Con la Legge 29 ottobre 2016, n. 199, pubblicata sulla Gazzetta ufficiale n. 257 del 3 novembre 2016, il Legislatore ha profondamente modificato il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro previsto dall'art. 603-bis c.p., a soli cinque anni dalla sua introduzione nel Codice penale con la Legge 148/2011. Le modifiche sono in vigore da oggi.
Il nuovo intervento è stato ispirato dalla necessità di reprimere più efficacemente il sempre più diffuso fenomeno del cosiddetto caporalato, la cui dimensione criminologica evoca condotte di sfruttamento dell'altrui attività lavorativa, connotate da mezzi lesivi della dignità umana e dalla costante prevaricazione dei diritti del lavoratore. L'esigenza di tutela penale della dignità del lavoro era “imbrigliata”, nella versione precedente delle norma, nelle strette maglie di una fattispecie complessa, caratterizzata non solo dalla necessaria presenza di condotte violente, minacciose o, comunque, intimidatorie, ma anche dalla necessità di accertare la sussistenza di una struttura organizzativa.
La novella legislativa si è contraddistinta principalmente per l'inserimento, nel primo comma dell'art. 603-bis c.p., di una disposizione contenente due diverse fattispecie incriminatrici - il reclutamento finalizzato all'impiego presso terzi e l'impiego di manodopera in condizioni di sfruttamento - che ridisegnano il perimetro della tutela penale del rapporto di lavoro in un ambito che spazia dal reclutamento di manodopera allo scopo di destinarla all'impiego presso terzi in condizioni di sfruttamento e si spinge sino a ricomprendere il mero impiego del lavoratore – solo eventualmente collegato ad una precedente attività di intermediazione illecita - in condizioni di sfruttamento e approfittando dello stato di bisogno.
In secondo luogo, la legge di nuovo conio ha aggravato il trattamento sanzionatorio e processuale del nuovo reato. Sul primo versante, infatti, si segnala innanzitutto l'introduzione della confisca, anche per equivalente, dei proventi di reato; inoltre, l'art. 603-bis c.p. è stato inseritotra i reati che giustificano, in caso di accertata sproporzione tra reddito e patrimonio, la cd. confisca “allargata” ex art. 12-sexies D.L. 306/92 (art. 5); esso costituisce inoltre un nuovo reato-presupposto per la responsabilità dell'ente collettivo ai sensi del D.Lgs. 231/2001, ove commesso nell'interesse dell'ente da soggetti ad esso appartenenti (art. 6).
Sul fronte processuale, l'art. 603-bis c.p. è ora inserito tra i reati che, a norma dell'art. 380 c.p.p., contemplano l'obbligo di arresto in flagranza di reato (art. 4), può comportare l'applicazione di una nuova misura cautelare reale (sostitutiva rispetto al sequestro preventivo: art. 3) e, infine, consente di estendere alle vittime del reato le provvidenze “antitratta” previste dall'art. 12 l 228/2003 (art. 7).
Come anticipato in premessa, la struttura del nuovo reato risulta profondamente diversa dalla versione precedente.
Un tratto comune con la precedente formulazione è però individuabile nell'esordio della disposizione, che introduce una clausola di riserva (“salvo che il fatto costituisca più grave reato”) che implicitamente rimanda ai precedenti e più gravi reati della medesima Sezione del Codice Penale e, in particolare, al reato di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù, sanzionato dall'art. 600 c.p., che ben può realizzarsi in un contesto di sfruttamento sistematico e pervasivo del lavoro altrui.
Le differenze, di qui in poi, si fanno significative: non è più necessaria la presenza di un'attività organizzata, intesa in termini di stabile coordinamento (almeno) di mezzi e (eventualmente) di persone dedite al reclutamento o all'organizzazione del lavoro altrui in condizioni di sfruttamento; è oggi sufficiente all'integrazione del reclutamento (o, come si intitola la rubrica dell'art. 603-bis c.p., la “intermediazione illecita”) e dell'impiego una condotta avulsa da un'articolata organizzazione di mezzi, ma pur sempre caratterizzata da professionalità (riconducibile al datore di lavoro o, per il “caporale”, al novero delle attività di intermediazione sul mercato del lavoro descritte dall'art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs. 276/2003). Del resto, anche nella dimensione criminologica il “caporale” è colui che stabilmente si occupa della intermediazione sul mercato del lavoro, nel quale sfrutta le condizioni di vulnerabilità di alcune categorie di lavoratori per imprimere caratteristiche degradanti al rapporto di lavoro, in termini di retribuzione, orario, metodi di sorveglianza o condizioni di alloggio.
Inoltre, è stato soppresso il riferimento quale nota modale delle condotte tipiche a comportamenti violenti, minacciosi o intimidatori (richiamati in parte nell'aggravante del secondo comma), essendo sufficiente l'approfittamento dello stato di bisogno del lavoratore, da intendersi nel senso di acquisizione della forza-lavoro avvalendosi consapevolmente della condizione di difficoltà sociale o economica, anche solo contingente, del lavoratore.
Quanto alla descrizione delle condotte tipiche, l'intermediazione illecita di manodopera (art. 603-bis, comma 1, n. 1, c.p.) consiste nel reclutare manodopera (e cioè forza lavoro di carattere prevalentemente manuale), con il fine, che non deve necessariamente realizzarsi (dolo specifico) di “destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento”. Tale previsione mostra l'evidente esigenza di anticipare la soglia di rilevanza penale ad una fase antecedente l'effettiva destinazione al lavoro. La condotta di reclutamento, realizzata approfittando dello stato di bisogno, dovrà essere qualificata da indici sintomatici che comprovino l'intenzione del reclutatore di destinare i lavoratori ad attività di manodopera in condizioni di sfruttamento da altri organizzata. Per la nozione di bisogno, già presente nella precedente versione, occorre riferirsi all'ampia giurisprudenza in materia di usura, secondo la quale lo stato di bisogno non deve avere le caratteristiche di una necessità tale da annientare in modo assoluto qualsiasi libertà di scelta, ma deve rappresentare un impellente assillo che, limitando la volontà del soggetto, lo induca ad accettare condizioni di lavoro degradanti.
La seconda fattispecie (comma 1, n. 2) rappresenta un ampliamento della platea dei soggetti attivi, sanzionando anche chiunque (tipicamente il datore di lavoro) utilizzi, assuma o impieghi manodopera sottoponendola a condizioni di sfruttamento ed approfittando dello stato di bisogno, eventualmente ricorrendo all'illecita intermediazione del “caporale”.
Nel secondo comma si sanziona, mediante la previsione di una circostanza aggravante, la realizzazione dell'illecita intermediazione o dello sfruttamento del lavoro mediante violenza o minaccia. Per tali concetti sarà sufficiente rifarsi alla consolidata giurisprudenza in materia, secondo cui per violenza si intende non soltanto l'impiego di energia fisica sulle persone o sulle cose, ma anche qualsiasi altro mezzo idoneo a coartare l'altrui volontà, annullandone o riducendone la capacità di determinazione o di azione, mentre la minaccia consiste nella prospettazione di un male futuro e ingiusto, la cui verificazione dipende della volontà dell'agente.
La nuova formulazione solleva consistenti perplessità, sol che si ponga mente al fatto che le gravi – e spesso ricorrenti - modalità di realizzazione dell'intermediazione e dello sfruttamento descritte sono qualificabili come mere circostanze aggravanti e sono quindi soggette al giudizio di bilanciamento (art. 69 c.p.); la grave pena prevista (da cinque a otto anni) può quindi venire meno e essere ricondotta alla ben più mite pena della fattispecie base all'esito di un giudizio di equivalenza con una o più circostanze attenuanti.
Come avveniva nella precedente previsione, la norma tenta di fornire una definizione della condizione di sfruttamento, mediante l'illustrazione – probabilmente non esaustiva e solo esemplificativa – di alcuni “indici di sfruttamento”.
Come nella previgente edizione della norma, costituisce indice di sfruttamento anche l'occasionale sussistenza di violazioni della normativa in materia di sicurezza e igiene sul lavoro (n. 3) o la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza, o a situazioni alloggiative degradanti (n. 4); al contrario, mentre in precedenza si imponeva l'accertamento di violazioni “sistematiche” alla normativa di lavoro in materia di retribuzione (n. 1), orario di lavoro, ferie, riposo settimanale (n. 2), il nuovo testo si limita a richiederne la “reiterata violazione”, implicitamente riferendosi ad un minore persistenza nel tempo delle violazioni.
Venendo più specificamente alla formulazione dell'indice di sfruttamento relativo alla retribuzione, il comma 3, n. 1, si caratterizza per il riferimento, rimasto invariato, a retribuzioni “palesemente difformi” rispetto a quelle previste dai contratti collettivi o, comunque, “sproporzionate” rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato. Nonostante l'uso della congiunzione “comunque” abiliti un'interpretazione che consenta un margine residuo di operatività del criterio “elastico” della sproporzione anche in casi in cui la retribuzione sia in linea con la contrattazione collettiva (e risulti sproporzionata in concreto rispetto alla qualità e quantità dell'impegno), appare preferibile ritenere che il giudizio di sproporzione tra retribuzione e caratteristiche concrete del lavoro possa validamente esperirsi solo laddove il rapporto di lavoro non trovi regolamentazione compiuta nella contrattazione collettiva, in modo da salvaguardare la tassatività della fattispecie.
Le previsioni di cui al numero 2 e di cui al n. 4 sono sostanzialmente in linea con le previsioni precedenti, salva l'eliminazione dell'avverbio “particolarmente” rispetto alle situazioni alloggiative degradanti, che costituiva un rinforzo pleonastico della condizione del lavoratore, in quanto l'aggettivo degradante già richiama una situazione di estrema compromissione dei diritti e della personalità.
Le perplessità maggiori vengono sollevate dalla previsione di cui al n. 3, ove anche la sussistenza di occasionali e sporadiche violazioni delle normativa in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro rileva quale indice di sfruttamento. Al giudice è inopportunamente rimesso il compito di verificare se e quanto ciascuna violazione costituisca spia di un aggravamento delle condizioni di lavoro tale da configurare uno sfruttamento. Molto plausibilmente il legislatore ha invece eliminato il riferimento della precedente formulazione alla necessità di accertare che la violazione esponesse il lavoratore a un pericolo per la sicurezza, la salute o l'incolumità, ove si consideri che la normativa in materia di sicurezza è indefettibilmente orientata alla protezione di tali beni.
Infine, l'ultimo comma configura tre aggravanti ad effetto speciale, esattamente sovrapponibili a quelle previste nella norma previgente, salvo il riferimento al n. 3 ai lavoratori “intermediati” e non più “sfruttati”, che allinea l'aggravante all'anticipazione della tutela di cui al comma primo n. 1, e cioè alla circostanza che è già di rilevanza penale l'intermediazione a fini di sfruttamento, prima ancora che lo sfruttamento avvenga.
In relazione al tema della successione di leggi, la relazione tra la nuova previsione e la precedente risulta prospettabile in termini di continuità normativa, in quanto sussiste senz'altro un rapporto di genere a specie, avuto riguardo alla condotta: l'intermediazione non necessita più di una organizzazione, né di essere posta in essere con violenza, minaccia o intimidazione – divenute elementi costitutivi dell'aggravante. Tuttavia, la nuova previsione relativa all'illecita intermediazione si presenta come speciale per aggiunta in relazione al dolo specifico rappresentato dalla “destinazione al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento”. Tale ultimo elemento pone problemi non tanto sul piano della astratta successione di leggi, quanto sul versante processuale, nel caso di procedimenti già in corso, nei quali tale elemento del fatto non è stato oggetto di contestazione, né di attività istruttoria.
Venendo alle ulteriori interpolazioni del Codice Penale, con l'art. 603-bis 1 c.p. si prevede l'attenuante della “collaborazione processuale”, che presenta alcune affinità con quella già prevista dall'art. 600-septies 1 c.p.; nella disposizione di nuova introduzione, tuttavia, si specifica che la condotta attenuante deve necessariamente consistere nel “rendere dichiarazioni” (mentre per l'art. 600-septies 1 è sufficiente che il concorrente si adoperi affinché l'attività delittuosa non venga portata a conseguenze ulteriori. Si ripete anche in questa sede il termine “cattura”, che tuttavia non ha cittadinanza nel codice di procedura penale ma costituisce allusiva espressione di sintesi dei provvedimenti cautelari personali; inoltre, nella nuova attenuante rileva anche l'aiuto fornito alle forze dell'ordine o all'autorità giudiziaria per consentire il sequestro di somme o di altre utilità legate alla commissione del reato. Nel caso di dichiarazioni false o reticenti si applicano le previsioni relative ai collaboratori di giustizia, che prevedono la restituzione nel termine per impugnare la sentenza di condanna o la sua revisione. Infine, si precisa che non si applica il 600-septies1 c.p., per evitare una duplicazione dei benefici (forse già evitabile in base alla diretta applicazione della norma sul concorso apparente di circostanze previsto dall'art. 68 c.p.).
L'art. 603-bis 2 c.p., dedicato alla confisca, ne prevede l'applicazione obbligatoria (in deroga al regime di facoltatività previsto dall'art. 240 c.p. per l'apprensione del profitto del reato) e introduce, in linea con i recenti interventi legislativi in materia, la possibilità di eseguire la confisca nella forma cd. “per equivalente”. Con tale modalità di esecuzione della confisca, nel caso in cui non sia possibile apprendere direttamente ciò che costituisce il prezzo, prodotto o profitto ricavato dal reato, si consente di applicare il provvedimento ablativo sui beni nella disponibilità del reo, per un valore corrispondente al provento del reato.
Con l'art. 3, invece, viene introdotta una nuova misura cautelare sostitutiva, consistente nella sottoposizione a controllo giudiziario dell'azienda. Tale misura è finalizzata a rimuovere le condizioni di sfruttamento della manodopera nei casi in cui, pur essendo applicabile il sequestro preventivo di cui all'art. 321, comma 1, c.p.p. (che si applica se vi è pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso, ovvero agevolare la commissione di altri reati), l'interruzione dell'attività possa compromettere i livelli occupazionali o il valore economico dell'azienda.
Mette conto segnalare che con censurabile tecnica normativa il Legislatore non ha inserito tale previsione nel codice di procedura penale, relegandola nell'art. 3 della legge di riforma.
Per scaricare il testo della legge clicca qui:199 pdf.pdf
Fonte: www.quotidianogiuridico.it
Blog di attualità e informazione giuridica - Lo Studio Legale Mancino ha sede in Ferrara, Via J. F. Kennedy, 15 - L'Avv. Emiliano Mancino è abilitato alla difesa di fronte alla Corte di Cassazione
venerdì 4 novembre 2016
In Gazzetta la legge sul caporalato che modifica il codice penale
Lo Studio Legale Mancino si occupa di tutte le fasi dell'assistenza legale in sede penale, sia per la difesa delle persone sottoposte a procedimento, sia per la tutela delle vittime di reato come parti civili. Lo Studio opera anche in tutti gli ambiti del diritto civile, dalla contrattualistica, al diritto di famiglia, separazioni e divorzi, successioni, diritti reali, assicurazioni e responsabilità civile, diritto bancario, nonché nel settore del diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali. L'Avv. Emiliano Mancino è abilitato alla difesa di fronte alla Corte di Cassazione. E' iscritto alle liste per il patrocinio a spese dello Stato. Lo Studio è a disposizione dei Colleghi che hanno necessità di collaborazione e/o di domiciliazione per tutti gli uffici giudiziari compresi nelle circoscrizioni dei Tribunali di Ferrara e Bologna.
Dal 2018 l’Avv. Emiliano Mancino aderisce al progetto Difesa Legittima Sicura, una rete di professionisti sul territorio nazionale che dà tutela legale a chiunque sia vittima di violenza.
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