio 2019

Il tempo per indossare e dismettere la divisa da infermiere deve essere retribuito

La Corte di cassazione civile con ordinanza n. 17635 del 1 luglio 2019 ha stabilito che le attività di vestizione/svestizione compiute da infermieri dipendenti di una ASL attengono a comportamenti integrativi della obbligazione principale e funzionali al corretto espletamento dei doveri di diligenza preparatoria; - trattasi di attività che non sono svolte nell'interesse dell'Azienda ma dell'igiene pubblica e, come tali, esse devono ritenersi implicitamente autorizzate da parte dell'Azienda stessa; - per il lavoro all'interno delle strutture sanitarie, anche nel silenzio della contrattazione collettiva integrativa, il tempo di vestizione e svestizione dà diritto alla retribuzione, essendo tale obbligo imposto dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene riguardanti sia la gestione del servizio pubblico sia la stessa incolumità del personale addetto.
Svolgimento del processo
1. con sentenza n. 644/2014, pubblicata in data 3 luglio 2014, la Corte d'Appello di L'Aquila confermava la decisione del Tribunale di Chieti che aveva accolto la domanda proposta dagli odierni intimati indicati in epigrafe, tutti dipendenti dell'ASL 2 (Omissis) con la qualifica di infermieri, e riconosciuto in loro favore il diritto alla retribuzione del tempo impiegato per indossare e dismettere la divisa, trattandosi di attività obbligatoria, accessoria e propedeutica alla prestazione di lavoro;
1.1. rilevava la Corte territoriale che, in punto di fatto, non fosse contestato che il personale infermieristico doveva necessariamente indossare e dismettere la divisa di lavoro (camice e mascherina protettiva), per intuibili ragioni di igiene, negli stessi ambienti dell'Azienda - e non ovviamente da casa - prima dell'entrata e dopo l'uscita dai relativi reparti, rispettivamente, prima e dopo i relativi turni di lavoro;
1.2. richiamava, poi, i principi affermati da questa Corte secondo i quali ove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo per indossare la divisa stessa (e quindi anche presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro) la relativa attività fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell'attività lavorativa, e come tale non deve essere retribuita, mentre se tale operazione è diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina tali tempo e luogo, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito (citava, al riguardo, Cass. n. 19358/2010; Cass. n. 15492/2009; Cass. n. 15734/2003);
1.3. riteneva che i principi generali ricavabili dalle norme interne, di ispirazione comunitaria, poste dal d.lgs. n. 661/2003, sorreggessero a pieno l'approdo giurisprudenziale per cui il 'tempo divisa' costituisce lavoro effettivo (retribuibile) tutte le volte in cui risulta essere eterodiretto dal datore di lavoro, che dirige ed organizza, tra le altre, anche le modalità di esecuzione di tale operazione: in tal caso l'esatto adempimento preteso, anche in via implicita, dal potere datoriale non riguarda soltanto l'attività lavorativa in senso stretto, ma anche tutte quelle operazioni complementari o strumentali a quell'attività;
1.4. sottolineava il dato che, nella presente fattispecie, gli indumenti di lavoro adottati fossero specifici e ben caratterizzati così da escludere che potessero essere indossati anche all'esterno dell'ambito lavorativo e da far ritenere, al contrario, che l'atto di vestizione costituisse lavoro effettivo e desse diritto a retribuzione;
1.5. precisava che l'incombente, ancorché correlato alla fase preparatoria, non fosse rimesso alla libertà del lavoratore, tanto che il datore poteva rifiutare la prestazione lavorativa senza di esso;
1.6. il tempo impiegato era dunque, strettamente funzionale all'esecuzione della prestazione lavorativa de qua ed integrava un'attività costituente corretto adempimento di un obbligo nascente dal rapporto di lavoro;
1.7. correttamente, pertanto, il giudice di primo grado ne aveva previsto la retribuibilità;
1.8. riteneva che la quantificazione del tempo impiegato dai lavoratori appellati per anticipare, prima dell'inizio del turno, e posticipare, a fine turno, la timbratura del cartellino al fine di potere completare l'orario previsto, fosse stata in modo attendibile valutata equitativamente dal primo giudice nella misura di circa 15 minuti per la vestizione ed altrettanti per la svestizione, evidenziando, in ogni caso, che la stessa non fosse stata contestata dalla parte appellante, se non in modo generico ed indeterminato;
1.9. considerava, infine, infondata l'eccezione di inammissibilità delle domande dei ricorrenti per la mancata impugnazione del regolamento aziendale disciplinante l'orario di lavoro, non ravvisando alcun rapporto di propedeuticità tra tale impugnazione e le rivendicazioni di cui al giudizio;
2. per la cassazione di tale decisione ha proposto ricorso l'ASL, affidando l'impugnazione a quattro motivi;
3. le parti intimate non hanno svolto attività difensiva;
4. l'ASL ricorrente ha presentato istanza di rimessione della causa alle Sezioni unite ex art. 376 e 139 dip. att. c.p.c..
Motivi della decisione
Considerato che:
1. con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 6 R.D.L. 5 marzo 1923 numero 692, dell'art. 10 del R.D. 10 settembre 1923, n. 1955, dell'art. 2, comma 2, del D.L.vo 30 marzo 2001, n. 165 e dell'art. 2, comma 1, della direttiva UE 23/11/1993 n. 98/104/CE, dell'art. 1, comma 2, lett. a), del d.lgs. 8 aprile 2003 numero 66, dell'art. 18 del c.c.n.l. normativo 1994-1997 economico 1994-1995, comparto sanità 1/9/1975; censura la sentenza impugnata per aver qualificato il tempo occorrente per la vestizione come strettamente funzionale all'esecuzione della prestazione e costituente corretto adempimento di un obbligo nascente dal rapporto di lavoro e per non aver applicato correttamente i principi enunciati da questa Corte in ordine alla etero-direzione della prestazione di vestizione e svestizione preparatoria dell'adempimento della prestazione lavorativa; deduce che l'elemento qualificante la eterodirezione è la determinazione da parte del datore di lavoro delle modalità e della tempistica dell'esecuzione e che nella specie era mancata la prova dell'esistenza di puntuali disposizioni dell'Azienda ricorrente che imponessero ai lavoratori determinate modalità di effettuazione delle operazioni vestizione e svestizione;
2. con il secondo motivo la ricorrente denuncia omesso esame circa l'esistenza di un obbligo in capo ai resistenti di indossare e dismettere l'abbigliamento da lavoro prima dell'inizio del turno ordinario e dopo la fine dello stesso ed omesso esame circa la mancata prova dell'effettivo svolgimento degli stessi di tali attività nei su citati spazi temporale;
3. con il terzo motivo la ricorrente denuncia omesso esame in ordine all'eccepita violazione ed erronea applicazione della normativa anche contrattuale in materia di lavoro straordinario e rileva che le attività aggiuntive, riconosciute retribuibili dalla sentenza, dovevano essere qualificate come lavoro straordinario, in quanto eccedenti l'orario ordinario come previsto dal contratto collettivo; rileva che la gestione del lavoro straordinario nel pubblico impiego è, tuttavia, soggetta alla necessità di specifica autorizzazione;
4. con il quarto motivo la ricorrente denuncia erronea e/o insufficiente motivazione in ordine alla quantificazione del tempo occorrente per la materiale effettuazione delle operazioni di vestizione oggetto della controversia; rileva che la sentenza impugnata non evidenzia alcun elemento oggettivo cui ancorare in complessivi 15 minuti la misura del tempo occorrente per l'effettuazione delle operazioni di cambio camice;
5. i primi tre motivi di ricorso, da trattarsi congiuntamente in quanto intrinsecamente connessi, sono infondati;
6. in questa sede va data continuità ai precedenti specifici di questa Corte (v. Cass. 11 febbraio 2019, n. 3901; Cass. 24 maggio 2018, n. 12935; Cass. 22 novembre 2017, n. 27799) nei quali si è affermato che: - le attività di vestizione/svestizione attengono a comportamenti integrativi della obbligazione principale e funzionali al corretto espletamento dei doveri di diligenza preparatoria; - trattasi di attività che non sono svolte nell'interesse dell'Azienda ma dell'igiene pubblica e, come tali, esse devono ritenersi implicitamente autorizzate da parte dell'Azienda stessa; - per il lavoro all'interno delle strutture sanitarie, anche nel silenzio della contrattazione collettiva integrativa, il tempo di vestizione e svestizione dà diritto alla retribuzione, essendo tale obbligo imposto dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene riguardanti sia la gestione del servizio pubblico sia la stessa incolumità del personale addetto;
6.1. tali affermazioni non si pongono in contrasto con il principio di cui a Cass. 7 giugno 2012, n. 9215, secondo cui, nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo necessario a indossare l'abbigliamento di servizio ('tempo-tuta') costituisce tempo di lavoro soltanto ove qualificato da eterodirezione, in difetto della quale l'attività di vestizione rientra nella diligenza preparatoria inclusa nell'obbligazione principale del lavoratore e non dà titolo ad autonomo corrispettivo (principio ribadito anche da Cass., sez. Un., 16 maggio 2013, n. 11828);
6.2. ed infatti il più recente orientamento rappresenta uno sviluppo del precedente indirizzo (del tutto in linea con il principio) ed una integrazione della relativa ricostruzione, ponendo l'accento sulla funzione assegnata all'abbigliamento, nel senso che l'eterodirezione può derivare dall'esplicita disciplina d'impresa ma anche risultare implicitamente dalla natura degli indumenti - quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell'abbigliamento - o dalla specifica funzione che devono assolvere e così dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene riguardanti sia la gestione del servizio pubblico sia la stessa incolumità del personale addetto (si vedano anche Cass. 28 marzo 2018, n. 7738 e Cass. 26 gennaio 2016, n. 1352);
6.3. pur con definizioni non sempre coincidenti, essendosi fatto riferimento, in alcuni casi al concetto di 'eterodirezione implicita', in altri all'obbligo imposto dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene, discendente dall'interesse all'igiene pubblica, in altri ancora all'esistenza di 'autorizzazione implicita', l'orientamento della giurisprudenza di legittimità è, dunque, saldamente ancorato al riconoscimento dell'attività di vestizione/svestizione degli infermieri come rientrante nell'orario di lavoro e da retribuire autonomamente, qualora sia stata effettuata prima dell'inizio e dopo la fine del turno;
6.4. tale soluzione, del resto, è stata ritenuta in linea con la giurisprudenza comunitaria in tema di orario di lavoro di cui alla direttiva n. 2003/88/CE (Corte di Giustizia UE del 10 settembre 2015 in C-266/14; v. Cass. n. 1352/2016 cit. alla quale si rinvia per ulteriori approfondimenti sul punto);
7. sugli esposti principi non incidono le censure svolte in questa sede sotto il profilo del difetto di prova dell'esistenza di puntuali disposizioni dell'Azienda (Regolamento disciplinante l'orario di lavoro, specifiche disposizioni di servizio);
7.1. ciò che rileva, come evidenziato nei precedenti citati, è unicamente che le attività preparatorie di cui trattasi siano state svolte all'interno dell'orario di lavoro - e come tali retribuite - o piuttosto, come accertato dalla sentenza impugnata, in aggiunta ed al di fuori dell'orario del turno, dovendo in tal caso essere autonomamente retribuite;
8. quanto all'effettuazione delle indicate prestazioni al di fuori del normale orario di lavoro (secondo la sentenza impugnata 'prima e dopo i relativi turni di lavoro') la censura della ricorrente scivola, in modo inammissibile, sul piano dell'appezzamento del merito;
9. con riguardo, poi, alle invocate norme, di legge e di contratto collettivo, relative alla disciplina del lavoro straordinario, si è già evidenziato che si tratta di attività che, in quanto svolte nell'interesse del servizio pubblico oltre che a tutela dell'incolumità del personale addetto, devono ritenersi implicitamente autorizzate dall'Azienda (v. Cass. n. 27799/2017 cit., in motivazione) ed anzi da essa imposte, potendo in mancanza l'Azienda rifiutare di ricevere la prestazione; dette attività avrebbero dovuto, pertanto, essere comprese all'interno del debito orario;
10. non essendo riscontrabile alcun contrasto tra le pronunce di questa Corte sopra citate, ove rettamente intese nei loro rispettivi dicta, non si ravvisano gli estremi per la rimessione della presente controversia alle Sezioni Unite;
11. è infine inammissibile il quarto motivo sia perché la denuncia di una 'erronea e/o insufficiente motivazione' non è conforme alla nuova formulazione dell'art. 350, n. 5, cod. proc. civ, disposta dall'art. 54, co. 1, lett. b) d.l. n. 83/12, convertito in I. n. 134/12, sia perché non ha formato oggetto di doglianza l'ulteriore argomentazione della Corte d'appello secondo cui la valutazione equitativa del primo giudice non era stata contestata dalla parte appellante, se non in modo generico ed indeterminato;
13. il ricorso deve essere conclusivamente respinto;
14. nulla va disposto per le spese non avendo l'intimata svolto attività difensiva;

15. va dato atto dell'applicabilità dell'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228 considerato che, in base al tenore letterale della disposizione, l'obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo - ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione - del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l'impugnante, dell'impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell'ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell'apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass., sez. Un., n. 22035/2014).

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